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Autore: Evali    28/11/2020    1 recensioni
Un villaggio isolato, un popolo spezzato in due in seguito ad una terribile calamità, due divinità da servire, adorare e rispettare in egual modo: Dio e il Diavolo.
"- Io amo gli uomini.
- E perché mai io sono andato nella foresta e nel deserto? - replica il santo. – Non fu forse perché amavo troppo gli uomini? Adesso io amo Iddio: gli uomini io non li amo. L’uomo è per me una cosa troppo imperfetta.
- È mai possibile! Questo santo vegliardo non ha ancora sentito dire nella sua foresta che Dio è morto!"
Genere: Fantasy, Sovrannaturale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Arley Arley
 
NOVE ANNI PRIMA
 
- Dove stiamo andando, padre? – domandò il piccolo Blake mentre seguiva suo padre, scendendo le scalinate verso il seminterrato della loro abitazione, illuminate solamente dalla lampada ad olio che Rolland reggeva in mano.
- Lo vedrai presto, figliolo – lo rassicurò l’uomo con un sorriso, giungendo dinnanzi ad una porta chiusa a chiave, aprendola e facendosi da parte, per permettere a suo figlio di entrare per primo.
Quando Blake entrò dentro il luogo in cui suo padre si rinchiudeva la maggior parte del tempo che non passava insieme a lui e a sua madre, si guardò intorno incuriosito, dinnanzi alla stragrande presenza di oggetti e utensili, all’odore acre e penetrante e al buio reso lievemente meno intenso dalle lampade a olio che pendevano dal soffitto.
Suo padre usciva sempre da quel luogo con i capelli e il viso anneriti, facendogli costantemente domandare cosa lo sporcasse a quel modo. Quel giorno lo scoprì: carbone.
- Assomiglia alla bottega del fabbro ferraio – fu la prima cosa che il piccolo Blake disse a suo padre, poiché era quel che pensava.
Le risa di Rolland lo raggiunsero, mentre suo padre gli si avvicinava, gli poneva una mano sulla spalla e si guardava intorno con fierezza.
- Questo luogo è molto più attrezzato della bottega del fabbro ferraio, Even. Questo è il paradiso dei lavoratori e forgiatori di metalli. Ciò che un giorno diventerai anche tu, quando la galleria passerà nelle tue mani.
Quel giorno, suo padre gli insegnò a lavorare il metallo.
Rolland appariva ai suoi occhi come una sorta di dio dei metalli, mentre prendeva un pezzo di ferro, lo poneva nella fucina alimentata col carbone per arroventarlo e fonderlo, manteneva abilmente la fiamma accesa con il mantice, versava la colata nello stampo, e, una volta raffreddato, lo poneva sull’incudine con le tenaglie, per la fucinatura, per poi plasmarlo e smussarlo con accortezza, attenzione e potenza, tramite gli assordanti colpi di martello, dandogli, infine, la forma desiderata: in quel caso, uno splendido e resistente candelabro.
Rolland gli diceva sempre che serviva molta forza fisica e, al contempo, concentrazione e delicatezza, per forgiare i metalli.
I metalli permettevano di creare qualcosa di nuovo.
Qualcosa al quale solo l’uomo poteva dar forma.
Rolland gli aveva anche spiegato che ogni tipo di metallo ha bisogno di cure differenti, di essere maneggiato in maniera specifica, diversa dagli altri; per questo si doveva essere abili a dosarsi, a intuire e a comprendere con che tipo di materia si avesse a che fare.
L’immagine di suo padre, con i muscoli delle braccia e del petto tesi, mentre calava giù il martello stretto tra le mani con la stessa tempra con cui un angelo avrebbe fatto calare la sua ascia contro i suoi nemici, sottomettendo la materia al suo volere con forza, dedizione e vigore, illuminato dalle fiamme che scoppiettavano vicino ad esso, non sarebbe mai svanita dalla mente di Blake.
Con il tempo, Blake aveva imparato a destreggiarsi con invidiabile maestria nell’arte della forgiatura e della lavorazione dei metalli, autonomamente, usufruendo di quel seminterrato buio, sporco e rovente in assenza di suo padre, la maggior parte delle volte.
A dieci anni aveva già imparato a forgiare da solo pentole, utensili di ogni tipo e persino armi.
Il carbone gli restava impregnato addosso come una seconda pesante pelle ogni volta che usciva di lì, talvolta persino più di quanto facesse la terra e la polvere ogni volta che metteva piede fuori dalla galleria.
Con il tempo, il ragazzo ebbe modo di lavorare anche con metalli tossici e malleabili come il piombo.
Grazie alle sue lunghe ed impegnate letture, contravvenendo ad ogni regola imposta a Bliaint che voleva coloro che compivano lavori manuali completamente incolti e analfabeti, Blake era venuto a conoscenza delle oscure leggende sull’alchimia e sugli uomini che osavano praticarla. Allenò la sua mente allo stesso modo in cui allenò il corpo in quella pratica, la quale nascondeva molti più segreti e sfaccettature di quanto si sarebbe mai aspettato. In uno di questi libri aveva letto qualcosa riguardante la trasmutazione dei metalli, nonché la mutazione dell’essenza di un metallo in quella di un altro: gli alchimisti avevano iniziato a praticarla nel tentativo di trasformare il piombo in oro e, credendo a tale diceria, i nobili e i principi avevano provato ad imprigionare alcuni di loro, costringendoli ad arricchirli con l’inganno. Tuttavia, secondo quegli scritti, l’unico modo per praticare la trasmutazione era tramite l’ausilio di una certa pietra filosofale, una pietra capace di risanare la corruzione della materia. Da quel che sapeva Blake, nessuno aveva mai avuto la fortuna di trovarla, sempre che fosse davvero esistita. D’altronde, secondo le leggende, le altre due proprietà di quella pietra miracolosa, oltre a quella di trasformare i metalli “profani” in oro, sarebbero dovute essere il dono dell’onniscienza e niente meno che la vita eterna.
A Blake era sempre risultato parecchio difficile credere a quella leggenda.
Coloro che avevano tentato di praticare la trasmutazione senza la pietra filosofale avevano fallito miseramente.
Tuttavia, al ragazzo non interessava minimamente arricchirsi.
La sua curiosità senza fine richiedeva di essere dissetata strenuamente, e il suo interesse per la “creazione” non si sarebbe esaurito facilmente, anzi, avrebbe continuato ad autoalimentarsi, a prescindere da cosa avrebbe scoperto.
Oramai conosceva ogni singola proprietà dei metalli che aveva contribuito ad estrarre dalla galleria.
Tuttavia, quando suo padre aveva scoperto che le commissioni per la forgiatura di utensili e di altri oggetti non erano l’unica attività che si adoperava a praticare Blake dentro la sua attrezzata fucina, gli aveva vietato di entrarci senza il suo consenso.
Per evitare di agitare ancor più gli animi in famiglia, la quale già era abbastanza colpita dal grave malanno di Ioan, Blake aveva deciso di non violare quel divieto.
Ciò era avvenuto quasi un anno prima, al termine dei suoi quindici anni e alla soglia dei sedici.
Nel frattempo, aveva avuto modo di addentrarsi nel complesso mondo dei cristalli, anch’essi estratti dalla galleria, e su altri minerali che avevano attirato il suo interesse.
Poi, aveva trovato quel frammento dal magnetico colore grigio scuro-bluastro che lo aveva tanto inspiegabilmente attratto, e la curiosità e la voglia di sperimentare si erano riaccese in lui, tormentandolo, poiché restarono insoddisfatte.
Ed ora … ora si ritrovava in una casa bellissima e luminosa, grande il doppio della sua, e cosparsa di oggetti di grande valore, mentre, nel seminterrato, proprio come a casa sua, lo attendeva una fucina, la quale, tuttavia, non era attrezzata e imponente neanche un decimo di quella di suo padre.
Un’abitazione tanto incantevole e confortevole, alla quale sottostava una fucina che sembrava il fondo di una grotta abitata da cavernicoli, provvista solamente di quella che sarebbe stato un vero insulto chiamare una “piccola fornace” e di un minuscolo tavolo da lavoro. Almeno, il Giudice aveva avuto l’accortezza di procurargli il minimo indispensabile che Blake aveva chiesto di reperirgli: un martello, un mastice, delle tenaglie e del carbone a volontà.
Quell’uomo non badava a risparmi, quando si trattava del suo piacere personale.
Il ragazzo si chiese se qualcuno dei fedeli di Carbrey, per lo più contadini che vivevano in poco più che topaie come Selen, avesse mai messo piede nella casa del loro gran sacerdote che tanto adulavano.
Probabilmente sì, e giustificavano tanto lusso con l’importanza che la figura dell’uomo ricopriva per il loro Signore e Creatore, meritevole di ogni sorta di agio.
Era trascorsa una settimana da quando il Giudice lo aveva rinchiuso in quella reggia in miniatura, donandogli ogni genere di cura e di agiatezza, trattandolo quasi come un ospite: aveva un morbido letto tutto per sè, una latrina personale, abiti puliti, aveva il permesso di girare per tutta la casa quanto e quando voleva, degli abbondanti pasti con cui allietare lo stomaco, e la libertà di spostarsi dalla fucina all’abitazione con i ritmi e i tempi che desiderava.
Un “ospite”.
Un ospite rinchiuso, forzato a lavorare per lui, per renderlo spropositatamente ricco, e con un taglio alla gola che avrebbe impiegato forse secoli a guarire. Un taglio che lui gli aveva procurato, con la consapevolezza che, molto probabilmente, la cicatrice che sarebbe rimasta a marcargli la pelle per il resto della sua vita, sarebbe stata tanto grande ed evidente da rimembrargli costantemente ciò a cui egli lo aveva costretto.
Ad ogni modo, il Giudice non era indisposto per il fatto che, dopo una settimana, il suo schiavo personale non fosse ancora riuscito a trasformare tutto quel piombo in oro, causa l’iniziale assenza di materiali e la ferita al collo che sembrava non migliorare nonostante le costanti e giornaliere visite del medico.
Dal quinto giorno, la gola aveva iniziato a smettergli di sanguinare, la fasciatura era quasi pulita ad ogni cambio che il medico gli applicava insieme alle erbe guaritrici.
Il dolore oramai, non lo sentiva più, ed era convinto non lo avrebbe sentito neanche se quel vecchio dalla mano di seta gli avesse cosparso il taglio di mercurio incandescente, invece che di erbe.
La sua rabbia nei confronti di Selma e del salvataggio tattico per non scalfire il proprio orgoglio e per redimersi l’ultima strascicante ombra di coscienza rimastale, attuato per fargli scampare l’esecuzione, ancora non era scemata, e mai lo sarebbe stata.
Quella donna aveva mentito spudoratamente, sapendo che egli non fosse capace neanche la metà di quanto ella aveva spacciato al Giudice, ritraendolo come il più dotato e prestigioso degli alchimisti esistenti in occidente.
Ella sapeva che lui non sarebbe mai stato in grado di tramutare il piombo in oro. Probabilmente, neanche lei credeva fosse possibile, a meno che non riponesse una fiducia immotivata ed esagerata nelle potenzialità celate del ragazzo, ma quest’ultimo dubitava fortemente si trattasse della seconda ipotesi.
Selma aveva semplicemente agito d’impulso, essendo quello l’unico modo per persuadere l’avidità impersonificata dinnanzi a lei, facendo leva sul suo punto debole.
Ed ora, Blake si ritrovava disgraziatamente in quella situazione senza via d’uscita, per colpa di quella donna semi sconosciuta, la quale, sicuramente, in quel momento se ne stava stravaccata con uno sguardo compiaciuto, convinta di avergli fatto un favore.
La teoria più accreditata nella mente del ragazzo, era che ella fosse già sulla strada verso casa, di ritorno a Bliaint, felice di essersi tolta di dosso l’inconveniente del “cacciatore di polvere nera”.
Quanto profondamente la odiasse, non era realmente quantificabile.
Ad ogni modo, ora che non aveva più scuse per rimandare il suo “compito”, avrebbe dovuto inventarsi qualcosa in fretta per scampare da quella gabbia dorata e riguadagnarsi la sua libertà.
Provare a scappare era fuori discussione, poiché le finestre erano state appositamente serrate dal Giudice, Blake aveva già tentato, e l’unica porta era sbarrata, accuratamente sigillata ogni volta che il padrone di casa o il medico, gli unici due che mettevano piede lì dentro, entravano o uscivano dalla casa.
Il ragazzo curiosò distrattamente in giro, camminando per lo spazioso salotto, illuminato dalla luce fioca che penetrava dalla finestra e dalle fiamme che scoppiettavano nel camino, provando quel tepore confortevole al quale oramai si era abituato, e che gli permetteva di restare vestito in abiti leggeri.
Inclinò la testa per osservare meglio uno dei tanti scrigni aperti che decoravano la mensola sopra il caminetto. Al suo interno svettavano diversi ciondoli di crocefissi, ma quello non fu il dettaglio che attirò l’occhio del ragazzo: su ogni scrigno, su ogni vaso, su ogni candelabro, su ogni anello, e addirittura su ogni bottone delle tuniche del Giudice, erano incastonati dei lucenti e particolarmente brillanti cristalli verdi, che Blake riconobbe subito. Si trattava di fluorite, uno dei cristalli più rari, belli e preziosi di tutta la vallata.
Improvvisamente, la porta della casa si aprì, rivelando la figura del Giudice che entrò, togliendosi il pesante mantello di pelliccia e posandolo sull’appendiabiti di legno di quercia. – Oggi avrò un ospite – lo avvertì immediatamente con la sua voce autoritaria, in grado di trasmettere tutto ciò che voleva trasmettere solo con quattro parole: l’uomo sapeva che Blake sapesse che non sarebbe servito a niente far notare la sua presenza come prigioniero in quella casa ad un qualsiasi cittadino di quel villaggio, poiché la sua situazione non sarebbe mutata. Per tale motivo aveva pronunciato quell’informazione con tanta tranquillità e senza alcuna urgenza nella voce.
Il Giudice era un uomo sicuro di sé e dei propri giudizi, Blake lo stava cominciando a comprendere sin troppo bene.
Come preannunciato, si udì il rumore delle nocche bussare alla porta; segnale che spinse Blake a nascondersi dietro alla parete più vicina, poggiando la schiena al muro, con le orecchie aguzzate verso l’entrata.
- Prego, entrate, figliola – disse il Giudice cordialmente, facendo entrare in casa l’ospite.
- Grazie, Giudice – rispose una voce che Blake riconobbe bene.
Cosa ci faceva Selen a casa del Giudice? Voleva chiedere pietà per Austen?
- So per quale motivo siete qui. Posso offrirvi un infuso caldo?
- Oh, no, grazie, Giudice, siete molto gentile – declinò gentilmente la donna, con evidente urgenza nella voce. - Non avete ancora trovato prove per dimostrare che Austen abbia ucciso Isa. Lo avete detto voi – cominciò ella, speranzosa. – Per quanto ancora dovrà restare imprigionato…?
- Fin quando non avremo le prove necessarie – rispose freddo l’uomo.
- Ma … ma, gran sacerdote, lui non ha …
- Non vorrei che la rimandata esecuzione del figlio del Diavolo di Bliaint che ospitavate in casa vostra vi abbia illusi che i miei metodi di giudizio siano diventati più flessibili – la interruppe il Giudice con fermezza. – Non voglio vi siano fraintendimenti, Selen. Farò giustiziare quel ragazzo ben presto. La flessibilità e la misericordia nei confronti di coloro che meritano di essere puniti dal nostro Signore tramite la morte non porterebbe a nulla di buono, anzi.
Vi fu un sospiro semi esasperato da parte di Selen. – Lo so, Giudice, lo so bene. Posso comprendere i motivi che vi abbiano spinto a condannare Blake. Tuttavia, il reato per il quale è accusato mio figlio non è …
- Basta così. Non voglio sentire altro. Non appena avrò trovato le prove necessarie ad incastrarlo, vostro figlio verrà impiccato. Fine della questione. Ora, vi prego di tornare a casa, Selen.
Vi fu una pausa e nessun altro suono, neanche quello delle suole delle scarpe della donna che lasciavano la casa. Blake poggiò anche la testa sulla parete dietro di sé, attendendo.
- Mio signore … – riudì la voce di Selen dopo qualche minuto. – Siete ferito? – chiese con una strana punta di sospetto nella voce.
- No, perché mai lo domandate?
- Vi sono delle bende pulite e delle erbe medicinali sparse sugli scaffali.
A quanto pareva, una delle pecore aveva notato un dettaglio che non avrebbe dovuto notare. Blake accennò un sorriso divertito nell’udire la palpabile difficoltà del Giudice dinnanzi a quel particolare.
- Sì, in realtà mi sono ferito qualche giorno fa alla gamba, mentre alimentavo il fuoco. Nulla di grave. Vi auguro buona giornata, Selen.
Terminata quella breve visita, Blake udì la voce del Giudice diretta a lui. – Ho portato un cesto di tuberi, pagnotte e zampe di gallina, per il pranzo.
Per qualche motivo a lui sconosciuto, il Giudice gli chiedeva sempre di unirsi a lui per il pranzo, quasi come se, ironicamente, apprezzasse una compagnia silenziosa mentre si riempiva la pancia.
Quando si sedettero a tavola, con i piatti caldi e fumanti dinnanzi al naso, il Giudice alzò il volto su di lui. - Avete bisogno che vi procuri qualcos’altro per adempiere al vostro compito? – gli domandò calmo.
A ciò, Blake vi pensò su. Niente avrebbe potuto servire allo scopo di trasformare del piombo in oro, ma, nella posizione in cui si trovava, avrebbe potuto sfruttare quella funzionale serviziovolezza a suo vantaggio.
Improvvisamente, gli tornarono in mente le suppliche di Selen di poco prima: a breve, un ragazzo innocente sarebbe stato impiccato pubblicamente. I fluidi corporei degli impiccati, condannati seppur innocenti, colati sul terreno, generavano una pianta in particolare.
L’immagine della mandragora che aveva sradicato da dentro la galleria gli piombò dinnanzi agli occhi con violenza.
Sì, era molto probabile che altri innocenti fossero stati condannati prima di Austen a Carbrey; di conseguenza, era probabile vi fossero delle mandragore che stavano crescendo furtivamente sotto quel terreno.
La mandragora che aveva trovato lui era già stata sradicata, usata e seppellita in precedenza.
Ora, invece, aveva l’occasione di ottenere un mandragora “viva”, immacolata e inutilizzata, dunque dagli effetti molto più prevedibili e diretti.
Molto probabilmente, un’occasione del genere non gli sarebbe mai più capitata.
Blake prese il blocchetto che gli aveva dato il Giudice e vi scrisse sopra qualcosa, per poi mostrarlo all’uomo:
- “Mandate qualcuno di vostra conoscenza, qualcuno di cui vi volete liberare in segreto, nel campo in cui vengono eseguite le condanne, assicurandovi non vi sia nessun altro nei dintorni. Fatelo scavare laddove la superficie del terreno appare instabile, fin quando non scorgerà delle foglie di mandragora sporgere da esso. Mi serve la mandragora per velocizzare il processo” – lesse il Giudice, rimanendo scosso.
No, la voce non era ancora tornata al ragazzo, nonostante fosse trascorsa una settimana.
Il medico diceva fosse normale, che servisse pazientare altri giorni per aspettare che anche la voce risorgesse da quella gola martoriata, perciò, da quel giorno, Blake comunicava con il suo carceriere tramite quel blocchetto.
- Che significa?? Nella mia terra crescono delle mandragore? Per “mandragora” vi riferite a quella mandragora …? La funesta pianta umanoide che uccide con il suo urlo?? Non posso sacrificare una vita innocente per accontentare voi!
A quella risposta, Blake accennò un sorriso pungente e provocatorio, riprendendo a scrivere, per poi mostrare nuovamente il foglio al Giudice.
- “Primariamente, avete condannato decine di innocenti da quando avete ottenuto la vostra carica, dunque condannarne un altro non vi cambierà la vita. Vi ho già detto che potete scegliere voi di chi liberarvi.
Secondariamente, non state accontentando me, ma voi stesso. Dimenticate di chi sono prigioniero in questo momento e a chi sono costretto a donare i miei servigi. Se non mi procurerete la mandragora impiegherò molto più tempo a terminare il mio compito, ve lo garantisco” – terminato di leggere, il Giudice lo guardò truce. – Immagino che, ora come ora, come unica scelta io possa solamente fidarmi delle vostre parole.
Blake sorrise in risposta, sapendo di aver fatto un piccolo passo avanti verso la vittoria.
 
DIECI ANNI PRIMA
 
- Apri gli occhi, chiudi gli occhi, oh mia piccola dolce Arley Arley … - era solita canticchiarle Livian mentre le pettinava i capelli rossi, mentre la piccola Judith era seduta su una sedia, davanti allo specchio, facendo penzolare le gambe avanti e indietro.
La voce di sua madre era ciò che di più soave avrebbe mai avuto modo di sentire.
- Oh, Arley, mia dolce Arley … - le sussurrava con dolcezza, continuando a pettinarla con dedizione, sorridendole con quel sorriso che riusciva ad illuminare l’intera stanzetta in cui vivevano, per quanto fosse piccola e polverosa.
Piccola e polverosa, ma piena di cose, piena di loro.
Ricordi sfocati continuarono ad affacciarsi alla sua mente.
- Arley, Arley, non guardare … - le sussurrava sua madre, mentre veniva sovrastata dalla soffocante presenza del vecchio uomo, l’unico e il solo con il quale la piccola l’aveva vista, mentre restava ad osservare la scena da lontano.
Aveva sempre saputo che sua madre, Bernadette Livian, fosse la persona più dolce, gentile, onesta e misericordiosa al mondo.
Per tale motivo ricordava distintamente di essersi chiesta più volte da chi avesse preso quel carattere distaccato, calcolatore ed estremamente razionale.
Si sentiva cattiva, se messa in confronto a sua madre.
Tutti sembravano perfidi, se confrontati con lei.
Oltre a quello, ricordava che da piccola si chiedesse spesso come mai quella stanzetta fosse sempre così piena di polvere, nonostante la spolverassero ogni giorno.
- Perché questa stanza è sempre piena di polvere? – chiedeva a volte a sua madre.
- Chi è il mio papà? – le domandava molto più spesso.
- Il mio papà è lo stesso che viene qui ogni giorno e sale sopra di te con brutalità, anche se tu non vorresti? - le chiese un giorno, sapendo benissimo chi fosse quell’uomo, vecchio e assetato di sua madre, dal quale, disgraziatamente, aveva ereditato gli stessi occhi neri, vuoti e penetranti. Tuttavia, la bambina non voleva mai chiederlo direttamente ad alta voce.
Una sola volta lo fece: - Il mio papà è anche il tuo papà, mamma?
Livian l’aveva guardata con il suo perenne sorriso, macchiato di un velo di dolore, che le deformava i bei lineamenti del volto troppo magro. – Vedrai, mia dolce Arley. Ben presto troverò un bravo ragazzo con il quale sposarmi, buono e premuroso, che saprà prendersi cura di noi, e ce ne andremo di qui. La nonna ci aiuterà a trovarlo – le aveva risposto stringendola a sé sotto le coperte sottili del materasso che condividevano, troppo leggere per far fronte al freddo del rigido inverno.
Sotto il cuscino, come unico tesoro ad ornare quel buco pregno di loro, sua madre conservava gelosamente un vecchio libro, appartenente alla sua bisnonna, oramai rovinato e consunto, nel quale la loro antenata annotava brevi incantesimi facili da compiere, e ingredienti per alcuni intrugli magici.
Quel libro, talvolta, veniva letto e sfogliato anche da sua nonna, la quale entrava nella loro stanza, presa da un’improvvisa nostalgia, di tanto in tanto, e leggeva quel libro.
La mamma di sua mamma era una donna ancora bellissima nonostante l’età, e Judith sapeva che doveva essere stato proprio da lei che aveva ereditato la sua voluminosa chioma cremisi.
Tuttavia, il nonno sembrava preferire sua figlia, piuttosto che sua moglie.
E ogni notte e ogni mattina, egli si recava in quella stanzetta piena di polvere per fare di lei ciò che desiderava, senza venire rifiutato. In cambio, il vecchio le lasciava sempre un sacchetto di monete d’argento sul comodino una volta finito, tramite il quale Livian riusciva a comprare tutti i cibi che piacevano tanto alla sua bambina.
L’unico svago che avevano, era la cucina. Ogni quanto potevano, le tre donne delle tre diverse generazioni, si riunivano nella cucinetta modesta della casa e cucinavano insieme, nonna, madre e figlioletta.
In quei giorni che Judith ricordava come meravigliosi, squarci di luci in un cielo plumbeo, sua mamma tornava a casa dopo aver trascorso tutta la mattinata al mercato e aver speso tutti i soldi che il vecchio le lasciava, con almeno tre sacchetti tra le mani, colmi di pietanze dal buonissimo profumo, e un sorriso che le arrivava da zigomo a zigomo.
La nonna non era arrabbiata che suo marito preferisse sua figlia a lei, nonostante Livian aveva paura che lo fosse.
Livian non sapeva leggere, né scrivere, dunque non poteva insegnarlo a sua figlia.
L’unico libro che fosse in grado di leggere, a fatica, era il libro di incantesimi della bisnonna.
Quel giorno, il giorno in cui la sua bellissima ed eroica mamma fu imprigionata, Judith lo aveva ben impresso nella sua mente.
Tuttavia, la bambina di sei anni che era allora non avrebbe potuto far nulla per impedire che gli eventi prendessero la piega che avevano preso.
Il suo vecchio nonno era, per l’ennesima volta, sopra il corpo di sua madre.
La schiacciava, sospirava contro di lei, sudava su di lei, e spingeva impetuoso, stringendole le cosce con le dita rese callose dal duro lavoro che Judith non scoprì mai quale fosse.
 Judith restava seduta sulla sedia, a distanza, come sempre, osservando quella scena oramai abitudinaria, in silenzio, poiché la sua mamma le chiedeva sempre di far silenzio quando il vecchio andavo loro a far visita.
Se Judith non avesse fatto la brava e non fosse rimasta zitta e buona, immobile come una statua, il nonno non avrebbe lasciato loro alcuna moneta per comprare gli ingredienti delle loro succulente ricette.
In quei momenti, la nonna non si vedeva mai.
Quel giorno, tuttavia, il vecchio era più violento del solito, lo capì dai gemiti di dolore maltrattenuti di sua madre, la quale stringeva con le dita sbiancate il lenzuolo umido e sporco sotto di lei.
Improvvisamente, Judith notò del sangue cominciare a macchiare le coperte, sotto il bacino di sua madre.
Prima che potesse rendersene conto, a differenza delle altre volte, la nonna spalancò la porta ed entrò dentro la stanza, saltando come una faina sopra il letto, avventandosi sul corpo di suo marito, alle spalle, mentre pronunciava una formula in una lingua che Judith non riconobbe.
Capì immediatamente si trattasse di una formula contenuta nel libro della bisnonna.
Le uniche parole nella lingua comune contenute in quel maleficio che la donna stava lanciando con ferocia contro suo marito, erano “impotenza” e “sterilità”.
Dopo di che, vedendo che, nonostante tutto, l’uomo non aveva alcuna intenzione di staccarsi dal corpo nudo di sua figlia, sconvolta e dolorante, Judith vide sua nonna afferrare un cuscino e premerlo brutalmente sulla faccia del nonno, spingendolo a sdraiarsi indietro, sovrastandolo.
Il vecchio si ribellò per un po’, poi cedette per mancanza d’aria, morendo.
Quando la nonna si accorse di ciò che aveva appena fatto, abbracciò sua figlia stretta a sé, rassicurandola, sussurrandole che, d’ora in avanti, egli non le avrebbe mai più fatto del male.
- Dobbiamo seppellirlo … - cominciò a ripetere Livian mentre ricambiava l’abbraccio e tremava ancora. - Dobbiamo seppellirlo prima che lo trovino …
- Ci penso io – la rassicurò la nonna.
- No. Non hai invocato il nostro Signore, mamma … - esalò Livian terrorizzata, staccandosi da sua madre, rivolgendole uno sguardo raggelato. – Nella foga del momento, hai dimenticato di invocare il nostro Signore per compiere il tuo maleficio … e se qualcuno ti avesse udita??
- Livian … non potevo pensare di ringraziare il Signore in un momento simile …
- Esercitare la magia nera autonomamente e senza l’aiuto del nostro Signore è peccato punibile con il rogo!
- Che cosa facciamo ora?
- Il Signore ci punirà se non confessiamo ciò che abbiamo fatto …
- Ciò che io ho fatto … - la corresse la nonna, in lacrime.
- Mi prenderò la colpa. Mi hai salvata, madre, meriti di vivere più di quanto lo meriti io …
Dirò di esser stata io a non aver invocato il nostro Signore per usufruire della magia nera …
- Ma morirai al rogo in questo modo! Livian, non ti permetterò di farlo!
- Va’ via, madre! Fuggi da Bliaint!

- E Judith?
- Arley Judith resterà qui, i monaci sapranno prendersi cura di lei. Là fuori è troppo pericoloso per una bambina … lei resterà qui … con me … anche quando me ne andrò … la mia Arley - sussurrò la sua mamma, voltando lo sguardo frastornato e stralunato verso di lei, sorridendole stravolta e felice insieme.
Fu l’ultima volta che le sorrise.
Quei ricordi, tuttavia, riapparivano solo di tanto in tanto, come se la sua mente volesse seppellirli e relegarli da qualche parte. Il solo pensiero che il proprio concepimento fosse stato frutto di violenza incestuosa, le aveva provocato tremendi incubi per anni, costringendola ad autoconvincersi di non ricordare più nulla.
Ed ora, ora che una delle streghe ribelli la stava trascinando per i capelli e la stava gettando a terra con irruenza, mentre l’altra stava facendo lo stesso con Naren, quei ricordi ricomparvero improvvisi e inaspettati.
- Avete visto, monaci del Creatore?!? – aveva esclamato Beitris raggiungendo anch’essa la cattedrale del Creatore, l’unica inviolata, ancora per poco, mentre Judith e Naren venivano trascinati dentro a loro volta.
Tutti i monaci del Creatore presenti nel salone principale impietrirono spauriti, all’udire la voce rauca e delirante della ragazza. – La vostra pupilla servitrice del Diavolo intrattiene una relazione proibita con un servo del Creatore! Un peccato punibile con il rogo immediato!! – esclamò Beitris, volgendo uno sguardo disgustato a Judith, costretta a rimanere inginocchiata sul pavimento freddo. – Ma voi non vi siete accorti di nulla, giusto…? Voi avete voltato lo sguardo altrove mentre questi due consumavano il loro desiderio proibito, preferendo legare e bruciare su quel soppalco dei ragazzi innocenti!!
- Non potete dimostrarlo! – esclamò Judith, ricevendo un poderoso schiaffo in faccia da Beitris in risposta.
- Ferma! – irruppe la voce ferma di Myriam, la quale scese la scalinate in quell’esatto istante, con le mani strette a quelle dei gemelli.
A quella vista, gli occhi di Beitris si animarono, cominciando a brillare, mentre ella si fiondava su di loro, abbracciandoli e stringendoli a sé.
- Togliete loro le mani di dosso! – gridò la voce di padre Cliamon, raggiungendoli a sua volta, venendo immediatamente bloccato dal pugnale di Beitris che si puntò pericolosamente sulla sua gola.
Intanto, come un felino intento a fiutare qualcosa, Myriam si era avvicinata a Judith con fare sospettoso, interessato e criptico, prendendo a girarle intorno.
La donna si abbassò immediatamente su di lei e le premette una mano sul ventre con forza, facendola gemere di dolore.
- Per così tanti anni ho tentato … in ogni modo, sacrificando ogni cosa … ho tentato invano.
Voi, invece, lo avete avuto senza volerlo. Lo leggo nei vostri occhi che non lo volete.
Non è vero?
Quelle parole fecero immobilizzare tutti, Beitris e Naren compresi.
- Aspetta un bambino? Ella aspetta un bambino da questo servo del Creatore …? – le domandò conferma Beitris trattenendo il suo riso divertito e isterico.
- Non so di chi sia – esalò Myriam granitica, continuando a mantenere il contatto visivo con Judith e a premere la mano sul suo ventre fertile. – Ma se fosse di quel ragazzo … sarebbe il primo bambino nato da una coppia mista a Bliaint, dopo secoli dalla divisione di Allister Chaim.
I monaci sbiancarono a loro volta.
- Ve lo ripeto di nuovo: non avete prove che io e costui ci siamo uniti sessualmente – rispose imperterrita Judith, esprimendo ferma convinzione nella voce. – Dunque non avete prove che il bambino sia suo. Poiché non è suo.
Naren perse l’uso della parola, troppo sconvolto dalla notizia della gravidanza della sua amata per riuscire a pensare ad altro.
- E di chi è, dunque? Voglio un nome – le intimò Beitris riavvicinandosi a lei, puntandole la lama del pugnale sul petto.
- L’unica cosa che so è che è stato concepito con un uomo del mio stesse credo – rispose prontamente Judith.
- Se ne siete così certa, allora diteci il suo nome.
- Non lo so.
- Non lo sapete??
- Ero incosciente. Nessun servo del Creatore era presente quando il concepimento è avvenuto. Posso garantirvelo.
- Vi riferite alle celebrazioni di settimane fa, in cui tutti abbiamo perso coscienza? È avvenuto lì? – domandò nuovamente Beitris.
Judith annuì.
- Ha ragione – confermò seccata la strega dai capelli corvini, dopo qualche minuto di pausa. – Ero presente anche io e non vi era alcun servo del Creatore alla celebrazione.
Internamente, sia Judith che Naren tirarono un lungo sospiro di sollievo, non azzardandosi a guardarsi neanche per un secondo.
- Non credete di averci illuso che non abbiate commesso il peccato peggiore contro le leggi di Bliaint – esalò Myriam, spostando le iridi magnetiche dall’uno all’altra. – Sappiamo cosa avete fatto. E ringraziate che ora entrambe le cattedrali siano sotto la nostra giurisdizione e non sotto quella dei monaci a cui lucidate scettri e mantelli. – Detto ciò, gli occhi di Myriam virarono inconsciamente su padre Cliamon, il quale sembrava non aver mai scostato davvero gli occhi dalla sua figura.
- Ci conosciamo, vecchio monaco? – gli domandò con calma la donna, avvicinandoglisi, scrutandolo.
L’uomo distolse lo sguardo e lo riportò sui gemelli, mentre Myriam seguiva ancora con minuziosità i suoi movimenti. – Sembrate molto legato ai nostri due topolini – osservò, per poi portare gli occhi su Maroine e Maringlen a sua volta.
- Ditemi, faccine d’angelo: cosa volete che ne faccia di loro? – domandò la strega, puntando la lama sul petto di Judith, mentre li guardava in attesa.
- A lei e a padre Cliamon no, non fate loro del male – la fermò Maroine, per poi voltare lo sguardo su tutti gli altri monaci. – Di loro, invece, potete fare quello che volete.
A ciò, Maringlen si avvicinò ad uno dei tanti monaci inginocchiati a terra, piegati dal terrore, accovacciandosi per essere allo loro altezza e sorridendo sprezzante. – “Guarda, guarda, delle bestioline serve del Creatore, piegate a terra a piangere chiedendo pietà. Nessuna grande novità, a quanto vedo. Fosse per me, li lascerei morire di fame. Il rogo li consumerebbe troppo presto, mentre la fame … li farebbe impazzire.”
Altri ricordi colpirono la memoria di Judith, mentre osservava il tutto a distanza, come rinchiusa in una campana di ferro.
- Perché questa stanza è sempre impolverata, mamma?
- Perché è piena di cose, Arley, piena di noi.
 
L’odore intenso e soffocante di piombo fuso aveva oramai impregnato il minuscolo seminterrato.
Il ragazzo continuò a spingere su e giù energicamente e con la sola forza delle braccia il mantice dalla forma a filarmonica, il quale alimentava il focolare della fornace con il suo flusso d’aria continuo, contribuendo a velocizzare la fusione del piombo.
Il fumo nero provocato dal carbone tra le fiamme gli si era attaccato ai vestiti e alla pelle come sempre, annerendogli il viso, i capelli e le braccia lasciate scoperte dalle maniche leggere tirate su.
Ricordava distintamente nella mente quali cure necessitava un metallo come il piombo.
Quel colore grigio scuro e bluastro che somigliava tanto al frammento di minerale che non riusciva mai a smettere di guardare.
Si sforzò di scavare, ancora e ancora, nella sua memoria, per ricavare qualcosa di minimamente utile da sapere sul piombo, per la trasmutazione: opaco allo stato solido, lucido quando è prossimo alla fusione, tossico, impregnante, resistente alla corrosione, tenero, denso, duttile.
Nulla di realmente utile.
E l’oro? Blake aveva avuto modo di lavorare solo una o due volte l’oro, poiché le commissioni che ricevevano a Bliaint richiedevano prevalentemente l’uso e la lavorazione dell’argento, piuttosto che dell’oro.
Ricordava solo una volta, quando aveva dovuto trasformare delle pepite d’oro in una statuetta raffigurante un crocefisso.  
Giallo intenso e luminoso allo stato naturale, di colori vari se lavorato, quasi totalmente immune all’ossidazione, il metallo più duttile e malleabile in assoluto, facilmente amalgamabile con altri metalli, specialmente col mercurio.
Il più bello, puro e desiderabile, agli occhi dei più.
Di nuovo, nulla di utile.
Continuò a provocare potenti flussi di aria con il mantice, spingendo su e giù, con rabbia.
Stanco di scervellarsi, si tirò su e, notando che il carbone fosse già quasi totalmente consumato dalle fiamme, ne inserì altro, vedendo le lingue di fuoco alzarsi come bocche ingorde nella fucina, man mano che aggiungeva quelle pesanti rocce nere la cui essenza gli stava penetrando anche nell’anima.
- Qui dentro non si respira … - udì quella voce sgradita da dietro le spalle, lievemente distorta dal rumore delle fiamme, del carbone e del piombo arroventato.
Il padrone di casa era sceso a sporcarsi le mani e gli abiti di seta e velluto?
Non si voltò neanche per vederlo avvicinarsi a sé, mentre lo ascoltava tossire.
- Come fate a rimanere qua dentro? – gli chiese sinceramente perplesso il Giudice, nonostante sapesse che egli non potesse rispondergli a voce.
- Immagino per abitudine – si rispose da solo, mentre Blake continuava a smuovere il carbone con le pesanti tenaglie.
- Come mai macchia così tanto? – gli domandò, osservando la pelle e i capelli del ragazzo anneriti dal carbone, interessato quanto lo sarebbe stato un bambino curioso e capriccioso.
Evidentemente voleva davvero conoscere la risposta alla sua domanda, pensò il ragazzo, dato che gli venne porto dal Giudice il blocchetto, accompagnato dal carboncino.
A ciò, Blake smise di smuovere i frammenti di carbone, si voltò a sua volta verso di lui, afferrò il blocchetto e scrisse controvoglia, annerendo anche il foglio, di conseguenza.
- “Per il catrame e la pece che produce” – lesse il Giudice, vedendo Blake scrivere qualcos’altro col carboncino.
- “Cosa siete venuto a dirmi?” – lesse. - Nulla in particolare – gli rispose.
Blake scrisse di nuovo. - “Per quale motivo siete sceso, allora?” – il Giudice accennò un sorriso. - Per controllare a che punto foste e per riferirvi che sono riuscito a sradicare e a portarvi una mandragora, come mi avevate chiesto. Avevate ragione, vi sono delle mandragore nella mia terra. L’ho appoggiata sul vostro letto, di sopra. Ora che avete anche quella, mi auguro che il procedimento che vi porterà a compiere la trasmutazione sarà molto velocizzato. Confermate?
Quel tono, quella pretesa, quella voce saccente e piena di sé.
Contro ogni suo proposito, Blake si sentì ribollire le vene sotto pelle e strinse istintivamente le tenaglie tra le dita della mano.
Avrebbe potuto infilzargliele nel collo o nel petto senza fatica, se solo avesse voluto, ed essere libero.
D’altronde, chi gli garantiva davvero che egli avrebbe mantenuto la parola di lasciarlo libero, nel remoto caso in cui fosse riuscito nel miracolo di dargli ciò che gli aveva chiesto e che tanto bramava?
I fumi velenosi che stavano invadendo la stanzetta gli stavano dando alla testa.
- Cos’è, volete usare quelle per uccidermi? – domandò il Giudice, sorridendo con tronfia convinzione mentre osservava le dita del ragazzo stringersi intorno al manico delle tenaglie. – Fate pure – lo incoraggiò impudente. – Avete avuto altre innumerevoli occasioni di farlo durante la settimana trascorsa qui, ma non lo avete mai fatto. D’altronde, siete più alto e prestante di me, ci sareste riuscito con facilità. Allora perché non lo avete fatto prima, Blake? Per non avere una vita sulla coscienza?
Una vita in più o una vita in meno non cambierebbe nulla ora.
Ho condannato uno sconosciuto ad una morte insensata solo per il desiderio di possedere una mandragora.
Non ho mai avuto davvero modo di farmi scrupoli di coscienza.
Tuttavia, la morte di un personaggio tanto amato, famoso e stimato come voi nel vostro villaggio attirerebbe troppo l’attenzione, e anche se avessi il tempo di scappare, gli abitanti di Carbrey mi inseguirebbero fino in capo al mondo per vendicarvi.
- Oh, no, non è per questo – continuò il Giudice avvicinandoglisi maggiormente. – Voi restate qui perché volete scoprire fin dove riuscite a spingervi … usate la mia brama di arricchirmi per aumentare la vostra sete di scoperta, di conoscenza, e anche il vostro ego.
Ve lo leggo negli occhi, Blake. Fin dal primo momento che vi ho visto, l’ho saputo.
Siete qui per creare, e volete scoprire quanto siete in grado di creare.
La vostra sete è persino più conturbante della mia.
Il ragazzo rimase immobile a quelle parole, con le iridi fulgide e sferzanti fisse in quelle dell’uomo dinnanzi a sé e lo sguardo illeggibile.  
Dopo qualche minuto in cui nessuno dei due si mosse o emise il minimo suono, il Giudice si allontanò e risalì le scale, lasciando il seminterrato.
 
 
   
 
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