Libri > L'Attraversaspecchi
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Autore: MaxB    15/11/2020    2 recensioni
Questa storia non è altro che una raccolta di tre capitoli, più o meno lieti, che raccontato gli ipotetici finali di Echi in tempesta.
Ho immaginato decine di diversi scenari conclusivi e ne ho selezionati tre, che vanno dal più lieto e indolore possibile a quello forse più improbabile e non proprio roseo. Ma del resto, nessuna storia è mai rose e fiori, e il quarto libro dell'Attraversaspecchi lo ha ampiamente dimostrato.
Spero solo che almeno uno dei miei finali possa colmare il vuoto che la fine della saga ci ha lasciato dentro.
Genere: Drammatico, Fluff, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments, Raccolta, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Ho così tante cose da dire... perdonatemi in anticipo c.c
Per prima cosa volevo fare i complimenti a:
- Giulia_Ambrosi, che ha azzeccato una teoria ma ha anche capito che alla base volevo riguardassero i poteri familiari, anche quella che forse temeva di più (scusa...) e mi ha dato un suggerimento molto carino sull'orologio che ho inserito brevemente nel primo finale. Grazie mille.
- Missgenius... che ha indovinato la peggiore, con terrore (scusami anche tu...).
- Leon99 che mi ha sparato un sacco di teorie interessantissime (grazie*-*) e ne ha beccata in pieno una e l'altra, quella peggiore che mi ha offerto con una doppia alternativa, l'ha sfiorata alla radice. Io ho sfruttato una via di mezzo tra le due idee.
Detto ciò, grandissime ;)
Io ormai mi sono così affezionata a queste tre versioni che, anche se prima ne avevo una preferita, ora non so più quale sia. Una volta era la prima, la cessione degli artigli, e in parte è ancora così, ma anche la seconda teoria che nessuno ha indovinato mi sembra verosimile. Poi dovrete dirmelo voi se siete d'accordo o no. Per quanto riguarda l'ultima, la peggiore, quella che tutti temete, mentre scrivevo ero sempre dubbiosa se continuarla o meno, perché Thorn senza quella specifica parte di sé non è Thorn. Però... forse non sarebbe un male. Sì lo so sembra un'eresia e merito la fustigazione, ma spero di riuscire a convincervi attraverso i pensieri di Ofelia.
Spero proprio che vi piacciano queste tre alternative, e spero che non mi linciate per l'ultimo ahahahha.
Grazie mille e buona lettura♥


Lieto fine forse - Contropartite

1. Artigli
Thorn schizzò fuori dallo specchio come se lo stesso Rovescio avesse voluto sbarazzarsi di qualcosa di indesiderato.
La connessione con Archibald e Vittoria si ruppe così bruscamente, quando Thorn uscì dalla sua prigione, che Ofelia non seppe se il dolore che le lacerava il corpo fosse causato dal brutale atterraggio delle ossa di Thorn sopra di lei o dalla fatica di tornare ad essere una persona sola, unica, che seguiva la recisione del legame creato grazie al potere di Archibald.
Ofelia rimase semisvenuta sul pavimento della camera di Archibald per un tempo che le parve infinito, in attesa che i suoi organi interni, la sua pelle, la sua mente e tutto quello che li contornava tornassero al loro posto. Quando riuscì a riaprire gli occhi, però, si rese conto di essere ancora schiacciata sotto Thorn, che la fissava con sguardo impassibile e non accennava a volersi scostare. Dedusse che quindi non era rimasta priva di sensi per così tanto tempo, ma se ne rese conto a malapena. Tutta la sua attenzione, tutta la sua lucidità e consapevolezza erano catturate dall'uomo che la sovrastava.
Magro come al solito. Con il volto affilato e la mascella contratta come al solito. Le sopracciglia increspate al punto quasi di unirsi e di congiungere persino le due cicatrici che gli attraversavano il viso per il lungo. Come al solito. Il suo cipiglio. Le spalle larghe e ossute. I capelli biondi così chiari da essere quasi argentei, pettinati con cura. La stempiatura che si stava lentamente accentuando. Il naso imponente, anch'esso rigoroso come un genitore severo. Come al solito.
E gli occhi...
Ofelia sentì i suoi riempirsi di lacrime e non provò nemmeno a trattenerle. Lasciò che le inondassero le guance, i capelli, le orecchie nella loro discesa verso il pavimento.
Quegli occhi metallici, non più neri, finalmente, che la fissavano con intensità da sotto le sopracciglia chiare; quegli occhi taglienti come rasoi e fissi come quelli di un rapace, che sapevano lanciare occhiatacce eloquenti ed efficaci come nessun altro; quegli occhi che sembravano sempre privi, svuotati di qualsiasi forma di amore, ma che erano bloccati su di lei colmi di un innegabile affetto... e di commozione.
Thorn sbatté le palpebre per scacciare quel leggero velo umido che vi si era posato sopra, ancora più contrariato per quella perdita di controllo.
Ofelia invece non se ne vergognava assolutamente. Allungò le braccia per abbracciare il marito e stringerlo con forza a sé. Voleva avere la certezza che fosse tutto vero, che Thorn fosse davvero lì con lei. Prima di potersi rendere conto che il braccio le faceva un male indicibile, però, Thorn le piazzò di fronte al naso il suo orologio da taschino.
- Controlla... il riflesso - mormorò imperiosamente, con una voce scricchiolante non solo a causa del suo accento.
Dopo due anni passati nel più completo silenzio sarebbe stato un miracolo riuscire anche solo a pronunciare un suono inarticolato. Thorn invece già parlava comprensibilmente.
Ofelia si sentì scoppiare una risata in petto, ma venne scossa dai singhiozzi invece che dall'ilarità.
Temendo che fosse ferita fisicamente, Thorn si affrettò a spostarsi per lasciarle spazio. Trattenne il respiro rumorosamente quando si rese conto che in quel mondo le leggi della fisica funzionavano correttamente, e dunque che la sua gamba storpia non poteva più sorreggerlo come aveva fatto nel Rovescio. Imprecò fra i denti mentre collassava sul letto di Archibald.
Quest'ultimo recuperò flemmaticamente il cilindro da terra e, dopo averlo spolverato come se fosse la cosa più nuova e preziosa del mondo, se lo rimise in testa.
- Su, su, ex intendente. Non è il caso di far ricorso ad un simile turpiloquio di fronte ad una signorina.
Thorn si irrigidì, irritato. Gradiva assai poco che la seconda persona pronta ad accoglierlo al suo rientro fosse proprio Archibald, tra tutti. Non si aspettava però, si rese conto Ofelia, che la terza persona fosse la cuginetta. La bambina, nascosta dietro Archibald, si teneva una mano sulla fronte come se fosse preda di un dolore indicibile, e forse era proprio così. Persino Archibald sembrava indebolito, e il suo sorriso era attraversato da una ben distinguibile smorfia di sofferenza.
Quando però Vittoria alzò lo sguardo sul cugino, impallidì, rischiando di far assumere alla sua carnagione lo stesso colore dei capelli candidi. Senza esitazione eppure lentamente, come se si trovasse al cospetto di una Bestia, Vittoria staccò le mani dalla giacca sbrindellata di Archibald e si diresse verso Thorn. Si squadrarono a vicenda senza nemmeno battere le palpebre. L'incanto venne rotto quando l'orologio da taschino che Thorn teneva ancora in mano batté il suo tac-tac nervoso. Come se avessero comunicato telepaticamente, Thorn lo ripose proprio mentre Vittoria si arrampicava sulle sue gambe. Il cugino l'aiutò a salire e, una volta che la bambina fu seduta in braccio a lui, lo abbracciò come se fosse la cosa più naturale del mondo. Nascose il viso nel suo petto perché quella era l'altezza cui arrivava, e rimase ferma, a suo agio, aggrappata a Thorn come se fosse una sua proprietà. La cosa che più stupì Ofelia non fu il fatto che Thorn le permise di farlo, ma che addirittura ricambiò la sua stretta. Da che aveva memoria, Ofelia aveva visto il marito entrare in contatto fisico solo con lei.
Una piccola parte della sua coscienza, resa meschina dagli anni di solitudine, si ingelosì di fronte alla consapevolezza che non era più l'unica di cui Thorn tollerasse il tocco.
Poi però vide l'accettazione con cui il marito consolava la cuginetta, vide i tratti del suo viso addolcirsi, per quanto possibile, lo vide usare una premura tutta nuova, preda del timore che la bambina potesse essere troppo fragile per le sue braccia ossute ma forti.
Non aveva niente a che vedere con gli sguardi che aveva sempre rivolto a lei, intensi, colmi di bisogno, di passione, di una richiesta mai esternata ma palpabile, sguardi in cui albergava un sentimento sconfinato di lealtà, devozione, gratitudine e necessità. Con Vittoria tra le braccia invece sembrava essere tornato ad essere anche lui un bambino, un bambino non più maltrattato e indesiderato, ma uguale agli altri, voluto dalla propria famiglia, accettato.
La gelosia si dissipò e nel cuore di Ofelia rimase solo una malinconia agrodolce: aveva scoperto ciò di cui Thorn aveva davvero bisogno, ma non sarebbe mai stata in grado di darglielo.
Provò ad alzarsi, scoprendo che non riusciva a muovere una gamba, e il solo provare a spostarla le scatenò un dolore atroce che le fece brillare lampi bianchi di fronte agli occhi. Thorn se ne accorse e si scostò da Vittoria.
L'ultima cosa che Ofelia vide fu la figura preoccupata di Thorn che si chinava su di lei.
 
Ofelia si svegliò in una stanza scarsamente illuminata che non riconobbe subito. Solo dopo vari battiti di palpebre e con l'aiuto della sciarpa, che le rimise gli occhiali sul naso, capì di essere a casa di Berenilde. Ofelia provò a muoversi, ma le risultò particolarmente difficile provare a spostarsi.
- Avevo promesso che non ti avrei mai fatto del male.
Ofelia sussultò. Quella voce tagliente era giunta da una sedia a fianco al letto, su cui se ne stava seduto rigidamente Thorn. Era stata così confusa dall'ambiente da non essersi accorta della sua presenza. Thorn inoltre se ne stava così immobile da rendere facile confonderlo con l'arredamento.
Farle del male? Ofelia sollevò le coperte e vide che la sua gamba era strettamente fasciata dal ginocchio al tallone. Le formicolava sotto quell'ammasso di bende e, a giudicare dalla rigidità, sostegni di metallo, ma non le causava dolore.
Si rese conto solo allora che doveva essere stato Thorn a romperle la gamba, atterrando su di lei dopo essere uscito dallo specchio. Distrattamente rifletté anche sul fatto che ogni volta che erano implicati uno specchio e il Rovescio, lei si rompeva inevitabilmente qualcosa.
Ripensò anche a quando Thorn aveva involontariamente usato gli artigli su di lei. Allora il dolore era stato decisamente peggiore, anche se la causa era da imputare all'ignoranza di Ofelia circa la condizione incontrollabile del potere familiare di Thorn: non l'aveva attaccata volontariamente. Non se n'era nemmeno accorto.
Lo stesso valeva per quella volta.
- Non è stata colpa tua.
Thorn si accigliò. - Il mio ginocchio ti ha fratturato la tibia e poco ci mancava che il perone finisse nello stesso modo.
Ofelia lo guardò con quello che pensava essere un volto inespressivo, troppo sconvolta dagli eventi per concentrarsi su ciò che Thorn le stava dicendo. Lui però fraintese, perché strinse narici, labbra, occhi, costernato.
- La gamba ti guarirà completamente - la rassicurò, confondendo la sua espressione con la paura di rimanere storpia. - Non rimarrai danneggiata...
Ofelia non rispose. Si chiese se fosse stato tutto un sogno: la ricerca, quei due anni, il salvataggio...
Sembrava che fosse lei quella che era appena stata estratta dal Rovescio, confusa e intontita com'era. Pareva che lei e Thorn si fossero visti l'ultima volta il giorno prima, non mesi e mesi addietro, in circostanze tutt'altro che normali.
- Cosa... come... tu... - balbettò arruffatamente.
Thorn non smise per un attimo di fissarla mentre si chinava su di lei con la sua lunghissima colonna vertebrale. Si mosse lentamente quasi avesse paura di spaventarla. Quando le sue braccia finalmente la circondarono, calde, solide, ossute e cosparse di cicatrici, Ofelia scoppiò in lacrime senza ritegno o preavviso. Desiderò potersi aggrappare a lui come aveva fatto nel Rovescio, ma non aveva di nuovo più le dita e mai come in quel momento ne aveva sentito la mancanza. Lui parve intuirlo e la strinse di più a sé, facendosi inzuppare la camicia di lacrime. Ofelia chiuse gli occhi e i ricordi di quando Thorn l’aveva stretta a sé dopo l’attacco del barone Melchior la fecero singhiozzare ancora più forte; quella volta aveva capito che l’abbraccio di Thorn era il posto a cui apparteneva. E in quel momento, finalmente, era tornata a casa.
Thorn attese pazientemente che si calmasse, senza mai dare segno di impazienza o fretta. Era stato lontano dal mondo per anni e l’unica cosa che lo angustiava era la sua salute. La sua lealtà sfiorava quasi l’ossessività.
Quella situazione era talmente surreale che Ofelia ci mise parecchio per rendersi conto che ancora non aveva capito cosa Thorn avesse ceduto per poter uscire da quel luogo infernale. Non le era sembrato che fisicamente gli mancasse qualcosa, dunque cosa mai poteva aver barattato di valore equivalente alla libertà?
I suoi occhi corsero all’orologio da taschino istintivamente, ma quell’oggetto tanto caro a Thorn era ancora al suo posto, di fianco a lei, dentro la tasca.
Ofelia si scostò dopo un tempo che le parve estremamente dilatato e la sciarpa l’aiutò a soffiarsi il naso.
Thorn assottigliò gli occhi nel far caso a quella menomazione. Era impossibile che non se ne fosse accorto, lui, a cui non sfuggiva nemmeno un graffio, ma forse doveva ancora somatizzare la portata di quella perdita.
- Le tue dita – disse infatti, come se quelle tre parole valessero come spiegazione. – No puoi più leggere?
Ofelia scosse la testa. – Senza le dita non ho potere. Sono solo un’attraversaspecchi, ormai – mormorò, mentre la sciarpa metteva sul comodino il fazzoletto umido. Poi sorrise tristemente. – Con qualche artiglio. È venuto meno il requisito per il quale sono stata scelta come tua moglie. Cosa te ne farai di me senza le mie mani, ora?
Thorn si incupì. – Pensavo di aver chiarito da tempo che per me non sei, e non sei mai stata, solo un paio di mani. Oltretutto, non ha più significato la lettura del Libro…
Thorn si bloccò, disorientato. Il suo volto a dire il vero non lasciava trapelare nulla, ma Ofelia lo conosceva bene nonostante gli anni di lontananza. Thorn concludeva sempre una frase o un pensiero. In caso contrario, era turbato.
Ofelia gli spiegò quindi, intuendo la natura della sua perplessità, cosa fosse successo da quando si era immolato per non trascinare pure lei nel Rovescio, barricandosi al suo interno. Gli raccontò di come la sua famiglia l’avesse trascinata fuori dallo specchio del bagno del Memoriale, del suo eco, che aveva fatto sparire per sempre il Corno dell’abbondanza, di Renard e Gaela, morti per salvare tutti, di Elizabeth, dell’Altro, della sua memoria, di quei due anni.
Dei mesi passati a cercarlo.
- Com’è possibile che tu sia così… presente? – chiese quando ebbe finito. La sciarpa le allungò un bicchiere d’acqua, ma permise a Thorn di accostarlo alle labbra di Ofelia per farla bere. – Sembra che tu sia stato lontano solo due giorni. Non hai parlato per due anni – bofonchiò.
Era fuori dal comune che l’eloquenza di Thorn non avesse risentito della sua permanenza nel verso. Ma Thorn era fuori dal comune. In ogni caso, non aveva proferito parola mentre lei parlava.
- Ho ugualmente conservato la capacità di pensare – le fece notare, aggrottando però le sopracciglia, come se stesse omettendo qualcosa che Ofelia non poteva capire. – Anche un po’ di più.
Il sorriso le sorse spontaneo sulle labbra. Era costretta a letto con una gamba rotta, ma era a casa. Ovunque fosse quella stanza, era a casa. Perché Thorn era lì.
- Tu invece cos’hai fatto in questi anni?
Thorn si schiarì la voce. – Due anni, tre mesi e due giorni se il tempo non mi ha ingannato.
Ofelia non avrebbe saputo dirlo con precisione, ma lo diede per corretto. Aspettò che Thorn parlasse.
Non gli fu facile all’inizio, e Ofelia poté vedere come in effetti il silenzio prolungato lo avesse colpito. La sua parlantina sciolta tornò mano a mano che parlava, e il racconto stentato e scarno di cosa fosse successo venne arricchito di impressioni personali, riflessioni e… confidenze.
Thorn non glielo disse apertamente, ma Ofelia capì come la solitudine avesse pesato su di lui. Il modo in cui le rivelò di averla seguita usando gli specchi come finestre, l’assoluta impotenza che aveva provato ogni istante nel guardarla, così vicina eppure irraggiungibile, la pena per l’esistenza a cui l’aveva costretta.
- Ho cercato anche io di tornare, non dubitarne. Mi… mi sentivo responsabile della tua infelicità e del tuo pellegrinaggio. Ti avevo costretta io a condurre quella vita. Non lo avrei voluto. Quando ho lasciato la presa è stato perché speravo di salvarti. Non volevo trascinarti con me in quel… - mormorò digrignando i denti. Le parole “illogico”, “inclassificabile” e “caotico” gli uscirono tra i denti come se fossero foglie amare di tè, e Ofelia avrebbe riso per la sua incapacità di tollerare il non ordinario se non fosse stata così evidente la sua pena.
- Non ti ho lasciato scelta, alla fine. O meglio, le scelte che ti ho offerto non erano quelle che avrei voluto darti al principio.
Ofelia gli posò un palmo sulla guancia, guardandolo con quella che sperava fosse un’espressione di affetto e amore incondizionato.
Thorn si schiarì la gola e distolse lo sguardo, ma non si sottrasse al suo contatto.
- Tu hai restituito al mondo i suoi dadi, Thorn. Hai dato a ogni singolo individuo una scelta che senza di te non avrebbero mai avuto. Poco importa che le mie possibilità siano state limitate, sei stato tu a sopportare il fardello più grande. Per tutta l’umanità.
Ofelia lo fissò intensamente, ma continuò a parlare quando si rese conto che Thorn non aveva intenzione di ribattere.
- Mi avevi detto che non aspiravi a liberare il mondo, volevi solo essermi indispensabile – sussurrò. Le lacrime tracimarono nuovamente, e Ofelia se le asciugò con gesto stizzito. La gioia di averlo ritrovato, il dolore per averlo perso, l’ansia di non riuscire a raggiungerlo si mischiarono in lei nuovamente. Thorn forse aveva accusato il colpo meglio di lei, nonostante avesse sopportato il calvario peggiore. Significava che Thorn era riuscito nel suo intento.
Le era diventato indispensabile. Anche molto di più.
- Lo sei, Thorn. Sei diventato fondamentale per me, ma hai comunque anteposto il mondo a me. A noi. Se solo avessimo… se solo avessi resistito. Potevamo farcela.
Thorn la seppellì nuovamente nel suo abbraccio, incerto su come muovere le mani. Non era mai stato avvezzo a consolare qualcun altro, e i due anni di isolamento non avevano fatto altro che esacerbare questa lacuna. Avevano scavato un nuovo solco tra di loro, una voragine a cui Ofelia sentì l’impellente bisogno di porre fine.
- Ho bisogno di te – mormorò, cercando la sua bocca.
- Pure io – rispose lui quando finalmente la trovò. – Anche un po’ di più.
A nessuno dei due importava delle loro gambe, una irrimediabilmente storpia e l’altra rotta, o della mancanza delle dita di Ofelia, o degli altri problemi che avrebbero dovuto affrontare. Degli incubi con cui avrebbero dovuto convivere, delle privazioni che avrebbero dovuto sopportare, della vita che avrebbero dovuto costruire da zero. Dell’incertezza del loro avvenire.
Nulla aveva importanza in quel momento, se non la loro presenza reale. Fisica. Tangibile.
Il fatto che fossero vivi. Insieme.
Thorn chiuse a chiave la porta prima di dirigersi verso Ofelia e sovrastarla con pochi movimenti abili. Lui, al contrario di lei, era sempre stato consapevole del suo corpo, dello spazio che occupava e del modo in cui si muoveva. Ofelia si affidò a lui perché riuscisse a restituirla a se stessa, a riempire la desolazione che serbava in cuore, a farla sentire completa.
- Sicuro che non verrà nessuno? – gli chiese poco dopo, interrompendo un lungo e lento bacio.
- Sei rimasta incosciente per ventisette ore, e adesso è notte fonda. Riceveremo le prime visite domattina.
Ofelia si rese conto di avere ancora tante domande da porgli, ma lo strinse di più a sé affinché non si allontanasse.
- Come è stato il ritrovo con tua zia?
Thorn, che si stava già avvicinando per ricominciare il bacio, si bloccò bruscamente. – Si è dimostrata entusiasta. Anche un po’ di più. Ha pianto, ha… urlato, e in altri modi rumorosi e inopportuni ha detto di essere felice che fossi finalmente a casa. Avrebbe continuato ad abbracciarmi e invadere il mio spazio vitale se non le avessi fatto notare che tu eri riversa per terra, incosciente. Tua zia e Archibald stavano cercando di metterti a letto, e quell’individuo stava indugiando un po’ troppo con le mani su di te, a mio parere, così l’ho scansata per aiutarli. Mia zia si è quietata solo quando ha visto la figlia, per poi rischiare un attacco isterico quando si è accorta che rischiava una sincope.
Ofelia scosse la testa. Accolse nuovamente le labbra di Thorn sulle sue, rendendosi conto che l’indomani avrebbe dovuto affrontare entrambe le loro zie. In quel momento però niente le faceva paura. Non tra le braccia di Thorn, circondata dal suo corpo caldo e solido, dalla sua voce ruvida contro l’orecchio e dalle sue erre scricchiolanti, tipiche del Polo, che le facevano vibrare i muscoli.
- Quindi siamo in camera di Archibald?
Thorn non riuscì a trattenersi un’altra volta: emise un verso stizzito e lanciò ad Ofelia un’occhiata dardeggiante, che invece che intimorirla la fece rabbrividire in altro modo.
- Sì, siamo dov’eri quando sei svenuta.
La sua espressione non si addolcì, e Ofelia si ritrasse di fronte al suo sguardo intenso.
- Sei arrabbiato? – gli chiese così flebilmente che dubitava che lui l’avesse sentita.
Ma Thorn era troppo vicino perché gli sfuggisse anche un suo respiro.
- No. Ma l’idea di essere avvolto tra le coperte in cui dormiva Archibald mi disgusta, e questa posizione rende la mia gamba estremamente instabile. Possiamo rimandare a dopo la conversazione? Non mi sembra il momento opportuno.
Thorn non aggiunse che aveva fretta di concludere. Non ce n’era bisogno, e oltretutto sarebbe suonato terribilmente sbagliato. Ofelia però rise di gusto, una risata liberatoria che sorprese Thorn. Era ancora preda dell’ilarità quando si strinse a lui quanto era fisicamente possibile, colmando la distanza fisica e temporale di quegli anni.
Quando, diverse ore dopo, Ofelia si svegliò tra le sue braccia, impiegò alcuni secondi a raccapezzarsi.
Non aveva mai dormito con il marito. Non lo aveva nemmeno mai visto dormire, a dire il vero. Nel sonno aveva un volto quasi rilassato, privo delle rughe di tensione che lo attraversavano costantemente. I capelli biondi, spettinati, gli coprivano in parte la cicatrice sulla tempia, e il respiro era talmente sommesso e regolare da risultare inudibile persino nel silenzio assoluto della camera.
Ofelia si perse nella contemplazione di quel viso scarno su cui erano visibili le numerose sofferenze patite, affronti psichici oltre che fisici. Lo guardò perché non aveva potuto farlo per troppo tempo, e perché in altre circostanze non avrebbe nemmeno potuto farlo. Anche se ne avesse avuto voglia. Lui non gliel’avrebbe permesso.
Si avvicinò ancora di più a lui, sorpresa di scoprire quanto profondo fosse il suo sonno.
Se ne rese conto quasi per caso.
Thorn non aveva mai dormito, perché il sonno rappresentava una perdita di controllo sul proprio inconscio; sui propri nervi.
Inoltre, da quando si era svegliata Ofelia non aveva sofferto della vicinanza di Thorn e non aveva avvertito la pressione del suo potere familiare.
Serrò gli occhi con forza, trattenendo il respiro.
Aveva capito quale contropartita avesse richiesto il Rovescio.
 
Thorn si svegliò quasi mezz’ora dopo. Scese fulmineamente dal letto e si rivestì con il volto indurito dal fastidio. Ofelia lo guardò senza quasi osare muoversi. Ora che poteva analizzare un nuovo lato di Thorn, quello di quando era appena sveglio, le sembrava scontato che fosse una di quelle persone che appena aprivano gli occhi erano già scattanti.
Diede un giro di chiave alla serratura, perché non la trovassero chiusa, e cercò di rassettarsi vestiti e capelli come meglio poté. I vestiti, preda dell’animismo perfezionista del proprietario, si stirarono da soli, ma i capelli erano un’altra storia. Ad Ofelia piacque vederlo così scarmigliato, e sentì una nuova ondata di desiderio percorrerla. Cercò di non arrossire pensando alla sera prima. Se non altro le era servita per accertarsi della realtà del marito, della sua presenza.
Ce l’aveva davvero fatta.
La mattina fu un susseguirsi convulso di visite, lacrime, soprattutto da parte di Berenilde, e chiacchiere, da parte della zia Roseline. La prima, insieme a Vittoria, non fece che riempire di attenzioni e premure il nipote, per recuperare quegli anni di assenza. La seconda, invece, rapì, volente o nolente, tutte le facoltà di Ofelia, che fu costretta a sorbirsi le vicissitudini della sua famiglia e dintorni per un tempo che le parve protrarsi fin troppo a lungo. Non voleva dire alla zia Roseline che sapeva già tutto di tutti perché li aveva seguiti attraverso gli specchi, così si limitò a lasciarla parlare mentre studiava Thorn con la coda dell’occhio. Il marito non era particolarmente entusiasta di fronte a tutte quelle premure da parte della zia, eppure non ne sembrava nemmeno dispiaciuto.
Ofelia non avrebbe mai creduto che sarebbe arrivato il momento in cui lo avrebbe pensato, ma Thorn sembrava… in pace. In pace con se stesso, con il suo passato e con il suo futuro, e con le persone che lo circondavano.
Persino con Archibald, che aggiungeva qui e là commenti poco opportuni e continuava a rimarcare che era palese che il suo letto fosse stato profanato quella notte, sghignazzando come un pazzo mentre faceva allusioni che imbarazzavano Ofelia e incattivivano Thorn.
Riuscirono a rimanere soli, davvero soli, quando calò nuovamente la notte. Thorn portò Ofelia in un’altra camera, perché l’idea di rimanere di nuovo in quella di Archibald metteva a dura prova i suoi nervi. Ancora una volta Ofelia si stupì di non sentire nessun attacco al suo sistema nervoso, anche se involontario. Da Thorn non emanava null’altro che stanchezza.
Quando fu riemerso dal bagno, fresco di doccia, con i capelli in ordine e sbarbato, Ofelia si spostò per lasciargli posto a letto. Il profumo maschile dei prodotti che aveva usato la indusse a chiedersi come avesse fatto a vivere nel Rovescio. Forse aveva trovato il modo per farsi la barba ogni giorno, ma qualcosa le diceva che era come se dall’altra parte il tempo si fosse fermato per lui: i capelli e la barba erano lunghi come il giorno in cui Seconda lo aveva spinto nella gabbia del Corno dell’abbondanza. Fisicamente non era cambiato niente.
Nemmeno mentalmente, a giudicare dal modo in cui l’orologio di Thorn si apriva e chiudeva anticipando i bisogni del padrone, e tutte le piccole manie che Thorn aveva conservato. Ogni più piccola asimmetria veniva sistemata, ogni imperfezione risanata. L’unica cosa su cui sembrava aver ceduto era l’igiene, data la mancanza del flacone di disinfettante con cui era stato solito pulirsi meticolosamente le mani, ma Ofelia era grata lo stesso alla zia per l’aiuto che le aveva dato affinché si lavasse, quel pomeriggio. Sapeva che Thorn non si sarebbe allontanato da lei nemmeno se fosse stata ricoperta di sporcizia, ma non voleva mettere alla prova la sua tolleranza senza motivo.
Gli pose la domanda senza mezzi termini.
- Ti dispiace aver perso i tuoi artigli? Non essere più un Drago?
Thorn strinse le labbra e gli occhi quasi gli sparirono sotto le sopracciglia aggrottate. Era in conflitto con se stesso, e Ofelia attese la risposta con pazienza, ma non sembrò particolarmente sorpreso che lei se ne fosse accorta.
- Sì e no. Da un punto di vista oggettivo non avere più Draghi sarà un problema. Il clan, al di là delle idiosincrasie che potevo avere io nei suoi confronti, era utile. Svolgeva un compito ben prestabilito e difficilmente sostituibile. O meglio, anche altri clan possono riuscire nell'intento con successo, ma con più difficoltà, più perdite e meno guadagno. Ci saranno sicuramente dei surrogati, ma l'efficienza dei Draghi era innegabile. Per contro, ho sempre aborrito ciò che gli artigli erano in grado di fare. Davano uno svantaggio sleale in termini di forza e velocità d'attacco quando si combatteva, ma era l'ideale contro le Bestie. Anche contro i malfattori e gli aggressori, a dire il vero, se non c'era un'arma sotto mano.
Ofelia si meravigliò delle sue parole. Non tanto per la capacità di Thorn di analizzare così distaccatamente le emozioni che lo pervadevano, quanto per le contraddizioni insite in lui che emergevano da ciò che aveva detto.
Thorn catalogava e vedeva il mondo in un modo o in un altro, sì o no. Il fatto che fosse confuso circa quello che provava verso la perdita del suo potere familiare dimostrava ampiamente quanto fosse turbato.
Ofelia pensò che avesse finito, ma Thorn riprese la parola senza preavviso. - Ho sempre lottato contro il mio potere familiare, contro la brama di sangue che lo accompagnava e la violenza intrinseca nella sua natura. Ma proprio perché ho combattuto contro gli artigli tutta la vita, ora che non li ho più mi sento mancare qualcosa.
Più di qualsiasi altra asserzione, fu quella dicotomia a rendere Thorn estremamente umano. Quasi fragile. Come tutti, si rendeva davvero conto del valore di ciò che aveva avuto solo quando lo aveva perso. Perché per quanto doloroso, riprovevole e ripugnante potesse essere il potere dei Draghi, era anche utile.
E Thorn lo aveva capito troppo tardi.
- Come potrò proteggerti ora? - mormorò infatti, distogliendo lo sguardo in preda alla vergogna. - Sono uno storpio... il mio corpo non è... e io non posso...
Come tanto tempo prima, su un'arca altra, in un'altra casa, su un altro letto, Ofelia si avvicinò a Thorn con pacatezza, come se temesse un attacco degli artigli che non c'erano più. Abbracciò Thorn con gesti lenti ma decisi, e la sua stretta lo confortò al punto che lo sentì rilassarsi tra le sue braccia.
Come quella volta a casa di Lazarus, la loro prima volta insieme senza più barriere di parole, pensieri o incomprensioni, Ofelia lo toccò per calmare il suo tormento, cercando di porvi fine con la sua presenza e la solidità dei suoi sentimenti.
Gli accarezzò la nuca come avrebbe fatto con un bambino quando Thorn si abbandonò contro di lei e seppellì il volto nella sua spalla, irrigidendosi a intermittenza come se dentro di sé stesse combattendo una battaglia invisibile.
- Ci proteggeremo a vicenda, Thorn. Un matrimonio non serve solo per ereditare il potere familiare del coniuge.
Temendo che le sue parole fossero state troppo dure, una riesumazione di vecchi fantasmi ormai scomparsi, aggiunse con voce flebile: - E nemmeno per fare figli. Non solo, almeno.
Thorn si aggrappò a lei all'improvviso, artigliandole la schiena e stringendosi a lei quanto fosse fisicamente possibile, con una forza tale da farle credere che volesse mescolarsi a lei come un tempo aveva fatto la sua ombra di attraversaspecchi.
Lo consolò a sua volta, depositandogli un bacio leggero tra i capelli.
Sapeva bene cosa significava essere privati di una parte fondamentale di sé, per quanto sgradita. Lei si era sentita snaturata persino quando aveva perso la goffaggine a seguito della cristallizzazione, come se le fosse stata portata via una parte imprescindibile di sé, per quanto scomoda. Thorn era abituato agli artigli, nonostante tutto il dolore che gli avevano causato e che causavano.
E sapeva bene anche cosa significava essere privati di qualcosa che ti identificava come individuo. Lei era stata una lettrice, e talvolta ancora faticava ad accettare il fatto che non lo fosse più. Thorn era metà Drago e metà Storiografo, un bastardo nato da un'unione proibita e malvista, ma era ciò che lo identificava. Senza la metà di quella condizione, che cos'era?
- Per lo meno ora posso avvicinarmi a te alle spalle senza temere una ferita involontaria - bofonchiò Ofelia in un blando tentativo di umorismo.
Thorn ovviamente non rise, e nemmeno sorrise. Però alzò la testa e, guardando intensamente Ofelia senza vergognarsi e senza temere di essere respinto, la baciò con tenerezza. Con dolcezza. Con lentezza. Assaporò quel contatto come non aveva mai fatto.
La baciò con gratitudine, e Ofelia ricambiò a sua volta.
Fu Thorn ad interrompersi, bloccando entrambi prima di andare troppo oltre.
- Cosa faremo ora?
Ofelia sorrise. – Avevi le idee molto chiare in proposito, una volta.
Thorn aggrottò le sopracciglia. – Certo, mi ricordo, ma ci sono innumerevoli questioni che devo recuperare. Le gerarchie devono aver subito modifiche, così come le leggi e gli equilibri.
Si interruppe, con il chiaro tentativo di mettere ordine tra i suoi pensieri.
Ofelia andò in suo aiuto. – Possiamo pensarci domani. Ma sei ancora della stessa idea riguardo al nostro matrimonio? Intendi annullarlo?
Thorn la guardò con occhi fiammeggianti che la fecero quasi vacillare. Si sentì mancare l’appoggiò sotto di sé, come se lui l’avesse fatta precipitare.
- Anche a questo possiamo pensare domani.
Nessuno dei due aggiunse altro fino alla mattina successiva, quando si svegliarono entrambi, di nuovo stretti uno all’altra.
Si destarono senza fretta, così come si erano addormentati, per una volta nella vita senza ansie divoranti o preoccupazioni soverchianti. Perché qualunque cosa fosse accaduta, avevano un domani insieme. Avevano una vita che si dipanava loro davanti, e qualsiasi fosse la natura dei problemi che sarebbero sorti, l’avrebbero affrontata insieme.
Avrebbero vissuto giorno per giorno, sfruttando quel tempo che era stato loro concesso, costruendo il loro avvenire così come tutte le arche, l’intero mondo si era reinventato. Sarebbero diventati delle nuove versioni di loro stessi, quelle definitive, quelle che forse erano stati destinati a diventare fin dal principio.
Ma ogni cosa avrebbe avuto luogo a suo tempo.
Nel frattempo avrebbero goduto della reciproca compagnia, consci che nessun altro luogo al mondo avrebbe potuto farli sentire a casa come in quel momento. Qualunque cosa fosse accaduta, ci sarebbero stati una per l’altro. Quella era una certezza.
Anche un po’ di più.
 
 
2. Uomo per uomo
Ofelia impiegò un attimo di troppo per rendersi conto che Archibald aveva cambiato posto. Non stava più tra lei e Vittoria, con le mani posate sulle guance di entrambe, ma aveva infilato un braccio dentro lo specchio anche lui. Vittoria era caduta a terra semisvenuta, interrompendo il contatto con entrambi. O forse era stato Archibald ad interrompere il contatto con lei. In ogni caso, con una mano toccava Ofelia e con l’altra afferrava Thorn.
Ma qualcosa non andava.
Archibald la guardò sorridendo tristemente, e con il legame che si era creato tra di loro condivise anche l’ultimo segreto che aveva cercato di nascondere: era arrivato al limite.
Ofelia sentì sulla sua pelle il dolore dell’ex ambasciatore, la vastità sterminata di quell’infida malattia che aveva divorato quasi tutto di Archibald, riducendolo ad un’ombra dell’uomo che era stato.
Non gli restavano che giorni. Poche settimane, forse. Poco tempo in ogni caso.
- Credo che sia uno scambio equo, moglie di Thorn. Voi che dite?
- No! – urlò Ofelia, perdendo per un attimo la presa sul marito. Si riebbe subito e continuò a tirare con tutte le forze.
Archibald posò una mano su quella di Thorn, aggrappata al braccio della moglie, unica parte del corpo che aveva attraversato lo specchio e aspettava il resto.
- No! Non deve andare così. Non era questo quello che volevo, e non lo vorrebbe nemmeno Thorn!
Archibald l’accarezzò con la mano ancora posata sul suo viso prima di dirigerla verso l’altra mano di Thorn. – Lo so, Ofelia.
Gli occhi le si inumidirono più per quello che per la situazione. Archibald che la chiamava con il suo nome vero aveva un qualcosa di… definitivo. Solenne.
- Ma è ciò che desidero io. Le forze mi hanno abbandonato da parecchio, e ogni giorno è peggio. Riesco a malapena a tenere in braccio Vittoria. Non potrò nascondere la cosa a Berenilde ancora a lungo, essendo suo ospite, e non voglio andarmene sotto gli sguardi di dolore e pietà delle uniche persone che hanno davvero rappresentato una famiglia per me. Una famiglia autentica.
Ofelia non vide più nulla a causa delle lacrime. Non sarebbe riuscita a vedere niente nemmeno con gli occhi asciutti, però, da quanto si erano scurite le lenti dei suoi occhiali. E la sciarpa che tentava di asciugarle le lacrime non la aiutava.
- Permettetemi di fare una cosa giusta nella vita. Anche il mio tentativo di trovare Terra d’Arco è stato piuttosto fallimentare, vista la fine di don Janus e… degli altri miei colleghi. Dato che sono destinato a sparire, tanto vale farlo lasciandomi qualcosa dietro. E cosa potrei donarvi di meglio se non vostro marito, il nipote di Berenilde?
Ofelia si sarebbe accorta che anche Archibald aveva gli occhi lucidi, se solo avesse avuto la vista nitida. E avrebbe anche notato che il suo sorriso, per quanto triste, era autentico.
Archibald le posò un bacio sulla guancia, cosa che le fece scoppiare un singhiozzo in petto. – Non ditelo a vostro marito, o verrà a cercarmi – le sussurrò con tono seducente, rivestendo nuovamente i panni da impenitente seduttore. – Abbiate cura di voi.
Successe tutto così in fretta che non riuscì a replicare. Un attimo prima Archibald era ad un soffio da lei, mentre lottavano per far uscire Thorn. Quello dopo il marito era lì con lei, anzi, letteralmente sopra di lei, ma Archibald era sparito.
Lo specchio era tornato ad essere un singolo specchio, chiuso per sempre.
 
I minuti che seguirono furono frenetici e confusi. Ofelia era talmente sconvolta da tutta quella situazione – l’essere riuscita nel suo intento, la presenza di Thorn, il sacrificio di Archibald – che non sapeva dare una direzione alle sue emozioni. Era contenta per il ritorno di Thorn, o era più dispiaciuta per la dipartita di un amico?
Senza chiederglielo, senza ordinare nulla, fu Thorn a prendere in mano le redini. Come aveva sempre fatto. Come forse Ofelia si era aspettata che facesse fin da subito. Perché, in fondo, lo amava anche per quello, e fu solo un sollievo rendersi conto che gli anni di lontananza non avevano cambiato questo tratto fondamentale di Thorn. Era un uomo d’azione, intraprendente, e avrebbe fatto di tutto per tenerla al sicuro. Non era quello il motivo per cui aveva mollato la presa sulle sue braccia, la prima volta?
Thorn si sollevò da Ofelia, permettendole di mettersi seduta. Lei provò a scacciare le lacrime con i palmi guantati, ma fu il marito con le sue grandi mani a ridarle una vista nitida. E lei lo baciò nuovamente, per accertarsi che fosse vivo, vero, per soffocare il dolore, nuovo e vecchio, e perché lo amava, lo aveva amato a distanza per tutti quegli anni, e non avrebbe più tollerato di stargli lontano.
Thorn però si staccò troppo presto, senza incrociare il suo sguardo. Adocchiò la povera Vittoria ancora semi svenuta di fianco a loro e la prese in braccio come se fosse abituato a sollevare bambini da tutta la vita. Ergersi sulla gamba storpia, che nel mondo al dritto si palesava in tutta la sua deformità e difficoltà deambulatoria, non fu molto semplice, ma Ofelia gli si affiancò per aiutarlo a camminare.
Portarono insieme Vittoria dalla madre, sperando di non far prendere a Berenilde un colpo per la loro improvvisa comparsa. Salame li intercettò nel corridoio e fece loro da scorta fin nel salotto, strusciandosi sulle gambe di Thorn per dargli il benvenuto. O per farlo inciampare.
Berenilde se ne stava sdraiata sul divano, in panciolle, ma il tempo fuori dalla finestra era sereno e ciò significava che almeno il suo umore non era dei peggiori. La zia Roseline le stava parlando di una qualche vecchia vicenda di famiglia da cui avrebbe dovuto trarre spunto, mentre cuciva con la sua ritrovata macchina andata distrutta anni addietro in occasione del loro prima viaggio al Polo.
Si interruppero entrambe quando videro entrare in soggiorno la latitante nipote, il disperso nipote e la svenuta figlia. O meglio, Roseline si interruppe e Berenilde scattò in piedi, così agitata che Ofelia sentì nel cervello la presenza violenta dei suoi artigli.
Berenilde boccheggiò e mosse dei passi incerti mentre andava in contro a Thorn e Vittoria. Ofelia non si offese per quella poca considerazione, anzi, si fece da parte per permettere alla madama di ricongiungersi ai suoi amati.
Distolse lo sguardo quando la vide piangere, e quello più di tutto le fece capire la gravità di ciò che avevano compiuto. L’impresa impossibile. E la perdita subita, in modo irrimediabile.
- Mi sei mancato così tanto… - mormorò prima che la voce le venisse meno.
Thorn si lasciò abbracciare, impassibile come sempre, ma quando Ofelia incontrò il suo sguardo vi lesse accettazione, non rifiuto. Liberò un braccio per stringere la zia a sua volta, per un attimo così breve da risultare quasi illusorio. Ofelia sorrise tra le lacrime.
La zia Roseline la stava interrogando come il più meticoloso dei gendarmi, asciugandole il volto, toccandole le braccia e lamentandosi dello stato dei suoi vestiti o capelli, rimbrottandola per le sue lettere evasive e per la preoccupazione a cui l’aveva sottoposta in quegli anni.
Ofelia l’abbracciò per zittirla, e finalmente la zia tacque, stringendola con una forza tale da mozzarle il respiro in petto.
- Bentornata, mia cara. Sapevo che ce l’avresti fatta. Berenilde ogni tanto ne dubitava, ma io no.
- Roseline, siete voi quella che più soventemente si faceva prendere dallo sconforto. Non addossate a me la vostra debolezza – la sgridò Berenilde, che aveva sentito le parole della zia.
Quest’ultima si allontanò dalla nipote e si impettì tutta, come un gallo in procinto di fare bella mostra di sé.
- Non dite sciocchezze, Berenilde. È la mia parola contro la vostra, ma chiunque su Anima può giurare che io sono la persona più integerrima dell’intera arca. E sicuramente anche del Polo.
Berenilde non si degnò nemmeno di risponderle, ma nel girarsi verso il nipote sorrise fugacemente ad Ofelia, ringraziandola con lo sguardo. O forse compatendola per essere stata accolta da quella zia energica.
Ofelia non l’avrebbe cambiata per nulla al mondo.
Quando Berenilde prese Vittoria tra le braccia, però, il suo sorriso svanì. – Cosa le è accaduto?
Thorn si spostò per andare a sedersi sul divano, trascinandosi dietro la gamba storpia. Ormai non si impegnava nemmeno più per nascondere la gravita della sua zoppia, e rifuggì le occhiate di compatimento delle due zie. Ofelia non lo guardava con altra espressione se non di rinnovato affetto e ammirazione. Doveva essere come minimo scombussolato dopo quello che aveva dovuto passare, invece sembrava più concreto e ragionevole di tutte loro messe insieme.
- Credo debba essere Ofelia a spiegare. Devo ammettere di essere io stesso all’oscuro di ciò che ha fatto.
Sotto lo sguardo indagatore di tutti i presenti, compreso il gatto e Vittoria, che batté le palpebre proprio in quell’istante, Ofelia rischiò di far cadere un vaso che si trovava troppo vicino al suo gomito.
- Potrei avere una tazza di tè, prima?
 
Il funerale di Archibald, una mera formalità, dato che la bara non avrebbe mai accolto il suo corpo, fu fissato per tre giorni dopo.
La mattina della funzione, mentre Ofelia finiva di prepararsi, sentì gli occhi di Thorn addosso in maniera particolarmente insistente. Il fatto che la camera che condividevano fosse la più piccola del palazzo di Berenilde, in attesa di sistemare quella più grande, non aiutava.
Quando finalmente incrociò il suo sguardo, lui distolse gli occhi.
- Ti dispiace?
Ofelia lo fissò, perplessa. La sciarpa le raddrizzò gli occhiali, come se in quel modo potesse dare la giusta angolazione ai propri pensieri. – Certo che mi dispiace. Archibald era quello che era, ma ha fatto per noi molto più di chiunque altro.
Thorn si schiarì la gola, e la osservò di sottecchi. – Intendevo dire se non ti dispiacesse in realtà che il prezzo da pagare fosse quello.
Ofelia lo guardò senza capire, e finalmente Thorn si raddrizzò, guadagnando in altezza un paio di centimetri di cui non aveva bisogno.
- Sei pentita che lui si sia scambiato con me? Avresti preferito che le cose rimanessero com’erano?
Nel suo tono duro, glaciale come la sua arca natia, Ofelia percepì una paura sopita che le fece male. Gli andò vicino a passi misurati, come se temesse di essere al cospetto di una bestia gigantesca in procinto di attaccare, e si allungò per gettargli le braccia al collo.
Thorn si lasciò baciare, chinandosi per facilitarle il compito, ma non rispose e dopo poco Ofelia si staccò.
Come potevano le tre notti che avevano condiviso, riscoprendosi dopo quegli anni di isolamento e lontananza, non aver dissipato i suoi dubbi al riguardo? Non gli aveva offerto tutto ciò che poteva, abbandonandosi a lui quasi con disperazione, mentre il fantasma della solitudine e della privazione ancora la punzecchiava?
- Sono dispiaciuta che se ne sia andato così, ma la gioia prevale su questo sentimento. La gioia di averti ritrovato, e la gioia che Archibald abbia scelto come morire, invece che accettare l’imposizione della sua malattia.
Thron aggrottò le sopracciglia e, sospirando, Ofelia gli svelò quell’unico particolare che aveva omesso a tutti, tranne che a Vittoria: che Archibald era malato, che il suo tempo era agli sgoccioli, e che il suo sacrificio non era stato del tutto dettato da uno slancio altruistico. Aveva compiuto un gesto buono per il quale Ofelia gli sarebbe stata per sempre debitrice, ma anche lui aveva trovato in quella soluzione una scappatoia al destino che gli era stato inflitto.
- Dato che mi ha aiutata a riportarti da me non ho fatto parola della sua condizione. Mi ha fatto un regalo così grande che provo solo gratitudine nei suoi confronti, e non vorrei che il suo sacrifico venisse sminuito dalle attenuanti.
- Si prenderà tutta la gloria ancora una volta – bofonchiò Thorn contro le sue labbra, prima di baciarla con la sua solita irruenza e stringerla a sé di più, di più, di più.
Ofelia non diede peso a quel commento quasi acido, perché lo sentiva sulla pelle del marito, nel contatto della sua bocca: Thorn più di tutti era grato ad Archibald, persino più di lei. La gratitudine per l’uomo che aveva preso il suo posto però non avrebbe mai potuto superare quella che provava per la donna che stringeva tra le braccia, che aveva rinunciato ad anni di vita pur di ritrovarlo, sacrificando a sua volta se stessa. Per lui.
Alla fine interruppe il contatto e seppellì il viso nella sua spalla per nasconderle le lacrime.
 
Al funerale furono presenti meno persone del previsto. A quanto pareva essere sedotte per una notte dall’ambasciatore non costituiva un pretesto per mostrarsi al suo funerale, e delle innumerevoli donne vittime del fascino di Archibald non si presentarono che dieci, forse quindici signore. Persino dei membri della Rete furono in pochi ad assistere alla funzione: le dieci sorelle minori del defunto, le due Valchirie, con grande sorpresa di Ofelia, e il ragazzo che aveva ricoperto il ruolo di assistente di Faruk, a suo tempo.
La cerimonia fu più che altro un modo per permettere a Berenilde, Roseline, Ofelia e anche Thorn di ringraziare quell’uomo che gliene aveva fatte passare tante, ma alla fine si era dimostrato il più caro degli amici e il più affidabile detentore di segreti. Un uomo leale e presente, disponibile, anche troppo a detta di Thorn, positivo e determinato, che non si fermava nemmeno di fronte agli ostacoli più grandi.
Ofelia e Berenilde avrebbero voluto aggiungere qualche altra caratteristica a quell’elenco, ma Thorn le fulminò con lo sguardo facendo loro capire che ne avevano già dette abbastanza.
Ofelia cercò la sua mano durante la funzione, e Thorn le circondò il palmo con le sue lunghe dita.
- Permettimi di mostrarmi grata verso l’uomo che mi ha ridato mio marito, intero.
Thorn non la guardò. – Non se questo significa pensare a lui in modo troppo riconoscente ed elevarlo più del dovuto. Hai detto tu stessa che il suo sacrificio è tornato utile anche a lui.
Ofelia soffocò una risata, decisamente inadatta ad un funerale, seppur di circostanza, e desiderò più che mai avere le dita per stringere più forte la mano di Thorn.
Quando tornarono a casa, più incoraggiati che malinconici nonostante la triste occasione, Vittoria tirò una manica di Thorn perché lui la prendesse in braccio. Ofelia si stupiva sempre di quell’interazione naturale tra i due, soprattutto perché Vittoria era una “marmocchia”, come Thorn l’avrebbe sicuramente definita, e perché il marito, così restio ai contatti, non si faceva remore a toccarla e accostarsela. Quella visione aveva un sapore dolceamaro, però, perché per quanto fosse felice che Thorn andasse d’accordo con la cuginetta, vederlo tenere in braccio la bambina le faceva rimpiangere ancora di più la sua impossibilità di avere figli.
Thorn era… era così bello con Vittoria in braccio. Naturale.
Doloroso.
Lui parve quasi intuire i suoi pensieri, perché d’un tratto la fissò con gli occhi stretti a fessura. Ofelia non percepiva che un bagliore metallico lì in alto, sopra di lei, ma tanto bastava ad indurla a distogliere lo sguardo. Thorn le strinse delicatamente un braccio in segno di solidarietà, prima di portare la mano verso il corpo di Vittoria, che si era accasciata su di lui all’improvviso.
Riusciva a portarla senza zoppicare grazie ad un’armatura che si era costruito lui stesso due giorni prima, un prototipo decisamente migliore di quello scricchiolante e dissestato fornitogli dai Genealogisti. Nessuno si preoccupò per Vittoria, pensando che si fosse addormentata.
Solo quando furono di fronte all’ingresso del palazzo di Berenilde, si resero conto la bambina aveva in realtà viaggiato. A quanto pareva, usare il suo potere per salvare Thorn le aveva fatto capire che, se sfruttato con moderazione, poteva ancora usarlo per viaggiare.
Come in quel momento.
Sorrise con aria sollevata. – Padrino dice che il funerale è stato un mortorio. E che lui non è morto.
Sì, poteva viaggiare e andare a trovare Archibald ogni volta che voleva.
Ofelia sorrise, così come Berenilde e la zia Roseline.
Thorn scosse la testa. – Non siamo riusciti a liberarcene, alla fine.
- Padrino dice anche che dovreste togliere lo specchio dalla vostra camera perché si vede tutto.
Thorn passò in malo modo la bambina a sua madre prima di fiondarsi in camera. Ofelia lo seguì più lentamente, attenta a non inciampare e fuggendo le domande delle loro due zie. Quando entrò nella stanza che occupavano provvisoriamente vide Thorn di fronte allo specchio, con la mascella contratta, chiaramente infuriato, che mormorava improperi verso lo specchio e Archibald. Alla fine lo girò verso il muro.
- Guarda pure la parete – bofonchiò prima di voltarsi verso Ofelia.
Lei scosse il capo e, per nulla preoccupata da ciò che Archibald poteva aver visto, scoppiò a ridere.
- Guardare è l’unica cosa che può fare ormai – disse sorprendendo sia se stessa che Thorn.
In risposta lui chiuse la porta con fin troppa forza e si avvicinò ad Ofelia con occhi da predatore.
- Non lo esalterai più così tanto dopo oggi, spero.
Ofelia allargò le braccia, invitandolo a spogliarla.
Accolse con un sospiro la pelle calda di Thorn sulla propria.
No, non avrebbe mai esaltato Archibald. Non ad alta voce, almeno. Ma sapeva che avrebbe sempre avuto un debito di gratitudine nei suoi confronti, per quanto il suo scambio fosse stato vantaggioso per entrambi.
Riversò invece parte di quella gratitudine su Thorn, che l’accolse con piacere.
Anche un po’ di più.
 
 
3. Memoria
Thorn sgusciò fuori dallo specchio sinuosamente quanto una saponetta bagnata.
Ofelia fece giusto in tempo a scostarsi per non essere travolta e lei e Archibald ebbero la prontezza di attutire la caduta di Thorn, che non fu troppo brutale. Vittoria barcollava, visibilmente in procinto di svenire, e anche se Archibald non si sentiva molto meglio la prese comunque in braccio posandola sul letto, affinché non si facesse male.
I respiri affannosi di tutti furono gli unici suoni udibili, al di là del battito forsennato dei loro cuori nelle orecchie. Archibald sembrava addirittura invecchiato.
Fu Ofelia a scivolare nell’oblio, però, quando Thorn la guardò e, freddo e impassibile come sempre, chiese: - Chi siete?
 
Ofelia aveva preso in considerazione la possibilità che Thorn dovesse cedere un potere familiare per poter uscire dal Rovescio. Non aveva lei stesso ceduto le sue doti da lettrice? In quei due anni di ricerche non aveva fatto altro che pensare a due cose: come tirare fuori il marito dal verso, e quale sarebbe stata la contropartita da cedere.
Aveva ipotizzato che la Memoria fosse un prezzo equivalente.
Non si era resa conto che il riscatto da pagare poteva essere più… drastico di così. Non aveva pure lei perso le dita, invece che la semplice capacità di leggere? Il Rovescio si era preso la fonte del suo potere, lo strumento che le permetteva di esercitarlo.
Thorn aveva perso la sua formidabile Memoria, il dono di immagazzinare qualsiasi dato, numero, avvenimento, parola, libro, documento, volto e molto altro che non le aveva mai detto, sospettava Ofelia. E aveva perso i suoi ricordi. Aveva perso tutto.
Aveva perso se stesso.
I giorni che seguirono il suo salvataggio furono un connubio inestricabile di gioia e sgomento. Quando Berenilde e la zia Roseline avevano visto uscire dalla camera di Archibald, dove avrebbero dovuto esserci due persone sole, ben quattro individui, le due zie erano rimaste paralizzate dallo sgomento. Poi, com’era prevedibile, Berenilde era esplosa in una cacofonia di frasi di giubilo mentre la zia Roseline alternava rimbrotti a ringraziamenti per il semplice fatto che Ofelia era viva.
Il sorriso era morto anche sulle loro labbra, però, quando Thorn aveva nuovamente chiesto chi fossero.
Berenilde si era scostata dal nipote come se avesse usato gli artigli su di lei, ma sul suo volto era dipinta un’espressione di dolore ben più profondo di quello che avrebbe potuto causare un attacco fisico.
La zia Roseline schioccò la lingua, mettendo in mostra i denti cavallini. – So bene che non ci vediamo da molto, ma né io né vostra zia siamo invecchiate così tanto!
Quando si rese conto che nessuno tentava di fare dell’umorismo, soprattutto non Thorn, la mascella rischiò di caderle a terra.
- Perbacco…
 
Quella sera cenarono tutti insieme, in un silenzio tetro specchio dei pensieri di ciascuno. Cosa potevano dire per alleggerire la tensione? Potevano chiedere ad Ofelia i dettagli di come fosse riuscita a salvare Thorn, se lui nemmeno si rendeva conto di essere stato salvato? Potevano chiedere a Thorn come si fosse sentito nel Rovescio, se lui non era nemmeno consapevole di essere nel Dritto?
L’unica cosa positiva, se così la si poteva definire, era che Thorn mangiava con insolito appetito, come se il fatto di nutrirsi non fosse più un calvario, una perdita di tempo o un bisogno non gradito, o qualsiasi altro fosse il modo in cui aveva considerato i pasti prima di scordarsi perché li odiava.
- Quindi voi siete mia zia – esordì quando ebbe finito di sorbire la zuppa, prima di tutti gli altri. Sembrava l’unico ad avere fame.
Berenilde gli rivolse un debole sorriso, conscia del fatto che Thorn non l’aveva riconosciuta, ma stava solo cercando di mandare a memoria chi lei fosse.
Mandare a memoria… per Thorn un’espressione del genere non aveva mai avuto significato. Ofelia ingollò il groppo che le serrava la gola con la successiva cucchiaiata di zuppa.
- Lei è mia cugina – continuò indicando con il capo Vittoria, la cui indole silenziosa per una volta non era fuori luogo. – Voi siete la madrina di mia moglie, voi non ho ancora capito chi siate. E voi siete mia moglie.
Ofelia alzò lo sguardo su di lui, quasi intimidita. Avrebbe riflettuto sul fatto che sarebbe stato buffo temere il proprio marito quando non aveva avuto paura di lui nemmeno da fidanzati, ma la situazione era troppo tragica per poter indulgere in simili sciocchezze.
Ofelia annuì leggermente, dal momento che Thorn non sembrava intenzionato a distogliere lo sguardo. La sciarpa pensò bene di infilarle il cucchiaio in bocca, rischiando di farla strozzare.
Nessun parve farci caso.
Archibald si schiarì la voce, sorridendo in modo del tutto fuori luogo. – Se permettete, caro Thorn, io sono il vostro migliore amico.
Le signore si voltarono tutte verso Archibald, troppo sbigottite per dire alcunché. Fu Thorn, però, a sorprenderle di più.
- Avrei detto il contrario. Mi suscitate un’innata antipatia.
Il sorriso di Archibald si allargò ancora di più mentre Thorn incurvava un angolo della bocca.
Fu solo un attimo, un attimo che fece sgranare gli occhi ad Ofelia e andare di traverso la zuppa alla zia Roseline, mentre Berenilde guardava a turno i due uomini.
Poi il sorriso svanì e Thorn si servì la seconda portata.
Abbondando.
 
Nei giorni successivi ad Ofelia e agli altri parve chiara una cosa: non tutta la memoria di Thorn era andata perduta. Non aveva studiato il cervello umano, non sapeva bene come funzionasse la mente, a dire il vero si sentiva proprio ignorante in materia, ma era comprensibile, alla fine, che qualcosa fosse rimasto nella memoria di Thorn. Come la padronanza della lingua, la consapevolezza di sé e di azioni quotidiane come il nutrirsi, il lavarsi, il saper leggere, scrivere e contare. La memoria relativa alle azioni, insomma, era intatta.
Ma non quella relativa ai ricordi.
Thorn non era diventato simile ad un neonato in quanto a capacità cerebrali. Parlava, capiva, non aveva bisogno di una balia che gli insegnasse tutto. Ma il suo io, la sua persona interiore, i ricordi che lo avevano reso ciò che era non c’erano più.
Thorn era una pagina bianca.
Passò i primi giorni dopo il suo ritorno a leggere quanti più giornali possibili per capire in quale ambiente vivesse. L’accento del Polo gli era rimasto, e Ofelia ne era contenta, in parte: almeno una caratteristica della sua vecchia essenza che non era sparita. Studiò il funzionamento della burocrazia e la struttura delle arche e delle gerarchie, un po’ apprendendo dai volumi e un po’ chiedendo delucidazioni alla zia e ad Ofelia.
Lei e lui dormivano in camere separate, interagivano poco e Ofelia non poteva fare altro che assistere alla distruzione vivente dell’uomo che aveva amato. Lo aveva capito il giorno dopo il loro ritorno, aveva fatto i conti con la dura realtà e non si era illusa. Non ne aveva più la forza. Thorn, il suo Thorn, quello che aveva imparato ad amare tanto faticosamente, quello per il cui salvataggio aveva sprecato due anni della sua vita, quello che aveva prima disprezzato, poi compatito e infine amato, non c’era più. E non sarebbe mai tornato. Non lo aveva mai odiato, mai, nemmeno quando le aveva mentito circa lo scopo del matrimonio, né quando le aveva taciuto i pericoli a cui l’aveva sottoposta fin dal principio.
In quei giorni, invece, mentre passava le ore ad osservare il corpo di quell’uomo che un tempo aveva custodito l’anima di suo marito, lo odiò. Lo odiò per ciò che rappresentava, perché era come se qualcun altro avesse preso possesso del suo corpo per ronzarle attorno e acuire la sua nostalgia.
Una sera, più scoraggiata del solito, uscì dalla stanza senza proferire parola quando Thorn chiese come mai ci fossero tanti inutili libri di matematica in biblioteca.
Non riuscì a trattenere le lacrime e si vergognò per questo, ma non poté farci nulla. Elizabeth, Ambroise, Renard e Gaela, presto anche Archibald… tutte le persone che aveva imparato ad amare si erano spente, lasciando un enorme vuoto in lei. La mancanza di Thorn non aveva fatto che esacerbare la solitudine, ma la speranza, la certezza che avrebbe recuperato almeno Thorn le aveva sempre dato la forza di continuare a lottare, per poter tornare un giorno all’unico luogo che avrebbe mai chiamato casa.
Le era stata strappata anche quella possibilità, ed era più sola che mai, arida dentro, un’ombra di se stessa. Non si sentiva molto diversa da un’eco.
La sua tristezza divenne rabbia, seppur insensata, quando Thorn le afferrò un polso per trattenerla prima che entrasse in camera sua. Berenilde gli aveva ordinato un tutore per la gamba che sarebbe arrivato nell’arco di un paio di settimane, ma anche senza sostegno, con un arto palesemente danneggiato, Thorn rimaneva veloce e silenzioso in modo innaturale.
Spalancò leggermente gli occhi quando vide il viso di Ofelia inondato dalle lacrime. La lasciò andare come se avesse preso la scossa, aggrottando la fronte com’era solito fare anche l’uomo che era stato prima. Sembrava a disagio all’idea di consolarla, come l’altro Thorn, ma a differenza di lui, quest’ultima versione era più espressiva, aveva una forza, un’energia in corpo che non aveva nulla a che fare con gli artigli ma sembrava essere sprigionata proprio dai suoi nervi.
- Perdonatemi. Volevo solo chiedervi se avete intenzione di annullare il matrimonio.
Ofelia trasecolò. Non ci aveva pensato. Era rimasta talmente sconvolta dagli ultimi avvenimenti che non aveva nemmeno pensato all’eventualità di dichiarare invalido il loro matrimonio e scioglierlo, cosa del tutto legale e, da un certo punto di vista, sensata. Eppure esitò. Lei era stata condotta al Polo a causa di un matrimonio combinato. Non aveva sposato Thorn per amore, non all’inizio almeno. C’era qualche possibilità di rimanere accanto a questo nuovo Thorn ancora in evoluzione? La questione era talmente complicata che si mise a riflettere di fronte a lui con trasporto, senza curarsi dell’attesa a cui lo sottoponeva. E poi si rese conto di un piccolo fatto.
La questione non era se lei voleva rimanere sposata a lui, un uomo che aveva conosciuto in un modo ed era stato radicalmente cambiato, ma se lui sarebbe stato disposto a rimanere sposato ad una sconosciuta. Una completa sconosciuta, che forse non avrebbe mai voluto, che non gli sarebbe piaciuta e che non avrebbe capito. Una sconosciuta menomata, oltretutto.
- E voi? – gli rigirò quindi la domanda dopo diversi minuti.
Thorn incurvò leggermente le labbra, prendendola in contropiede. Questa sua versione sorrideva decisamente troppo, abitudine a cui non era affatto avvezza ma che, in qualche modo inspiegabile, le faceva sentire un certo tramestio nello stomaco. Abbassò lo sguardo, stanca di rimanere con il collo reclinato per guardarlo al di sopra della sua immensa statura, per non dover più vedere quel sorriso a suo modo accattivante.
- Non è corretto rispondere ad una domanda con un’altra domanda – le fece notare.
Divertito.
Innegabilmente divertito.
Ofelia si sentì mancare il fiato e indietreggiò per porre una certa distanza tra di loro, ma la verità era che voleva poter osservare nuovamente quel viso che conosceva così bene eppure le appariva sotto una nuova luce. La sciarpa, confusa dai suoi sentimenti, le sistemò gli occhiali già dritti sul naso, come per aiutarla a fare chiarezza nei propri pensieri attraverso una visione nitida.
Non ottenendo risposta, Thorn tornò serio. – Perdonatemi, non volevo essere brusco o inopportuno.
Ofelia spalancò gli occhi, ma Thorn non lo notò, o lo notò ma decise di soprassedere.
- Non sono molto a mio agio a discutere di questioni che mi riguardano, ma in un modo che non posso nemmeno comprendere. Mi chiedevo solo, dato che trovo impossibile tornare ad essere ciò che ero un tempo, almeno credo, se in realtà la mia presenza non fosse troppo dolorosa per voi.
Ofelia sentì nuovamente le lacrime pungerle gli occhi, e vide Thorn distogliere lo sguardo, imbarazzato. Si esprimeva in modo così diverso dal suo Thorn… si scusava, faceva dell’umorismo, chiedeva pareri. Erano tutte cose positive, ma non per lui. Per lui era tutto sbagliato. Thorn avrebbe dovuto… non lo sapeva nemmeno lei, non più.
La confusione che aveva in testa la spinse a rispondere con più durezza di quanto avrebbe voluto. – Oppure siete voi che volete slegarvi da una moglie scomoda, menomata, non più così giovane, sterile – sputò fra i denti, anche se lui non poteva conoscere quella sua impossibilità, - e abbastanza obiettiva da potersi definire di aspetto mediocre?
Thorn la guardò spalancando gli occhi, stupito. Non era il suo Thorn, non era il suo Thorn, non era il suo…
- A dire il vero vi trovo molto gradevole d’aspetto – mormorò lui arrossendo. – Ve lo chiedevo per voi, non per me. Io non ho obiezioni in merito al nostro stato civile.
Ofelia avvampò, perdendosi completamente le ultime parole di Thorn. Lui che… arrossiva? Che faceva commenti di quel genere? Le gambe le cedettero e dovette appoggiarsi al muro per sostenersi, ignorando la mano che Thorn le tendeva. Lui non aveva mai… non le aveva mai detto che era bella, se non in un’unica occasione, la prima volta che avevano condiviso l’intimità. Ofelia sentiva ancora quel “sei perfetta” rimbombarle nella testa come le più belle parole che avesse mai sentito, insieme al ricordo ad esse legate. Thorn si era vergognato talmente tanto di essersele lasciate scappare che aveva nascosto il viso paonazzo nell’incavo del suo collo, incapace di guardarla in volto. E lei si era sciolta sotto di lui, sorridendo e sentendosi completa in un modo che le aveva fatto capire che fino a quel momento aveva vissuto in maniera del tutto sbagliata, senza il suo affetto.
E ora la voce di Thorn le diceva in modo velato che era bella, con il suo corpo, i suoi occhi espressivi dallo sguardo intenso, le sue erre scricchiolanti e le consonanti dure. Era Thorn a dirglielo. Ma non il suo Thorn. E nonostante tutto, si rese conto che era lei quella in preda ad emozioni contrastanti, quando era sempre stato lui. Aveva sempre sostenuto, all’inizio, che Thorn non avesse il diritto di amarla. In quel momento si rendeva conto che più di tutto temeva che lui invece si prendesse il diritto di non amarla. Era una donna che conosceva da pochi giorni, alla fine.
Thorn si schiarì la voce. Le faceva così male notare come i suoi manierismi fossero rimasti immutati. Era come se il suo corpo serbasse il ricordo di ciò che era solito fare, di come si comportava, mentre il suo cervello lo aveva dimenticato.
- Volete rimandare l’argomento?
Ofelia scosse la testa, cercando di concentrarsi. Si staccò dal muro, si portò i guanti alla bocca con l’intento inconscio di mordicchiarsi le cuciture, ma poi lasciò ricadere le braccia.
- No. Non ho obiezioni circa il rimanere sposati.
Annullare il matrimonio non le avrebbe mai permesso di sposarsi con qualcun altro. Tanto valeva rimanere con lui, per quanto fosse doloroso.
Thorn sembrò sollevato, ma cercò di nasconderlo come poté. Mentre la sua precedente personalità lo portava ad una perfetta e gelida impassibilità, questo nuovo Thorn sembrava incapace di sopprimere le sue reazioni. Non del tutto, almeno.
- In realtà ero venuto per chiedervi un’altra cosa.
Si risvoltò le maniche della camicia esponendo gli avambracci. Glieli mostrò, come se lei non li vedesse, in modo quasi infantile, attirando la sua attenzione sulle cicatrici. Poi mosse la gamba zoppa, e infine si toccò la gota deturpata.
- Volevo chiedervi spiegazioni circa… il mio stato. Avrei potuto chiederlo a mia zia, ma non sono sicuro di quanto abbia visto del mio… - mormorò, schiarendosi poi la voce e lasciando la frase in sospeso. – Voi invece siete mia moglie da più di cinque anni, hanno detto, quindi presumo che noi abbiamo… che voi…
- Avete cinquantasei cicatrici in totale – lo interruppe Ofelia bruscamente, facendogli capire che sì, le aveva viste tutte. Le sembrava di aver assunto lei i panni meticolosi e i modi burberi del marito.
- Immaginavo che le aveste viste. Vi causerebbe imbarazzo o vi sarebbe di troppo disturbo spiegarmi in che modo me le sono procurate? Credo che la goffaggine non causi cicatrici tanto profonde, e non mi pare di essere distratto, sebbene sia gravemente menomato.
Già, la goffaggine non c’entrava nulla, lei lo sapeva bene. Cercò di ignorare il perbenismo di Thorn. Aveva tanto cercato di addolcire un po’ i suoi modi, una volta, quando le avrebbe solo intimato di spiegarle perché fosse ridotto così. Ora che era riuscita ad ottenere un po’ di educazione e morigeratezza, non era più sicura di apprezzarla.
Thorn interpretò il suo silenzio come esitazione, così si sentì in dovere di aggiungere: - Non sto cercando di… affrettare le cose, non fraintendetemi. Pensavo solo che sarebbe stato utile ricostruire la mia memoria attraverso le storie legate a queste cicatrici. Potrebbero aiutarmi a… capire chi sono.
Ofelia era dilaniata dall’indecisione. Essere completamente onesta con lui avrebbe portato solo dolore. Avrebbe dovuto riesumare anni di soprusi e violenze, di rifiuti da parte di chiunque nei suoi confronti, persino della sua stessa madre. Non voleva far soffrire Thorn ancora, ma allo stesso tempo non poteva rifiutare la sua richiesta di capire cosa gli fosse accaduto, o di saperne di più su di sé, su di loro.
Ironicamente, era la prima volta che Thorn non soffriva per le vicissitudini della sua intera esistenza, per l’isolamento, per gli allontanamenti, per ciò che era, ma non era più se stesso per ricordarsene e gioirne. Era un recipiente vuoto che doveva cominciare a riempire.
E Ofelia voleva aiutarlo a riempirlo. Voleva trasformare l’uomo che aveva di fronte nella miglior versione di se stesso, nell’uomo che sarebbe stato se non avesse dovuto vivere una vita al limite della durezza. Un uomo che forse poteva ancora amarla, e che lei poteva amare per il potenziale che aveva, scevro dai confini che gli erano stati imposti.
Annuì rigidamente. – Avete ragione.
Il sollievo fu evidente sul viso di Thorn. I suoi tratti si erano addolciti così come il suo corpo non sembrava più in tensione. Conservava ancora i suoi lineamenti duri e spigolosi, ovviamente, ma privi di quella rigidità che poteva venire solo da dentro. Perché dentro di sé non aveva più un passato anaffettivo. Aveva solo un futuro da riscrivere.
Entrò in camera facendogli segno di seguirla, e fu il suo turno di vederlo esitare.
- Non so se sia il caso, che stiamo da soli nella stessa stanza. Per il vostro decoro, non per altro. Non potrei mai farvi del male.
No, Thorn non le avrebbe mai fatto del male. Glielo aveva promesso. E quella certezza rimaneva anche nel nuovo Thorn. Ofelia si rese conto che la personalità di fondo era la stessa, che Thorn poteva tornare ad essere quello di un tempo, ma con le caratteristiche migliori esaltate, invece che messe in ombra dalla sua asocialità e dal suo distacco.
Era leale, era buono, era altruista e generoso. Lo era stato e lo era ancora. Si voltò a guardarlo sorridendo, facendogli aggrottare la fronte, perplesso.
- Lo so. Non ho dubbi al riguardo. Ma siamo marito e moglie, non c’è niente di indecoroso.
- Oh, giusto. Me ne ero dimenticato.
Ofelia cercò di non far svanire il suo sorriso. Quella frase non aveva mai avuto significato per Thorn. Lui non avrebbe mai dimenticato nulla, un tempo. Ma il loro era un altro tempo.
Non rispose, e gli chiuse la porta alle spalle quando lui fu entrato. Gli fece cenno di sedersi sul letto, e senza mezzi termini, gli disse: - Fatemi vedere.
Thorn sgranò gli occhi. – Come?
Ofelia avrebbe stretto i pugni se avesse potuto. Invece si morse le dita vuote dei guanti e li tolse, ripensando ad un’altra occasione simile, eppure diversa. Guardò Thorn con intensità.
- Fammele vedere.
Thorn si spogliò lentamente, quasi con reticenza. – Non è propriamente una bella visione, preparat…
- Non c’è nulla che io non abbia già visto – lo interruppe Ofelia, facendolo arrossire.
Quando Thorn si fu tolto la camicia, ben attento a non incrociare lo sguardo con lei, Ofelia osservò il suo corpo magro e le sue cicatrici, orgogliosa di essere l’unica ad aver visto Thorn nella sua interezza, dentro e fuori, nel male e nel bene.
Ripercorrendo i passi che aveva già compiuto una volta, quando erano entrambi impacciati, entrambi incerti riguardo alla loro relazione, nonostante la forza dei loro sentimenti, Ofelia gli posò i palmi sulle guance.
Gli baciò le cicatrici, e lui non si ritrasse. Non sgranò gli occhi come la prima volta che l’aveva fatto, ma li chiuse, fidandosi di lei.
Ofelia non aveva più dita. Thorn non aveva più i suoi ricordi. Erano radicalmente cambiati, ma non per questo erano estranei. Thorn doveva ancora imparare a conoscerla eppure già si sentiva attratto da lei, e Ofelia non sapeva chi avesse davanti se non che era forse la parte migliore dell’uomo che aveva amato con tutta se stessa.
E gli raccontò chi era.
 
Ofelia ripensava spesso a quella notte. Non avevano fatto nulla di che, avevano parlato sino alle prime luci dell’alba e poi si erano addormentati insieme, troppo stanchi per cambiare stanza. Si erano cercati nel sonno.
Ofelia era partita dal principio, spiegandogli che Thorn aveva sangue misto. Era metà Storiografo e metà Drago, ma ormai di lui rimaneva solo il potere familiare del padre. Non aveva parlato molto dei suoi genitori, e Thorn aveva capito che non era il caso di chiedere, che valeva la pena di ricordare e imparare solo le cose che Ofelia reputava importanti, non il resto. Gli aveva spiegato gli incarichi dei Draghi, che erano formidabili cacciatori che utilizzavano il proprio sistema nervoso per uccidere le Bestie che vivevano fuori dalla muraglia protettiva del Polo, per rimpinguare le riserve di cibo di tutti i cittadini, anno dopo anno. E gli aveva svelato che quelle cicatrici erano dovute proprio a quello. Alla caccia.
Era facile rimanere feriti. Aveva dato nuova vita ai suoi tagli, ai segni della sua sofferenza, così che lui potesse guardare ad essi come trofei invece che come evidenza dei maltrattamenti subiti. Non aveva nemmeno citato Freya e Godefroy, o padre Vladimir, gli aveva solo detto che l’intero clan usciva a caccia, e c’erano numerosi membri che lei non aveva fatto in tempo a conoscere bene. Gli aveva rivelato del loro sterminio, e l’unica domanda che Thorn le aveva posto era stata: - Perché io non ero con loro?
Ofelia allora gli aveva illustrato la situazione di Berenilde, la cui gravidanza all’epoca era già avanzata, e inoltre lui era in procinto di sposarsi con lei. Quando Thorn le aveva chiesto come si fossero conosciuti, ormai erano entrambi sdraiati a letto, stanchi ma incapaci di smettere di parlare e ascoltare. Ofelia avrebbe voluto avere le dita per passarle sulla sua guancia su cui campeggiava la barba corta e ispida di un giorno, ma fu la sciarpa a sopperire a quel bisogno, srotolandosi dal collo di Ofelia per allungarsi verso quello di Thorn, che l’aveva lasciata fare.
Gli aveva raccontato la loro storia senza bugie, solo con qualche omissione. Non aveva parlato del Libro, ma solo del suo desiderio di ottenere il suo potere familiare. Gli aveva detto quanto lei si era arrabbiata per questo, ma anche quanto lui si fosse dimostrato disposto a tutto pur di farsi perdonare. Di fronte a quelle ammissioni Thorn era inorridito, come se si reputasse incapace di compiere tali atti egoistici, ma si era calmato rendendosi conto che Ofelia non gli portava rancore, anzi, era stata disposta a sposarlo lo stesso.
Gli aveva restituito i ricordi migliori di sé, le caratteristiche che l’avevano fatta innamorare e, anche se Thorn a tratti sembrava scettico di fronte a quell’altra personalità che non rammentava e gli risultava difficile capire, aveva deciso di accettarla.
Ofelia gli aveva raccontato quanto aveva potuto quando giunse a spiegargli come mai avesse perso la memoria. Cosa fosse successo in cinque anni. E per una volta Thorn si era dimostrato impassibile come un tempo.
- Voi… - aveva esordito dopo lunghi minuti, con la voce roca per il silenzio prolungato. – Tu sai che io non potrò mai tornare ad essere quello che sono stato, vero?
Ofelia aveva stretto forte gli occhi per non piangere e aveva annuito. – Lo so. Ma so anche che sei sempre tu, che le caratteristiche che mi hanno colpita di Thorn – aveva detto come se Thorn non fosse stato proprio l’uomo di fronte a lei, - sono ancora dentro di te.
Lui aveva aggrottato le sopracciglia, scettico. – Come puoi essere sicura?
Lei aveva sorriso, con le palpebre d’un tratto pesanti. – Perché le ho viste.
Si erano addormentati insieme nel giro di pochi minuti.
 
E Ofelia ripensava spesso anche al momento in cui aveva del tutto accettato quel nuovo Thorn, anzi, quella nuova versione di Thorn, perché suo marito rimaneva sempre tale. La forma forse era diversa, ma la sostanza era immutabile.
Era successo alcuni giorni dopo. Ofelia gli stava spiegando, con l’aiuto di Berenilde, come utilizzare i suoi artigli. Dopo averli usati una o due volte su Archibald, in modo blando ma comunque doloroso, Thorn aveva sorriso e aveva decretato di aver capito il meccanismo. Berenilde se n’era andata per aiutare Archibald a curarsi, mentre quest’ultimo rideva come se Thorn gli avesse fatto il solletico, asserendo che le vecchie idiosincrasie non morivano mai.
Thorn si era fissato le mani e le cicatrici visibili sugli avambracci, e aveva rassicurato Ofelia, che lo fissava con durezza. – Non amo la violenza. Il solo pensiero mi dà il voltastomaco, come se il mio corpo sapesse cosa è giusto fare e non fare. Però credo sia un potere utile per contribuire al sostentamento della comunità. Dovrei adoperarlo per fare del bene.
Lo sguardo di Ofelia si era subito addolcito, ma non aveva proferito parola.
- Sai cos’altro credo? Che il mio corpo sappia meglio di me anche i sentimenti che provo per te. Il mio cervello magari è restio, ma spesso le mie membra si muovono come se avessero vita propria, inesorabilmente spinte verso di te.
Ofelia aveva rischiato di inciampare indietreggiando, mentre la figura di Thorn troneggiava su di lei, sicura grazie alla nuova armatura per la gamba, con tenerezza e confusione mescolati nel suo sguardo.
- Credo di averti amata molto, molto profondamente in passato – mormorò, abbassando le palpebre. – E credo di amarti anche ora. Anche… anche un po’ di più.
Con le lacrime agli occhi, Ofelia aveva abbandonato anche la più piccola reticenza morale, fisica o di qualsiasi altra natura si fosse imposta.
Aveva gioito per il ritorno di Thorn, di una parte di lui, quella che amava e che non sarebbe mai morta, e aveva gioito per la nuova storia priva di violenza e brutalità che si era costruito.
Si era avvicinata a lui con uno sguardo talmente deciso che era stato lui, intuendo le sue intenzioni, a chinarsi per baciarla, e non lei.
Ma era stata lei a trascinarlo in camera con sé.
 
Extra
- Sei pronta?
Ofelia si risvegliò di mala voglia tra le braccia del marito, ancora intorpidita per la notte passata insieme e le poche ore di sonno. Arrossì al solo pensiero, e in qualche modo i metallici occhi da sparviero di Thorn riuscirono a notarlo anche nella penombra. Sorrise come sempre, pieno di una positività e spensieratezza che in passato non sarebbe mai stato in grado di dimostrare.
Un sorriso che solo la consapevolezza di essere profondamente amato poteva generare. Insieme alla certezza di non essere mai stato odiato da nessuno.
Ofelia seppellì il naso nel suo petto muscoloso, stupendosi come sempre di come Thorn si fosse ingrossato. Mangiava tanto, faceva esercizio, e il suo corpo ossuto, nervoso e dolorante era diventato possente, muscoloso e scattante, gonfio di vitalità. Ofelia non si soffermava mai a pensare a quale delle due versioni preferiva, perché sapeva che alla fine avrebbe amato Thorn qualsiasi fosse stato il suo aspetto. Non lo aveva già ampiamente dimostrato?
In ogni caso, doveva ammettere che il modo in cui l’amava era inebriante. Thorn si prendeva ciò che voleva con la tipica fiducia di chi non teme rifiuti, perché non è mai stato rifiutato. Il Thorn che era stato, per quanto appagante, aveva sempre temuto di imporsi a lei, aveva sempre paventato un allontanamento, un diniego, perché aveva avuto solo quelli per tutta la vita. Invece di aiutarlo a convincersi che lo desiderava e che lo amava, come in passato, Ofelia si abbandonava a lui che sapeva condurla con destrezza in luoghi sconosciuti ma assolutamente piacevoli.
Si chinò infatti a baciarla, prima di scivolare fuori dal letto e stiracchiarsi. – Oh sì, una buona notte con la propria moglie è la preparazione perfetta per una battuta di caccia.
Ofelia avvampò ancora di più e sentì il fantasma della risatina di Thorn raggiungerla, un suono a cui doveva ancora abituarsi nonostante tutti gli anni passati insieme. Conservava sempre una piccola nota stridula, come se, in fondo, fosse proprio innaturale per lui ridere.
- Muoviti, la strada che ci aspetta è lunga. A meno che tu non te la senta. Sai che non ti costringerei mai.
Ofelia si impose di uscire da sotto le coltri calde, per quanto di malavoglia. – Sai che non ti lascerei mai andare da solo.
- C’è mia zia.
- Sai cosa intendo. Berenilde sa badare a se stessa, ma una mano in più non guasta, per quanto debole.
- Non sei debole.
- Non sono forte quanto voi.
Thorn le sorrise nuovamente, facendole stringere il cuore. – Sei forte quanto basta. Per il resto ci sono io.
 
Ofelia veniva sempre presa da una strana trepidazione quando si approssimava il momento di andare a cacciare le Bestie. Alla fine Thorn aveva davvero preso le redini dei Draghi, cacciando le Bestie come avevano fatto i suoi familiari prima di lui, con Ofelia e Berenilde al seguito. Si dividevano il compito con gli Invisibili, una collaborazione che padre Vladimir non avrebbe mai tollerato, ma entrambi i clan erano troppo deboli per potersi imporre sull’altro, o sulle loro prede.
Come al solito, prima di varcare i cancelli che li avrebbero condotti all’esterno, Ofelia ripensò alla sua vita. A chi c’era e a che non c’era più, come Elizabeht, Ambroise, Renard, Gaela e Archibald. A ciò che aveva avuto. E a quello che non aveva avuto.
Toccò la mano di Thorn. – Sarebbe stato bello avere dei figli a cui insegnare il mestiere – mormorò con voce abbastanza bassa da non essere udita da Berenilde.
Thorn aggrottò la fronte, riportandola indietro nel tempo. – Non angosciarti. L’ho insegnato a te. Niente a parte te è indispensabile.
Ofelia sentì lo stomaco contorcersi. Era stato naturale prendere posto al fianco di Thorn quando aveva deciso di riprendere a svolgere il compito che era stato affidato alla sua famiglia per anni. Non era più una lettrice, era solo la moglie di un Drago. E aveva gli artigli. Cos’altro avrebbe potuto fare? Inoltre, non si sarebbe mai allontanata da Thorn.
Ogni tanto si fermava a riflettere sul fatto che le sembrava di essere stata sposata con due uomini diversi. Il Thorn che aveva deciso di sposare era ombroso, taciturno e asociale tanto quanto quello che aveva salvato era solare, loquace e carismatico. A volte sentiva la mancanza del primo, altre era grata della presenza del secondo. Ma ciò che le aveva permesso di mettersi il cuore in pace erano le costanti che li accomunavano: le frasi che entrambi erano soliti pronunciare, la loro incrollabile lealtà, il loro bisogno di Ofelia.
Aveva ricevuto tanto quanto aveva perso, rifletteva a volte. E anche se la vita che si era immaginata per loro non era quella che avevano, valeva la pena di viverla lo stesso. Perché, ricordi o non ricordi, passione per la matematica o meno, magrezza o tonicità, Thorn rimaneva ossessivo, preciso, presente, affidabile, risoluto, determinato.
Non si imponeva con autorevolezza perché temeva che non sarebbe altrimenti stato rispettato, ma si faceva avanti con sicurezza proprio perché non era mai stato contestato o umiliato. Erano due rovesci della stessa medaglia e Ofelia li amava entrambi. Amava Thorn.
Raddrizzò le spalle quando capì che era il momento di procedere. Thorn le diede una stretta al palmo in risposta.
- Sai, guardandoti non sembri forte come invece sei. Qualcuno potrebbe dire che non resisteresti mai qui, che ti farebbero a pezzi. Quella persona sarebbe nel torto più assoluto.
Ofelia sentì gli occhi pungerle, ma scacciò le lacrime perché non era il tempo di abbandonarsi ai ricordi. Qualcuno gliel’aveva detto, che non sarebbe resistita. Quel qualcuno le aveva anche detto che era stato il suo più grande errore. Ofelia riuscì a sorridere, nascondendo però il volto nella sciarpa.
- Mi guardi le spalle? – gli chiese come ogni volta che si accingevano a cacciare.
Thorn incurvò appena le labbra, negli occhi la seria determinazione che lo aveva caratterizzato dalla prima volta che si erano visti. – Anche un po’ di più.
  
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