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Autore: Mahlerlucia    26/11/2020    3 recensioni
Ci sono ferite che non guariscono, quelle ferite che ad ogni pretesto ricominciano a sanguinare.
(Oriana Fallaci)
[Bokuto x Akaashi || BokuAka]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Keiji Akaashi, Koutaro Bokuto, Tenma Udai
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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Anime/Manga: Haikyuu!!
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale
Rating: giallo
Avvertimenti: Missing moment, Spoiler!, Tematiche delicate
Personaggi: Bokuto Koutarou, Akaashi Keiji
Pairing: #BokuAka
Tipo di coppia: Shonen-ai

 
 
 
 Nero
 
 
 
Novembre


La telefonata di Bokuto era durata più del solito quella sera. Il ritiro organizzato ad Ōsaka lo aveva obbligato a stare lontano da casa per diverse settimane, in un momento per nulla opportuno per quel che concerneva la sua relazione con Keiji. Non che i due avessero discusso o che si fosse messo di mezzo qualche terzo – o quarto – incomodo, sia chiaro. La questione era ben più delicata, tanto che l’asso dei Black Jackals aveva riconosciuto fin da subito quanto fosse necessario che rimanesse accanto al suo compagno il più possibile.
Per quanto lo stesso giovane editore avesse tentato più volte di dissuaderlo dalle sue continue premure, Kōtarō non ne aveva mai voluto saperne di farsi da parte, permettendogli di tornare alla vita di tutti i giorni come se nulla fosse accaduto. Perché non era così! Non poteva essere così neanche per idea! E questo lo sapevano entrambi.
Un simile episodio non sarebbe dovuto accadere, specie quando si è ancora agli esordi di quella macchina costantemente inceppata che corrisponde al mondo del lavoro.

Nonostante l’infinità di luci artificiali che rivestivano l’immensa area della capitale nipponica, si poteva ancora intravedere qualche piccolo fonte luminosa all’interno del cielo scuro e limpido, infinitamente distante da quel caos fatto di scarso tempo a disposizione e pensieri per nulla produttivi.
Dato che faceva troppo freddo per arrivare a pensare di poter aprire la portafinestra del salotto, Akaashi iniziò a disegnare le rette immaginarie utili a ricongiungere quelle piccole stelle usando direttamente il proprio dito a contatto con la gelida superficie del vetro perfettamente lucidato. Quei piccoli astri gli riportarono alla mente vecchi ricordi legati ad un’adolescenza che lo aveva visto cambiare radicalmente, consentendogli di evolversi in quel giovane che pensava di aver finalmente trovato un obiettivo reale per poter continuare a lottare in una vita che non gli aveva mai concesso un gran numero di soddisfazioni, prima di allora.
Erano passati oltre otto anni dal giorno in cui aveva pigiato sul maniglione della porta antipanico della palestra con l’intento di partecipare al suo primo allenamento con i ragazzi della Fukurōdani; forse erano ancora troppo pochi per arrivare a provarne una nostalgia quanto meno credibile; chissà se, al contrario, rappresentavano un lasso di tempo talmente ampio da non avergli potuto evitare un collasso interiore prevedibile, ma ugualmente ignorato.
C’era però da dire che Kōtarō aveva tentato in tutti i modi di impedirgli di non badare a sé come avrebbe dovuto, ove gli era stato possibile intervenire con la sua presenza e le sue uscite rincuoranti.

Come una stella che attraversa i miei pensieri... da sempre.
Ripensò alla considerazione che inizialmente aveva del suo compagno, a quella forza mai vista che si elevò di fronte ai suoi occhi non appena mise piede in quel luogo di divertimento e passione. Peccato che per incanalare questi due preziosi aggettivi all’interno dei suoi infiniti e dettagliati elenchi tecnico-tattici era dovuto entrare in gioco colui che poi arrivò a “salvarlo” tante di quelle volte da sé stesso da averne praticamente perso il conto.
Poggiò la fronte e l’intero palmo della mano contro il vetro, sospirando di un’inquietudine che ancora non riusciva ad esprimere a parole, come la sua psicoterapeuta lo stava esortando a fare da almeno un mese a quella parte, sempre rispettando i suoi tempi e la sua estrema sensibilità. Quest’ultima si era sempre dimostrata essere un’arma a doppio taglio sin da quando era bambino, sin da quando era costretto ad attraversare lo stesso corridoio del piano superiore da cui suo padre scappava sempre con una certa frenesia, atteso dai suoi superiori a chissà quale irrevocabile meeting d’affari. Giusto il tempo di dire ‘Io vado, ci vediamo stasera’, prima di sparire dentro quella station wagon sulla quale avevano sempre viaggiato non più di tre persone, tra cui lui.

Il telefono abbandonato sul kotatsu emise un paio di bip ravvicinati, segno dell’arrivo di un messaggio o di una mail. Dopo le numerose raccomandazioni che si era già dovuto sorbire da parte di chi sapeva volergli sinceramente bene, Keiji non aveva più né la forza e né la volontà di conversare con nessun altro che avesse in mente di partire dal presupposto di chiedergli come stesse. Non era di certo una domanda alla quale poteva rispondere a cuor leggero; e mentire non rientrava di certo nei suoi piani, oltre che nella sua indole ancor troppo ingenua.
Si trattava di un vocale registrato – guarda caso – da Bokuto. Pochi secondi che forse sarebbe stato meglio evitare, almeno nel marasma emotivo di quel frangente solitario e malinconico.

“Keiji, ricordati che devi prendere le gocce solo se ti senti male, se cominci a pensare a tante cose tutte insieme. L’ha detto la dottoressa, non è vero? Ecco... se esageri ti fanno male e visto che non sono lì non ho la possibilità di aiutarti e sarebbe un disastro! Non andare a letto tardi e non accendere il computer. Ho parlato con Udai che mi ha assicurato che non ti disturberà per nulla che c’entri con il lavoro. Gliel’ho proibito tassativamente (si dice così?), anche se lui mi ha detto che non lo avrebbe fatto per principio. E poi volevo dirti... SI VENGO! Scusa, Tsumu-Tsumu mi sta chiamando per andare a vedere un dvd su cui è stata salvata una partita importante dei nostri prossimi avversari, ma so già che non riuscirò a seguire niente. Cioè... ci proverò. Sì, STO PARLANDO CON AKAASHI! Sì, TE LO SALUTO! Ti saluta Hinata, anche se ti aveva già salutato prima... ma fa niente, ti risaluta. ‘Kaashi... comunque volevo dirti che devi riguardarti, che devi pensare a te e che... beh, che sei speciale. Il più speciale di tutti. Buonanotte!”

Un sorriso più che sincero aveva appena fatto capolino sul viso del destinatario, nonostante l’affiorare spontaneo di quel flebile impeto di gelosia dovuto alla constatazione di non poter essere seduto accanto a lui mentre s’impegnava a monitarare l’attenzione sui pregi e i difetti di quelli che sarebbero stati i suoi imminenti rivali da rettangolo di gioco. Ma doveva pur ammettere che immaginarlo accanto ad Hinata gli aveva donato un certo sollievo, quasi si trattasse di un’anima pura capace di vegliare su quel mentore da cui prendeva spunti e consigli, quasi si trattasse di oro colato e gratuito. Concezione a cui aveva ceduto lui stesso, a suo tempo.
La sua risposta fu semplice, lesta e devota, al pari di una piacevole forma di cortesia. Non prese nemmeno lontanamente in considerazione la possibilità di usare a sua volta un messaggio vocale. Detestava quel tipo di comunicazione, non faceva per lui. Nella sua mente ben più pragmatica aveva sempre avuto maggior senso comporre direttamente il numero di telefono dell’interessato per parlarci in maniera sicuramente più chiara e diretta.

“Grazie Kōtarō. Buonanotte a tutti voi. Buonanotte soprattutto a te.”
 
 
***
 
 
“Papà, mi aiuti a fare questo problema di geometria?”
 
“Non ora Keiji, sto leggendo le ultime notizie finanziarie. Chiedi a tua madre, visto che è del mestiere.”
 

Come è arrivato sin qui questo vecchio libro di matematica?
Keiji aveva deciso di mettere ordine all’interno di quei cassetti della scrivania dentro ai quali non frugava da una vita, se non per riporre velocemente qualche documento che sapeva non gli sarebbe più servito in tempi brevi. Stava cercando un vecchio libro di Nakajima che gli era stato consigliato su una gruppo Facebook dedicato alla letteratura nipponica, ma non riusciva a rintracciarlo in nessun angolo di quell’eccentrico attico che Bokuto aveva deciso di acquistare per poterlo condividere fin da subito con lui. Non fu di certo facile convincere il più giovane a fronte di quelle che sarebbero state le inevitabili conseguenze di una dichiarata convivenza. E difatti si rilevò essere una scelta che lo aveva costretto a rinunciare ad una parte di sé, probabilmente quel frangente meno limpido e – soprattutto – libero di riconoscerci riflesso in uno specchio. La parte più oscura.
Iniziò a sfogliare quelle pagine con fare decisamente poco interessato a comprendere nozioni che aveva già memorizzato anni prima. Il volume della sfera continuava a rimanere un’incognita, a meno che non si trattasse di quella da schiacciare o ricevere lungo un campo di pallavolo, ma questo non lo aveva mai detto a nessuno. Si era limitato a memorizzare formula diretta e relative formule inverse portando comunque a casa i suoi voti sempre superiori ai novanta centesimi.
Ma per quanto potesse impegnarsi, tutti i suoi sforzi mentali non erano mai rientrati tra i principali interessi di quel genitore che viveva quasi esclusivamente per il suo dannato lavoro. Occasionalmente cercava di distrarre la mente dagli indici delle società di cui controllava le azioni con dei passatempi adatti a uomini della sua età e della sua classe sociale; ma questi non avevano mai, o quasi, contemplato un coinvolgimento diretto della moglie e di quel figlioletto dai grandi occhi verdi, probabilmente troppo onesti per meritare le attenzioni di cui necessitavano.
Ricacciò il volume nello stesso cassetto da cui era staro recuperato, nella remota possibilità che un giorno gli sarebbe potuto nuovamente essere utile per continuare a svolgere ripetizioni con le matricole di qualche facoltà scientifica non ancora propriamente convinte della loro scelta. Difatti, prima di trovare occupazione presso la casa editrice aveva cercato di mantenere i propri studi come meglio aveva potuto, in piena autonomia.

Balzò allo sguardo anche il famoso quadernino, quello che non si era ancora deciso a rendere una sorta di diario personale, come la terapeuta gli aveva caldamente consigliato. Perlomeno aveva fatto lo sforzo di acquistarlo on-line, seguendo scrupolosamente le indicazioni della dottoressa per quanto concerneva i colori e l’organizzazione interna. Ma non vi aveva ancora riportato una sola parola che provenisse volutamente da quel groviglio di pensieri che con gli anni non avevano fatto altro che appesantirsi sino a divenire insostenibili.
Sulla prima pagina bianca aveva segnato la data del dieci novembre, ovvero l’ultima volta che era stato in seduta. Poi più nulla, al pari della manifestazione delle sue emozioni. Eppure sapeva bene che palesare il proprio stato d’animo lo avrebbe aiutato a sormontate quello stato di tremenda apatia di cui si era più volte parlato in quell’accogliente studio professionale di Shibuya.
Keiji ricordava la fotografia che ritraeva la donna assieme a una ragazza, una figlia che diceva di non vedere da tempo, senza specificarne le cause se non mediante un sommesso sospiro. Da quel giorno comprese che anche i più impeccabili professionisti nascondono segreti invalicabili all’interno delle loro anime.
Mister Akaashi non era riuscito a portare a compimento neanche questa dovuta missione, ma questo semplicemente perché la sua anima non aveva più niente da dire da molto – troppo! – tempo.

Afferrò una matita sul piano dello scrittoio e d’impulso disegnò una piccola nuvola a racchiudere quella data rimasta in sospeso. Poco più in basso scarabocchiò due piccoli gufi paffutelli e poggiati l’uno all’altro. Non aveva scritto nulla di rilevante ma almeno avrebbe potuto mostrare qualcosa di personale a quella donna che stava cercando uno spiraglio di luce dietro ad un muro d’incertezze alzatosi in maniera esponenziale con lo scorrere degli avvenimenti, specie in quegli ultimi anni di cambiamenti drastici e repentini. Non gli era ancora completamente chiaro se lo facesse semplicemente per dovere, per denaro o se provasse un qualche interesse per la sua vita non ancora sbocciata, nonostante tutto.
La Psicologia era una disciplina che in qualche modo aveva da sempre suscitato il suo vivo interesse, tanto da averlo indotto a considerare un’eventuale iscrizioni alla stessa facoltà universitaria in tempi decisamente non sospetti. Ipotesi poi scartata per un amore talmente grande da essere sempre stato presente nel corso della sua giovane esistenza: la scrittura amatoriale.

Desidero scrivere, ma non riesco a dire nulla sulla mia persona. Come potrò mai realizzare il mio sogno? Ma a qualcuno importa davvero? Sì, sono sicuro che Bokuto-san apprezzerebbe almeno un po’, anche se a stento legge i quotidiani sportivi.
Ma come posso spiegargli che vorrei scrivere proprio a proposito della cosa più bella che sia mai capitata nella mia vita, ovvero di quello che siamo stati e che continuiamo ad essere? Sarebbe d’accordo? O finirei solamente per rovinare tutto, a partire proprio dalla sua strepitosa carriera sportiva? D’altronde... sono nato tra le tradizioni del Paese del Sol Levante e a dimostrazione di ciò... mio padre non mi rivolge la parola da anni. Cosa dovrei mai aspettarmi da tutti quegli occhi pronti a giudicare ancor prima di terminare la lettura? Quanti “Mister Akaashi” esistono in questo mondo parallelo che mi circonda ma che non percepisco?!
Basta, Keiji! Come al solito stai pensando a troppe cose in un unico calderone senza alcuna logica dimostrabile.
Basta!
Mmm… Ma perché Udai-san non chiama più?
Ah, dimenticavo. È stato braccato, lavorativamente parlando.
Lo chiamerò io, domani.

 
***


Fare colazione in solitaria era un’abitudine che Keiji in passato aveva perduto a seguito dell’inizio della felice convivenza con Kōtarō, ma che era stato costretto a ritrovare di nuovo per lui. Difatti era sempre stato convinto che in amore non ci potesse essere prova di “resistenza” più grande dell’astinenza. E non ne aveva mai fatto un discorso prettamente sessuale, ma bensì più totalizzante. La forza da mostrare in quella lussuosa solitudine stava anche nel sopportare le assenze delle risate, del frastuono, dell’ordine involontariamente sfregiato e – per forza di cose – da ripristinare al più presto; il vuoto risiedeva in quelle superfici che brillavano ancor più che nelle pubblicità dei detergenti alla lavanda, in quella cucina che non veniva toccata da diversi giorni, in quel cesto della biancheria che a stento conteneva un paio di magliette che non avevano alcuna fretta di raggiungere la lavatrice.
A discapito di quel frangente estremamente delicato, il giovane editore riusciva ugualmente a tenere sotto controllo ogni singolo dettaglio di quell’appartamento che lo conteneva al pari di un guscio termico, emarginandolo da quelle brutture mondane di cui Tokyo era tronfia, senza esserne nemmeno completamente consapevole.
Il notiziario parlava dell’ennesima petroliera squarciata nel bel mezzo del Golfo del Messico, dei danni incommensurabili che quella macchia nera dal fetore umano avrebbe causato all’intero ecosistema del posto... e non solo. Il discorso virò ancora una volta su un confronto con i disastri nucleari degli ultimi tempi; un biologo di fama internazionale buttò ancora una volta nella mischia la questione legata alla caccia alle balene.
Keiji non era mai stato particolarmente attivo sul fronte delle lotte ambientaliste, ma ogniqualvolta sentiva parlare di caccia gratuita agli animali, lo stomaco gli si contorceva al punto da obbligarlo a trovare rapidamente un palliativo capace di portare la sua mente altrove, a partire dal tasto rosso in cima al telecomando.
Non sono fatto per questo mondo, eppure continuate a mostrarmi tutto quello che cancellerei all’istante.

Decise di dare una chance mattiniera al proprio smartphone, sperando di non trovarci nulla che avrebbe potuto urtare il suo già precario equilibrio emotivo. Un paio di messaggi di sua madre, seguito di altrettante chiamate perse.
Sì, dopo l’ultimo vocale di Bokuto aveva deciso di ammutolire la suoneria, per poi dimenticarsi di riattivarla.

“Keiji, tesoro. Va tutto bene? Sai che quando non rispondi mi preoccupo... da qualcuno devi pur aver preso questo tuo lato ansioso, giusto?! Ecco, se posso rimediare al danno fatto, ti chiederei almeno di richiamarmi dopo la seduta dalla terapeuta. Giusto per sapere come è andata. Lo sai che ti basterebbe chiedermelo e verrei subito da te. Lo sai che sono dalla tua parte anche se non mi credi fino in fondo. Tesoro richiamami per cortesia. Un bacio grande.”

La prima cosa a cui pensò – giusto un attimo prima di essere travolto da un moto di tristezza tale da indurlo ad iniziare a lottare contro lacrime opprimenti già di prima mattina – fu che sua madre credeva che lui “sapesse” troppe cose, senza che nessuno gliele avesse mai inquadrate a dovere. La sua perspicacia e il suo senso del dovere lo avevano da sempre reso infrangibile agli occhi di quei genitori che non avevano mai sollevato il viso per guardarlo direttamente negli occhi. Eppure, aveva lo stesso sguardo di suo padre e gli stessi occhi di quella donna che ora chiedeva perdono, con tutte le remore e la disperazione che aveva in corpo.
Dover accettare un figlio innamorato di un suo coetaneo era stato un processo lungo e travagliato, conclusosi in due maniere diametralmente opposte. Dover accettare che quello stesso – e unico – figlio continuasse a perdersi dentro le sue stesse paure era nettamente intollerabile.
Ma l’affetto che partiva da quel cordone ombelicale reciso oltre vent’anni prima e i tremendi sensi di colpa che andavano man mano moltiplicandosi avevano fatto tornare l’ancor giovane Ayame sui suoi passi, permettendole di ritrovare vivo interesse per quel figlio che in realtà amava più di quanto non avesse mai potuto amato sé stessa.

Alla seconda riflessione si stava già maledicendo per quella capacità di autocontrollo che negli ultimi tempi era andata palesemente a farsi benedire. Non gradiva – o meglio, non tollerava – che sua madre si addossasse la responsabilità di aver dato in pasto al mondo una creatura tanto fragile e spaesata, così fuori controllo da averla indotta all’allontanamento momentaneo. Quel malessere generalizzato che lei aveva racchiuso sotto la banale definizione di “ansia” era stato davvero ereditato geneticamente o era stato acquisito nel corso dello sviluppo, crescendo in un ambiente in cui si riconosceva il ruolo della persona solamente quando questa si prostrava portando con sé dei risultati materiali importanti e tangibili? Rincorrere dei traguardi che avrebbero potuto rendere orgogliosi dei genitori storicamente “assenti” lo aveva reso davvero felice e fiero di sé? Lo aveva aiutato realmente a diventare ciò che desiderava essere? Iscriversi alla facoltà di Medicina avrebbe mai smosso un impeto di orgoglio in più all’interno del gelo del “clan Akaashi”?
Quesiti che lo avevano lentamente portato a quel collasso sul quale tutti si interrogavano, a quel burnout emotivo che non lo aveva più restituito a suoi cari integro come un tempo, sempre se lo era mai stato.
E di questo se ne erano accorti soprattutto Kōtarō e gli amici più stretti. I singhiozzi di Tenma rimbalzavano ancora tra i suoi ricordi come macigni scaraventati a terra da una scossa di magnitudo inestimabile.


 
“È colpa mia Akaashi-san! È colpa di questo stupido lavoro che non ci lascia più vivere!”

 
L’effetto dello Xanax lo aveva indotto ad uno stato di dormiveglia tale da impedirgli di aprire gli occhi e muovere la bocca per rispondere a quell’affermazione in cui non credeva minimamente. Non che non si fidasse delle parole del suo amico sensei, ma non riusciva a tollerare il fatto che si sentisse in colpa per qualcosa che covava dentro da epoche ancestrali, da molto prima che avesse avuto la fortuna di incontrarlo e di approfondire la sua conoscenza.
E come se fosse stato inserito in un inevitabile circolo vizioso fatto di domande private delle loro risposte e stima reciproca mai messa nera su bianco, arrivò a sentirsi l’artefice indiscusso di una sofferenza che, come uno tsunami inarrestabile, avrebbe inesorabilmente colpito tutti coloro che gli sarebbero capitato a tiro.

In ultimo si fermò a lungo a riflettere sulla volontà di Ayame di passare del tempo con lui, con ogni probabilità anche per non dover trascorrere ulteriore tempo in solitudine all’interno di quell’enorme appartamento di cui ricordava ogni suono e odore. Non c’era di certo da stupirsi di fronte alle continue assenze di suo padre.
Keiji non aveva nemmeno un fermo immagine, racchiuso in memoria, che potesse riguardare momenti di dolcezza vissuti dai i suoi genitori. Solo fugaci e forzate condivisioni di spazi domestici e qualche raccomandazione su eventuali faccende da sbragare. Automi di una società che pretendeva solo l’eccellenza.

Decise di risponderle, di rassicurarla; gli balenò per la testa l’idea di tornare da lei quello stesso pomeriggio, ma avrebbe necessitato di ulteriore tempo per accettare l’idea di varcare nuovamente quella soglia dopo tutti quei mesi di privazioni affettive. L’avrebbe sicuramente chiamata, questo glielo doveva. Saperla sola, devastata dagli eventi e consapevole di una realtà matrimoniale così scontata lo abbatteva ancor più del tormento che lo affliggeva per i doveri che aveva lasciato in sospeso in ufficio.
Ho lasciato troppe cose da terminare negli archivi... davvero troppe! Entro la fine di questa settimana tornerò in ufficio, non m’importa del parere della dottoressa. Dopotutto, ho bisogno anch’io di lavorare. Non posso di certo dipendere da Bokuto per il resto della mia vita. 
Non posso pretendere che le persone che amo possano volermi bene in eterno.

Tutto è il contrario di tutto, soprattutto a seguito di quella notifica pop-up che indicava il risveglio della personificazione dell’unica speranza che gli era rimasta.

“Hey, hey, hey! Buongiorno Keiji! Ti auguro una buonissima giornata!”

“Anch’io, Kō.”
 
 
 
 
Tienimi su quando sto per cadere
Tu siediti qui, parlami ancora se non ho parole
Io non te lo chiedo mai
Ma portami al mare, a ballare
Non ti fidare
Sai quando ti dico che va tutto bene così
E perdonami, sono forte, sì
Ma poi sono anche fragile…










 

Angolo dell’autrice


Ringrazio in anticipo tutti coloro che avranno voglia di leggere e recensire questa mia mini-long! :)

Capitolo 1: Nero.
E finalmente ho terminato questo primo capitolo carico di angst psicologico che spero che qualcuno riesca ad apprezzare all’interno di una fan-fiction (io lo adoro, ma ho tutta una serie di ragioni personali per farlo).
Dite che ho spremuto un po’ troppo il mio piccolo Keiji-kun?! Eh, lo so... un po’ lo penso anch’io. Ma questa mini-long sarà incentrata proprio sulla sua “nuova” vita nel post timeskip (avvertimento “Spoiler!” inserito).
L’Headcanon della famiglia poco presente e piuttosto restia nel voler accettare un figlio dichiaratamente innamorato del suo Bokuto-san non si decide a mollarmi neanche a pagarlo e... va bene così, perché per quanto mi dispiaccia far soffrire il mio favorite character, mi piace molto approfondire il tutto in questo senso.
Da quello che si può intuire da questo primo step, Akaashi è stato vittima di un crollo emotivo di cui parlerò meglio nei prossimi capitoli, quando lo ritroveremo a tu per tu con la già citata psicoterapeuta... e non solo.
Al momento l’idea è quella di restare sui 3, massimo 4 capitoli, considerando che il livello d’ispirazione – anche per altri fandom – è molto alto in questo periodo. Scrivendo a braccio, spero di riuscire ad aggiornare settimanalmente.
P.S.: “Mister Akaashi” è chiaramente il padre di Keiji. Ho deciso di non dargli un nome e di farvelo conoscere solamente attraverso i pensieri di Keiji e di Ayame, nome che ho deciso di mantenere ancora una volta per la mamma.
Stay tuned! ;)

Il titolo generale della mini-long riprende quello della nota canzone di Elisa ‘Anche fragile’ (della quale riporto la prima parte della prima strofa al termine del capitolo).
Il testo è scritto in terza persona e al tempo passato.

Grazie a tutti coloro che passeranno di qua! **

Al prossimo capitolo,

Mahlerlucia

 
 
 

 
   
 
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