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Autore: Evali    05/12/2020    0 recensioni
Un villaggio isolato, un popolo spezzato in due in seguito ad una terribile calamità, due divinità da servire, adorare e rispettare in egual modo: Dio e il Diavolo.
"- Io amo gli uomini.
- E perché mai io sono andato nella foresta e nel deserto? - replica il santo. – Non fu forse perché amavo troppo gli uomini? Adesso io amo Iddio: gli uomini io non li amo. L’uomo è per me una cosa troppo imperfetta.
- È mai possibile! Questo santo vegliardo non ha ancora sentito dire nella sua foresta che Dio è morto!"
Genere: Fantasy, Sovrannaturale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Trasmutazione
 
Ioan fece cozzare il bastone con quello tenuto stretto dall’altro bambino di fronte a lui, continuando a combattere giocosamente con il suo amico, mentre attendeva che suo padre uscisse dall’entrata della galleria.
I fiocchi di neve continuavano a scendere dal cielo, ma su quel terreno morbido, incolto e vastissimo il tappeto bianco non attecchiva.
Ioan ansimò sfinito, ridendo, mentre l’altro, stanco anch’egli, lo atterrò con un’ultima sferzata, facendolo cadere con la schiena indietro.
La collana che indossava sempre, con il ciondolo lucido e ovale, gli si sfilò dal collo per la caduta, piombando sul terreno a qualche centimetro da lui.
Improvvisamente, una tremenda debolezza, persino peggiore di quella che aveva provato per la sua intera vita a causa del suo malanno, lo invase da capo a piedi, appannandogli la vista.
- Che cos’è quel ciondolo che indossi sempre? – chiese l’altro ragazzino, accovacciandosi e prendendo in mano la collana, osservando il ciondolo, rapito dal suo colore.
- È un regalo di mio fratello … - sussurrò Ioan affaticato, allungando la mano verso il ciondolo, divorato dal bisogno fisico di rindossarlo. – Ridammelo …
Il ragazzino, dopo averlo osservato attentamente per un altro po’, incurante delle condizioni di Ioan, si decise a restituirglielo. – È molto bello. Ne vorrei uno anche io. Ma mio fratello non è capace di fare queste cose. Una pietra così bella costerà una fortuna. Tu e tuo fratello siete fortunati ad essere i figli del proprietario della galleria – commentò il bambino, aiutando l’amico a rialzarsi, dopo che quest’ultimo si rinfilò la collana, ritrovando improvvisamente e miracolosamente la vitalità, come se quel ciondolo, in qualche modo, contenesse tutta la sua energia vitale immagazzinata al suo interno.
Ioan ne saggiò la superficie liscia con il polpastrello del pollice guantato, cominciando a chiedersi quale cristallo avesse usato Blake per comporre e scolpire quel ciondolo.
- Preferirei riavere Blake qui in carne ed ossa, piuttosto che la collana che mi ha lasciato – espresse quel pensiero ad alta voce, beandosi della dolcezza dei fiocchi di neve che gli carezzavano il volto etereo e i capelli sottili, le uniche parti del suo corpo lasciate scoperte.
- Vedrai che ritornerà – lo rassicurò l’altro ragazzino, passandosi il bastone tra le mani, fingendosi un esperto spadaccino. – D’altronde, quest’anno è l’anno del suo battesimo, giusto? Deve per forza tornare – aggiunse con convinzione. – Sempre se riusciremo a liberare le cattedrali dalla presa degli stregoni, prima che … - la frase del ragazzino restò in sospeso.
Gli occhi chiari di Ioan si spostarono da lui all’entrata della galleria, dalla quale sbucò la figura di suo padre, seguita da quella di altri scavatori, impregnati di terra e polvere dalla testa ai piedi, ognuno con un lanternino tra le mani.
Rolland si scostò il panno di stoffa che gli copriva la bocca e accennò un sorriso sfinito a suo figlio, avvicinandoglisi. – Ehi, sei ancora qui. Mi hai aspettato. Bravo il mio giovanotto – gli disse scompigliandogli i capelli.
- Padre!
- Signor Rolland! – lo salutò anche l’altro ragazzino.
- Ciao anche a te, Garret – ricambiò l’uomo.
- Ora torno da mia madre. Devo portarle i tessuti che mi ha chiesto per rifinire le ultime cuciture degli abiti che sta preparando! A presto! – li salutò egli, correndo via.
- Come sono andati gli scavi oggi? – domandò Ioan a suo padre, rimasti soli.
- Non bene. Nulla di nuovo: nessuna traccia di cristalli, né di rame o di argento, neanche lontanamente – rispose angustiato. – Vuoi entrare a dare un’occhiata all’interno? – propose poi a suo figlio, indicandogli l’entrata nera, buia e profonda della galleria.
Ioan sgranò gli occhioni chiari, non riuscendo a fare a meno di provare del timore per quel luogo oscuro, umido e soffocante, come immaginava fosse. Voltò lo sguardo mortificato su quello speranzoso di suo padre.
- Preferisco di no – rispose.
A ciò, Rolland si rabbuiò lievemente, cercando di non darlo troppo a vedere. – Non fa niente. Ci entrerai quando te la sentirai.
- Mi dispiace … mi dispiace di non essere coraggioso come Blake – disse Ioan abbassando lo sguardo.
- Non serve essere coraggiosi per scendere lì sotto, Christopher.
- Io credo di sì, invece.
- Non scusarti di non essere come tuo fratello.
Blake è bravo in tutto ciò che fa, questo glielo concedo, egli sa di certo come farsi amare, ma sa bene anche come farsi odiare, forse più di qualsiasi altro.
E non ha paura di farsi odiare. Anzi, ne ricava soddisfazione, credo – rifletté ad alta voce Rolland, mentre Ioan lo guardava. – Tu sei molto più obbediente e disciplinato di tuo fratello. Devi essere fiero di questo – aggiunse l’uomo.
Ioan cercò di leggere il suo sguardo, di comprendere cosa provasse davvero.
Se Blake gli mancasse più di quanto volesse far credere e trasparire.
Suo padre e suo fratello avevano sempre avuto uno strano rapporto.
Se con Heloisa litigava continuamente; con suo padre, invece, Blake non litigava quasi mai.
Eppure, Ioan li aveva sempre visti distanti, troppo distanti tra loro.
Era come se, ogni volta che Rolland tentasse di avvicinarlo a sé o di avvicinarsi a lui, ogni volta che lo rincorreva, poi si rendesse conto troppo tardi che  Blake non fosse più lì.
Che non fosse più possibile raggiungerlo.
- Tuttavia, è inevitabile che, in tutti questi anni di infermità, tu ti sia appoggiato totalmente a lui. D’altronde, lui è pur sempre quello che ti è stato vicino, in tutto e per tutto, dall’inizio alla fine – riprese improvvisamente Rolland, facendo trasalire Ioan. – Blake si è caricato, da solo, sulle proprie spalle il tuo malanno, e ciò sembra non essergli mai pesato. Credo che questo abbia avuto delle conseguenze irreparabili su di te, figliolo.
- Che cosa intendi, padre?
- Tu dipendi da lui. Anche ora. Ora che stai bene, dipendi da lui, poiché sei sempre dipeso da lui in tutto e per tutto – disse secco Rolland. – È ora che tu capisca come reggerti sulle tue gambe, Ioan. È ora che tu capisca chi sei e cosa vuoi, senza Blake.
 
Quando Ioan e Rolland fecero ritorno a casa, si ritrovarono una scena inaspettata dinnanzi agli occhi: Heloisa e padre Craig stavano discutendo.
- Abbiamo le mani totalmente legate! Da quando le due cattedrali sono state invase da quelle piaghe umane, è scoppiata la catastrofe! – si lamentò Heloisa, sedendosi nervosamente sulla sedia della cucina, muovendo convulsamente una gamba, non trovando pace.
- Heloisa, non capite?! Dobbiamo far udire le nostre voci, forti e chiare! Nella cattedrale dei servi del Creatore ci sono ancora degli ostaggi! I monaci del Creatore, Judith e un fedele servo del Creatore sono prigionieri degli stregoni, e Dio solo sa cosa stanno passando e cosa quegli squilibrati spietati decideranno di fare loro! - ribatté padre Craig avvicinandosele.
- Che succede qui? – attirò la loro attenzione su di sé Rolland, vedendoli voltarsi all’unisono verso di lui.
- Caro … sei tornato. Tra un’ora lo stufato sarà pronto.
- Rolland, bentornato. Io e vostra moglie stavamo parlando della situazione difficile e delicata in cui si trova il villaggio ora come ora …
- Voi siete rimasto l’unico messaggero del Signore in libertà – commentò Rolland interrompendolo. – Siete l’unico ad esser riuscito ad uscire dalla cattedrale del Creatore prima che gli stregoni occupassero anche quella, per miracolo.
Siete rimasto l’unica ancora di salvezza.
I fedeli vi ascolteranno e vi seguiranno. Per lo meno, i fedeli servi del Creatore, lo faranno sicuramente - disse Rolland con convinzione.
- In realtà, quando sono uscito dalla cattedrale … una delle streghe era già giunta sul luogo… tuttavia, per qualche motivo, ella mi ha lasciato uscire. Ha preso sotto la sua custodia padre Cliamon e i gemelli, ma non si è interessata a me. Al momento in cui l’abbiamo vista arrivare, eravamo tutti e quattro nella biblioteca - rifletté padre Craig.
- Che ci facevate nella biblioteca chiusa al pubblico? – domandò Ioan ingenuamente curioso.
- Non mi sembra il momento di pensare a queste piccolezze, Ioan – commentò Heloisa, sempre più agitata, per poi rivolgersi a padre Craig. – Chi era ella? Sapete descrivermela? Forse, potrei averla vista … forse ella non è nemmeno una strega e ha intenzioni diverse da quelle degli stregoni eremiti … - ipotizzò la donna.
 - Aveva la pelle scura come l’ebano. Un volto dai bei tratti raffinati e androgini, un corpo sottile e una foresta di capelli neri.
Quella descrizione fece pietrificare Heloisa sulla sedia, reazione che Rolland notò immediatamente e che comprese.
- No … no, non può essere … - sibilò la donna, con una voce che quasi spaventò padre Craig per quanto cupa, strascicata e dura.
- Alma, cara … sicuramente sarà una donna che le somiglia … - cercò di rassicurarla come poté Rolland, avvicinandosi a lei e posandole le mani sulle spalle irrigidite.
Padre Craig, sempre più confuso, osservò la scena come a distanza.
- No … la descrizione è stata molto chiara … non l’hai sentito, Rolland…? Solo lei … solo lei possiede queste caratteristiche … è lei … è lei … me lo sento … è tra le streghe eremite … deve essere sicuramente lei … il Signore … il mio Signore ha voluto punirmi … ha voluto punirmi in questo modo … - iniziò a delirare la donna, con gli occhi azzurri fissi nel vuoto e lucidi.
- Heloisa … non è possibile. L’hai vista morire …
- È lei, Rolland!!! – urlò ella scattando in piedi e schiaffeggiando la mano di suo marito, completamente fuori di sé. – È lei! È lei!! È lei!! Il Signore mi sta punendo …! Il Signore vuole punirmi!! – urlò lasciandosi cadere in ginocchio a terra, scoppiando in lacrime, lacrime d’ira, lacrime di odio e frustrazione.
Padre Craig riuscì a comprenderlo, nonostante non sapesse.
- Padre … - lo riscosse improvvisamente Rolland, sfiorandogli il braccio. – Se vorrete guidarci, se vorrete guidare il popolo a unirsi alla rivolta, per vincere su quegli assassini e riprenderci il controllo delle cattedrali, per restituire la libertà ai monaci del Creatore … io sono con voi.
Quelle parole, furono in grado di riscaldargli il cuore.
- Anche io – si unì a lui Ioan, sorridendogli con tutto il suo calore e la sua dolcezza.
Sorprendentemente, per la prima volta, vide in lui una strana luce, una determinazione di fuoco, come quella di suo fratello.
Fu tutto ciò di cui aveva bisogno.
- Devo vederla – affermò ansimante Heloisa. – Quando ci saremo ripresi le nostre cattedrali e avremo vendicato i monaci assassinati brutalmente da quelle bestie … io devo vederla.
Devo vederla con i miei occhi, la donna che mi ha rovinato la vita.
 
Judith continuò a lavare i piatti e le stoviglie d’argento, il compito che le streghe avevano affidato a lei e a Naren.
Fino a quando non sarebbero crollate loro le mani, avrebbero continuato a lavare tutto ciò che vi era da lavare nelle cucine, un compito solitamente affidato ai cuochi.
Si considerava indicibilmente fortunata, dato che i monaci erano stati rinchiusi tutti nelle prigioni sotterranee, e che lei era stata graziata solamente grazie alla parola di Maringlen e di Maroine.
Naren, invece, essendo solamente un fedele che si trovava lì nel momento sbagliato, non meritava di finire nelle segrete con i monaci, per il momento, perciò gli avevano permesso di rimanere con lei; mentre, di padre Cliamon, non aveva notizie.
Improvvisamente, nell’assoluto silenzio, una fitta al ventre fece bloccare Judith, forzandola a portare una mano bagnata sopra al tessuto del corpetto.
Accorgendosi di ciò, Naren si voltò a guardarla allarmato, poggiandole una mano sulla spalla. – Ehi … Arley?
- Non chiamarmi così qui dentro … - lo ragguardò lei, rivelandogli il suo sguardo velato di angoscia e timore.
- Ehi … - cercò di rassicurarla come poté, avvicinandosele.
- Avresti potuto rimanere ucciso nella mischia anche tu … perché sei venuto qui?
- Preferirei mille volte rimanere qui, con te, sapendoti momentaneamente al sicuro, piuttosto che là fuori, divorato dalla preoccupazione e impotente.
- Siamo impotenti comunque, anche qui dentro.
- Mi sei mancata. Non immagini nemmeno quanto …
- Van … - sussurrò lei, osservando la mano del ragazzo posarsi delicata sulla propria guancia, per poi scostare il viso dal suo tocco, forzando se stessa. – Mi dispiace che tu lo abbia saputo in questo modo. Del bambino - riprese poi, con voce più distante.
A ciò, il ragazzo si prese altro tempo per osservarla e ammirarla, cercando di allontanare dalla mente i peggiori scenari che la annebbiavano. – Judith, io …
- Ora sospettano di noi. Anche se dovessimo riuscire a vincere contro di loro in qualche modo e a riprenderci il controllo delle cattedrali, i monaci sospettano di noi, Naren – disse preoccupata.
- Li convinceremo che gli stregoni hanno visto cose che non esistono, ipotizzando tutto ciò per pura perfidia, e che non vi è mai stato nulla tra noi – le garantì Naren stringendole le mani tra le sue.
- Vorrei fosse davvero così semplice.
- Lo sarà. Ci penserò io. Penserò io a te e al bambino.
- No! – esclamò ella sfilando le mani e guardandolo negli occhi. – Non puoi. Il bambino è mio, non tuo. Tu sai cosa è accaduto quella notte ma non vuoi dirmelo. E di chiunque sia, non mi importa più saperlo ormai, non avrebbe alcun rilievo, poiché egli è mio soltanto.
- Judith … è anche mio figlio.
Quelle parole, accarezzarono la sua pelle prima come un velo di seta, poi la dilaniarono come filo spinato, stordendola.
- Che cosa hai appena detto …?
Il ragazzo sorrise, lasciando andare una lacrima dai suoi occhi emozionati. – Quella notte … ciò che non ti ho detto di quella notte … è che non ti ha toccata nessun altro, eccetto me. Nessun’altra mano al di là della mia ha toccato il tuo corpo, mio amore.
È successo.
Ciò che sarebbe dovuto succedere molto tempo fa tra noi due, ma che ci siamo sempre trattenuti dal fare, per paura, per paura delle leggi di Bliaint, per paura dei monaci, per paura del rogo … è successo quella notte.
Naren non aveva mai visto Judith tanto sconvolta in vita sua.
Ella aveva gli occhi scuri spalancati, le labbra schiuse, ma non parlava.
Era immobile, statuaria e spaventosamente silenziosa.
- Judith …? Ti prego, ti prego, dì qualcosa.
- Tu eri cosciente e io no …? Ci siamo uniti sessualmente … ciò che volevamo succedesse, tante e tante di quelle volte … è successo mentre io ero incosciente…? Mentre io ero totalmente inconsapevole …? Mentre io … - la ragazza si bloccò, realizzando improvvisamente, sbiancando. - … mentre io non ero nel mio corpo??
- Judith …
La ragazza si allontanò di qualche passo, cercando di metabolizzare ciò che aveva appena udito, senza successo.
- Io non l’ho vissuto, Van … mi stai dicendo che non l’ho vissuto perché non ero lì, ero dentro il corpo di qualcun altro. E tu, tu ti sei approfittato solo del mio mero contenitore …
- No, non è così. Non mi sono approfittato del tuo corpo!
- E allora cosa hai fatto?? Chi c’era nel mio corpo …? – gli domandò, bisognosa di sapere, ora. – Naren, chi c’era nel mio corpo quella notte? E, soprattutto, la persona che abitava il mio corpo lo voleva …? O l’hai forzata? In quale corpo ero io?? Rispondimi!
- Non lo so!
- Bugiardo!
- Judith, non puoi considerarlo davvero un tradimento.
La ragazza rise sprezzante e acida in risposta. – E per quale motivo non dovrei?? Perché eri lì?? Perché sei rimasto lì, quella notte?? Non potevi aspettare che io fossi in me, che io fossi nel MIO corpo??
Oh, no, certo che non potevi! Sapevi che non te lo avrei mai permesso, perché sarebbe stato troppo rischioso.
E ora guarda cosa hai fatto!
Hai piantato il tuo seme in me, proprio ciò che stavamo evitando da mesi, da quando ci conosciamo!
Quella strega aveva ragione: il nostro sarebbe il primo bambino figlio di una coppia mista a Bliaint, da secoli.
Lo brucerebbero nel rogo insieme a noi ancora in fasce, se solo lo scoprissero …
- Judith … - ritentò egli avvicinandosele e allungando una mano verso di lei.
- Non mi toccare!
- Noi non permetteremo che anima viva lo venga a sapere. Te l’ho detto. Mi inventerò qualcosa.
- No, tu non ti inventerai nulla, perché questo bambino non ti concerne.
Avrà anche il tuo sangue, ma sono io colei che lo porta in grembo.
Ciò lo rende solo mio.
Dunque, sarò la sola a decidere del suo destino.
- Che cosa intendi …?
Un silenzio tombale calò tra loro, mentre il ragazzo realizzò tremendamente.
- Judith … ? Vuoi uccidere nostro figlio …?
- Scegliere se farlo nascere o no spetta solo a me.
- Ora è la tua paura per il suo destino che parla! Stai delirando perché hai il terrore che scoprano che è figlio del nostro peccato e che lo leghino su quel soppalco a bruciare prima che possa aver imparato a parlare!
- No, Naren, ti sbagli – gli rispose ella con voce calma e distaccata. – A prescindere da chi sia il padre di questo bambino, io non lo voglio.
Non lo avrei voluto in ogni caso.
I due vennero improvvisamente interrotti dal rumori di passi che scesero le scalinate per raggiungere le cucine.
Si voltarono all’improvviso verso la nuova presenza.
- Maroine …? – la salutò Judith cercando di ristabilizzare la voce.
- Va tutto bene? – chiese loro la ragazzina.
- Sì, va tutto bene. A te? – ricambiò Judith.
- Non temere – la tranquillizzò ella, sorprendendola. – Non permetteremo loro di farvi del male. Io e Maringlen proteggeremo te e padre Cliamon da Beitris e da Myriam.
- E chi proteggerà voi due da loro? – chiese improvvisamente Judith, facendola trasalire. – Voi due dovete andarvene di qui, Maroine, tu e tuo fratello. Beitris prova un amore morboso e pericoloso nei vostri confronti, mentre i monaci vi vogliono morti. A giorni, qui a Bliaint verrà un mercante, un vecchio amico di padre Cliamon. Egli …
- Di cosa stai parlando? – le domandò confusa la ragazzina.
- Lo vedrete – si limitò a risponderle Judith. – Sappiate solamente, che io e padre Cliamon non vi abbandoneremo, neanche quando tutto questo sarà finito.
- Siete stati gentili con noi. È ora di ricambiare il favore.
- Non si tratta di favori o di debiti da saldare, Maroine – le spiegò Judith avvicinandosele. – Non vi abbiamo protetti e aiutati per venire ricambiati, lo capisci? Lo abbiamo fatto perché nutriamo reale affetto nei vostri confronti, nonostante per voi questa parola risulti tanto estranea e sconosciuta.
Maroine la guardò, come in preda a intricate riflessioni, facendo sorridere Judith.
- Il popolo si ribellerà – disse dopo qualche minuto la ragazzina. – Sicuramente lo farà. E quando succederà, io e Maringlen scapperemo via con loro, mentre voi rimarrete qui e sarete salvi – disse semplicemente.
- Maroine … - tutte le parole che la ragazza voleva far uscire da sé, le morirono in gola, non appena le sue iridi scure captarono un denso rivolo di sangue sbucare dalla narice di Maroine, andando ad infrangersi tra le sue labbra. – Maroine … stai sanguinando … Maroine!
La ragazzina aggrottò le sopracciglia chiare e posò le dita tra il naso e la bocca, macchiandosele.
Successe in un attimo, Judith vide le dita insanguinate di Maroine tremare, i suoi occhi annebbiarsi e le palpebre calare giù, mentre il suo corpo si accasciava tra le sue braccia, sorretto anche da quelle di Naren.
- Maroine!
 
Padre Cliamon, legato e seduto ad una delle sedie della biblioteca, tenne gli occhi fissi sulle mattonelle del pavimento, come oramai stava facendo da ore, mentre udiva voci e rumori svariati provenire dal piano inferiore.
Gli stregoni sembravano stessero divertendosi.
Cercò di calmare la sua agitazione, ripetendosi che, sicuramente, il popolo si sarebbe ribellato.
Il popolo doveva ribellarsi.
Sperò vivamente che Judith stesse bene, magari legata da qualche parte come lui, ma non nelle segrete come gli altri.
Dei passi svelti gli fecero aguzzare le orecchie e alzare lo sguardo verso chiunque fosse entrato nella biblioteca.
Lo avrebbe riconosciuto solo dal suono dei suoi passi, anche a distanza di secoli.
Il monaco sorrise tra sé, felice, mentre vedeva Maringlen avvicinarglisi con un velo di preoccupazione a velargli il bellissimo volto.
- Padre, stai bene? – gli domandò sedendoglisi di fronte e accostandosi a lui.
- Sì. Non preoccuparti per me. Tu e tua sorella come state?
- Bene. Ella è andata nelle cucine, a controllare lo stato di Judith. L’hanno messa a lavare i piatti e a ripulire le cucine da capo a piedi.
- Oh, sia ringraziato il cielo!
Maringlen sorrise in risposta. – Mi dispiace che vi siate trovati in mezzo a tutto ciò, tu e Judith. Avete fatto molto per noi.
- Non scusarti per gli errori commessi da loro. Tu non sei come loro. Il fatto che ti abbiano cresciuto non implica che tu sia un loro prodotto, una loro creazione.
Tu e Maroine siete infinitamente migliori di quello che credete e che vi vogliono far credere.
- Sei tu che ci vedi migliori di come siamo. Da sempre. Mi chiedo perché tu lo faccia.
All’inizio, la tua gentilezza mi dava i nervi, mi irritava enormemente.
- Me ne ero accorto – sorrise padre Cliamon. – E poi? Cosa è successo, Maringlen?
- Poi, sei venuto nelle segrete, ti sei avvicinato alla mia cella e mi hai cantato quella canzone, quel giorno, il giorno in cui credevo sarei morto, una volta per tutte – raccontò ciò, mentre un nostalgico e raro accenno di sorriso gli illuminava il viso e gli occhi miele. – Quel giorno, forse, ho compreso che non ci avresti più lasciati soli. A costo della tua vita.
- Ed è così – confermò padre Cliamon guardandolo con gli occhi lucidi, i quali vennero asciugati dalle dita dolci del ragazzino.
- Non piangere, padre.
Vedrai, d’ora in poi andrà tutto per il meglio.
- Che bel quadretto – li interruppe Myriam, irrompendo con la sua voce, fresca e impetuosa come l’acqua di sorgente. – Resta pure dove sei, faccino d’angelo, anche io volevo far visita al monaco – lo spronò ella, prendendo posto a sua volta accanto a padre Cliamon, il quale fece di tutto per non incrociare di nuovo il suo sguardo.
- Perché non mi guardate, padre? Sono tanto terribile da guardare, ai vostri occhi? – lo sfidò. – Non sono al livello dei faccini d’angelo e della vostra seducente protetta, forse?
A ciò, Cliamon alzò gli occhi per guardarla, per non recarle scortesia.
- Sapete che vi trovate qui, seduto comodamente su questa sedia e non con la schiena premuta sul lerciume della cella, solamente grazie a loro, vero? – gli domandò, posando una mano sulla schiena di Maringlen.
- Ne sono consapevole.
- Bene. Ditemi, ora, dov’è che mi avete già vista? Perché mi sembra evidente che mi avete già vista, i vostri occhi non hanno fatto altro che gridarmelo da quando mi avete posato gli occhi addosso – disse insinuante.
- Non vi ho mai vista.
Myriam affilò gli occhi. – Sapete, è esistita solo una donna quasi identica a me a questo mondo. Da bambina, le persone che mi vedevano dicevano che ero la copia di mia madre.
- I genitori ci donano sempre ciò che di più bello posseggono – commentò il monaco.
- Non sempre.
- Che fine ha fatto vostra madre?
- Morta. Bruciata. Molti anni fa. Il monaco che l’ha giudicata colpevole e meritevole della pena capitale era un giovane servo del Creatore che aveva appena preso i voti.
Padre Cliamon deglutì a vuoto.
- Quando mi hanno detto cosa fosse accaduto a mia madre … ho giurato sul mio Signore Onnipotente, sulle tre madri e sulle tre streghe originarie, che mi sarei vendicata di quel monaco, non appena lo avessi trovato.
Ho giurato solennemente, che avrei ripagato quell’uomo con la stessa moneta.
Avrei distrutto la persona più importante della sua vita, strappandole la vita con le mie mani, come lui aveva fatto con quell’unica persona che era tutto il mio mondo.
L’ho maledetto, nonostante non sapevo chi fosse.
Ed ero solo una bambina.
Forse è per tale motivo che il mio Signore mi ha chiesto un pegno tanto grande in cambio, per concedermi di vendicarmi di quell’uomo.
Sono sterile, se ancora non ne aveste preso coscienza dalla mia breve conversazione con Judith.
Non ho mai potuto nulla, contro il mio ventre arido. Nulla.
- E poi? Cosa è avvenuto dopo? – si sforzò di chiederle il monaco. – Non siete stata in qualche modo ripagata della sofferenza subita? Non avete trovato nessun altro da amare con tutta l’anima? Non avete trovato qualcuno in grado di rubarvi il cuore, in seguito alla vostra immensa perdita?
A tali parole, lo sguardo di Myriam sembrò mutare totalmente, facendola quasi sembrare un’altra.
I suoi lineamenti si addolcirono, gli occhi acquisirono un’aria sognante e la bocca si incurvò verso su, in un sorriso che esprimeva tutta l’amarezza, la nostalgia e l’amore di cui un uomo o una donna avrebbe potuto traboccare. – Sì, c’è stato. C’è stato qualcuno. Un dono,  un tesoro prezioso e meraviglioso, un tesoro non mio, ma che ho avuto l’immensa fortuna di far venire al mondo, e di crescere, per alcuni anni, gli anni più belli della mia esistenza.
Ma non vi parlerò di lui.
Nessuno merita che io gli parli di lui.
Custodisco il suo ricordo con me gelosamente, nascosto e segregato, come unica linfa per il mio spirito.
Ripresasi dal suo attimo di estatica immersione nelle sue memorie, Myriam tornò in sé, inscalfibile e melliflua. – Ora ditemi, padre Cliamon, per quale motivo non riuscite a guardarmi? Vi ricordo forse qualcuno? Vi ricordo una donna … una donna che vi è rimasta impressa nella mente?
La prima donna che vi ha reso un assassino, a tutti gli effetti?
Oramai aveva capito.
Ella aveva compreso tutto e padre Cliamon, nella sua situazione di netto svantaggio, non avrebbe potuto fare nulla per sfuggire all’inevitabile.
I suoi errori e peccati lo inseguivano sin dalla sua giovinezza e ora … ora lo avevano trovato.
Tuttavia, non avrebbe sopportato che i suoi sbagli si ripercuotessero su chi gli stesse a cuore. Mai.
Il monaco alzò immediatamente lo sguardo su Maringlen, rimasto seduto sulla sedia di fronte a lui, ad ascoltare la conversazione in silenzio.
Myriam lo intercettò, riflettendo. – La persona che vi sta più a cuore … - ripeté la strega, continuando a guardare Maringlen. – La persona che vi sta più a cuore al mondo … - ebbe la conferma alle sue ipotesi, non senza una scomoda reticenza a stringerle le viscere fastidiosamente. – Non può trattarsi davvero di loro … - sussultò, combattuta e decisa allo stesso tempo.
Maringlen cominciò a realizzare, come una sferzata di vento gelido e tagliente penetrato nelle ossa, la verità lo attraversò, i pezzi cominciarono ad incastrarsi tra loro, così come le intenzioni di Myriam.
Il ragazzino si alzò automaticamente dalla sedia, indietreggiando, mentre la strega si alzava a sua volta.
- Vi prego … vi prego, non fategli del male … vi prego. Ho sbagliato … ho sbagliato! Me ne pento! Con tutto me stesso! Ma vi scongiuro, non fatelo! Non avvicinatevi a lui! – la supplicò il monaco, dimenandosi tra le corde, inutilmente.
Myriam guardò Maringlen indietreggiare da lei, ma non si avvicinò a lui, restando a fissarlo immobile.
- Ti lascerò del tempo, monaco. Ti lascerò del tempo.
Disgraziatamente, coloro che tu ami tanto, sono oggetto anche della venerazione di Beitris. Inoltre … ho vissuto con loro. Li ho visti mordere e ringhiare come due piccole volpi randagie quando li abbiamo raccolti dalla strada, prendendoli con noi, fino ad ora.
Non arriverò a tanto, solo perché si tratta di loro.
Non li ucciderò io, ma sarai tu a farlo.
Tuttavia, voglio essere misericordiosa con te: scegline uno solo da salvare, tra i due gemelli, e sarà salvo.
L’altro morirà per mano tua, monaco.
Questo è il massimo che posso concederti.
 
Il ragazzo si svegliò di soprassalto, tossendo del fumo nero, tutto quello che aveva respirato da quando si era addormentato dentro il seminterrato, con la fornace ancora accesa. Per la quarta volta.
Spostò alcune ciocche di capelli scuri che aveva sparse su occhi e naso, e che gli bloccavano la vista, oltre a non facilitargli lo già arduo compito di respirare, in quella cappa nera.
Si rese conto che erano cresciuti troppo.
Si tirò su da terra, dal pavimento freddo su cui aveva abbandonato il corpo, steso a faccia in giù, percependolo improvvisamente pesante, troppo pesante da spostare, come se fosse fatto di pietra.
Delle voci cominciarono ad invadergli la testa, insinuanti e invasive, mentre dei rumori provenienti dall’esterno lo tenevano debolmente a contatto con la realtà.
Nitriti di cavalli.
Come i cavalli che gli aveva mostrato Gerda nella stalla, quel giorno, che oramai gli sembrava così distante.
Ci mise un po’ a realizzare dove fosse, come se la sua memoria andasse a singhiozzi da quando trascorreva la maggior parte del suo tempo in quella fucina impregnata dell’essenza più pura e densa del piombo.
Si appoggiò al tavolino per tirarsi in piedi, cercando di risvegliarsi completamente, mentre riportava le iridi sulla colata di piombo che riposava nella fucina.
Grosse bolle, lente come lumache, risalivano in superficie, scoppiando e rilasciando minuscoli schizzi arroventati, che si andavano a schiantare nelle pareti del recipiente.
Erano trascorse quasi due settimane, da quando era rinchiuso in quella casa.
Si convinse di essere arrivato al limite, di star quasi perdendo la testa.
Cosa voleva esattamente quell’uomo da lui?
Era davvero convinto che lui riuscisse a compiere la leggendaria trasmutazione, quella favola che i cantastorie narravano per accendere la curiosità e la brama di potere nei nobili della peggior specie?
Era stanco, stanco ed esasperato.
Suo padre gli diceva sempre che non vi era cosa più pericolosa al mondo, di portare un uomo all’esasperazione.
E di avvelenarlo. Un uomo in preda agli effetti di avvelenamento agisce in maniera imprevedibile. Egli è fuori di sé, è furente e attaccato alla vita più di qualsiasi altro, poiché percepisce sin dentro le ossa che gli sta scivolando via.
Suo padre non aveva tutti i torti, forse.
Il Giudice non conosceva nulla dei metalli.
Non conosceva la loro composizione, la densità, la duttilità, l’odore che emanavano, la loro consistenza al tatto.
Egli si basava semplicemente su qualcosa di tanto futile e illusorio come un colore.
L’oro, che tanto attraeva e assuefaceva.
Se solo il suo piombo avesse mutato colore e fosse sembrato dorato, invece che nero, sarebbe stato libero.
Volere è potere, pensò il ragazzo, trovando quel detto ridicolo e mai più falso, come mai prima d’ora.
Blake si appoggiò con i palmi delle mani ai bordi della fornace, ustionandosi, emettendo un urlo muto di frustrazione.
Poi, improvvisamente, accadde qualcosa.
Quell’urlo muto, quella volontà d’acciaio, forse avevano influenzato la sua mente a tal punto da farlo convincere di star vedendo qualcosa che non era reale…?
Blake spalancò gli occhi, osservando la colata, prima grigio scuro, ora rischiarirsi.
Stava sognando? Stava delirando? L’avvelenamento era arrivato a tal punto? No, non poteva essere, forse il mercurio ci sarebbe riuscito, a farlo impazzire, ma non il piombo.
Si sentiva ancora sano, lucido, in qualche modo a lui sconosciuto.
La colata dorata ai suoi occhi, continuava ad essere dorata, nonostante si fosse strofinato quegli stessi occhi più e più volte.
Avrebbe dovuto chiamare il Giudice e mostrargliela, ma non era sicuro che egli avrebbe visto la stessa cosa che vedeva lui.
Avrebbe dovuto rischiare, poiché non gli rimaneva altro da fare.
Non aveva compiuto alcun sacrilegio, non aveva trovato nessuna pietra filosofale.
Aveva solo urlato, urlato senza voce, e la trasmutazione era avvenuta.
Il piombo aveva assunto il colore dell’oro.
Indietreggiò di qualche passo, restando con la schiena poggiata al muro.
Respirò ansimante mentre il sudore gli bagnava i vestiti, aumentando man mano che aumentava anche la temperatura torrida della fucina, con il fuoco che, invece di esaurirsi, sembrava innalzarsi sempre più, come posseduto, nonostante il carbone si stesse esaurendo.
- Ci siete riuscito??? Ce l’avete fatta?? – irruppe improvvisamente la voce tonante del Giudice, il quale aveva appena sceso le scale, entrando nel seminterrato, rimanendo accecato dal fumo scuro.
Spostò inutilmente il fumo con le mani colme di anelli, e si fiondò sulla fucina che conteneva la colata d’oro luminoso.
Blake smise di respirare, attendendo di vedere qualsiasi reazione sul volto stralunato del Giudice.
L’uomo, affacciatosi al grosso recipiente, sgranò gli occhi scuri, tremando visibilmente.
Allora lo vedeva anche lui.
Allora vedeva anche lui ciò che Blake non aveva fatto.
Perché Blake non aveva fatto nulla.
Eppure l’oro era lì. O almeno, qualcosa che sembrava oro.
- Quella donna aveva ragione … voi … siete l’alchimista più dotato dell’intero occidente!! – esclamò non riuscendo a trattenere tutta la sua gioia spropositata, la sua esaltazione esagerata nella voce.
Alzò gli occhi su Blake, ancora ancorato al muro, e gli si avvicinò, con gli occhi avidi che lo divoravano. - Come ci siete riuscito?? Come ci siete riuscito, Blake? Vi prego, rivelatemelo.
Il ragazzo negò con la testa.
Non poteva parlare, il Giudice lo sapeva, ma anche se la sua voce fosse tornata improvvisamente, non avrebbe saputo cosa dirgli.
Non ho fatto niente.
Io non ho fatto niente.
“Il veleno porta l’uomo alle azioni più funeste.” Rimembrò quelle parole, ripetendosele in testa, come una sorta di mantra, di blanda giustificazione a ciò che stava per fare.
In quel momento, non gli importò se l’uomo dinnanzi a lui lo avrebbe lasciato libero o avrebbe continuato a tenerlo rinchiuso come la sua personale gallina dalle uova d’oro in futuro, non gli importava poiché lo avrebbe fatto comunque.
Il Giudice era in uno stato troppo estatico per accorgersene, invaso dalla gioia, debole.
Blake si avventò di scatto sull’uomo che gli aveva reciso la gola, immobilizzandolo a faccia in su, con la schiena e la testa schiacciati al tavolino, stringendogli il collo con la presa ferrea di una sola mano.
Mentre l’uomo si dimenava inutilmente, Blake, con la mano rimasta libera, afferrò con le tenaglie un recipiente più piccolo, immergendolo nella colata dorata, riempendolo di quel liquido arroventato.
Dopo di che, prima che il Giudice se ne rendesse conto, il ragazzo fece colare alcune gocce bollenti prima su un occhio dell’uomo, poi sull’altro, accecandolo dolorosamente.
Le urla strozzate del Giudice rimbombarono intensamente nel piccolo ambiente.
Ma ancora non bastava.
Con la lingua e la mani ancora intatte, il Giudice sarebbe stato in grado di comunicare chi fosse stato a ridurlo in quello stato.
A ciò, mentre il Giudice urlava ancora, prosciugato anche della forza di provare a ribellarsi, Blake fece colare il metallo rovente prima sulle mani dell’uomo, in gran quantità, in modo da sfigurarle e liquefarne la carne, poi sulla lingua. Tirò fuori la lingua umida di quel rifiuto umano, tanto forte da staccargliela quasi, e la immerse di “oro” colato.
Ora, il Giudice sarebbe stato davvero incapace di rivelare a chiunque il nome del suo “dotato” aguzzino.
Una volta terminato il suo compito, Blake gettò le tenaglie a terra e lasciò il corpo inerme dell’uomo steso sul tavolo, allontanandosi da lui schifato. Poco prima di fiondarsi sulle scale per salire al piano superiore, il ragazzo si voltò indietro, dando un’ultima occhiata alla colata metallica: il suo colore era tornato ad essere il nero piombo.
Prima di lasciare quella casa, ancora scosso dal fumo, prese con sé solamente alcune monete d’argento, le necessarie per portare a termine il viaggio per il quale era partito, un pugnale e la mandragora ancora pulsante, avvolta dal telo.
Sfondò la porta chiusa a chiave, entrando a contatto, per la prima volta dopo due settimane, con il nascente sole dell’alba e con l’aria atrofizzante invernale, che fu in grado di farlo tremare da capo a piedi per il gelo, infiltrandosi con violenza dentro i leggerissimi vestiti che indossava.
Il gelo non era nulla, tuttavia.
Il suo corpo lo sentiva, ma la sua mente no, poiché era distante, distante da tutto.
Montò sopra uno dei cavalli legati all’esterno della casa, memore delle brevi lezioni teoriche che gli aveva impartito Gerda su come si cavalcasse, slegò la corda che teneva prigioniero l’animale e gli diede un colpo di caviglia all’addome, per farlo iniziare a correre, aggrappandosi fermamente alla sua lunga chioma bianco panna.
Non appena giunse dinnanzi all’abitazione di Selen, Blake scese da cavallo, il suo corpo si muoveva in automatico, entrò dalla finestra che dava alla camera degli ospiti, dove immaginava stesse dormendo Selma, sempre se fosse ancora in quel villaggio.
La trovò stesa su uno dei letti, apparentemente addormentata.
Dunque era rimasta davvero.
Ella aveva realmente atteso che egli sfuggisse da quell’uomo, in un modo o nell’altro, per qualche assurdo motivo a lui sconosciuto.
Come un oracolo paziente, in qualche modo, sapeva che avrebbero proseguito quel viaggio.
La donna si svegliò di soprassalto, ritrovandosi la mano impregnata di carbone del ragazzo premuta dolorosamente sulla bocca, e il suo corpo accasciato verso il letto, con i suoi occhi blu, intensi e tremendi, che la stavano uccidendo con lo sguardo, vicinissimi ai suoi.
Selma sorrise nonostante la mano glielo impedisse, accorgendosi, troppo tardi, di avere anche la lama di un pugnale premuta addosso, all’altezza della gola.
Blake tolse la mano dalla sua bocca, ma continuò a tenerle la lama puntata contro, facendole segno con la testa di uscire dalla finestra e di montare sul cavallo, gelido.
La donna raccattò velocemente le sue cose e obbedì consenziente, uscendo dalla finestra.
Poco prima che Blake uscisse a sua volta da dove era entrato, la porta della camera si aprì, rivelando una figura piccola e bassa, avvolta da pesanti vestiti di lana, che lo guardava assonnata.
Gerda sgranò gli occhioni, non appena mise a fuoco la sua figura.
Blake fece giusto in tempo a portarsi l’indice sul naso, spronandola a fare silenzio.
A ciò, senza dire nulla, la bambina si pose l’indice sul naso a sua volta, acconsentendo. Poi, con la manina, gli fece segno di attendere, dirigendosi verso un’altra stanza.
Quando Gerda tornò, dopo nemmeno un minuto, aveva con sé tre o quattro coperte di lana e pellicce, un ammasso quasi più grande di lei. Le porse al ragazzo e rimase a guardarlo, con il suo sguardo puro, innocente, lieto di rivederlo.
Blake le sorrise dolcemente in risposta, prendendo le pellicce e le coperte, mimandole un “grazie” in labiale.
In risposta, la bambina si rabbuiò lievemente, domandandogli anche lei qualcosa in labiale: “ci rivedremo un giorno?”
“Sì ci rivedremo” le disse muto, facendola sorridere.
Dopo di che, la piccola lo osservò uscire dalla finestra, salire sul cavallo con Selma, e sparire dalla sua vista.
 
 
   
 
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