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Autore: GiakoXD    20/11/2020    0 recensioni
Questo è un universo AU dove i witcher esistono ancora oggi, in una tranquilla ed ignara Padova universitaria.
Cosa succederebbe se una studententessa venisse salvata da uno strego? E se nemmeno lei fosse una ragazza qualunque?
Questa è la revisione globale della mia storia La discendente di Ithlinne, che avevo già pubblicato tempo fa. Spero di aver fatto progressi!!!
ecco un estratto:
“La ragazza non riusciva a staccare gli occhi da quell’essere, dall’aspetto mostruoso e orrendamente letale, da quelle orbite vuote. Fredde lacrime iniziarono ora a scendere dagli occhi della ragazza, mischiandosi alla pioggia e raccogliendosi sotto al mento tremante. Ancora paralizzata dal terrore, la giovane non si accorse della figura che spuntò alle sue spalle fino a che questa non la ebbe superata con un balzo, atterrando proprio davanti alla creatura. Con un movimento fulmineo, quest’ultima tranciò di netto uno degli arti artigliati della belva, facendogli descrivere un lungo arco in aria; un denso fiotto di sangue scuro schizzò dappertutto, lungo la parete, sul terreno e sul cappotto della ragazza che, sbigottita, indietreggiò spasmodicamente fino a sbattere contro il muro alle sue spalle.
Era una scena surreale.
Genere: Azione, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Cirilla Fiona Elen Riannon (Ciri), Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Si risvegliò in un letto d’ospedale. Nonostante non avesse idea di come ci fosse finita o di dove fosse di preciso, almeno su quel punto era sicura al cento per cento. Nonostante l’edificio sembrasse avere più di cento anni, doveva essere una casa di cura di qualche tipo: forse era una struttura privata. Si stiracchiò e si guardò intorno con calma. Era una stanza spoglia: tre letti con testiere a ringhiera e lenzuola ruvide e bianche. Ai lati di ciascuno, pulsanti di emergenza e interruttori per le abat-jour poste sui piccoli mobiletti grigi di servizio. Nella stanza non c’era nessun’altro, ma se servivano altre prove del fatto che fosse in un ospedale, glielo confermò il camice azzurro spento che si accorse di indossare.
Si tirò su sui gomiti e guardò fuori.
La luce del mattino entrava lattiginosa da due ampie finestre alla sua destra e illuminava alcuni granelli di polvere mentre volteggiavano pigri. L’orologio, che ticchettava placido appeso sopra una delle due porte di ingresso, segnava le dieci scarse. Poco più a sinistra, un crocifisso di legno. Alcuni suoni ovattati giungevano da qualche parte dell’edificio, troppo flebili per capirne l’origine; dalle finestre, invece, giungevano i richiami di alcuni uccellini.
Benché ignorasse dove fosse finita, la ragazza si sentiva stranamente calma e rilassata, controllò di non avere niente di anomalo, nessun dolore e nessun ago attaccato alla pelle, quindi si ridistese sul lettino con un sospiro, le mani giunte sulla pancia.
 
Voleva rimanere in quella bolla di tranquillità più che poteva, perché aveva bisogno di tempo per digerire i fatti della notte prima. Tempo e molta calma.
Escluse a priori che fosse stato tutto unicamente frutto della sua fantasia, si sarebbe svegliata nel suo letto, in quel caso. Poi, aveva bevuto solo una birra, difficilmente si sarebbe potuta inventare una cosa del genere, dubitava perfino di essere una persona con abbastanza fantasia per creare quella creatura mostruosa...
L’immagine dell’enorme bestia raccapricciante le tornò vivida davanti agli occhi e le strinse lo stomaco al solo ricordo. Chiuse gli occhi e si ritrovò a guardare nuovamente tutta la scena come se si trovasse dietro un vetro, come fosse davanti ad uno squalo in un acquario. Ringraziò la sua memoria fotografica, perché aveva colto e registrato un sacco di particolari, nonostante il terrore e il panico che l’aveva attanagliata e paralizzata.
La tunica sudicia, gli artigli lunghi e ricurvi, i sanpietrini fradici di pioggia e di sangue. Le ritornò in mente anche la completa e assurda assenza di suoni intorno a lei e l’incapacità di emettere grida e singhiozzi lei stessa. Anche il molestatore doveva essersi messo ad urlare ad un certo punto, prima di scappare, ma nemmeno lui aveva prodotto alcun suono. Le grida, la pioggia, il combattimento, non si era sentito niente di niente: solo quando la creatura era piombata a terra decapitata i suoni erano tornati. Doveva essere stata una specie di magia di quell’essere...
Magia? Beh, se ora credeva che quell’essere fosse reale, allora poteva credere anche all’esistenza della magia, no? ...Era tutto così assurdo...
Le tornarono in mente le orbite vuote, la testa decapitata rivolta verso l’acciottolato, il sangue scuro che sgorgava in zampilli sempre più deboli. Si ritrovò ad avere nelle narici ancora l’intenso fetore del vicolo, della creatura, e il ricordo le sembrò spaventosamente vicino. Le venne di nuovo la nausea e si passò la mano sul viso cercando di calmarsi. Una cosa del genere era rivoltante anche al sicuro dietro il vetro di un acquario, a quanto pareva.
 
Si sentì un tonfo provenire dall’esterno della stanza, poi un cigolio metallico che si avvicinava sempre di più. La ragazza si ributtò a letto di slancio e finse di dormire, con una palpebra appena socchiusa. Sentì il cigolio della porta che veniva aperta, poi intravide un’infermiera, che entrava nella stanza spingendo un carrello. La ragazza finse di svegliarsi, la donna non sembrava ostile.
«Buongioooorno…» la salutò quella con una voce gentile ma sonora, allenata al dialogo con i pazienti. Spinse il carrello fino al lato del suo letto. «Come ti senti oggi, stella?»
«Buongiorno. Io… penso bene.»
«sì? Bene, adesso controlliamo» Le sentì la febbre con una mano dalle unghie verniciate di rosso. «Non dovresti averne, ma controlliamo. Metti questo in bocca, per favore» e subito si avvicinò alla finestra, per spalancare le tende bianche.
Sembrava il perfetto archetipo della “dolce e gentile infermiera”: sulla cinquantina, rossetto e unghie rosse e capello biondo cotonato. Aveva un’espressione cordiale stampata in volto, frutto di lungo allenamento contro i pazienti più difficoltosi.
«Posso chiederle una cosa?» Biascicò la ragazza, poi si tolse il termometro dalla bocca. «Quando sono arrivata?»
«Mi pare che tu sia arrivata ieri, intorno a mezzanotte»
«Ah, ecco. E chi mi ha portato? È stato per caso un ragazzo? Perché vorrei ringraziarlo…»
L’infermiera si girò e piantò gli occhi in quelli della giovane, l’espressione d’ordinanza appena incrinata. «Un ragazzo? Ti ricordi che è stato un ragazzo? Perché non…» esitò. «No, stella. È stato… mi sembra che ti avessero portata qua con l’ambulanza, sai? Dovevi essere svenuta, forse non ti ricordi bene… dopo provo a chiedere meglio, sì, ecco, bon…» l’infermiera raccolse di nuovo tutto, in modo un po’ troppo sbrigativo, la salutò e uscì spingendo fuori il carrello e lasciando la ragazza di nuovo sola a fissare la porta chiusa. Il cigolio del carrello si affievolì fino a sparire e nella stanza tornò nuovamente un tenue silenzio.
 
Credette alla versione dell’infermiera solo per un istante.
Uno.
Poi abbassò lo sguardo e vide il termometro ancora abbandonato tra le sue dita.
Allora lui l’aveva trasportata fino a lì, dopo l’attacco.
Non era detto, in realtà: poteva aver chiamato un’ambulanza dopo che lei era svenuta, poteva aver aspettato che arrivasse, magari, e poi poteva essersene andato. Era plausibile. Dopotutto, qualcosa le diceva che quel ragazzo non volesse farsi troppo vedere in giro così conciato: le dava l’idea che fosse un membro di una specie di setta. Ma questa ipotesi non spiegava lo strano comportamento dell’infermiera: il suo tergiversare e i modi frettolosi sembravano confermare che in qualche modo lei lo avesse visto, quello strano ragazzo con la spada e un buco nella gamba.
“Deve avergli fatto un male fotonico” le venne in mente in quel momento, mentre l’immagine del lungo artiglio ricurvo si sovrapponeva alle crepe del controsoffitto. Si rivide mentre lo estraeva dalla coscia del ragazzo, con mani meno ferme di quanto non ricordasse. Rivide poi il suo viso, contratto e dolorante, che aveva sbirciato mentre finiva di stringergli la fasciatura. Le era sembrato bello, nonostante la smorfia di sofferenza e il colorito cadaverico.
 
Uno stormo di uccelli saettò davanti alle ampie finestre, con un coro di schiamazzi. Si tirò sui gomiti e guardò distrattamente verso le finestre, ancora assorta nel ricordo. “Aveva addosso sul serio un’armatura?” così sembrava, di una specie di cuoio scuro, che gli copriva una buona parte del corpo. Sembrava una cosa da film, si disse mentre scendeva piano dal letto e si alzava in piedi. Si sistemò il camice che le si era arrotolato quasi fino in vita. Un guerriero con armatura e spada scintillante, a Padova, nel 2015! Il cavallo bianco doveva averlo lasciato nella stradina laterale, pensò con un mezzo sorriso. Si avvicinò alle grandi finestre e guardò fuori.
 
“Sono nella villa di Bruce Wayne!” pensò non appena ebbe dato un’occhiata all'esterno.
Si trovava al terzo piano di un’imponente villa di inizio Novecento, enorme, con ampi cornicioni e lunghe file di grandi finestre uguali a quella da dove stava guardando. Probabilmente si trovava su una stanza sul retro dell’edificio, poiché si affacciava su un ampio giardino privato circondato da un vecchio e muscoso muro patronale; al di là di questo si stagliava un alto canneto, tipico delle campagne venete.
Il parco, che doveva essere molto bello durante la bella stagione, ora aveva l’aspetto desolato dell’inverno. Ancora slavato dalle piogge del giorno prima, era ora spoglio e umido. Piccoli sentieri di ghiaietto si allontanavano da una grande fontana di pietra, ora senz’acqua, e si perdevano tra le siepi semi spoglie, tra alberi rinsecchiti e aiuole vuote, fino a confondersi nell’ombra. Anche la luce lattiginosa di quel mattino umido non migliorava quell’immagine triste e cupa. Unica nota di colore era un’upupa, dall’ampio ciuffo rossiccio, che saltellava su una panchina tra i giardini. La ragazza si stava sporgendo per riuscire a vedere meglio il cortile sottostante, quando delle voci nel corridoio la fecero trasalire. Si girò e si lanciò nuovamente sul rigido materasso, si tirò su il lenzuolo e cercò di assumere una posa naturalmente addormentata. Aveva appena chiuso gli occhi quando la porta si aprì lentamente.
 
«Oh, dorme ancora...» la ragazza riconobbe quella voce profonda e tranquilla. Era il cavaliere della notte precedente, difficile sbagliarsi. Socchiuse appena gli occhi, ma non riuscì a vedere altro che il lato sinistro della stanza. Represse l’impulso di girare la testa.
«Con quello che le è successo non mi stupisce» gli rispose una voce calma e misurata di qualcuno che sembrava più vecchio.
«Così è questa eh? ...non è male per niente!» un mormorio ammirato di una terza persona, poi una felpa scura entrò nello stretto campo visivo della ragazza e lo occupò quasi completamente. «Perché quelle fighe toccano a te mentre a me toccano sempre gli ubriaconi e le vecchiette?» la felpa scura sbuffò esageratamente e si avvicinò ancora di più al viso della ragazza, che ora riusciva a vedere anche un po’ della faccia del proprietario, fino al naso. Sembrava coetaneo dell’altro.
«Shhh! Abbassa la voce!» gli sibilò contro l’anziano. Si avvicinò un poco al letto ed entrò ai margini del campo visivo della ragazza. Era un uomo sui sessant’anni circa, con capelli corti e grigi e folti baffoni dello stesso colore. Girò la testa verso destra e parlò piano: «C’erano solo lei e un altro uomo, corretto?»
«Già. Faccia da delinquente e alito da ubriaco. No, non mi ha visto, ho aspettato che passasse oltre. Comunque si è lasciato dietro una scia di alcol talmente forte che non penso ricorderà niente, o penserà di aver avuto delle brutte allucinazioni. Poi il babau stava per attaccarla e sono dovuto intervenire»
«Certo...» l’anziano annuì, pensoso.
Il secondo ragazzo, che era rimasto girato verso gli altri due seguendo il discorso, tornò a concentrarsi verso il letto. «Maaa...» iniziò con un mormorio allusivo «...non è che qualcuno ha perso la droga di proposito? Uno a caso, eh?»
«Piantala Fabio, sei solo tu quello che potrebbe farlo. E parla piano!» gli mormorò l’altro stizzito.
L'anziano intervenne. «Dal momento che ancora dorme non ha senso rimanere qui. Su, andiamo. Mica vogliamo che si svegli con le nostre brutte facce davanti, no?»
«Parla per la tua di faccia, nonno! E in quanto a svegliarsi mh...» Il ragazzo dalla felpa scura chiamato Fabio rimase immobile un paio di secondi, in silenzio, sotto lo sguardo interrogativo dei due compagni, e della ragazza che ancora fingeva di dormire. Poi alzò una mano e fece un gesto, fuori dal suo campo visivo e di colpo si avvicinò verso il suo viso. «...potrei provare a baciarla, magari riesco a svegliare la nostra principessina addormentata. Mmh, ha delle labbra talmente invitanti... oh, guardate! Arrossisce! La mia sola presenza sta “rompendo l’incantesimo”! O forse non stava dormendo per niente? Ma buongiornoooo!» la salutò con una smorfia vittoriosa, mentre la ragazza, rassegnata, apriva gli occhi con un profondo sbuffo. «Eri già sveglia prima che entrassimo, vero?» Fabio si allontanò dal suo viso, continuando tuttavia a guardarla con espressione sorniona.
«Sì, ero già sveglia. Forse ho finto di dormire per non dover guardare la tua brutta faccia, magari?»
L’anziano ai piedi del letto scoppiò a ridere. «La signorina riesce a tenerti testa, Fabio! Non sono in tanti! Buongiorno cara e scusaci per l’intrusione, ma l’infermiera aveva detto che eri sveglia per cui... Ti senti meglio stamattina? Sì? Molto bene, allora io e il chiacchierone qui torniamo dalle infermiere e ti facciamo portare la colazione» Si era rivolto a lei con espressione gentile, le rughe marcate intorno agli occhi. «Ti chiami Katherina, vero?»
«Ehm… Katherina Pedrotti…sì»
«Non volevamo sbirciare, ma alle infermiere servivano i documenti, capisci…» si affrettò a spiegare l’uomo vedendo l’espressione titubante della ragazza, che rilassò nuovamente le spalle. «Katherina mmh… tedesca?»
«… altoatesina. Per metà. Mia mamma lo è…»
L’uomo annuì cordiale, poi sembrò ridestarsi di colpo. «La colazione, giusto! E tu levati quel muso dalla faccia e seguimi, avanti! Katherina, quando hai mangiato e sei pronta vieni su a trovarci, vorrei scambiare quattro parole con te. Fai con calma, non preoccuparti, Nat sa la strada.» e con l’altro alle calcagna, l’anziano uscì e richiuse la porta alle sue spalle.
 
Nella stanza piombò un lungo, denso silenzio. Katherina, fingendo di studiarsi le mani con una concentrazione estrema, non aveva il coraggio di alzare lo sguardo. Il ragazzo, dal canto suo, continuava a guardare la porta dove gli altri due se ne erano andati lasciandolo solo. Rimasero in quel silenzio imbarazzato per un po’ fino a che, quasi all’unisono, non si girarono entrambi e si guardarono negli occhi.
«Avrei delle domande da farti…» mormorò lei.
Il ragazzo sostenne il suo sguardo per alcuni momenti, poi si girò, prese una sedia e la trascinò vicino al letto. «Lo immaginavo»
   
 
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