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Autore: Lolimik    03/12/2020    8 recensioni
•"Io ho sempre pensato che nessuno aveva la voglia di dirselo, ma la verità era che le chiamavamo così, con quel generico “medicine”, perché in realtà non sapevamo cosa cazzo stavamo curando."•
E se Akito non fosse mai riuscito a guarire Sana dalla malattia della bambola?
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akito Hayama/Heric, Hisae/Margareth, Naozumi Kamura/Charles Lones, Sana Kurata/Rossana Smith | Coppie: Naozumi/Sana, Sana/Akito
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
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sero 2 • Capitolo 2 – La vera Kurata







"What’s a sweetheart like you

doin’ in a dump like this?"

-Bob Dylan • Sweetheart like you -






Le bollicine risalivano dal fondo del boccale creando a poco a poco delle crepe nella schiuma che un po’ fuoriusciva dalla cima.

Le fissavo cercando di rimanere concentrata su quelle, come una parvenza di dimensione estranea al brusio circostante.

Attraverso il vetro appannato del boccale spostai l’attenzione sulle facce di quelle persone sedute difronte a me.

Erano così distorte, frenetiche, appannate, nervose eppure mi parve che fossero in qualche modo allineate, come a loro agio nel contesto.

Mi chiesi se quell’immagine appannata che io avevo di loro fosse speculare a quella che loro avevano di me, mi risposi che senza dubbio io rendevo tutto più semplice, era probabile apparissi a loro tutti come distorta, nervosa e appannata anche senza il filtro di un liquido ambrato e gorgogliante in un boccale.

O forse ero io a sentirmi così in mezzo a loro.

Distorta, appannata. Comunque poco allineata.

Dopo l’improvvisata alla fermata dell’autobus, Gomi ci aveva trascinati in uno dei suoi locali. Io avevo provato a dire che non mi andava, ma le mie parole forse non gli arrivarono.

Forse c’era un muro tra noi, o forse semplicemente scelsero tutti insieme di ignorarle e mi trascinarono lì.

Avevo capito però che Gomi aveva fortemente insistito affinché fossi dei loro, addirittura Hisae mi aveva detto che si era parecchio risentito non vedendomi a cena.

«Devi dirlo almeno a loro che hai una relazione con Kamura, Sana… Non può controllarti così!» Mi aveva detto Hisae prima di entrare.

Io mi strinsi un po’ nelle spalle e scossi la testa.

Hisae era una dalle convinzioni di ferro.

Per quante volte le ripetevo che Naozumi non controllava affatto la mia vita, non riuscivo mai a convincerla. Lei era proprio persuasa dal fatto che Naozumi, non voleva che mantenessi una rete di contatti e che con la scusa di tenere la nostra relazione segreta, mi mantenesse chiusa in una torre d’avorio in cui ogni tanto decideva di fare capolino.

Oltre al fatto che imputava molti dei miei “atteggiamenti poco rispettosi verso me stessa” proprio a lui.

In realtà, semplicemente non m’interessava che gli altri sapessero della mia vita.

E neanche Naozumi era così interessato a conoscere la mia, o forse, pur di non crearsi fastidi, preferiva non mostrarsi in mia compagnia davanti a tutti. In fondo lo aveva fatto anche quella mattina, mi aveva come al solito rifilato quella scusa del “non conosco nessuno e poi ho da lavorare”.

Non che m’importasse. Poteva fare quello che voleva, però ecco, di sicuro non mi sarebbe dispiaciuta un po’ di sincerità.

Pur di non ledere alla sua immagine si era dimenticato anche del suo vecchio rancore per Hayama… Gli era bastato un mio “Dacci un taglio.” Per mettere a posto tutto.

Non lo so, non mi erano chiare molte cose sul nostro conto, ma era come se Naozumi con me si limitasse ad essere ciò che mi aspettavo senza mai preoccuparsi di mostrarmi ciò che era.

Chissà, forse ero cattiva, ma io non gli credevo, non fino in fondo almeno.

C’erano delle volte in cui avevo l’impressione che lui si relazionasse a me come se stesse mantenendo una parte…

O forse, ero semplicemente ridicola io a ritenere possibile il fatto che potesse ancora provare rancore per Hayama e tutta quella vecchia storia.

Quanto a Gomi, qualunque fossero le sue reali motivazioni sul desiderio di vedermi, restava una sua volontà che mi lasciava piuttosto indifferente.

Hayama, invece non si era seduto con noi che per un istante, mi aveva guardato un paio di volte con una certa fretta e poi si era volatilizzato al bancone del pub in compagnia di Gomi e due tipe che non conoscevo.

Non c’era nulla di particolare che mi aspettavo di percepire nel reincontrarlo, ma ecco, non sentire proprio nulla mi mise addosso una sensazione ambigua e raggelante.

Allora era vero?

Ero rotta? Ero priva? Ero qualcuno e ora non lo sapevo più?

Sapevo bene che c’era qualcosa in me che non funzionava, che avevo una malattia di cui mi rifiutavo di pronunciare persino il nome, ma l’indifferenza che mi colse nel rivederlo mi sembrò mi stesse facendo toccare con mano il fatto che ci fosse dell’altro d’irrimediabilmente andato a male in me.

E me lo stava facendo toccare con una perfidia e una freddezza agghiacciante.

Non riuscivo a provare niente, nessun sentimento positivo o negativo, non mi sentii nascere dentro la benché minima emozione.

Mi ero aggravata così tanto?

E allora perché quei sogni mi tormentavano se poi lo avevo a un passo da me e vederlo non mi provocava niente?

Più ci pensavo, più me ne rendevo conto, più sentivo l’ansia impossessarsi di me.

Avvertii un senso di pressione al petto che mi schiacciava fin dentro le viscere.

Avevo la bocca secca, una sensazione fastidiosa alla gola, come una mano stretta al collo. E poi sudavo. Quasi mi sentivo evaporare o forse quasi ci speravo.

Avevo bisogno delle medicine alla svelta o sarei scivolata sul pavimento.

Sentii che stavo per avere un crollo e mi concentrai sulle mie percezioni cercando di sedarle con dei respiri profondi.

Le sopracciglia dei miei amici si muovevano insieme al suono della loro voce, insieme alle espressioni che assumevano di volta in volta le loro facce.

Mi sembravano tante maschere.

Le loro sopracciglia si muovevano esasperate, si curvavano, s’increspavano, si allargavano e distendevano.

Le mie sembravano immobili, ma confuse.

Quelle di Hayama erano un po’ inarcate, forse Gomi gli stava dicendo qualcosa che non gli andava a genio, poi una delle due ragazze ridendo gli aveva portato una mano sulla pancia.

Allora lui aveva riso, ma le sopracciglia non gli si erano distese.

Difronte a me Tsuyoshi rideva di Fuka che non aveva vinto una causa importante, quella che li vedeva l’uno contro l’altra. Aya sembrava soddisfatta dell’abilità di suo marito, ma cercava di non darlo a vedere troppo alla sua migliore amica.

Era un bravo medico lei, non di quelli che frequentavo io. Lei si occupava di ossa rotte, quelli di cui mi servivo io di teste vuote da riempire di sicurezze in pillole.

Hisae parlava del suo lavoro in banca con un lessico pieno di anglicismi, forse le cose non andavano troppo bene con il suo capo perché mi accorsi che ne parlava e mentre lo faceva alternava lunghi sorsi di birra a grosse risate, con le mani però arrotolava ogni carta che le capitava a tiro e la reggeva tra le dita a mo’ di sigaretta.

Forse anche lei doveva essere in astinenza.

Senza dare troppo nell’occhio presi una medicina dalla borsa e la calai giù con della birra.

Non l’ideale forse, ma lo trovai disperatamente necessario, dal momento che neanche la respirazione stava funzionando.

Le mani avevano cominciato a diventarmi troppo fredde e le dita somigliavano a dei pezzi di legno, riuscivo a vedere il grigio dei nervi attraverso la pelle e dovetti nasconderle sotto al tavolo.

«A te come vanno le cose, Sana?» Fuka non vedeva l’ora di togliersi da quella conversazione con Tsuyoshi e mi aveva scelta come via di fuga.

«Beh… Bene.»

«Poco tempo fa lavoravi in quella lavanderia a gettoni e ora in un konbini. Tu, amica mia sei sprecata per questi posti, ma lo vuoi capire o no?!»

«In verità ci lavoro da un anno e poi mi piace lavorare lì.»

«Ma sentitela!» Urlò richiamando l’attenzione di tutti.

«A chi la vuoi dare a bere! Una come te, abituata a calcare palcoscenici, a lavorare su set cinematografici e in studi televisivi non può davvero involversi così!»            

«Involversi…» Ripetei.

«Dai Sana, a noi puoi dirlo!»

«Sono dodici anni che non faccio quel mestiere…»

«Lo so, ma sai, noi abbiamo sempre pensato che tu in realtà dopo il diploma avresti ripreso in mano la questione e invece…»

Mi sentii le spalle scivolare verso il basso, la testa ciondolare un po’ in avanti, vedevo le labbra di Fuka muoversi, la sua voce arrivarmi al rallentatore.

Le sorrisi un po’ distorta pensando che le medicine stavano cominciando a disperdere nel mio corpo i primi cenni magici. Non stavo assolutamente capendo niente, solo mi chiesi perché aveva voglia di rivangare quel discorso ogni volta che Hisae mi trascinava alle loro feste.

Io non mi prendevo certo la libertà di sindacare sulla sua vita, sulle sue scelte, né m’importava sbatterle in faccia il fatto che da promessa della giurisprudenza si fosse involuta in un avvocato talmente mediocre da farsi battere da uno come Tsuyoshi Sasaki.

Fu proprio Hisae a prendere le mie difese, le urlò qualcosa ma io mi limitai a sedare la questione regalando a entrambe un mite “Non fa niente”.

E infatti era la verità, non m’importava assolutamente niente delle illazioni di Fuka, del suo lavoro, del mio, volevo solo tornare a casa, rimpinzarmi di medicine, mettermi sotto le coperte e dormire per almeno tre giorni.

A Hisae però le uscite di Fuka sulla mia vita non piacevano, non le erano mai piaciute in verità. Mi accorsi che continuò a sbraitarle contro parole che non volli ascoltare.

Mandai giù un lungo sorso di birra e mi sembrò cominciasse ad avere un sapore più vischioso, mi accorsi che scivolava verso il basso come se lungo la gola si trasformasse in gelatina.

Ogni potere magico aveva delle sbavature.

«Sana, stai bene?»

La voce di Aya, il suo tono dolce, mi sembrava arrivarmi da un tempo che ormai non esisteva più.

«Si…»

«Mi piacerebbe tanto se riuscissimo a vederci un po’ più spesso, anche senza l’aiuto di Hisae…»

«Già…»

«Ora che so dove lavori magari uno di questi giorni passo a farti una sorpresa… Ti va’?»

«Come vuoi.»

Mi sembrò ci fosse rimasta un po’ male per quelle mie risposte stringate, la verità era che non sapevo cosa dirle, quella sera non riuscivo a sbloccarmi neanche con una dose mixata all’alcol.

Le medicine però avevano cominciato ad effondere il loro potere perché da quando le avevo prese non avevo più rigidità, ma ovviamente non percepivo nulla.

Sentivo solo assenza, un’assenza più logorante del solito.

Nel corpo e nella mente.

Come la linea piatta di un elettroencefalogramma.

«Kurata!» La voce di Gomi sulla mia schiena, mi voltai di tre quarti verso di lui.

«Lei è Mizuo Koizumi.» Mi disse e m’indicò la ragazza che stringeva a sé.

Era una ragazza molto anonima, più giovane di noi di almeno cinque anni ma aveva dei lineamenti così marcati dal trucco e un abbigliamento così appariscente da sembrare più grande di me di almeno cinque anni.

«Sana.» Le dissi in un cenno.

«Ti ha riconosciuta e mi ha chiesto di presentarvi.»

A quel punto Mizuo cominciò a riempirmi di complimenti e a sciorinarmi tutto il mio curriculum come se fossi desiderosa di testare la sua sincerità e mi accorsi che mentre parlavamo Akito aveva cominciato a fissarci attentamente.

«Oddio che onore! Sono cresciuta con il tuo mito, Sana! Non sai quanto mi piacerebbe poter seguire le tue orme!»

«Beh… Io ora lavoro in un konbini e siamo già al completo. Però puoi provare a portare un tuo curriculum.»

«Andiamo Sana!» Fece Gomi a quel punto.

«Potresti metterla in contatto con il tuo vecchio manager… Come diavolo si chiamava?» Si voltò a cercare Akito e lo chiamò a sé con un cenno.

«Te lo ricordi il suo manager?» Akito si strinse un po’ nelle spalle con un’espressione beffarda appiccicata sulla faccia e ci si avvicinò trascinandosi dietro la tipa con cui chiacchierava al bancone del pub.

«Io e Rei non ci sentiamo da un pezzo, sono anni che vive con sua moglie Asako a Los Angeles.»

«E non puoi ricontattarlo? Magari conosce ancora qualcuno qui a Tokyo!»

«No, io… Io non posso.»

«Andiamo Sana! L’hai vista la mia Mizu?»

«Si, Gomi… La vedo. In quell’ambiente però contano molto le referenze e…»

«Beh, lei ne ha due belle sul davanti e una di dietro, possono bastare?»

A quella battuta agghiacciante notai che lei non si scompose, anzi cominciò a ridere tastandogli il petto.

Akito invece lasciò andare un risolino, afferrò il mio boccale e buttò giù un po’ della mia birra.

«Lascia perdere Gomi, te l’avevo detto che vive a L.A. ormai.»

Provai a chiedermi cosa ne sapesse lui di Rei e d’istinto guardai Hisae, era probabile fosse opera sua.

«Si, ma vuoi che Kurata non sia agganciata? Per esempio con quel tipo… Come si chiamava quell’attore effemminato che le ronzava intorno quando eravamo ragazzini?»

«Naozumi Kamura, ed è un attore di fama internazionale oggi.» S’intromise Fuka.

«Andiamo Kurata, vuoi farmi credere che non vedi più neanche lui?»

«Gomi… Per favore… Non posso aiutarvi, mi dispiace.»

«Sei una bugiarda! E poi questa stronzata delle referenze non me la bevo! Andiamo! Di’ piuttosto che non vuoi aiutarci!»

Mi accorsi che si stava scaldando, ma io non avevo neanche la forza di seguire il discorso.

Mi sentivo un corpo molle appoggiato su una sedia, neanche mi sentivo le gambe se non fosse stato per il pavimento che sembrava pomparmi sotto ai piedi a ritmo di musica.

C’era un volume assordante lì dentro.

Gomi dovette accorgersene perché smise di fissarmi e palleggiò il suo sguardo tra le facce dei miei amici e quella di Akito in piedi accanto a lui.

«Ti rendi conto, amico? Quando eravamo ragazzini la città era tappezzata da tabelloni con la sua faccia e, diciamocelo, Kurata è sempre stata una insipida, vuoi che Mizu non possa competere?»

«Gomi, piantala.»

«Dai Akito, è la verità! Da ragazzino ci eri fissato con lei, ma ora guardiamola con sincerità!»

«Ti ho detto falla finita, Gomi!» Urlò e poi sbatté il boccale di birra sul tavolo, proprio davanti alla mia mano.

«Lo sai Mizu, il nostro Hayama qui si sta scaldando perché da ragazzino aveva una cotta terribile per Kurata, spesso io e Tsu lo beccavamo per strada a ripulirsi la bava sui cartelloni pubblicitari di questa insipida qua. Tsu, amico, te la ricordi la sua faccia?»

Vidi Tsu sorridere sotto i baffi, Hisae saltare in piedi, avventarsi contro di lui come un cane rabbioso trattenuto da un guinzaglio.

«Per favore, Hisae, lascia perdere…» Dissi tirandola a me.

E poi sentii qualcosa. Una rabbia crescente che non proveniva da me.

Mi accorsi che zampillava dagli occhi di Akito, sembrava invaderlo per intero, venire fuori dalle sue narici dilatate, dalle sue pupille rosse e si sprigionava violenta. Come una nube densa di sangue si riversava sulla testa di Gomi.

Vidi la sua mano muoversi di scatto, Akito afferrò Gomi per un braccio, glielo fece roteare dietro alla schiena facendolo inginocchiare, mettendolo di fatto al tappeto in un movimento.

E a quel punto scoppiai a ridere.

Una nota stonata in una sinfonia che fino a quel momento neanche riuscivo a sentire.

Ridevo, ridevo come se fossi in una recita e in quel momento il mio personaggio doveva reagire così, ridevo come se tutte le loro maschere fossero crollate mentre la mia rimaneva salda sulla faccia.

La mia medicina invincibile mi rendeva l’attrice migliore.

La mia risata veniva fuori come un singhiozzo dispettoso e nonostante mi portassi una mano sulla bocca, la mia faccia rideva ancora.

Io stavo peggiorando, ormai avevo persino reazioni involontarie, neanche riuscivo a mantenerle sedate, dentro.

Erano come getti di una serie di geyser.

Mi sembrò di capire che ero diventata una terra piena di lacerazioni da cui fuoriuscivano senza permesso gas bollenti e incontenibili.

La mia uscita stonata comunque li fece calmare, Akito lasciò il braccio di Gomi fissandomi disorientato.

Come disorientati erano gli sguardi di tutti i miei amici.

Pensai che fosse buffo il fatto che fino a quel momento ero stata io quella disorientata da tutti loro.

«Tu sei tutta matta, Sana…» Concluse Fuka cominciando a ridere anche lei seguita dal resto della comitiva.

Tutti, eccetto Hisae.

Lei fissava il mio profilo con una certa agitazione, un’agitazione simile a quella che le avevo visto addosso in quello stesso pomeriggio nel mio bagno.

Gomi e Akito, a differenza del resto del gruppo, si volatizzarono rapidamente senza proferire parola.

Tre pinte di birra dopo mi accorsi che Gomi era seduto su un divanetto con quella Mizuo spalmata addosso, Akito invece era sempre al bancone, beveva qualcosa e mi fissava mentre la tipa che prima era in sua compagnia gli baciava il collo spasimando per le sue labbra.

Mi accorsi che lei alla fine, forse stanca di aspettare, gli aveva voltato il viso e lo aveva baciato, a quel punto lui aveva sorriso sulla sua bocca tirandosela più addosso.

Quanto avrei voluto percepire qualcosa.

Mi sentii dentro uno strano sfrigolio, desiderai si palesasse ma nello stomaco non mi arrivò niente.

Avevo anestetizzato tutto?

O forse stavo bene e semplicemente non m’importava dove Akito, ormai cresciuto, spalmava la sua lingua?

Com’era giusto che fosse, in fondo.

Dopo quindici lunghi anni.

«Basta… Devo fumare.» La voce di Hisae mi riportò alla realtà.

Provai ad alzarmi ma mi accorsi che le gambe mi reggevano a fatica.

Hisae però non si accorse del mio tentennamento, mi prese per mano e mi trascinò fuori.

Mi sentii immobile, mi sembrava di camminare senza muovere affatto le gambe.

La mano di Hisae nella mia sembrava trascinarmi in un cemento liquido che si spostava e mi risucchiava a poco a poco.

Sotterrandomi.

Quando l’aria esterna mi freddò il viso, ero ormai certa di percepire il cemento solidificarmisi tutto intorno.

Mi sentii di nuovo quelle sensazioni addosso.

Più che di respirare, mi sembrava di annaspare.

La magia stava per perdere ogni effetto, sperai di essere a casa prima che fosse svanita del tutto.

«Ehi… Vorrei tornare a casa…»

«Si, finisco di fumare e andiamo… Comunque, lascialo perdere quell’idiota di Gomi.»

«Figurati.»

«Sul serio, Sana. Tu sei bellissima.» Trillò in un sorriso, prendendomi il viso tra le mani.

L’odore della sua winston mi arrivò alle narici mescolato al suo profumo.

Abbozzai un mezzo sorriso.

«E’ così!» Urlò stringendomi più forte il viso tra le mani. «Tu. Sei. Bellissima.»

«Interrompo qualcosa?»

La voce di Akito si stagliò alle mie spalle, Hisae lo fissò inarcando un sopracciglio.

«Il tuo amico è un gran cafone, Hayama! Con me ha chiuso!» Glielo disse livida dalla rabbia e mi lasciò andare parandoglisi sotto.

Akito le regalò uno sguardo distratto, poi si cacciò una sigaretta tra le labbra e l’accese.

Anche lui fumava, ma non percepii la stessa sensazione di vicinanza che percepivo con Hisae.

Il suo fumare mi arrivava quasi sgradevole.

«Hai capito, Hayama?»

«Te lo sei portata a letto, eh Hisae?»

La faccia della mia amica a quel punto divenne una marea di cose che per me si traducevano solo in un visibile rossore. «Te l’ha detto lui?»

«No, faccio solo due più due.»

«Per tua informazione c’è stato solo un mezzo bacio ed ero ubriaca!»

Akito la superò in una lunga boccata. «Sono affari vostri…» Disse e mi si avvicinò.

Una morbida zazzera bionda, un sorrisetto sbruffone, la sigaretta stretta tra i denti e labbra e le mani nelle tasche. «Ciao, Kurata.» Sussurrò in uno sguardo furbo.

Pensai che niente in lui mi ricordava il ragazzino che quindici anni prima se n’era andato tra la rabbia di aver fallito e i denti stretti di doverlo ammettere.

Che poi non era vero che aveva fallito.

Era semplicemente la vita che ci aveva fatto credere di essere infallibili e poi aveva mescolato le carte insegnandoci che infallibili non lo eravamo affatto.

Era semplicemente che doveva andare così.

Mai fidarsi della vita.

«Come sta la tua mano?»

Lui mi sorrise e si allontanò la sigaretta dalle labbra con la mano destra. «Bene…» Disse e continuò a studiarmi con quello sguardo che non gli avevo mai visto.

Mai.

Neanche una volta nella vita.

«Andiamo, Akito?» La ragazza con cui l’avevo visto baciarsi era uscita dal locale seguita di lì a poco dal resto del mio gruppo eccetto Gomi e quella Mizuo.

Mi sembrò ci stessero circondando, erano le stesse persone di prima ma in quel momento sentivo uno strano senso di soffocamento.

Senza neanche accorgermene m’incollai ad Hisae e tirai il lembo della manica del suo cappotto cammello.

«Io e Sana andiamo!» Trillò. «Ci vediamo presto!»

Il cerchio si spezzò, tra risate e arrivederci stavamo per prendere anche noi la nostra strada quando Akito mi tirò per un braccio.

«L’accompagno io.» Disse guardando fisso Hisae. «Ti dispiace?»

Gli occhi di Hisae s’incollarono ai miei. «Per te va bene?» Mi chiese sottovoce mentre la tizia con cui stava Akito gli si avvicinò piuttosto accigliata.

«Che storia è questa?»

«Senti…» Akito la fissò per un attimo come se stesse cercando di ricordarsene il nome, poi fece un lungo tiro e gettò via la sigaretta.

M’imbambolai a fissare quella nebulosa che sapeva di tabacco. Mi sembrò mi stesse avvolgendo.

«Ho da fare con questa vecchia amica.» Le disse semplicemente questo mentre lei continuava a inveirgli contro e lui mi prendeva per mano.

«Dai tesoro, non insistere, ci vediamo domani.» Le si avvicinò tenendomi ancora per mano e le regalò un leggero bacio sulle labbra condito da un furbo occhiolino.

Ma che atteggiamento era?

«Senti… Lascia perdere, io vado con Hisae… O prendo un autobus… E’ uguale.» Dissi e tirai via la mano.

«No, Kurata. Vieni con me. Lo sai chi prende l’autobus di sabato alle 4 del mattino? Solo svitati che cercano svitate da importunare.»

Perfetto, pensai, era l’autobus giusto per me.

«E poi Hisae vive dall’altra parte della città, io sono di strada.»

Come faceva a sapere dove abitavo?  

Stavo per chiederglielo, ma Hisae mi si parò accanto, guardò Akito tirandomi a sé, continuando a studiarne le movenze. «Forse ha qualcosa da dirti…» Farfugliò. «Vuoi andare con lui?»

Percepii nella sua voce dell’agitazione, ma non era più come quella che le avevo visto addosso quello stesso pomeriggio nel bagno di casa mia o nel pub quando Gomi mi aveva dato dell’insipida, era un’agitazione diversa, che le usciva fuori solo dagli occhi che mi sembrarono luccicare tremuli.

«Io voglio solo andare a casa, Hisae.»

A quel punto venne fuori dal locale anche Gomi in compagnia di Mizuo, ci fissò in un risolino beffardo e tirò via quella tipa che ancora continuava a pellegrinare attorno ad Akito.

«Dai Sachiko, ti riaccompagno io a casa…»  Glielo disse in un tono stranamente ironico, poi le infilò una mano nella tasca posteriore dei jeans e la tirò a sé.

A quel punto, mi accorsi che lanciò un breve cenno d’intesa ad Akito prima di defilarsi in compagnia di Mizua e quella Sachiko, senza salutare né me né Hisae.

«Bene, il cafone se n’è andato!» Trillò la mia amica con un certo fastidio.

«Dio mio, Hisae… Sono stato così indimenticabile?» Le urlò Gomi, ma rimase di spalle, continuando a comminare verso la sua macchina seguito da quelle due strane tipe.

«Ignoriamolo…» Biascicò. «Che vuoi fare Sana?»

«Tornare a casa… Ti prego.»

«Ti va bene se ti accompagna Akito?»

Mi era totalmente indifferente.

Ma non ebbi neanche il tempo di risponderle che Akito mi afferrò nuovamente la mano e mi tirò più vicina a sé. «Ok, le va bene, andiamo Kurata…»

Hisae gli sorrise divertita. «Solo perché mi fido e so che sei un tantino meglio di quello spaccone del tuo collega!» Urlò, poi mi si avvicinò schioccandomi un bacio sulle labbra.

«Vedi se puoi cavargli qualcosa di bocca!» Sussurrò.

Che cosa voleva dire? Cosa avrei dovuto cavargli di bocca?

*****

La macchina di Akito era un concentrato di stranezze e tecnologia. Non me ne intendevo molto ma mi piacque molto la forma quasi affusolata dei sedili e il colore scuro degli interni.

Mi ci accomodai e socchiusi leggermente gli occhi lasciandomi andare un po’ all’indietro.

Mi sentivo uno straccio.

Quando accese il motore sentii un rombo potentissimo, vidi le luci sul cruscotto accendersi e spegnersi in preda a una specie di corto circuito.

Balzai in avanti portandomi una mano sul petto e lo fissai stranita.

Lui lasciò andare un sorriso sfottente e si voltò a guardarmi. «Allora, Kurata? Dove si va?»

«A casa…»

«Non so mica dove abiti, Kurata?»

«Avevi detto di sì.»

«Dico un sacco di cose se serve...»

«Alla prossima gira a destra.» Gli dissi, prima di abbandonarmi ancora su quel morbido sedile in pelle.

«Allora? Oltre ad aver cambiato colore ai capelli e tendenze sessuali cos’altro mi sono perso?»

«Diversi anni uguali.»

«Che risposta è?»

«Una risposta.»

Lui scosse un po’ la testa mentre io mi chinai in avanti, non riuscivo neanche a parlare, digitai sul navigatore l’indirizzo di casa mia e lo avviai.

Lui studiò per un po’ i miei movimenti ma non disse nulla, solo continuava a mantenermi addosso quello sguardo strano. «Come mai hai tinto i capelli?»

«Rossi, castani… Fa differenza?»

«Beh… La vera Kurata è rossa.»

La vera Kurata.

Quelle parole mi risuonarono nella mente, era davvero solo una questione di capelli? Lui non vedeva altro di diverso in me?

Per un istante mi chiesi che forma avevo nei suoi ricordi, ero quella Sana allegra e incredula che aveva baciato davanti a un pupazzo di neve, quella a cui in quel momento il cuore sembrava esplodere ma non aveva saputo far niente perché ancora troppo giovane, inesperta, senza la benché minima comprensione dei suoi sentimenti, o quella senza espressioni che aveva lasciato sul letto di quell’albergo?

Mi sarebbe piaciuto chiederglielo, ma dopo tutto quel tempo d’assenza, una risposta sapevo darmela persino io.

Pensai che fosse strana la mia vita, da ragazzina non avevo la minima idea che tutto quel brusio interiore che percepivo accanto a lui si chiamasse amore. Sentivo troppo, tutto insieme e quel caos di emozioni mi confondeva.

Ora invece, che avevo l’età per discernere ciò che sentivo, non sentivo assolutamente niente.

Era una condizione piuttosto paradossale, anche patetica.

«Quindi tu e Gomi siete colleghi?» Gli dissi la prima cosa che mi venne in mente, non che m’importasse, tentavo solo di evitare la questione del “com’eravamo”.

«Non esattamente.»

«Cioè?»

«Non lavoro per lui e non ho percentuali su nessuno dei suoi locali.»

«Ma Hisae vi ha definiti colleghi…»

«Beh… Io faccio qualche favore a lui e lui lo fa a me, ma questo non ci rende né colleghi, né soci, né grandi amici.»

«E allora cosa siete?»

«Due che si prendono ciò che serve, credo.»

Mi sentivo uno straccio e mi rendevo conto di non avere le forze per continuare quella conversazione, non me ne fregava niente, soprattutto.

Soprattutto non avevo l’esigenza di capire cosa stesse intendendo, cosa lo avesse reso così diverso dal mio Akito dodicenne.

Era solo assenza, un logorante strazio.

Mi limitai ad annuire in un sorriso di circostanza.

«Comunque, Kurata… Sei diversa… Non l’avrei mai detto ma sei diventata più seria, più donna.»

«Già, probabile.»

«Un po’ mi dispiace.»

Mi disse solo quello e per un istante m’imbambolai a guardarlo, pensai avesse una gran faccia da culo.

Finalmente arrivammo a destinazione, lo feci accostare un po’ più distante dal mio palazzo e mi accorsi che si guardava intorno con un’espressione sorpresa, forse disgustata.

«Abiti qui?»

«Sì…»

«Assurdo…»

Pensai che più assurdo fosse il suo baciare una tizia a caso tenendomi per mano, ma in fondo cosa m’importava? Soprattutto chi ero io per giudicare?

«Ti ringrazio per il passaggio… Stammi bene.» Dissi e senza neanche guardarlo in faccia richiusi la portiera della sua auto e mi avviai verso il mio portone.

«Ehi!» Urlò uscendo fuori dalla sua auto. «Non m’inviti neanche a salire?»

Era curioso, mi accorsi che per la prima volta in quella serata le sue sopracciglia fossero d’accordo con la sua faccia.

Comunque feci appena in tempo a voltarmi che già era a pochi centimetri da me.

«Scusa… E’ che sono molto stanca…»

«Ah… Giusto…» Fece lui in un sorriso ironico.

Ripresi a camminare verso il portone regalandogli un veloce cenno, mi aspettavo se ne ritornasse in macchina, ma invece mi accorsi che continuava a seguirmi con le mani ficcate nelle tasche.

«Che c’è? Ti sto solo accompagnando alla porta Kurata…»

«Ma… Non preoccuparti, non serve.» Feci e mi affrettai a fare gli scalini che portavano al portoncino del mio palazzo.

Come se non avesse recepito il senso delle mie parole continuò a seguirmi e non appena feci per inserire le chiavi nella toppa, sentii la sua presenza alle mie spalle farsi più insistente, pressante, mi fu dietro e con uno scatto mi fece voltare, spingendomi alla parete.

«A questo punto dovresti invitarmi di sopra, Kurata, offrirmi da bere… Io poi farò finta di apprezzare quell’intruglio che spaccerai per whisky, parleremo di questi ultimi quindici anni, ci racconteremo qualche bugia, qualche mezza verità… Poi… Facendo finta che sia involontario ci baceremo e finiremo a letto insieme trovandolo necessario…»

Il suoi occhi addosso, la sua faccia sempre più vicina alla mia mi toglievano l’aria, mi resi conto che il mio sguardo si muoveva freneticamente, che i miei occhi inseguivano i suoi movimenti, ma non riuscivo a scrollarmelo di dosso.

Neanche capivo se volevo farlo o non avevo le forze per farlo.

O se fosse esattamente la stessa cosa.

L’unica cosa che sapevo era che le gambe mi tremavano e che i miei polmoni elemosinavano ossigeno.

«Ora… Mi piacerebbe tanto tutta questa situazione, Kurata, ma non ho tutto questo tempo…»

Continuando a guardarmi quasi divertito, mi passò una mano tra i capelli e se li riguardò per qualche istante tra le mani, lasciandoseli poi scivolare tra le dita. «Direi di passare direttamente alla parte divertente e toglierci questo sfizio, non sei d’accordo con me, Kurata?»

Soffiò il mio nome sulla mia bocca prima di spingere le sue labbra sulle mie.

A dispetto del suo atteggiamento, la lingua di Akito mi accarezzò le labbra senza irruenza, ma anzi si mosse delicata fino a schiudermele e insinuarsi piano nella mia bocca.

Risposi a quel bacio senza neanche capirne il perché, ma fu un riflesso quasi involontario, un istinto naturale che mi spingeva da dentro.

Le sue mani mi s’infilarono sotto la maglietta, le sue dita erano fredde e percepii uno strano brivido, ma non aveva a che fare col freddo e neanche con quei brividi che ero ormai abituata a sentire dopo una crisi. Era qualcosa di diverso, qualcosa di più intimo che non mi faceva né tremare, né battere i denti.

Si spinse più addosso a me, lo sentii quasi sorridere sulla mia bocca mentre il suo corpo mi schiacciava alla parete, avrei voluto spingerlo via, in realtà mi lasciai andare alla sua bocca reggendogli il viso con le mani.

«Cazzo, Kurata.» Sussurrò mordendomi eccitato il labbro inferiore.

Sentivo di non volerlo, eppure non riuscivo a staccarmi.

Poi tutto d’un colpo, come una corda alla gola, mi sentii strozzare.

Emisi una sorta di rantolo.

«Hayama…» Ansimai il suo nome sulla sua bocca e lo spinsi via.

A quel punto cominciai ad ansimare allargandomi il collo del maglione.

Lui mi fissò confuso e tornò immediatamente a me, mi passò una mano sul collo e mi sollevò il viso con il pollice.

«Kurata? Addirittura? Ti manca il fiato?» Me lo disse in un risolino compiaciuto, con il solito fare sbruffone.

Avrei voluto urlargli addosso e piazzargli un ceffone in pieno viso, ma sentii le gambe cedermi, il cuore schizzarmi in gola, battere forte. «Vattene…» Riuscii a farfugliare solo quello prima di strisciare nel portone richiudendomelo alle spalle.

*****

Non lo so quanto tempo passò.

Ansimavo rannicchiata sulle scale, cercai di regolare il respiro, dilatarlo ma più lo facevo più sembrava salirmi qualcosa alla gola e al contempo avvertivo come una pressa che spingeva e per quanto tentassi di rialzarmi mi manteneva giù, sul pavimento.

E poi d’improvviso, quando ormai la fame d’aria mi portò a rantolare sul pavimento togliendomi persino la forza di ansimare, quando ormai credevo che fossi arrivata alla fine, sentii come uno scoppio.

Qualcuno aveva tirato via il tappo e quei vapori che credevo di gittare involontariamente come un geyser, si trasformarono in un fiume in piena che mi esondava dagli occhi.

Lacrime.

Lacrime forti e violente come il vomito.

Piangevo.

Io manco me la ricordavo più quando era stata l’ultima volta che era successo.

Mi toccai il viso incredula, mi guardai le mani umide, bagnate da una linfa vitale che neanche sapevo più di possedere.

Tremavo.

Mi portai una mano alla bocca strozzando un lamento e finalmente mi alzai.

Come se le gambe si muovessero da sole mi fiondai nell’ascensore, vidi me stessa riflessa in quello specchio e le lacrime cominciarono a scendere ancora più insistenti, mi strozzavano, mi colpivano perfide, più perfide di quella crisi che avevano magicamente spazzato via.

Quando sbucai al settimo piano cercai di placare i singhiozzi e i lamenti mordendomi la mano tra le lacrime, ma più cercavo di oppormi più strillavo.

Era una sensazione strana, come se tutti i miei organi avessero covato della linfa per tutto quel tempo e ora che lo squarcio si era aperto così tanto, spingeva chiassosa per uscire.

Era un fiume in piena, violentissimo ma immotivato.

Perché il motivo di tutte quelle lacrime non mi era chiaro.

Quando entrai nel mio appartamento mi fiondai nel bagno, non riuscivo a smettere di vomitare lacrime e lamenti, addirittura lo stomaco sembrava contorcersi, vibrare.

Percepii la bile risalirmi nella gola, il suo sapore amaro si fondeva nella bocca a quello salato delle mie lacrime.

Come in preda alle volontà del mio corpo mi fiondai sulla tazza del water.

Vomitai.

*****

«Sana? Sana? Sana, che hai combinato?» La voce di Naozumi mi riportò alla realtà.

«Ti rendi conto che stai dormendo sul tappeto del bagno?» Urlò.

«E poi che schifo è qui dentro? Vomito? Che cazzo hai fatto?»

Detestai le sue urla, mi arrivavano come lame nei timpani, poi Naozumi, da brava prima donna, quando s’irritava si lasciava andare a urla stridule e acutissime.

Succedeva poco, per fortuna, ma quando accadeva mi sentivo quasi molestata dalla sua voce.

Si accorse che lo guardavo piuttosto rintronata, così mi sollevò dal pavimento.

«Hai bisogno di una doccia…» Mi disse.

«Voglio solo dormire…»

Lo sentii urlare, strattonarmi, ma non mi voltai neanche a guardarlo, mi trascinai fino al letto e scivolai sotto le coperte.

Mi rannicchiai al buio nascosta fin sopra alla testa.

Lo sentii distendersi accanto a me, poggiarsi al di sopra del piumone, rendendomi impossibile ogni movimento.

Finché la sua mano non volò sulla mia testa e mi accarezzò con dolcezza.

«Dovresti lavarti… Sei piena di vomito… Ora sporcherai tutte le lenzuola.»

«Non ce la faccio.»

«Vuoi dirmi cos’è successo ieri sera?»

«Ho bevuto troppo, mi sa.» Mugugnai.

«Bere sul posto di lavoro? Non è da te.»

«Dopo mi sono vista con Hisae e gli altri, siamo andati a bere in un posto.»

«Immagino il posto…»

«No, non lo immagini, non puoi.»

Lo sentii sbuffare e poi si alzò.

Non mi mossi neanche di un millimetro anche se, stranamente, nonostante mi sentissi uno straccio, mi sentivo addosso la forza per farlo.

Nascosta tra le coperte fissai il pavimento accanto al mio comodino, i piedi di Naozumi fecero capolino dopo pochi istanti.

«Ti ho portato le medicine.» Disse.

«In cucina c’è la colazione… L’avevo portata per farla insieme a te, ma ti sei fatta trovare sul pavimento del cesso, tra il vomito e i postumi di una sbronza…»

Pur non guardandolo in faccia immaginavo chiaramente la sua espressione avvilita, la sua mano ad allargarsi la fronte e la postura nervosa.

«Perché non mi lasci, Nao?»

A quel punto lo vidi inginocchiarsi difronte a me, sollevò lievemente la coperta e mi scoprì il viso.

«E’ solo un periodo, piccola. Anche io ne ho avuti tanti, ma passerà.»

«Non credo sia solo un periodo.»

«Certo che lo è… Ti senti priva di aspirazioni, di obiettivi, poi però qualcosa accade e quel periodo passa, deve per forza. E’ la vita.»

«Come sei bravo, Nao.»

Mi sorrise ignorando il mio tono ironico e provocatorio e fece per baciarmi la fronte, a quel punto però, sentii di nuovo quella voglia di pianto immotivato nascermi dentro e mi voltai dall’altro lato dandogli le spalle.

«Scusa, lascia perdere. Voglio dormire.»

Lo sentii sospirare, alzarsi e andar via dalla camera da letto.

Perché quelle lacrime? Soprattutto perché senza motivo?

Il bacio di Akito non mi aveva smosso nulla, certo, mi rendevo conto che il mio corpo aveva reagito ai suoi stimoli in maniera quasi automatica, quasi meglio di quando lo faceva sotto l’effetto delle medicine, era una sensazione anche più potente delle mie medicine a dire il vero, ma comunque le emozioni non mi erano tornate affatto.

Forse, pensai, quella reazione era solo un altro scherzetto della mia malattia.

Che senso aveva vivere a quel modo?

Mi passai un dito sulle labbra, il sapore del suo bacio non c’era più, l’avevo vomitato via insieme a tutto il resto.

Tirai su col naso, mi asciugai quelle lacrime dispettose che non avevano senso né motivo di sgorgarmi così dagli occhi e affondai i singhiozzi tra i cuscini, finché sfinita non mi riaddormentai.

*****

Mi risvegliai sentendo la voce di Naozumi provenire dalla cucina.

Non era bello addormentarsi dopo un lungo pianto.

Io lo avevo dimenticato, ma quando ci si addormenta tra le lacrime poi ci si risveglia con le narici tappate e un mal di testa insistente.

Senza fare rumore mi alzai lentamente dal letto lanciando uno sguardo a tutte le medicine che Naozumi aveva abbandonato sul mio comodino.

In pratica aveva svaligiato l’intero armadietto dei farmaci. C’era persino un antipiretico e uno spray decongestionante.

Nel dubbio era meglio prendere tutto, pensai che fosse stato più o meno quello il suo pensiero mentre imbambolato davanti all’armadietto delle medicine si chiedeva quali fossero quelle giuste.

Questo perché io per lui non avevo problemi, semplicemente lasciavo che mia madre l’inventasse per me solo per giustificare il fatto che mi sentissi priva di qualsiasi tipo d’ambizione.

La voce di Naozumi si fece più acuta, pensai a due probabili alternative: o stava provando una parte, o si stava lamentando con uno dei suoi manager perché non aveva chiesto cosa prevedevano i cestini del pranzo su Dio solo sapeva quale set.

Fu quando mi decisi ad alzarmi e ciondolare come uno zombie fino alla cucina che mi accorsi che nessuna delle due ipotesi fosse quella giusta.

Naozumi era seduto al tavolo, spalle alla porta. Davanti a lui aveva un paio di copioni aperti ed evidenziati in alcuni punti con pennarelli fluorescenti e parlava al telefono.

«Io temo siano inutili tutti questi psichiatri che lei le sta facendo incontrare… Sana non è malata, anzi penso che loro le mettano in testa teorie strane, più complicate di quel che è la realtà!»

Era al telefono con mia madre, me ne rimasi sulla porta ad origliare quella conversazione.

«Le ho detto già quello che è successo! L’ho trovata distesa sul pavimento del bagno, ieri sera si è sbronzata ed ha vomitato! Sono cose che accadono a tutte le persone normali! Non c’è da ricercare tutta questa psicologia!»

Naozumi si portò una mano in viso con fare esasperato, mia madre dall’altro lato stava sicuramente facendo valere le sue ostinate ragioni.

Su questo loro due erano molto simili, non volevano perdere, mai.

Certe volte pensavo che ormai aggiustarmi, come diceva mia madre, o togliermi questo senso di privazione che Naozumi diceva io avvertissi nella mia vita, era la mission di entrambi.

Mi sembrava più uno scontro tra loro che una vera e propria ricerca di ciò che era vero.

Che poi cos’era vero?

Io ero malata, mia madre aveva ragione, ma era solo colpa mia che forse ero priva di quella lucidità che serviva per affrontare la cosa, su questo aveva ragione Naozumi.

Quello che non capivano però, era che in tutto questo loro non c’entravano affatto.

Ad ogni modo a me facevano sorridere, certe volte pensavo che volevano disperatamente guarirmi per poi dirsi tra loro: “Vedi? Avevo ragione io?”

«Ci è andata dopo il lavoro… Con Hisae e gli altri… No… Lo escludo, lui non ci va mai a quelle stupide feste, poi dubito le possa smuovere ancora qualcosa.»

Quell’ultima frase mi colpì.

Dubito le possa ancora smuovere qualcosa.

Naozumi c’aveva preso.

Vivevo una vita in cui rivedere Akito Hayama non mi smuoveva proprio niente.

Era questo a farmi male?

Senza lasciare che s’accorgesse di me, me ne tornai a letto e rimasi lì per un po’ col naso per aria e ancora quelle lacrime che mi scivolavano ai lati delle guance.

Non volevo pensare a lui, soprattutto non volevo pensarci senza provare la benché minima emozione.

Mi andava bene anche la rabbia, il senso di colpa, la vergogna… Ma l’indifferenza che avvertivo mi disarmava.

Sentii il cellulare vibrarmi nella borsetta, pur di non pensarci scivolai dal letto e lo raccolsi.

Erano le sei del pomeriggio, avevo ricevuto un paio di chiamate da mia madre e ben 21 da Hisae, c’erano anche 18 messaggi e mi meravigliai non fosse già a casa mia. Notai poi che c’era anche un messaggio da parte di Nobu, mi era arrivato proprio in quel momento a dire il vero.

Anche se quel giorno ero libera, lo aprii pensando che doveva esser successo davvero qualcosa d’importante a lavoro perché non mi aveva mai scritto.

“Un ragazzo è appena venuto a chiedere di te. Non mi ha detto il suo nome, comunque era un tipo alto, dai capelli chiari e a giudicare dallo sguardo era anche abbastanza scazzato… Quindi ce l’hai il ragazzo, allora!    ;-P”

“Non è il mio ragazzo.” 

Gli risposi solo quello e poi pensai ad Hayama.

Pensai che era rimasto sicuramente sconvolto dal mio atteggiamento, non avrei neanche saputo dargli torto.

Baciare una donna che poi si faceva venire una crisi di panico non era certo un’esperienza da mettere in cima alla lista delle esperienze di vita per una persona normale.

Pensai che di lì a poco sarebbe arrivata Hisae, soprattutto pensai che non avevo voglia di vederla, così come non avevo voglia di avere Naozumi in giro per casa quel sabato.

Proprio lui, come se avesse captato i miei pensieri, fece capolino sulla porta, mi ritrovò seduta al centro del letto con il cellulare tra le mani.

«Ma buon giorno!» Mi disse in un sorriso. «Lo sai che ore sono?»

Io gli mostrai il cellulare. «Si, ho visto…»

«Con chi messaggi?»

«Hisae, a momenti sarà qui, penso sia meglio che tu non ti faccia trovare.»

Lui mi fissò per un istante grattandosi la testa. «Non puoi dirle che per oggi è meglio se non vi vediate?»

«Pensi che questo possa trattenerla?»

Lo vidi sbuffare un po’, poi si avviò in cucina, dal rumore che produceva volutamente mi accorsi che la mia uscita non gli era andata a genio.

«Nao…» Lo chiamai e lui non si fece attendere, come una furia si parò avanti a me guardandomi con aria risentita.

«Lo sai che sono rimasto tutto il giorno qui ad aspettare che sua maestà si svegliasse? Non ti senti neanche un po’ in colpa nel mettermi alla porta così perché la tua stupida amica decide sia il caso d’irrompere qui senza il minimo rispetto?»

Odiavo quando mi faceva sentire in colpa, soprattutto quando pensava non capissi che gli faceva solo piacere lasciare il mio appartamento quando facevo così.

«Resta allora.»

«Come faccio a restare?»

«Allora lo vedi che non sono io a metterti alla porta? Sei tu che non vuoi farti trovare qui.»

A quel punto la sua espressione si ammansì, lasciò andare un sospiro e mi si avvicinò. «Lo abbiamo deciso insieme di mantenere segreta questa relazione, dico solo che puoi anche trattenere la tua amica e startene con me.»

«Non la trattengo affatto, se vuoi trattieniti tu.»

«Vabbè, ho capito. Sei nervosa. Pensare che tua madre dice sempre che tu non sia in grado di innervosirti, sai? Invece è come dicevo io… E’ solo un periodo.»

Me lo disse in un sorriso, accarezzandomi i capelli.

Nella mente mi tornarono le parole di Akito.

La vera Kurata è rossa, aveva detto.

Pensai che Naozumi non ci aveva mai fatto caso, anzi, quando, appena ci mettemmo insieme, gli avevo detto che volevo cambiare colore ai capelli, si era mostrato entusiasta.

Anche il suo modo di accarezzarmeli… Era così diverso da quello di Akito.

Erano sempre stati diversi loro due, ma il punto era che ormai era una diversità che percepivo ma non sapevo cogliere più.

Poi si chinò a baciarmi. «Fa’ una doccia.» Mi disse e se ne andò senza voltarsi indietro.

*****

Sulla coperta il cellulare prese a vibrare, era mia madre.

Le risposi subito, non volevo si preoccupasse troppo e si precipitasse a casa mia.

«Mamma…»

«Ciao tesoro! Naozumi mi ha detto che ieri sera ti sei divertita un po’ troppo!» Trillò.

«Già… Troppo.»

«L’alcol non si accoppia bene con le tue medicine, lo sai, no?»

«Lo so…»

«Comunque… E’ stata una bella serata, almeno? Chi c’era?»

«Tutto il vecchio gruppo… E Hayama.»

«Ah…»

«Già.»

«Ti ha fatto piacere rivederlo? Insomma… Dopo tutto questo tempo, dico.»

«Beh… Non più di tanto.»

«Ma come? Immagino sia diventato un bel ragazzo, no?»

«Mamma, per favore…»

«Che noia che sei!»

«Senti mamma, tra un po’ viene a trovarmi Hisae, mangeremo qualche schifezza, parleremo un po’ e poi andrà via e io mi metterò a letto. Sta tranquilla.»

«Non vuoi parlare un po’ anche con me? Come ti senti?»

«No mamma, sul serio. Sto bene… E… Ti voglio bene, sta tranquilla.»

La sentii sospirare, scontenta. Adoravo mia madre e lo sapevo che vedermi così l’annientava, ma quel giorno proprio non ce la facevo a rasserenare le persone che mi circondavano con la classica condiscendenza, stavo male e volevo semplicemente starmene per conto mio.

A quel punto mi venne in mente Hisae, di certo se non l’avessi fermata sarebbe arrivata di lì a poco.

«Mamma, adesso vado, devo ricordare ad Hisae di… Comprare… Delle cose.»

Le regalai un paio di baci poco convinti e misi giù alla svelta.

Poi chiamai anche la mia amica.

«Sana!» Urlò. «Che cazzo di fine hai fatto?»

«Scusa… Ho dormito fino a poco fa.»

La sentii sbuffare, la sua voce però mi arrivava coperta da un frastuono simile allo sferragliare dei treni sulle rotaie.

«Ma dove sei?»

«Alla stazione, ho avuto una riunione di lavoro a Saitama oggi, sennò sarei passata, mi hai fatto spaventare!»

Tirai un sospiro di sollievo sentendoglielo dire. Le volevo bene ma quella giornata volevo solo finisse alla svelta.

«Sto bene… Non ti devi preoccupare.»

Mi sembrò come innervosita da qualcosa, mi accorsi che prese tempo sospirando rumorosamente più e più volte, poi un tizio doveva averla urtata perché ad un tratto la sentii anche urlare qualche improperio all’indirizzo di qualcuno.

«Hisae non ammazzare nessuno, ti prego…»

«La vedo difficile, sono nera! Mi fanno lavorare anche di sabato, ma ti rendi conto?» Sbuffò.

«Senti…» Fece dopo un po’. «Ho sentito Akito prima, voleva il tuo numero, io non gliel’ho dato… Però… Penso voglia vederti… Ehm… Scusa… Cioè… Immagino sia successo qualcosa tra voi.»

Quella giornata della memoria proprio non voleva finire, ormai ero a quota tre persone che mi chiedevano di Akito.

Pensai che l’unica persona a cui sarebbe dovuto interessare si era limitato a dire che ormai non mi smuoveva niente. Mi chiesi che faccia avrebbe fatto se avesse saputo del bacio che c’era stato tra noi due, soprattutto mi chiesi perché non mi sentivo dentro nemmeno il senso di colpa nei confronti di Naozumi.

«Mi ha baciata, poi sono andata via…»

«Sana… Cazzo! Scusami! Come al solito non avevo capito niente, pensavo avesse insistito per riaccompagnarti a casa perché voleva parlarti di me e Gomi…»

«Te e Gomi?»

«Si…  Beh… Ora te lo dico ma prometti di non chiedermelo più perché potrei non ammetterlo una seconda volta… Purtroppo penso proprio che mi piaccia.»

«Ma chi? Hayama?»

«Ma no! Gomi.»

«Gomi? Ma Hisae lui è un tale…»

«Lo so, è un cafone troglodita, ma non posso farci niente, è così.»

«Non mi ha detto proprio niente di voi due…»

«Immagino… Sono stata una stupida... Chissà cosa credevo… Perdonami. Comunque tu come ti senti? Ti ha dato fastidio? Ti è piaciuto?»

«Mentre mi baciava mi è cominciata una crisi di panico.»

«Dio mio, Sana! Mi sento veramente una merda… Ma chi cazzo ci pensava che aveva dei doppi fini? Non è mai venuto a nessuna festa, da quando è tornato non si è mai fatto vivo con te… Avevo dato per certo fosse ormai acqua passata… Io proprio non credevo che…»

«Tranquilla, Hisae, me l’ha detto chiaro e tondo che voleva solo togliersi lo sfizio.»

«Che merda…»

«Dici? Io ho pensato fosse solamente sincero.»

«Beh… Se mi dici così è perché magari lo sfizio era venuto anche a te…»

«No, Hisae…»

Mi limitai a risponderle così, evitando di dirle che in realtà non avevo sentito proprio niente e che se non fosse stato per il mio stupido corpo e la sua naturale predisposizione a rispondere ossessivamente agli stimoli di Akito Hayama, - perché sì, era proprio quello che mi era sembrato - di certo quel bacio non sarebbe durato che un istante.

«…E dai! Non fare la timida, magari chissà dallo sfizio nasceva altro, Naozumi andava al diavolo e tu tornavi con Hayama… Sarebbe stata davvero un’ottima prospettiva. Via Naozumi, via medicine, via attacchi di panico e benvenuta felicità.»

«Felicita?»

A quel punto, abbozzò un’aria fintamente indispettita. «Ah non lo so… Guarda che un tempo lo dicevi te che era lui la felicità di Sana Kurata!!!»

Già, era vero, mi ricordai anche il momento esatto in cui gliel’avevo detto, tutte quelle sensazioni che avevo provato e che in quel momento, neanche rievocandole riuscivo a percepire.

Mi sentii addosso di nuovo quella voglia di pianto immotivato che ormai riuscivo a collegare all’ennesima risposta naturale del mio corpo agli stimoli di Akito Hayama.

La verità era che non provavo niente e più me ne rendevo conto, più lo collegavo a lui, più mi veniva da piangere.

Non volevo! E un po’ lo odiai, quanto meno mi convinsi di riuscirci, perché pur non sapendo nulla, mi aveva fatto toccare con mano quanto ormai questa malattia aveva invaso ogni angolo della mia testa.

«Hisae… Quando l’ho visto… Soprattutto quando mi ha baciata, io non ho provato nulla. Perché…?»

Lasciai quella domanda nell’aria come un lamento. Lo sapevo che Hisae non avrebbe saputo rispondermi, lo sapevo che quella situazione non aveva a che fare con lei, forse neanche direttamente con lo stesso Hayama a cui semplicemente una sera era passato per la mente di portarmi a letto, il problema ero io e quel tunnel degli orrori che era la mia mente.

Perché dovevo vivere se vivere era quell’elettroencefalogramma piatto a cui si aggiungeva qualche onda solo con un farmaco?

Perché? Se alla fine sarei andata avanti sempre peggio?

La mia amica ebbe uno strano sussulto, immaginai stesse cercando con lo sguardo una panchina e ci si stesse sistemando in attesa di parlare con la giusta calma.

«Tesoro… Però piangi…»

«Già… E non so neanche il perché.»

«Naozumi, quella merda.»

Lasciai andare un debole risolino, era sempre la solita. «Dai, Hisae!»

«Guarda che è vero, sai? Non provi niente perché quello là ti getta addosso tutto il suo grigiore e tu vivi la vita con quelle lenti lì! Dovresti liberartene… E poi secondo me a letto non è neanche capace.»

«Non ti dirò se Naozumi ci sa fare, Hisae.»

«Certo che no, perché sei una signorina per bene, darmi ragione sarebbe di cattivo gusto.»

«Pensala come vuoi…»

Le dissi così, poi parlammo ancora della sera precedente, delle uscite infelici di Fuka, di quanto erano carini Aya e Tsu, di quanto fosse odiosa quella Mizuo che Gomi si ostinava a trascinarsi dietro… O meglio lei parlò, io mi limitai ad ascoltare finché il suo treno non arrivò in stazione e mise giù.

*****

Mi fiondai tra le coperte pensando al fatto che tutto quel pianto aveva avuto almeno un lato positivo, mi sembrava di non percepire quelle sensazioni orribili che mi rendevano così dipendente dalle medicine.

Certo, mancava ancora molto tempo prima che si facesse sentire il bisogno e poi, anche se non l’avessi avvertito, non potevo in alcun modo sospendere le medicine così, però ecco, mi riconoscevo sempre addosso quella apatia, ma fisicamente non avvertivo molti altri sintomi.

Mugugnai un po’ prima di acciambellarmi su me stessa, desideravo smettere di pensare e dormire almeno fino al giorno dopo.

Non so quanto tempo passò, mi risvegliai di soprassalto sentendo sbattere alla porta. Il cuore mi arrivò in gola e fissai il buio della mia camera con un profondo senso d’inquietudine addosso.

Il rumore era assordante, per un istante pensai che provenisse da un’altra abitazione e mi alzai dal letto per controllare.

«Kurata!» Sentii urlare il mio nome e riconobbi all’istante quella voce.

Hayama.

«Apri!» Urlò. «Lo sento che ci sei!»

Akito Hayama era alla mia porta con un ritardo di quindici anni.

«Non ci penso nemmeno, va via!»

«Apri ho detto!»

Non gli risposi e me ne tornai a letto, pensai che presto o tardi si sarebbe stancato e sarebbe andato via.

Che diavolo voleva?

Poi d’un tratto sentii un colpo secco, la porta aprirsi e sbattere.

Ma era scemo o cosa?

Istintivamente m’accovacciai sotto le coperte cercando di mantenere fermi i lembi come meglio potevo. Che aveva per la testa quello là?

Lo sentii entrare nella mia stanza, accendere le luci.

«Kurata? Che cazzo fai? Vieni fuori!»

«Ti ho detto di andare…»

Avrei tanto voluto sapere dove stava posando gli occhi, cosa gli stesse passando per la testa nel vedermi nascosta sotto una coperta, come una ladra nella mia stessa casa.

Feci appena in tempo ad articolare quei pensieri che lo sentii infilarsi sotto le coperte, afferrarmi per i polsi e tirarmi giù dal letto.

Mi sentii letteralmente volare per aria, prima di atterrare proprio lì, difronte a lui.

Le sue mani stringevano ancora i miei polsi, mi accorsi che mi guardava quasi sotto shock.

«Ma che ti salta in mente di venire così a casa mia? Mi hai sfondato la porta!»

Come se le parole gli fossero morte in gola sbarrò gli occhi e mi fissò con una certa insistenza mentre io tirai via le mani da quella stretta.

Mi accorsi che si guardava intorno, che la sua espressione diventava via via più indecifrabile.

«Ma cos’è questo posto?»

Poi i suoi occhi si posarono sul comodino dove ancora troneggiavano tutte le medicine che Naozumi ci aveva abbandonato.

Ci si avvicinò lentamente e ne prese una a caso.

«Che succede, Kurata?»

«Ho la febbre, ieri sera devo aver preso freddo…» Trillai avvicinandomi a lui, allontanando come potevo la sua attenzione da lì. «Dovresti andartene o te la prenderai anche tu!»

Come se non fossi neanche presente, mi scavalcò afferrando proprio quelle medicine, ne lesse il nome a voce alta e mi fissò incredulo.

A quel punto scattai immediatamente, mi fiondai su di lui e gliele strappai via dalle mani.

«Te ne devi andare!»

Di tutta risposta, lui mi venne contro costringendomi ad indietreggiare fino ad arrivare al letto.

«Ti prego, vattene…»

Lui si guardò ancora intorno e poi tornò a posare i suoi occhi su di me. «Che vuol dire questo posto? E’… Umido, buio, sciatto… Non è… Beh… Te…»

«Cosa ne sai di me, tu? Non ti permetto d’irrompere qui e sparare giudizi!»

Con una forza dirompente mi spinse sul letto, si parò tra le mie gambe bloccandomele e strinse le sue mani sui miei polsi. Come aveva fatto con Gomi, mi mise al tappeto con una sola mossa obbligandomi a fare ciò che lui voleva da me in quel momento: Guardarlo.

Guardarlo dritto in quegli occhi che non mi restituivano niente, non riuscivano a replicarmi un emozione diversa dal disagio di sentirmelo addosso, né un sentimento chiaro e distinguibile.

Risentii quel desiderio di piangere, scossi la testa per cacciarlo indietro, o forse per non farglielo vedere.

Il suo sguardo però mi agitava, studiava fisso il mio che tentava disperatamente di scappare.

Fissai l’attenzione sulle sue braccia, erano ricoperte dalla pelle scura della sua giacca, ma dalle poche grinze che faceva capii che per tenermi ferma non si stava sforzando neanche un po’.

Il suo respiro caldo mi agitava la pelle del viso, del collo, forse in un’altra vita avrei trovato quella situazione piacevole, magari eccitante, in quel momento non avvertii nessuno stimolo, se per caso mi avesse strozzata, pensai, non avrei avvertito neanche la paura.

Volevo solo che mi lasciasse, che sparisse alla svelta dal mio appartamento e mi lasciasse sola. «Ti prego… Mi fai male… Lasciami andare…» Quella volta glielo chiesi quasi in un lamento.

Sperai mi desse ascolto, invece sentii il suo sguardo perforarmi la pelle più del suo respiro, boccheggiai allungando un po’ il collo cercando di prendere aria e mi accorsi che seguì il mio movimento sperando quasi di leggerci qualcosa dentro.

Il cuore mi batteva all’impazzata, i sintomi forse stavano tornando e sperai lui non se ne accorgesse, soprattutto sperai la piantasse di stringermi i polsi piantato su di me. «Kurata… Che cazzo ti è successo? Perché sei arrivata a tanto?»

Cominciai a voltare la testa quasi convulsamente, la sensazione delle lacrime sulla pelle mi mandò in black out il cervello, il suo sguardo addosso non riuscivo a reggerlo. Non era che provavo vergogna, solo fastidio che si fosse intromesso con tutta quella irruenza nella mia vita con ben quindici anni di ritardo.

«Lasciami!»

«No! Non ti lascio finché non me lo dici!»

«Sono malata!» Urlai.

«Fin qui ci arrivo, Kurata, voglio sapere che è successo, perché che sei depressa lo capisco da me!»

Il mio mostro aveva un nome.

Akito con la sua irruenza, aveva dato un nome alla mia malattia senza girarci intorno, senza temere di apparire sgarbato, senza usare con me quella delicatezza e quell’atteggiamento accorto che utilizzavano tutte le persone che popolavano la mia vita senza abitarla realmente.

La conoscevano tutti la mia malattia, molti la negavano, mia madre la accettava, ma non la chiamava per nome nessuno, ne erano forse tutti terrorizzati, forse lo vedevano come un virus contagioso che se nominato ti compariva alle spalle, ti si legava alla testa convincendoti con insistenza di esserti infettata e loro non volevano farla la mia fine.

E in fondo era quello che facevo anche io.

Non l’avevo mai usata quella parola, neanche tra me e me, certe volte pensavo che se solo l’avessi nominata le avrei regalato spontaneamente una parte di me.

E allora dicevo malattia, dicevo apatia, dicevo spossatezza, dicevo tristezza.

In realtà quella malattia, proprio della tristezza, non aveva niente, perché riusciva a toglierti persino quella.

La prima volta in cui sentii parlare chiaramente di lei, fu quando avevo 23 anni, durante un incontro con uno dei tanti luminari a cui mia madre mi sottoponeva. Scoprii che quella malattia non aveva niente a che fare con i sentimenti o con le emozioni negative, era semplicemente logorante assenza di tutto ciò che rendeva umano un essere umano.

Eppure noi siamo umani, siamo fatti per provare quelle emozioni e quei sentimenti, - belli o brutti che siano - e allora, quando il corpo viveva quelle situazioni in cui sentimenti ed emozioni dovevano essere chiamate in causa e loro non arrivavano, ecco che rispondeva così, con quei sintomi che tanto mi attanagliavano.

Non era tecnica, né tantomeno scientifica come spiegazione, ma era l’unica che riuscii a darmi sentendo parlare quell’uomo con quel suo lessico pieno di termini che avrei voluto solo dimenticare.

Scoppiai a piangergli in faccia e a quel punto, finalmente lasciò andare la presa sui miei polsi e si tirò accanto a me, mentre io mi nascosi il viso tra le mani, girandomi su un fianco, dandogli le spalle.

Pensai che pur non vedendola, riuscivo a percepire quella immagine distante e presente di me e lui insieme sul letto di casa mia.

In fin dei conti era simile a quella del nostro ultimo ricordo insieme. Cambiavano solo i tempi.

Riuscivo a immaginare il petto di Akito che si alzava e si abbassava quasi freneticamente, riuscivo a immaginare il suo sguardo spaesato perdersi sul soffitto umido e scolorito della mia camera da letto, riuscivo a immaginare me di spalle con la testa tra le mani e quei capelli castani sparsi tra la sua spalla e la coperta.

Forse Akito me li stava guardando, chissà cosa si stava chiedendo.

Non ero la vera Kurata, sperai che lo capisse e se ne andasse.

Invece gli sentii lasciar andare un gran sospiro e mi passò una mano tra i capelli. «Beh… Piangi. E’ un buon segno.»

«E non so neanche il perché…»

«Mica conta questo?» Chiese retorico, mentre, rimanendo immobile accanto a me, continuava a muovere le dita tra i miei capelli in un movimento ipnotico e rilassante.

«Si, ma vorrei poterci capire qualcosa…» Frignai e a quel punto lui mi fece voltare tirandomi a sé.

«Le togli queste mani dalla faccia?»

Feci no con la testa e senza neanche accorgermene mi rannicchiai su me stessa quasi a nascondermi. Lui però non parve fregarsene delle mie reticenze, mi avvolse le braccia intorno alla vita – e alle gambe, data la mia posizione – e mi depositò piccoli baci sulle mani.

«Ti prego, smettila. Non mi susciti niente…»

«Quindi non mi sbagliavo sul tuo orientamento sessuale… Quel bacio con Hisae parlava chiaro in fondo.»

«Hisae mi saluta spesso così e no, non sono lesbica, se è quello che stai tentando d’insinuare.»

«Non l’ho insinuato, l’ho proprio detto.»

«Non lo sono e seppure lo fossi non sarebbe un problema…»

«Per me sì. Insomma, l’avresti capito grazie a me, non pensi alla mia virilità?»

«Senti, piantala con questo umorismo da due soldi. E poi smettila di baciarmi le mani, ti ribadisco che non sento niente e in più puzzo ancora del vomito di questa notte.»

«Già, è vero. A questo punto dovremo fare una doccia.»

Successe nel giro di una manciata di secondi, non ebbi neanche la facoltà di rendermene conto che mi ritrovai tra le braccia di Akito che vagava per casa mia alla ricerca del bagno.

Cercai di oppormi con tutta me stessa, ma lui aveva in sé una forza davvero palpabile, sembrava scalpitargli dentro con irrequietezza e trasudare dalle mani che pur senza stringermi le gambe mi mantenevano salda al suo petto, dalle braccia ferme e marmoree, persino dallo sguardo fiero e dritto che puntava avanti verso l’obiettivo ignorando totalmente le mie parole e i miei movimenti.

Trovato il bagno mi spinse nella doccia, mi tenne ferma con una sola mano mentre con l’altra armeggiava con la manopola dell’acqua calda.

«Ma sei impazzito? Che intenzioni hai?»

«Farti una doccia, mi sembra ovvio.»

Tentai di mollargli uno schiaffo, ma fu rapido a schivarmi, o forse ero io troppo ingessata nei movimenti.

«La farei volentieri anche io insieme a te, ma al momento ho altro da fare!» Biascicò, lanciandomi addosso il getto dell’acqua.

A quel punto però fui rapida io nel voltargli il soffione della doccia dritto in faccia, lui non si scompose più di tanto. Si scrollò un po’ d’acqua dal viso portandosi indietro i capelli, spense il getto dell’acqua e mi mise il soffione tra le mani.

Mentre io ansimavo affaticata dal suo modo di fare, lui mi sorrise e mi guardava con quello stesso sguardo che mi aveva regalato tante volte anni prima.

Quanto avevo amato quegli occhi? Quante volte quello sguardo mi aveva confusa e quante altre mi aveva riportato a casa? Nella mente però ricordai nitidamente solo le volte in cui mi aveva lasciato indietro.

Le gocce d’acqua gli rigavano il viso, scivolavano leggere dalla fronte alle labbra che mi accorsi avevano un colorito più intenso. Pensai fosse bello, ma quello lo era sempre stato.

Poi i miei occhi si mossero, gli accarezzarono il collo bagnato, quasi in automatico una mia mano volò proprio lì, con le dita giocherellai un po’ coi suoi capelli.

Rimasi per un istante così in una sorta di contemplazione, come ipnotizzata dallo sfrigolio dei suoi capelli tra le mie dita che lentamente poi improvvisarono una sorta di camminata fino al lobo del suo orecchio e ci giocherellarono. La cosa comunque dovette stranirlo perché corrugò la fronte e mi strinse una spalla quasi scuotendomi.

«Fa’ la doccia.» Me lo disse in un filo di voce ma mi parve quasi un ordine.

Allora, quasi come se non avessi cognizione dei miei movimenti, allontanai la mano da lui e mi sfilai la maglia.

Lo vidi strabuzzare un po’ gli occhi, mordersi un labbro quasi incantandosi a guardarmi.

Lanciai la maglia alle sue spalle e continuando a fissarlo mi sfilai anche i pantaloni. Mi accorsi che le sue mani si chiusero in due pugni stretti ai lati delle gambe, che i suoi occhi fissavano attenti i miei movimenti.

Cercai con la mano il gancetto del reggiseno, ne avvertii il click o forse fu solo il rumore del vetro opaco della doccia, quello che Akito chiuse in fretta davanti ai miei occhi.

Mi risvegliai bruscamente da quella specie di spogliarello che il mio corpo aveva deciso di realizzare apposta per lui.

Istintivamente mi portai una mano al collo sorprendendomi non poco del fatto che la stretta alla gola che mi aspettavo dovesse arrivarmi a quel punto non si presentò.

Percepii la sua presenza ancora in quella stanza, attraverso i vetri consumati lo vidi con le braccia tese sul lavandino, lo sguardo fisso allo specchio.

«Se cerchi il phon è in camera mia. Na…»

E quel nome mi si strozzò in gola. Non ne capii neanche il perché ma la voce smise di uscirmi dalla bocca.

Mi strappai di dosso le mutande e il reggiseno, le lanciai fuori dalla doccia e m’immersi sotto il getto caldo dell’acqua.

«Io torno subito.» Gli sentii dire e dentro di me ricordai che l’ultima volta in cui me l’aveva detto non era tornato più indietro.

*****

Quando mi tirai fuori dalla doccia doveva esser passato molto tempo. Avevo la pelle arrossata, i polpastrelli aggrinziti.

La stanza era avvolta dal vapore. Mi sembrò una trasposizione della mia testa, una nube piena di oggetti dismessi.

Soprattutto capii in qualche modo che me ne stavo rendendo conto solo in quel momento che in quel bagno tutto sembrava cadere a pezzi.

Sentii silenzio tutto intorno, immaginai fosse realmente andato via senza tornare indietro.

Mi chiesi se non mi fossi tirata fuori dalla doccia così tardi per ritardarmi quella consapevolezza.

Ma durò un istante, i miei occhi si posarono sul phon poggiato sul lavandino, evidentemente Akito lo aveva usato e aveva pensato di farmelo trovare lì.

Mi colpii quella immagine e irrimediabilmente pensai a Naozumi, non ammetteva fossi malata, ma indubbiamente quella fiducia non me la riservava.

O forse non la riservava alle sue convinzioni.

Mi asciugai i capelli e venni fuori dal bagno, mi accorsi immediatamente del brusco cambio di temperatura e mi nascosi in camera mia, tirai dall’armadio dei leggings e la prima felpa che mi capitò tra le mani e m’imbambolai a riflettere su cosa fare.

Akito era andato via e non sarebbe di certo tornato. Mi domandai cosa fosse venuto a fare? Che senso aveva quel suo modo di fare?

Mi strinsi nelle spalle rispondendomi che il mio atteggiamento della sera precedente lo aveva evidentemente sconvolto, poi lui era sempre stato un tipo piuttosto sveglio, non mi meravigliai più di tanto che gli erano bastati pochi elementi per tirare le somme sulla mia situazione.

Sbuffai un po’ davanti al mio armadio aperto, chissà che ora era, avrei dovuto cercare il mio telefono.

Mi dondolai un po’ sui piedi senza avere una chiara idea su ciò che fare quando un odore di tabacco mi arrivò alle narici.

Possibile fosse tornato?

Mi avviai incredula verso la cucina e sorprendentemente lui era lì.

Era al buio, aveva spostato il tostapane e se ne stava seduto al suo posto, sul mobile della cucina che dava sulla finestra, con una gamba cavalcioni al cornicione.

Pensai che neanche lui doveva avere tutte le rotelle al posto giusto.

Fumava una sigaretta e guardava fuori con uno sguardo assorto, forse triste, il viso illuminato solo dalla sua sigaretta ogni volta che ne aspirava un tiro.

Il vento freddo di Dicembre gli smuoveva un po’ i capelli ricacciando il fumo di sigaretta all’interno.

Che cosa gli passava per la testa?

Mi resi conto che mentre mi ripetevo che non m’importava niente di lui, stavo cominciando a chiedermelo, soprattutto mi resi conto che non provai quel desiderio di vederlo andar via come mi era successo con Naozumi.

Non provai neanche un definito piacere, però forse, qualcosa che si avvicinava allo stupore e all’incredulità.

Accesi la luce spezzando quel momento e lui si voltò a guardarmi.

«Certo che ci metti una vita a lavarti.»

Scrollai le spalle e mi strinsi tra le braccia. «Come mai sei ancora qui?»

«Sono uscito a prendere la cena, il tuo frigo non vede cibo da quando ancora avevi i capelli rossi, mi sa… Oltre al fatto che è da rottamare.»

«Già, devo cambiarlo… Ma comunque cos’hai contro i miei capelli, adesso?»

«Te l’ho già detto, la vera Kurata è rossa.»

Sollevai gli occhi al cielo, certo che si era proprio fissato, cosa ne sapeva lui di me dopo quindici anni e poi che avevano di male i miei capelli castani?

«Ti ho riparato la porta, adesso si chiude.»

Giusto, la porta, neanche avevo fatto caso al fatto che se non l’avesse riparata avrei dormito con la porta aperta.

«L’hai rotta tu…»

«Non c’è di chè.»

A quel punto balzò verso l’interno, spense la sigaretta in uno dei tanti posacenere che Hisae disperdeva nel mio appartamento e mi regalò un sorrisetto che in un’altra vita avrei definito irresistibile indicandomi il tavolo su cui erano poggiati molti sacchetti di plastica.

«La sai una cosa, Kurata? Io non lo so qual è il tuo piatto preferito. Ci pensavo mentre cercavo di capire cosa prendere.»

«Non importa, tanto non ho fame.»

Come da prassi, ignorò le mie parole, mi si avvicinò e mi liberò dalle mie braccia conserte tirandomi al tavolo.

«Posso sapere per quale motivo stai facendo tutto questo?»

«Beh perché mi va.»

«Non ho fame, Hayama.»

«Come dicevo… Non sapevo cosa prenderti così ho pensato… Magari del sushi.»

«Quello piace a te.»

A quel punto mi sorrise con fare sbruffone e tirò fuori dal sacchetto della farina.

«Ma poi mi sono ricordato che sei una viziata, che di certo non avrei scelto il ristorante giusto, il sushi giusto e ho lasciato perdere…» Continuò, tirando fuori dal sacchetto anche delle uova.

«Magari il tonkatsu… Ma poi avresti detto che non ti piaceva il maiale e che avresti preferito del pesce…» Aggiunse e tirò fuori dal sacchetto dei gamberi, della pancetta e delle salse.

«Hayama? Che stai facendo? Ti ho detto che non ho fame.»

«Il ramen? Ho pensato anche a quello, ma quello… Beh, non andava a me.» Disse e tirò fuori dei porri, un cavolo e una serie infinita di verdure e spezie.

«Così mi sono detto che forse, per accontentare una come te, sarebbe stato meglio prendere tutto il necessario per una okonomiyaki e lasciarti fare.»

Era stato un gesto carino? Non riuscii a definirlo, soprattutto non riuscivo a definire lui. Perché ora stava facendo così? Perché scomodarsi tanto per una che fino al giorno prima per lui neanche esisteva?

«Non ho una teppan in casa.»

«In qualche modo ci arrangeremo.»

«Ma ti ho già detto che non ho fame.»

«Io sì, dammi una mano a prepararle.»

Sbuffai sonoramente mentre lui mi diede le spalle e cominciò a riordinare la spesa andando a tentoni tra i pensili della mia dispensa e a mano a mano che lo faceva mi accorsi che non si era limitato ai semplici ingredienti per le okonomiyaki, mi aveva letteralmente riempito i mobili di ogni ben di Dio.

«Guarda che sono in grado di farmela da sola la spesa…»

«Non ho mica detto che sono per te queste cose?»

Lasciai scivolare la conversazione roteando gli occhi al cielo, mi balenò nella testa la possibilità di andarmene a letto e lasciarlo lì a fare ciò che voleva, così, me lo guardai per un po’ come se mi fosse appena arrivato in casa e scrollai le spalle.

«Senti io vado a letto, tu fa come ti pare.»

Neanche mi rispose, m’afferrò per un braccio e mi tirò al lavandino parandosi alle mie spalle.

La sua figura mi avvolse, sentii il suo petto schiacciarmi la schiena, le sue braccia incollarsi alle mie e le sue mani incastrarsi perfettamente sulle mie.

Mi sembrò di sussultare per quella assurda posizione in cui mi aveva messa, ma sembrò curarsene poco, come se fossi una marionetta mi piazzò il cavolo tra le mani e richiuse la sua mano sulla mia, poi afferrò il coltello con quella che ormai non sapevo più se fosse la mia mano o un prolungamento della sua e cominciò a farmelo tagliare guidando i miei movimenti con i suoi.

Niente, non mi dava scelta né possibilità di scampo.

Sollevai il viso a guardarlo, era così assorto da sembrarmi buffo.

«Hayama…» Sussurrai scuotendo un po’ la testa.

«E’ questo il problema, Kurata, sei cocciuta e anche viziata.»

«Non è vero.»

«Si che è vero!»

«Ci metteremo il doppio del tempo solo perché non vuoi collaborare.»

Così mi disse, nel tono della sua voce però non c’era frustrazione né rabbia, ma una sorta di delicata e timida dolcezza.

Non mi arrivava tutto chiaramente, ma mi accorsi che mentre lui, incollato a me guidava i miei movimenti facendomi di fatto preparare la cena, avevo persino smesso di pensarci, di chiedermi perché fosse lì, cosa significasse il suo modo di fare.

Semplicemente mi lasciai andare.

E più lo facevo, più mi accorsi che le mie percezioni e le mie sensazioni si stavano dilatando.

Feci caso all’odore della sua pelle, al suo respiro che da quella posizione mi solleticava il collo, ai suoi movimenti sempre un po’ nervosi che celavano dentro un’irruenza istintiva che mitigava con la sua proverbiale tendenza all’autocontrollo e a quella meticolosa precisione.

Era un contrasto strano che però percepivo così, pelle contro pelle.

Il suo corpo mi parlava di qualcosa, qualcosa di scomodo che lui stava tentando di nascondermi ma che io sentivo senza chiarezza, come avvolto da una sorta di nuvola di fumo.

Come una sensazione che intimamente conosci bene, ma non sai spiegare con semplici parole.

I miei occhi fissarono attenti le sue mani, mi accorsi che erano così diverse da quelle di Naozumi, avevano un tocco più deciso, più virile, una pelle meno sottile e anche la forma era diversa.

Le mani di Akito non sembravano affatto levigate dalla carta, ma anzi sembravano aver fatto tanto, forse troppo, era come se gli sentissi stretto intorno alle dita qualcosa simile a dei lacci, come se tra la pelle delle sue mani e la mia ci fosse una sottile barriera fibrosa.

Mentre pensavo a tutte queste cose, neanche mi accorsi che il petto di Akito non era più contro la mia schiena, che le sue mani non guidavano più i miei movimenti, ma che avevo cominciato a fare tutto da sola, in una sorta di meccanica e involontaria autonomia.

Quando lo realizzai mi accorsi che avevo già davanti l’impasto per le okonomiyaki.

Mi voltai a guardarlo e lo ritrovai poggiato braccia conserte ai fornelli che mi guardava con una sorta di compiaciuto risolino negli occhi.

«E… E ora che facciamo?» Gli chiesi.

«Direi cuocere tutto e mangiare, ce l’hai una padella, Kurata?»

Annuii e cominciai a cercarla tra tutte quelle cianfrusaglie che neanche ricordavo di avere, nel frattempo lo vidi prendere due birre dal frigo.

Le aprii con il retro di una forchetta e me ne passò una non appena venni fuori dalla mia ricerca.

Le fece tintinnare e ne mando giù un lungo sorso mentre io me ne rimasi lì a guardarlo con la padella in una mano e la birra nell’altra come incapace di capire se avrei dovuto mettere la birra sul fuoco e attaccarmi alla padella o il contrario.

Forse gli sembrai buffa perché mi sorrise avvicinandomisi e si chinò su di me.

Mi strappò via la padella dalla mano e poi si allungò a baciarmi le labbra.

«Ma che fai!» Urlai tirandomi via da quel contatto.

«Controllavo i tuoi riflessi.» Mi disse, per poi mettere la padella sul fuoco.

«Non mi piace che approfitti così delle situazioni!»

Mi fissò in uno strano risolino, ero certa stesse per rispondermi qualcosa di ironico e pungente ma il cellulare prese a suonargli nella tasca dei jeans e se lo cacciò fuori guardando il display.

Si adombrò di colpo e rispose spostandosi quasi d’istinto verso la finestra.

Mi sembrò di riconoscere la voce di Gomi, ma non ne ero proprio sicura, quello che mi colpii maggiormente fu la sua espressione truce, la sua postura che da rilassata mi sembrò contrarsi involontariamente.

«Che figlio di puttana!» Fece e mi diede le spalle, lo vidi mentre si cacciava una mano nelle tasche tirando su una sigaretta.

«Si, lo so… Ho capito, però adesso no.»

M’imbambolai a guardare i suoi movimenti, c’era qualcosa di strano in lui, mi sembrò stesse trasudando un qualche tipo di sentimento poco chiaro, soprattutto poco sano.

C’era della impercettibile veemenza nel suo modo di accendere la sigaretta, c’era un chè di vagamente trattenuto, sedato, nel modo che aveva d’interagire con ciò che aveva tra le mani.

Mi sembrò come se stesse fumando per evitare di scaraventare il telefono al muro.

«Ti ho detto dopo.» Scandii e io gli guardai le spalle irrigidirsi, i muscoli delle braccia vibrare impercettibilmente.

Poi riattaccò quasi lanciando il telefono sul mobile e buttò fuori un lungo sbuffo denso di fumo.

«E’… Tutto ok?»

«Sì.»

«Se hai da fare vai, non devi per forza…»

«Kurata, la padella sta per andare a fuoco, dai sbrigati!» Fece e mi superò afferrando la ciotola con l’impasto.

*****

Un’ora dopo eravamo a tavola e io ero già arrivata alla seconda okonomiyaki.

Dopo quella telefonata Akito era cambiato, benché tentasse di nasconderlo mi accorsi che era diventato più taciturno, mi sembrò sempre molto presente, ma era evidente che con i pensieri fosse altrove.

I suoi movimenti non erano più fluidi, ma quasi nervosi.

Il tutto però, mi parve affievolirsi e svanire lentamente col trascorrere del tempo.

Mentre mangiavamo mi accorsi che tutta la sua attenzione era completamente rivolta a me.

Mi sembrò quasi mi stesse controllando e io non saprei dire se quel suo atteggiamento mi inquietò o mi confortò. L’unica cosa che sapevo era che non avevo voglia di sentirgli dire “Ora devo andare.” nè di dirgli “Forse è meglio se ora vai.”.

Per tutto il tempo parlammo poco, ma lo percepii moltissimo.

«E il karate? Ti alleni ancora?»

«No, non più.»

Lo guardai un po’ stranita, il suo non mi sembrava affatto l’aspetto di uno che stesse senza far niente, ma comunque decisi di non indagare ulteriormente.

«I takoyaki dei mercatini del Tanabata e i taiyaki al cioccolato.» Feci dopo un po'.

«Cosa?»

«Il mio piatto preferito.»

«Giusto… Sono i piatti preferiti dai bambini, dovevo semplicemente pensare in maniera elementare.»

«Senti chi parla! Il signor il sushi non mi dispiace! Almeno io so dirlo!»

«Dire cosa?»

«Mi piacciono tantissimo queste okonomiyaki, ad esempio, io so dirlo.»

Lui si voltò a guardarmi e mi strizzò un occhio. «Perché le ho preparate io.»

«Veramente hai fatto solo finta, ho fatto tutto io.»

«Sottigliezze… E comunque ti piacciono tantissimo.» Rimarcò.

Mi sembrò di capire cosa stesse intendendo. «Guarda che non sono malata al punto da non rendermi conto se ciò che mangio sia commestibile o meno. Le mie papille gustative funzionano benissimo, sono le emozioni che sembrano andate per i fatti loro.»

«Però eri entusiasta mentre lo dicevi.»

«Sarà stata la serotonina, ce n’è parecchia nelle uova, sai?»

«Io sì, tu che ne sai?»

«Me l’ha detto Nobu.»

«E chi sarebbe Nobu?»

«Il mio collega.»

Inarcò un sopracciglio e mi parve stesse per dire qualcosa, ma buttò giù della birra e non aggiunse altro.

«Ieri mi ero fatta un’idea molto diversa sul tuo conto…»

«Del tipo?»

«Beh, del tipo “Dai tesoro non insistere, ci vediamo domani” e poi saresti voluto venire a letto con me.»

«Se stai pensando che non mi è rimasta quella idea sei totalmente fuori strada, Kurata.»

«Sei un maniaco, Hayama.»

«Andiamo! Sono solo sincero. Non era sbagliata la tua impressione.»

«Non mi piace come hai trattato quella ragazza, neanche come hai trattato me dopo.»

«Beh… E’ comprensibile.»

«E non ti scusi?»

«Che senso ha? Lo rifarei.»

«Lo sai che c’è un nome per quelli che trattano le donne come fai tu?»

«Ma io non tratto proprio nessuno, Kurata, né tanto meno sono uno che si scopa tutte.»

«Quindi vuoi farmi credere che quella era la tua ragazza?»

«Ti sembrerebbe così assurdo?»

Mi rigirai un pezzo di okonomiyaki nel piatto, mi chiesi molte cose tutte insieme, ma non riuscii a tirar fuori niente.

Però ecco, mi ritornò alla mente quando Akito mi disse che lui e Fuka stavano insieme, pensai fosse veramente strano il modo che aveva la mia testa di rimandarmi tutte quelle immagini.

«Posso chiederti perché sei qui?»

«Te l’ho già detto, mi andava.»

«Perché ora non sei più sincero?»    

Mi parve che quella domanda lo colse un po’ alla sprovvista, mi guardò per un attimo con un’espressione un po’ vuota, nei suoi occhi c’erano tante parole, ma forse non sapeva come metterle in fila per rispondermi, fatto sta che mi parve di percepire un tempo lungo e denso prima che finalmente lo vidi muoversi. Si pulì la bocca con un tovagliolo e lasciò andare un gran sospiro, poi allungò il braccio verso di me, afferrò lo schienale della mia sedia e mi tirò accanto a lui.

Che diavolo gli era preso?

Lo guardai stranita, ma lui, infischiandosene delle mie perplessità, cercò i miei occhi e si parò difronte a me, mi accorsi che il suo sguardo mi studiava attento il viso, i capelli.

Proprio quelli mi sembrò li studiasse con un certo accanimento, me ne portò lentamente una ciocca dietro all’orecchio.

Non riuscivo a spiegarmi niente, i suoi gesti mi avevano indubbiamente catturata, tanto da impedirmi di reagire, ma non c’era niente che mi arrivava chiaramente.

«Che stai pensando?»

«Che hai avuto quindici anni per tornare indietro e non l’hai fatto, che ieri, semplicemente ti ho spaventato e ora sei tornato qui per rimediare al passato… Hai dei sensi di colpa, ecco tutto.»

Sorrise tentando di non darmelo a vedere e abbassò un po’ lo sguardo. «Non è niente di tutto ciò.»

«E allora?»

«Beh, la verità è che io non ho saputo aiutarti allora e temo proprio di non saperlo fare neanche adesso.»

«Quindi cos’è? Compassione?»

«No, Kurata… E se vuoi saperlo, per molti aspetti che non ti renderebbero certo fiera di me, non ti è nemmeno d’aiuto la mia presenza qui.»

«Non ti capisco per niente, perché sei qui, allora?»

«Mi hanno detto che eri guarita da quella malattia. E allora mi sono tenuto alla larga, ti ho immaginata al sicuro, magari con un tizio non affascinante quanto me, ma al sicuro.»

«Sei troppo convinto, Hayama.»

«Può essere… Il punto però è che quando ieri ti ho vista così io… E’ stata una doccia fredda perché io un mondo in cui tu non sei felice non ho saputo proprio immaginarlo…»

Lui sorrise e mi prese le mani. «E allora me lo sono dimenticato che quel che sono oggi non volevo fartelo vedere… Non potevo più starmene alla larga, mi sa.»

Non so cosa successe dentro di me, davvero non avevo cognizione del mio corpo, delle mie sensazioni. Mi resi conto di essere incollata alla sua bocca senza sapere neanche come avessi fatto ad arrivare a tanto.

Lui però mi parve molto più consapevole di me, mi tirò stretta a sé infilandomi una mano dietro alla schiena, sotto alla felpa troppo larga che avevo tirato a caso fuori dall’armadio.

Come la sera precedente mi accorsi che c’era una certa irruenza nei suoi movimenti, ma era come se su di me si smorzasse in una timida delicatezza.

Mi stringeva con forza e mi accarezzava le labbra con delicatezza, mi sfiorava appena la pelle e mi manteneva salda.

Mi sollevò piano e mi fece sedere sul tavolo, lo avvertii fra le mie gambe mentre ancora le sue labbra rincorrevano le mie.

Avrei voluto disperatamente un segno, un’emozione, una stupida e insignificante sensazione, ma più me lo sentivo addosso più mi rendevo conto che era solo il mio corpo a desiderarlo così tanto, io dentro non sentivo niente.

Forse dovette capirlo anche lui perché di punto in bianco si fermò e chinò la fronte sulla mia.

«Non senti niente, eh?» Me lo chiese in un sussurro simile ad un ansimo che richiuse in un bacio sulla punta del mio naso.

Scossi un po’ la testa e non potei fare a meno di chiedermi come avesse fatto a capirlo.

A quel punto, scivolò pian piano sulla sedia, si mise a sedere e poggiò la testa sulle le mie gambe.

«Cazzo…» Sbuffò. «Perché…»

«Non lo so, Hayama… Tu hai provato qualcosa?»

«Eccome.»

«Raccontamelo.»

«Cosa dovrei raccontarti? Che mi stava già venendo duro?»

«Non mi serve la spiegazione fisiologica, Hayama… Raccontami quello che hai sentito!»

«Beh... Malinconia, passione, desiderio, inadeguatezza, vergogna... E ora, se proprio vuoi saperlo, una grandissima frustrazione.»

«Dove li hai sentiti?»

Lui a quel punto, senza muoversi dalla sua posizione, sollevò una mano e la portò in un punto preciso del mio corpo, una zona tra il cuore e lo stomaco.

La mantenne lì per un po’.

Mi sembrò stesse provando a infondermeli ma purtroppo non avvertii niente, se non la sensazione tangibile della sua mano in quel punto, solo mi colpì il fatto che ancora una volta mi accorsi che c’era una sorta d’irruenza nei suoi movimenti che sembrava arrestarsi di colpo incontrando una qualsiasi parte di me.

Quando tolse la mano da lì, sbuffò nascondendo la testa tra le mie gambe e io, come se mi venisse in automatico, gli accarezzai i capelli.

Per un istante pensai al mio lavoro, al fatto che mi facesse sentire bene nella sua meccanicità ed avvertii una strana sensazione. Non mi piaceva affatto quello che confusamente stavo percependo, soprattutto non mi piacevano quelle immagini che la mia mente mi inviava senza spiegazioni né contesto.

Se anche quella mia naturale propensione a rispondere ai suoi stimoli aveva qualche somiglianza con la meccanicità del mio lavoro non potevo affatto tollerarlo.

Forse, formulando quel pensiero, lasciai andare un lamento, perché ad un tratto Akito sollevò la testa e mi guardò.

Mi accorsi che stavo piangendo quando sentii le sue dita muoversi sulle mie guance.

«Decisamente venire qui non è stata una buona idea… Forse ti sto solo incasinando ancor di più, eh, Kurata?»

«Non lo so… Però… Anche se non sento nulla… Il mio corpo ti risponde e non ne capisco il perché… Ho un po' paura... In più penso non sia rispettoso per le persone che abbiamo accanto.»

Quell’ultima frase gli rabbuiò lo sguardo.

Rimase a fissarmi per un po’ e poi si alzò in piedi.

Gli riconobbi nei movimenti una certa pesantezza, mi sembrò che le gambe gli fossero diventate come il piombo.

«Forse adesso è il caso che vada.»

Sentirglielo dire mi spiazzò e non me lo sarei neanche mai aspettata. «E’ per qualcosa che ho fatto?»

Come se la mia cucina fosse d’un tratto diventata claustrofobica s’infilò la giacca di pelle e si cacciò le mani nelle tasche molleggiando un po’ sui piedi come a liberarsi da quel piombo che gli avevo percepito addosso.

«No, è solo che… Gomi mi sta aspettando.»

Non volevo se ne andasse, ma mi accorsi che la mia volontà non si sposava con nessuna motivazione riconoscibile.

Lui a quel punto si strinse nelle spalle e mi regalò uno sguardo stentato. «Ciao, Kurata.»

Mi disse solo questo e prese la porta.

Io me ne rimasi lì, ferma su quel tavolo tra i resti dell’unica cena che avevo fatto quella settimana, con le gambe che dondolavano e lo sguardo che non sapeva neanche dove posarsi.

Se n’era andato in un «Ciao, Kurata.» Pensai che fosse anche la prima frase che mi aveva detto.

Come un cerchio meccanico che si chiudeva, come il mio lavoro al konbini.

E comunque, non sentivo niente.

*****

Io non lo vedevo da cinque giorni, ma pensavo confusamente a lui da sei.

Pensai che fosse a causa del fatto che avessi trovato nella mia dispensa una coppia di taiyaki al cioccolato il mattino dopo, o perché Naozumi la domenica mi aveva invitato a casa sua ordinando delle okonomiyaki da quel locale carino in centro. Fatto sta che comunque non mangiai niente, mi facevano schifo, neanche mi aveva fatto piacere andarci a casa sua.

Poi però mi aveva detto che ci teneva mangiassi con lui perché l’indomani sarebbe partito per girare un film e sarebbe stato via per almeno sei settimane, così mi ero sentita meglio e mi ero lasciata convincere.

Facemmo l’amore e, mentre le molle del materasso cigolavano fastidiosamente sotto di me, pensai al fatto che non si era mai accorto che non mi avesse mai suscitato nulla fare l’amore con lui e poi pensai anche che era la prima volta che mi accorsi mi desse fastidio.

Quel giovedì pomeriggio ero a lavoro, per fortuna insieme a me c’era Nobu e come al solito mi mise addosso una certa calma.

Mentre me ne stavo alla cassa in attesa dei clienti e Nobu sfaccendava tra gli scaffali, vidi entrare Aya.

Un cappotto blu lungo fino al ginocchio e i capelli raccolti in quella sua semplice acconciatura che profumava di ricordi, mi si avvicinò in un sorriso dolcissimo.

«Sono felice di averti trovata.» Disse e mi schioccò un bacio su una guancia.

Rimase lì con me per un po’, mi disse che era di ritorno dal turno in ospedale, che le sottraeva molto tempo quel lavoro, ma le piaceva e poi accennò vagamente al fatto che lei e Tsu stavano provando ad avere un bambino, quella confessione mi fece sentire inaspettatamente bene, io pensai che sarebbe stata una madre bravissima, soprattutto pensai che un figlio nato da un amore così non poteva che essere un bambino fortunato.

Poi tirò dall’espositore due taiyaki e me li mise sulla cassa.

Li fissai e pensai a lui, soprattutto pensai al fatto che quelli che mi aveva nascosto in dispensa li avevo lasciati lì sbattendo con forza l’anta non appena collegai la loro presenza lì ad Akito.

Perché era andato via così? Non c’era giorno in cui non me lo chiedessi.

«Prendo questi due, a patto che uno lo mangi fuori insieme a me.»

Nobu, che per tutto il tempo non aveva fatto altro che ascoltare la nostra conversazione, si precipitò alla cassa e si propose di coprirmi.

«Offre la casa, andate pure.» Disse e strizzò un occhio a Aya.

Ci sedemmo sulle scale che costeggiavano il retro del konbini, Aya mi porse un taiyaki e cominciò a scartocciare il suo.

«Senti Sana…» Fece dopo un po’. «Sai qualcosa di Akito?»

«Che dovrei sapere?»

«Beh… Scusa se te lo chiedo ma Tsu è molto preoccupato per lui e io non so proprio cosa fare…»

«Non ti seguo…»

«Vedi, lui e Akito ormai non sono più amici come un tempo, però quando gli ho detto quello che è successo sabato notte è andato in apprensione…»

«Aya… Perdonami ma io davvero non capisco, cos’è successo sabato notte?»

«Akito è stato in ospedale, non ero al pronto soccorso in quel momento ma ho letto il suo nome tra i referti e ho visto che presentava varie lesioni, contusioni e addirittura una paio di costole incrinate… Purtroppo però ha rifiutato il ricovero e nessuno di noi sa dove abita… Neanche in ospedale sanno dirmi molto... Ma Hisae non ti ha detto niente?»

«No…»

A quel punto di sicuro continuò a parlare, ero certa stesse continuando a raccontarmi di qualcosa che aveva a che fare con Tsu e la sua preoccupazione, ma non mi arrivò chiaramente altro.

Quella notizia mi schiantò su quelle scale, percepii il mio respiro farsi irregolare.

Akito.

Quando Aya se ne andò me ne rimasi lì con lo sguardo fisso sui gradini delle scale. Mi sentii dentro un chiasso gorgogliante che non si esprimeva se non con dei crampi allo stomaco e una sensazione di fiato corto.

Senza neanche capire come mi ritrovai al telefono con Hisae.

«Akito…» Fu l’unica parola che mi uscii dalla bocca.

«Dove sei?»

«A lavoro.»

«Arrivo.» Penso che mi disse proprio così, mentre mi accorgevo di alcune goccioline sul display del mio cellulare.

Doveva essere la pioggia, me lo dissi convinta, mentre il sole mi contraddiceva la faccia.





Buongiorno a tutte ragazze!

Come state?

Sono tornata con un nuovo capitolo -stranamente non in ritardo, mi sorprendo di me stessa- e spero sia un po’ più delineata la condizione di Sana e il suo rapportarsi a ogni personaggio tirato in causa.

Vi dirò la verità, ci ho messo più tempo a scrivere questo angolo autrice che a scrivere il capitolo…

I motivi sono tanti e non mi vengono fuori con facilità, li dico così un po’ alla rinfusa, senza un particolare ordine d’importanza, non vorrei ferire la sensibilità di qualcuno, non vorrei esser stata troppo cruda nel descrivere questa condizione di Sana, temo di non aver detto tutto con precisione e al contempo temo di aver detto troppo con estrema precisione.

Non lo so. Ho solo una marea di dubbi che forse un po’ mi frenano e una marea di motivazioni che mi spingono.

Io comunque chiedo scusa a prescindere se ho analizzato troppo degli atteggiamenti o se ne ho romanzati di altri.
Non vorrei mai peccare di superficialità o mancare di rispetto parlando di cose così serie che mio malgrado ho sentito l’urgenza di raccontare.

Spero che il fatto che la storia sia raccontata tutta attraverso il filtro Sana non vi abbia un po’ straniato, soprattutto non vi abbia appesantito, ma ci tenevo a raccontare questa storia con questo sguardo quasi “assente”.

Comunque, dopo questa doverosa ammissione di scuse torno l’imbecille di sempre X-D

Ma sto Akito?
Eh… Io ho chiaro chiaro chi è ma spero vi sia rimasta un po’ ombrosa la sua natura.

Comunque mi rendo conto che questo aggiornamento non sia una ventata di allegria ma spero possa piacervi ugualmente -Anche se ammetto che mi dispiace avervi messo addosso una sorta di angoscia in un periodo già di per se angosciante ma ormai sono in ballo e quindi per favore comprendetemi <3-

Ovviamente un ringraziamento speciale alle mie T-girl con cui ormai scrivere è diventato ancora più entusiasmante e significativo <3

Vi ringrazio tantissimo per aver letto la mia storia e per avermi fatto sapere cosa ne pensate <3


Vi abbraccio tanto tanto <3
A presto
Stefy









     













  
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