Libri > L'Attraversaspecchi
Segui la storia  |       
Autore: MaxB    04/12/2020    4 recensioni
Ossessionata dalla saga de La Passe-Miroir, non riesco a pensare ad altro da settimane.
E ho bisogno di approfondire alcune scene dei primi tre (e spoiler del quarto) volumi.
Ci saranno missing moments, scene descrittive relative a Thorn, soprattutto alla sua infanzia, e immersioni nei dialoghi tra Ofelia e Thorn, per come me li immagino io. Ed eventuali scene mancanti che ci starebbero bene.
Per possibili spoiler sul quarto volume verranno dati avvisi in cima alla pagina.
Aggiornamento irregolare.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Rieccomi, non guardo nemmeno la data dell'ultimo aggiornamento (tralasciamo...).
Ero un po' in crisi perché nessuna scena mi ispirava abbastanza da scrivere, poi mi è tornata in mente per caso questa e ho pensato subito: "Mia! Sei tutta mia!!". Anche se poi a quello che volevo, cioè alla parte di Ofelia che unisce i suoi artigli a quelli di Thorn, ho dedicato uno spazio minimo e mi sono persa nel contorno come sempre, ma dettagli. E il contorno è ciò che fa Thorn mentre Ofelia dà un'occhiata al laboratorio degli osservatori. Praticamente è la continuazione dei capitoli 17 e 18, letteralmente, perché riprende da dove avevo lasciato Thorn dopo la notte brava.
Spero che vi piaccia il capitolo e che possiate trovare verosimili i pensieri di Thorn. Me lo auguro almeno. Ma in ogni caso grazie anche solo per aver letto^^
L’Attraversaspecchi IV, Echi in tempesta, I collaboratori L'errore, pagg. 240-267


19. Un dessin

Thorn si prese un attimo prima di mettersi a riflettere su ciò che l’aspettava. Si rendeva conto della negligenza insita in quell’esitazione, soprattutto tenendo conto della posta in gioco. Ne andava anche della sicurezza di Ofelia.
Eppure aveva bisogno di concentrarsi, per pochi secondi, sulla notte appena trascorsa. Non era da lui non riuscire a metabolizzare immediatamente degli avvenimenti, ma erano accadute talmente tante cose che doveva per forza rivivere i dettagli della conversazione avuta con Ofelia, del loro piano e…
Mentre riportava alla mente ogni dettaglio di quella notte, dal loro incontro presso la statua alla passeggiata al buio, fino al camminamento verso i contatori dai dati incongruenti e infine alla camera vuota dei direttori, catalogò e archiviò ogni nuova informazione. I ricordi gli scorrevano in mente come un libro che veniva sfogliato a velocità folle, e Thorn socchiuse gli occhi nella penombra dell’alba per concentrarsi meglio. Ciò che Ofelia aveva appreso era importante quanto quello che aveva scoperto lui, se non di più. Ripensò a quando le aveva detto che non sarebbe mai resistita al Polo, durante una delle loro primissime conversazioni, sul dirigibile che li avrebbe portati alla sua arca dopo averla prelevata da Anima.
Non aveva mai commesso un errore di valutazione più grossolano. Ofelia non aveva solo resistito, era riuscita a piegare lui, al punto che sarebbe stato disposto a tutto pur di saperla al sicuro e di accontentarla. La sua fortuna (anche se la fortuna non esisteva ed era un concetto illogico e astratto che nemmeno comprendeva) era che Ofelia era troppo nobile d’animo per approfittarsi di lui. Aveva accettato di collaborare, stava indagando da sé, con ottimi risultati per giunta, ed era un aiuto prezioso. Lo faceva con coscienza, consapevole dell’importanza della loro missione, eppure Thorn si sentiva lusingato.
Era come se Ofelia lo facesse anche per lui, oltre che per se stessa. Lei era impelagata in quella situazione più di chiunque altro, il suo corpo e i suoi poteri stavano addirittura mutando, eppure una piccola parte di lui, un tredicesimo circa, non poteva fare a meno di credere che lei fosse coinvolta anche per lui. Per stare con lui.
Non ne aveva forse avuta la conferma quella notte?
Chiuse gli occhi con un misto di stizza verso se stesso e desiderio mentre ripensava al modo in cui avevano… sconsacrato l’immoto ascetismo degli appartamenti direttoriali vuoti. Si crogiolò nel calore che gli attanagliò le viscere rivivendo sulla pelle il contatto con il corpo caldo di Ofelia. E si prese il tempo per farlo, indugiando su quelle due pagine del libro mentale che stava sfogliando. Visualizzò i settantasei nei di Ofelia, provando una punta di fastidio nel rendersi conto che ancora non sapeva se fosse il numero corretto. Aveva ben presente la quantità di cicatrici che gli deturpavano il corpo, la loro ubicazione, la loro forma, la loro origine. Era un’esperienza che non avrebbe saputo definire a parole, però, quella di scoprire il corpo di un’altra persona, di voler memorizzare ogni singola imperfezione e caratteristica della pelle di qualcun altro. Una pelle che portava l’odore di calda aria babeliana e… Thorn voleva dire casa, ma lui non aveva una casa, e quella casa non aveva un odore. Era solo familiare. Un odore familiare, un odore gradevole e… adatto.
Cercò di soprassedere su quel punto, odiando per un momento la sua meticolosità: una parte di lui avrebbe passato una quantità di tempo incalcolabile a cercare il termine giusto. Un termine che forse nemmeno esisteva, perché quando si trattava di sentimenti e sensazioni ogni definizione perdeva i propri contorni e le proprie leggi. Lui voleva limiti, voleva precisioni e precisazioni. Ofelia, e tutto quello che la riguardava, lo scombussolava. Piacevolmente, ma anche illogicamente.
Tornò a focalizzarsi sul punto principale della sua riflessione, cioè il numero impreciso di nei di Ofelia. Era sicuro di non poter dire con assoluta certezza che settantasei fosse la quantità definitiva. E questo perché non aveva avuto… l’opportunità di esaminare a fondo il corpo di Ofelia. Sentì le orecchie infiammarsi involontariamente al solo pensarci. Aveva visto di lei più di chiunque altro, più di quanto si sarebbe mai aspettato di poter vedere lui stesso fino a un cinque settimane prima. Eppure, mentre durante la loro prima volta insieme Ofelia aveva scrutato minuziosamente la sua pelle, toccando ognuna delle cinquantasei cicatrici che la attraversavano (Thorn rabbrividiva ancora al pensiero), lui non aveva potuto fare lo stesso con lei.
Non credeva più che Ofelia lo avrebbe rifiutato, ma ogni singolo avvenimento della sua vita, ogni allontanamento da parte di chi invece avrebbe dovuto avvicinarlo, lo rendeva estremamente cauto. Con quale coraggio avrebbe potuto chiederle di rimanere immobile mentre lui la toccava e guardava ogni singola parte di lei, anche quelle più nascoste, per poter appurare se il numero di nei che aveva contato fosse giusto? Forse porre quella domanda non sarebbe stato disagevole quanto pensarla, e probabilmente Ofelia avrebbe anche accettato… sembrava ben disposta quando si trattava di… stare insieme. Anche un po’ di più. Ma non ci riusciva. Non poteva fidarsi di Ofelia al punto di chiederle una cosa simile, perché avrebbe significato ammettere che lei sarebbe stata disposta a tutto per lui. E si sarebbe reso conto che era così, che effettivamente Ofelia era pronta ad anteporre le sue necessità alle proprie, o quanto meno a tenerle in grande considerazione.
E sarebbe stato vulnerabile. Nel momento in cui Ofelia gli avesse negato qualcosa, ne avrebbe sofferto ancor più che in passato. Un conto era soffrire per l’atteggiamento di chi dovrebbe amarti e non lo fa, un’altra cosa era vedersi rifiutare qualcosa da qualcuno disposto a darti tutto ciò che aveva, qualcuno che ti rendeva importante, e poi si allontanava.
Thorn strinse gli occhi con forza. Non voleva pensare a quell’eventualità. Doveva dare più credito a Ofelia. A sua moglie. Lo aveva contraddetto ogni singola volta che lui aveva formulato un giudizio affrettato su di lei. Era una costante. Se dunque credeva che anche in quel frangente si sarebbe comportata come gli altri, e che si sarebbe presto stufata di lui, si sbagliava. Ofelia sarebbe andata controcorrente.
Eppure, proprio perché era così prevedibilmente imprevedibile, forse quella volta lei avrebbe demolito le statistiche da lei stessa costruite. Avrebbe seguito il corso degli eventi che avevano caratterizzato la sua intera vita, e si sarebbe stancata di lui, lo avrebbe lasciato per qualcosa, o qualcuno, di migliore.
Aprì con malcelata rabbia la tapparella che impediva alla luce dell’alba di entrare e rischiarare l’ambiente.
Doveva smetterla di rimuginare su fatti che forse non sarebbero mai avvenuti. Non era da lui fantasticare, o soffermarsi su questioni così poco rilevanti per la missione che stava portando a termine. Non era da lui mettere in dubbio i fatti concreti che erano avvenuti.
E quella notte quello che era avvenuto era l’unione con Ofelia. Era stata lei ad andargli incontro, a cominciare a spogliarlo.
Thorn deglutì a vuoto, la gola secca. Gli artigli fremevano, tesi come i suoi nervi.
Era stata lei a baciarlo, ad accarezzarlo, a farlo sedere sulla scrivania. A salirgli sopra. A muoversi. A sussurrare il suo nome, ancora e ancora, fino a fargli perdere significato. Lo desiderava, e su quel punto non c’erano speculazioni che reggessero. Erano azioni oggettive, se fossero state delle misure Thorn avrebbe addirittura potuto calcolarle.
Doveva concentrarsi su quello, su ciò che Ofelia gli aveva dato, che aveva voluto dargli, anziché su quello che avrebbe potuto togliergli. Che forse non gli avrebbe mai tolto.
Si concesse una doccia, fredda, per due minuti in più rispetto al consueto. La sua mente registrò i litri d’acqua che stava sprecando, ma Thorn non diede importanza a quel dato. Seppur a malincuore, si strofinò con energia per rimuoversi dalla pelle i residui del tocco di Ofelia, in modo tale da concentrarsi. Non sarebbe riuscito a focalizzarsi sul suo obiettivo se durante le ore successive gli fosse sovvenuto alla mente che Ofelia lo aveva toccato in quel punto, o che aveva fatto un’altra cosa su un’alta parte, o che lo aveva baciato lì. Lavando via tutto sperava di cancellare anche la traccia che Ofelia aveva lasciato su di lui, per quanto possibile.
Quando aprì la porta della sua camera e si trovò di fronte la ragazza con la scimmietta meccanica sulla spalla era ormai del tutto sobrio, non più ebbro del ricordo di Ofelia. Si era ripulito dai conturbanti avvenimenti della notte insonne.
- Buongiorno, sir Henry. Mi auguro che abbiate trascorso una piacevole notte.
Thorn cercò di non aggrottare le sopracciglia all’uso di quelle parole fin troppo adatte. La sua guida inetta lo scrutava con attenzione, come al solito, e non poteva lasciarsi sfuggire nulla.
- Abbiamo molto da fare, oggi. Vorrei dare nuovamente occhiata ai valori dei contatori, se non vi dispiace.
La giovane parve spiazzata da quell’esordio. Di sicuro non era un buongiorno.
- Ma, sir, non vi erano già state fornite le ultime letture?
Thorn si chiuse la porta alle spalle e si incamminò lungo il corridoio perfettamente simmetrico, che lo calmava e inquietava al tempo stesso.
- Sì, ma temo di dover effettuare un’indagine più approfondita. Sono le risorse di LUX che vengono adoperate per mantenere questo posto, non posso permettermi di condurre una verifica approssimativa.
- Avete ragione come sempre, sir Henry – lo adulò la ragazza correndogli dietro per riuscire a stare al passo con lui.
L’armatura sferragliava, e per una volta Thorn ne fu grato: in parte copriva la voce della sua guida non richiesta.
- Non a caso siete stato scelto per questo compito così importante. Svolgete il vostro lavoro in modo eccellente, non posso che ammirarvi.
Thorn sperò che la smettesse presto di parlare. La testa gli rimbombava e fitte lancinanti gli attraversavano le giunture. La notte insonne si faceva sentire, per quanto fosse stata in parte anche rilassante. Non che di solito dormisse molto di più, ma almeno riusciva a sedersi per un paio d’ore.
Doveva tenere duro ancora per un periodo di tempo imprecisato, ma se il loro piano fosse andato a buon fine, quel pomeriggio, di certo lui e Ofelia si sarebbero avvicinati alla meta molto più di prima.
Spense anche l’ultima protesta inconscia del suo cervello, che gli chiedeva di rallentare, di fermarsi. Dalla buona riuscita del suo diversivo dipendeva anche la buona riuscita di Ofelia, insieme alla sua sicurezza.
Non poteva fermarsi.
 
L’annuncio del controllo supplementare esplose come una bomba, e Thorn fece del suo meglio per trattenere una smorfia di disappunto. Aveva appena detto alla ragazza impiegata come sua guida che aveva bisogno di essere scortato al laboratorio dei collaboratori per poter disquisire con loro di un accertamento circa la non regolarità di alcuni dati. A Thorn non fece per niente pena la giovane che gli stava appiccicata (solo sedici centimetri di distanza, era un’evidente violazione del suo spazio personale), che si arrovellava su cosa dirgli per fargli capire che non era possibile una cosa simile e al tempo stesso cercare di accontentarlo.
Era riuscita a fermare tre osservatori che casualmente passavano di là, provando a spiegare loro la situazione con tutta la diplomazia possibile. A lui sembrava solo che la sua guida fosse priva di nerbo, ma trattenne la rabbia. E gli artigli. Il terzo gong stava per suonare, e la sua pazienza era agli sgoccioli.
- Non mi interessa cosa io possa fare o dove io sia o meno ammesso. Le letture dei contatori non combaciano con quelle che mi avete fornito, le ho controllate due volte, e solitamente mi basta mezza verifica per accertarmi della veridicità di determinati parametri – aveva sbottato, fintamente irritato nei panni di grandi ispettore familiare, ma genuinamente infastidito in qualità di Thorn, uomo e marito di Ofelia. Vestire i panni del primo gli dava il voltastomaco, soprattutto dato che doveva difendere qualcuno che non meritava neanche un briciolo di comprensione. – I Lord di LUX hanno sovvenzionato questo osservatorio per anni, e continuano a farlo. In cambio della loro generosità chiedono solo che io abbia accesso a dati basilari e che non violano in alcuna maniera il segreto professionale in ambito sanitario.
La sua ramanzina aveva sortito l’effetto sperato, dato che di fronte a sé aveva visto solo sguardi spaventati e corpi tesi. Compresa la donna che lo scortava ovunque. Mancavano sette minuti spaccati al gong, doveva concludere fretta.
- Vi lascio libertà di scelta. Posso redigere un rapporto in cui risulterà evidente l’occultamento da parte vostra di qualcosa che assorbe molta liquidità a livello di sovvenzioni, perché l’energia elettrica ve la pagano i Lord di LUX, o posso redigerne uno in cui dettaglio la vostra spontanea collaborazione circa una verifica di prassi su una presunta anomalia.
Uno dei collaboratori, forse il più anziano, si era schiarito la voce. – Quanto tempo abbiamo per darvi una risposta?
La risposta gliel’aveva data Thorn, prendendo il suo orologio da taschino e allontanandosi nel corridoio in uno sferragliare metallico del tutto appropriato in quella circostanza, il passo lungo e contrariato.
Gli erano corsi tutti incontro invitandolo a seguirli verso i contatori, mentre uno di loro andava ad avvertire gli altri e la ragazza gli chiedeva se voleva mangiare qualcosa prima della verifica.
In quel momento si stava dirigendo verso il giardino che lo avrebbe condotto ai contatori che la notte prima aveva già controllato (con Ofelia), con una sfilza di collaboratori dal volto coperto che gli si accalcavano intorno per assisterlo. Come se fosse così facile prenderlo per il naso. Per quale motivo degli osservatori dovrebbero agitarsi come formiche per una verifica di routine ai contatori dell’elettricità?
Gli stavano fornendo le risposte senza nemmeno bisogno che lui facesse le domande.
Suonò il terzo gong.
Era leggermente in anticipo sulla tabella di marcia (due minuti e ventiquattro), così prese tempo fingendo di doversi sistemare l’armatura difettosa. Si rimise al passo con le tempistiche, ritardando persino di diciotto secondi. Sperava che Ofelia fosse entrata in azione senza problemi, e si sentì un pochino sollevato (circa il nove percento) quando arrivò nel giardino dove solitamente si svolgevano gli esperimenti sui membri del programma alternativo come lei e non la vide. I collaboratori avevano sgomberato l’area, e a giudicare dal numero crescente di persone che lo seguivano dovevano aver abbandonato anche il loro laboratorio. Vide solo un elemento fuori posto in quell’ambiente: una ragazza molto giovane, con il volto talmente asimmetrico che Thorn provò un brivido di disagio al solo guardarlo. Tutto sul suo viso era sfalsato, dagli occhi, alla fronte, il naso e le labbra. Thorn sentì smuoversi qualcosa dentro di sé, ma non riuscì a capire se fosse pena per quella ragazza costretta a vivere con una tale faccia o il solito fastidio che provava quando notava qualcosa che non avrebbe dovuto essere, come un prurito ai nervi. Prima di distogliere lo sguardo colse anche il bagliore della catenina dorata che le congiungeva l’arcata sopraccigliare alla narice, e che aveva visto indossare solo da un’altra persona: Octavio, il figlio di Lady Septima. Dedusse quindi che quella bambina fosse Seconda. Si era informato circa la situazione familiare della donna con cui aveva dovuto (malauguratamente) lavorare, e comprese per quale motivo avesse deciso di rinchiudere la figlia in un luogo simile. Non ci sarebbe mai stato posto per lei al di fuori di quelle mura in cui erano raccolti altri individui deviati, come non ce ne sarebbe stato per sua madre, se una simile pecca avesse intaccato il suo profilo ineccepibile e immacolato. Una figlia del genere rappresentava un abominio per quella donna. Thorn riuscì a distinguere la stretta alle viscere che provò in quel momento, al contrario di quelle precedenti: disgusto.
E non per quella povera ragazza menomata. No, per lei provava quanto ci fosse di più simile alla comprensione.
Nonostante tutto, o forse soprattutto per quello, fu sollevato quando uno dei collaboratori più anziani, dedusse dal momento che lo vedeva sempre a capo di un drappello di novizi, e che portava un volatile meccanico sulla spalla, gli fece strada attraverso stretti corridoi fino a giungere ad una porta anonima e insignificante. Thorn sapeva che quello era l’accesso ufficiale ai contatori, ma non se n’era avvalso la notte precedente, con Ofelia, perché sarebbe stato difficile passare inosservati dall’entrata principale. Per non parlare del rischio di effrazione, che qualcuno avrebbe sicuramente notato. Quella che aveva usato lui doveva essere un passaggio secondario, una scorciatoia, ma era nettamente più lunga rispetto a quella che avrebbero percorso in quel momento (un chilometro e settecentocinquanta metri in più).
Il collaboratore anziano aprì la porta con una chiave che teneva nascosta sotto la tunica, legata ad una cordicella.
- Per di qua, sir – lo invitò, precedendolo.
Thorn lo seguì senza esitazioni e fu lieto di rendersi conto che la maggior parte dei collaboratori sarebbero rimasti ad attenderli fuori. Sperò al tempo stesso che aspettassero il loro ritorno invece di ricominciare con le loro mansioni e i loro compiti. In caso contrario, Ofelia sarebbe stata in pericolo. Si augurò nuovamente che stesse bene prima di tornare a concentrarsi sul compito che toccava a lui.
Il clangore metallico della sua armatura risuonava ad ogni passo come un martello. Per quanto irritante, in un certo senso lo aiutava a ragionare: era ritmico e cadenzato, regolare, come ogni cosa avrebbe dovuto essere.
Impiegarono ventidue minuti a raggiungere i contatori. L’altra via era più lunga, certo, ma questo non significava che quella che avevano appena percorso fosse breve.
- Eccoci arrivati, sir, potete prendere visione voi stesso delle letture che sono state stilate doviziosamente in quest’ultimo periodo – annunciò il collaboratore.
Thorn fece per avvicinarsi ai contatori, ma vide sbucare di fianco a sé un braccio esile e si fermò. La sua guida in sari giallo, così silenziosa da rendere invisibile la sua presenza, gli allungò dei fascicoli contenti le ultime letture dei contatori, quelle che lui aveva già memorizzato perfettamente. Forse credeva che ne avesse bisogno, ma il suo gesto di cortesia, oltre ad essere inopportuno, fu anche pericoloso.
Thorn mise subito quanta più distanza possibile tra lui e la ragazza, affinché gli artigli, che già la percepivano come una minaccia data la sua antipatia per lei, non la attaccassero. Lo sguardo della giovane dietro i pince-nez scuri scattò verso un punto di fianco a Thorn, e fu lei stessa a spostarsi, come a volersi allontanare.
Thorn aggrottò le sopracciglia, consapevole che la ragazza poteva aver visto l’ombra del suo potere familiare scattare nella sua direzione. Si rese conto a livello inconscio che grazie a quegli occhiali la sua guida doveva essere stata consapevole dei suoi artigli fin dal primo momento in cui si erano incontrati. Per quale motivo allora non aveva preso le distanze, ma si ostinava anzi a stargli appresso in quel modo decisamente poco consono?
L’unica risposta che gli venne in mente era che, come lui stava conducendo la sua indagine, così l’osservatorio stava studiando lui.
Thorn prese bruscamente i fogli che gli venivano porti dalla ragazza. Lo guardava con quel misto di ammirazione e adulazione che gli facevano venire il voltastomaco. Nessuno lo aveva mai guardato così, ed era certo di non volere che nessun altro lo guardasse in quel modo. Le occhiate di disprezzo erano più comprensibili, più prevedibili. Gli sguardi della giovane invece potevano essere subdoli, nascondere piani opportunamente mascherati da una parvenza di solidarietà.
Si sarebbe fidato solo di una persona, se lo avesse fissato in quel modo. Solo di lei, perché non lo avrebbe mai tradito. Gli altri erano tutti potenziali nemici. Tutti.
Non aveva intenzione di guardare i dati contenuti nei fascicoli, anzi lo avrebbero ostacolato, ma non voleva nemmeno esibire immodestamente che li aveva già memorizzati tutti. Probabilmente gli osservatori già sapevano della sua memoria, ma quello non significava doverne dare sfoggio imprudentemente.
Iniziò a controllare in silenzio i contatori che aveva già verificato, guadagnando tempo prezioso per Ofelia. Ogni tanto dava un’occhiata dietro di sé per accertarsi che nessuno si avvicinasse più del dovuto, non temendo tanto per la sua incolumità quanto per quella di chi aveva alle spalle. Oltre al collaboratore anziano e alla sua inutile guida, c’era un’altra dozzina di osservatori stipati in quell’ambiente stretto e già di per sé caldo. Aggiungere il calore di altri quindici corpi a quella stanza andava contro ogni buonsenso, ma non sarebbe stato lui a cacciarli.
Ovviamente i dati non combaciavano, ovviamente lui aveva già esaminato e individuato le discrepanze, ovviamente stava solo prendendo tempo. Quando finalmente il momento arrivò, il suo orologio da taschino si aprì e si chiuse nella sua tasca.
- Ho bisogno di un’interruzione di correte. Devo verificare una cosa – ordinò, cercando di non lasciar trapelare l’urgenza.
Le sue dita si strinsero con più forza del dovuto sul quadrante del suo orologio, mentre la sua guida obbediva.
- A cosa vi serve un’interruzione di corrente? – gli chiese laconicamente l’osservatore anziano, facendo cenno alla ragazza di fermarsi.
Incerta se eseguire un ordine o l’altro, la giovane rimase immobile, in attesa di istruzioni.
- Interrompete la corrente – scandì Thorn, con un tono che non ammetteva repliche.
Fortunatamente la ragazza gli diede ascolto, e Thorn soffocò dentro di sé un sospiro. Ora si trattava di temporeggiare per permettere ad Ofelia, sperando che fosse arrivata al luogo previsto senza intoppi, di infiltrarsi nel laboratorio.
Immerso nel buio, Thorn tirò fuori dalla tasca una scatola di fiammiferi, che accese uno dopo l’altro per riuscire a consultare nuovamente i contatori. Li spegneva proprio un attimo prima che arrivassero a bruciargli le dita, contando automaticamente i secondi che gli mancavano prima di poter riattivare la corrente.
- Sir Henry – lo incalzò il collaboratore, nemmeno troppo amichevolmente.
Thorn era riuscito a togliere l’elettricità per quarantacinque secondi più del previsto. Sperò che bastasse per Ofelia.
- Riaccendete pure – ordinò.
- Volete spiegarmi cosa sta succedendo? – gli chiese il collaboratore, senza nascondere il disappunto.
Thorn diede un’altra occhiata ai contatori prima di richiuderli con uno scatto sonoro, pulirsi le mani ricoperte di polvere su un fazzoletto e poi prendere il disinfettante. Ebbe anche il tempo di prendere l’orologio da taschino mentre spiegava al collaboratore il perché delle sue azioni.
- Le letture sono tutte irrimediabilmente errate. Ciò che è stato comunicato, trascritto ed elaborato non combacia con il vero consumo di elettricità necessaria a mandare avanti questo osservatorio. Ho notato anche lo sfarfallio delle luci, e pensando che dei cali di tensione nella corrente potessero aver sfalsato i valori dei contatori ho chiesto di staccare e riattaccare l’elettricità. I risultati sono rimasti immutati. La ragione è una sola. C’è una sezione, qui all’osservatorio, che assorbe più energia del previsto. Una sezione probabilmente nascosta dal momento che la quadra non c’è nei vari pagamenti e calcoli. La vera domanda, quindi, è cosa state nascondendo ai nostri esimi Lord di LUX, che sovvenzionano questo posto. Cosa dovrei scrivere nel mio rapporto, circa questa incresciosa dispersione di elettricità?
Thorn ottenne solo silenzio.
Per un minuto.
- Allora? – incalzò. – Nessuno che ne abbia una vaga idea?
Sembrava davvero che nessuno lo sapesse. O che nessuno volesse dirglielo.
Stava per porre un’altra domanda quando accadde l’impensabile.
Non si accorse del movimento improvviso all’angolo della porta da qui erano entrati tutti e quindici i presenti in quella stanza. Non si accorse nemmeno che erano diventati sedici.
Riuscì solo a cogliere un bagliore metallico sfrecciare verso di lui, un bagliore che aveva già visto altre volte nella penombra. Un luccichio che poteva benissimo essere ricondotto ad una pistola. Le armi erano vietate a Babel, la parola stessa era un taboo, ma cosa impediva a quei collaboratori che scavalcavano le regole e rispondevano solo a direttori invisibili di tenerne una nascosta nella piega della tunica?
Il suo sistema nervoso scattò prima di lui, sempre pronto ad entrare in azione, sempre disgustosamente voglioso di combattere.
Quando Thorn si rese conto che la figura che gli si era avvicinata era più piccola della media (persino più di Ofelia, registrò automaticamente), che aveva lunghi capelli e che il bagliore che emanava dal suo viso era quello di una catenella dorata e non di un’arma, era troppo tardi.
Seconda gli premette con forza un disegno contro il petto mentre un artiglio di Thorn scattava verso di lei. Verso il suo viso.
I loro occhi si incontrarono, spalancati allo stesso modo, consapevoli. Impotenti.
Il sangue schizzò ovunque.
 
Un secondo. Due. Tre. Diciotto.
Thorn era consapevole solo di quelli, dello scorrere del tempo che gli scivolava addosso come se lui non facesse parte della trama del mondo. Come se la vita lo avesse abbandonato.
Vedeva i collaboratori affannarsi accanto al corpo della figlia di Lady Septima. Notava le loro bocche che si muovevano, ma non udiva nulla. Vedeva i gesti che compivano, ma non li capiva.
Sentiva solo il sangue, il sangue della bambina, filtrare nel tessuto dell’uniforme e bagnargli la pelle. Sentì lo stomaco ribollirgli e un conato risalirgli lungo l’esofago, ma lo trattenne e lo soffocò. Gli artigli sembravano beffardamente ricettivi invece, come un animale preso dalla frenesia dopo aver fiutato la preda.
Lo disgustavano. Si disgustava. Era lui che aveva causato quell’incidente, non loro. Lui.
Un carnefice.
Nessuno gli prestò più molta attenzione mentre due collaboratori sollevavano la bambina e la portavano in fretta fuori da lì. Aveva il volto coperto di sangue, che rendeva difficile capire quanto grave fosse la ferita. Di colpo ritornò presente a se stesso, e si rese conto che la sua guida era di fianco a lui e lo guardava serenamente, come se non lo considerasse responsabile di quell’orrore.
- Che spiacevole incidente, sir. Ma non vi angosciate, voi non ne siete responsabile. Inoltre la bambina è viva, sono certa che si rimetterà presto. Volete continuare con l’ispezione?
Il tono accondiscendente di quella ragazza lo fece infuriare. Aveva appena sfigurato un’innocente nel migliore dei casi, e uccisa nel peggiore, per non parlare di tutti i danni collaterali che sarebbero potuti derivare da quell’artigliata, e lei si comportava come se niente fosse?
Thorn era talmente irritato che non volle nemmeno incrociare per sbaglio il suo sguardo. Sapeva che in quel caso gli artigli sarebbero scattati, e avevano già fatto abbastanza danni per quel giorno.
- Sir Henry? – gli domandò nuovamente la ragazza, mentre anche un altro paio di collaboratori rivolgevano a loro l’attenzione.
- No. Devo accertarmi che stia bene – rispose meccanicamente, con una voce che non sentiva nemmeno come propria.
Un angolo della sua mente registrò di avere ancora in mano il disegno che Seconda gli aveva premuto contro il ventre prima di essere colpita, il disegno per il quale era stata menomata. Ma non aveva abbastanza forza per fermarsi e guardarlo. Senza aspettare la ragazza, si incamminò nel corridoio per ripercorrere la strada a ritroso. Contava i propri passi e contava i secondi, contava e ricontava per cercare di mettere ordine nei propri pensieri. Non avrebbe dato ad Ofelia l’interruzione di corrente che le serviva, si rese conto quando era ormai troppo tardi per tornare indietro.
Strinse i pugni, stropicciando il foglio che teneva tra le dita. Sfigurava una bambina e rischiava di far catturare sua moglie. La misura della sua inettitudine non era un dato calcolabile. Era una vergogna, non valeva nulla, la sua intera esistenza era un errore.
Si disgustava.
Accantonò ogni altro insulto verso se stesso quando emerse dalla porta d’entrata del lungo corridoio. La luce forte e opprimente del sole lo fece sentire ancora peggio, come un occhio di bue puntato sul protagonista di un dramma teatrale. Puntato sul colpevole. Dei collaboratori, due nuovi, che si erano dati il cambio con gli altri, stavano portando via Seconda in braccio. Thorn li seguì a distanza, e non si rese nemmeno conto degli sguardi che gli altri osservatori gli lanciavano, o del tentativo di alcuni di fermarlo per parlargli. Non si accorse che la sua guida gli era sempre vicino, sempre tra i piedi, sempre sgradita e sempre in pericolo.
Seconda fu caricata su una barella quando arrivò un infermiere, o forse un’infermiera, allertata da un collaboratore che era corso a dare l’allarme.
Thorn continuò a seguire le rotelle della barella a distanza, contando, cercando di non pensare, pensando troppo, correndo con la mente ad Ofelia e al tempo stesso non dandole abbastanza considerazione, sospeso nel nulla. I suoi piedi lo portarono fuori dall’infermeria del programma alternativo, ma lui non era consapevole del percorso intrapreso, nonostante lo conoscesse bene.
Nessuno lo degnò di uno sguardo, ma del resto non c’era nessuno che potesse guardarlo. Il dottore che aveva aperto la porta all’infermiere, o infermiera, era scomparso dentro la stanzetta con la barella di Seconda, gli altri collaboratori erano tornati alle loro mansioni da un pezzo.
Fermo nella piccola saletta d’attesa, solo, si chiese per un attimo se non si fosse inventato tutto, o se quella situazione non fosse in realtà che un ricordo della madre, un vecchio ricordo che era affiorato inavvertitamente.
Poi però sentì l’uniforme zuppa, sentì la carta tra le dita, percepì la presenza della ragazza che gli era stata appioppata e si vergognò di aver anche solo pensato di essersi immaginato tutto. Non poteva indulgere in simili illusioni, non poteva scappare dalla gravità del gesto che aveva compiuto.
Digrignò i denti. Non se lo sarebbe permesso.
Si sedette su una sedia, isolata dalle altre, rigido, e fissò il pavimento con le spalle al muro. Tenne l’intero ambiente nel suo campo visivo.
La sua guida parve esitare. Gli disse qualcosa circa un pasto saltato e l’orario della mensa, ma Thorn non le diede risposta. Non l’ascoltò nemmeno. Alla fine se ne andò, ma Thorn non poté nemmeno gioire per quella liberazione. Non se ne parlava di gioire, non in quel momento.
Attese, secondo dopo secondo, che qualcosa cambiasse, che gli venisse comunicata una qualunque notizia, ma niente.
In un angolo ronzava un vecchio automa addetto alla manutenzione che stava compiendo gesti imprecisati, probabilmente riparazioni di qualche tipo, si augurava, alle sedie della sala d’attesa. Si erano ignorati a vicenda fino a quel momento, finché l’automa non inciampò quasi sulle sue lunghe gambe. Invece di profondersi in scuse del tutto superflue, dato che non sapeva nemmeno cosa fosse una scusa, iniziò a sciorinare proverbi fastidiosi e incoerenti che irritarono Thorn. Lazarus doveva aver pensato che fosse una buna idea quella di farli parlare a ruota libera, forse per non far sentire a disagio chi li circondava. Non si era reso conto di quanto fosse invece fuori luogo una peculiarità del genere?
Thorn si adombrò ancora di più, cercando di escludere l’automa e i suoi sproloqui dalle sue percezioni uditive, per quanto possibile.
Era quasi riuscito ad ignorarlo quando disse una cosa insensata, ovviamente, che però catturò la sua attenzione: - CI SONO PERSONE CHE LA GENTE CREDE MORTE E CHE NON LO SONO.
Thorn aggrottò le sopracciglia e rifletté su quelle parole. Nemmeno lui avrebbe saputo dirne il motivo, ma quella frase si sedimentò nel suo cervello.
Prima che l’automa potesse dirgli altro, sorprendendo persino se stesso, Thorn gli chiese: - Cosa intendente dire? Chi è morto ma non lo è? Dove avete sentito dire una cosa simile?
L’automa senza volto si girò verso di lui, fermandosi nel bel mezzo della sua… azione, qualunque fosse il suo compito. Per un attimo Thorn pensò che fosse capace di intendere e di volere, e che stesse per dargli un’informazione fondamentale.
- ECCO LA RICETTA PER UN CAVIALE DI MELANZANA PERFETTA. PER PRIMA COSA…
Thorn smise di ascoltarlo nel momento stesso in cui cominciò a elencare gli ingredienti necessari a cucinare quel… caviale di melanzane. Soprassedé anche sull’errore sintattico di quantità, dato che la parola “perfetta” era riferito al caviale di melanzana, che era maschile. Capiva che fosse voluto per fare rima, ma era grammaticalmente errato, a meno che l’automa non avesse voluto dire che la melanzana in sé era perfetta. Cercò di glissare su quella questione del tutto irrilevante, maledicendosi anche per la facilità con cui la sua mente iperattiva si concentrava su quisquilie prive di interesse, tornando alla frase che lo aveva colpito.
Ci sono persone che la gente crede morte e che non lo sono.
Thorn sapeva che Lazarus aveva affibbiato ai suoi automi una capacità approssimativa di registrare frasi e parole per poi ripeterle, modificandole leggermente. Era meccanicamente impossibile dotarli di un bagaglio proverbiale tale da far loro reiterare per un tempo prolungato una quantità illimitata di concetti. Quindi registravano, elaboravano e ripetevano, all’infinito. Quell’automa aveva vissuto sempre all’osservatorio, con una probabilità del settantanove percento. Ed era un vecchio modello.
Da chi aveva sentito quella frase?
La mente di Thorn si scisse. Tre quarti del suo cervello continuarono a tormentarlo, e tormentarsi, per ciò che aveva inflitto a Seconda, punendolo, facendolo sprofondare in un oblio dal quale non meritava di risalire; rammentandogli che era un mostro, un’aberrazione, un errore, una calamità. Un quarto invece si arrovellò su quella frase.
Poco a poco emerse dal suo archivio mnemonico un’altra frase, simile ma antitetica, pronunciata da Ofelia. Gli aveva detto che chi era sottoposto al terzo protocollo non ne tornava più indietro.
Persone credute morte… che non erano morte.
Il suo cervello cominciò a lavorare febbrilmente. Senza rendersene conto incrociò le dita delle mani e appoggiò i gomiti sulle gambe, riflettendo. Aveva ancora il disegno stretto tra le dita.
Le persone morte venivano seppellite. Anche quelle credute morte, seppur vive, dovevano essere seppellite, proprio in virtù del loro essere credute morte.
Morte. Funerale. Cimitero.
Colombario.
Thorn sapeva che lo scorrere del tempo era immutabile, che non accelerava o rallentava in base ai capricci delle persone; anzi, lo infastidivano coloro che sostenevano che il tempo scorreva più in fretta quando facevano qualcosa di dilettevole o, al contrario, che sembrava non passare mai quando si annoiavano. Quelle erano mere percezioni distorte, che nessuno avrebbe dovuto esprimere ad alta voce. Un secondo durava un secondo, un minuto durava un minuto, sempre, era immutabile.
In quel momento, però, si chiese se la realtà fosse stata alterata. Erano trascorsi duemiladuecentoventiquattro secondi da quando Seconda era entrata in infermeria, li aveva contati, li aveva sentiti scandire dentro di sé, ma non gli sembravano effettivi. Ne sembravano trascorsi il triplo.
Si alzò di scatto quando capì qual era la sua (la loro) prossima mossa. Il suo corpo protestò dolorosamente, sia per via della lunga camminata che a causa della postura rigida a lungo mantenuta. Non gli importava. Un lamento da parte sua era l’ultima cosa che avrebbe ammesso. Doveva provare quel dolore, era necessario. Era una forma di espiazione. Era la sua colpa.
Il dottore che ne uscì, anche lui un osservatore, a giudicare dal suo abbigliamento e dagli occhialini scuri, lo degnò di una breve occhiata prima di dirigersi verso la sua guida, che a quanto pareva era tornata da… quello che era andata a fare.
Thorn fu sorpreso nel vedere non solo lei, ma anche altri due collaboratori seduti lì vicino, in attesa. Era stato così assorbito da se stesso da non rendersi conto di cosa gli accadeva attorno. Un errore imperdonabile, dato che gli artigli avrebbero potuto mietere ulteriori vittime approfittando della sua distrazione. Un altro errore da aggiungere a quelli commessi quella giornata.
Seconda. L’abbandono di Ofelia a se stessa, priva di aiuto da parte sua. La mancanza di attenzione all’ambiente circostante. Non aveva senso allargare il campo visivo e stare con le spalle al muro, per poter tenere d’occhio tutto, se poi non era consapevole di cosa succedeva attorno a lui.
Un altro sbaglio inqualificabile da aggiungere a quelli della sua vita.
In primis, la sua nascita.
Il dottore conferì a bassa voce con i tre collaboratori, riportando poche parole laconiche. I tre, dal canto loro, non manifestarono la benché minima espressione, e i due uomini se ne andarono quando il dottore ebbe finito di riferire le condizioni di Seconda. Thorn aveva sentito in parte quelle poche frasi, ma aveva colto il succo del discorso: Seconda era viva.
Viva, ma marchiata per il resto della vita. Sfregiata. Rovinata. Deturpata.
Lui ne portava cinquantasei di quelle cicatrici, di cui tre in pieno viso. Condivideva con lei il dolore che aveva provato quando gli erano state inferte, l’orrore di doverle guardare, i ricordi ad esse connessi. E l’odio per chi gliele aveva inferte.
Ed era lui ad aver marchiato Seconda.
Da vittima a carnefice. Non provava piacere nell’indossare i panni di nessuno dei due, ma avrebbe preferito essere un innocente che un violento.
Non avendo più nulla da fare in quel luogo, si avviò verso il corridoio. Sapeva che non gli avrebbero mai permesso di vedere Seconda. Si fermò poco prima di arrivare accanto alla ragazza che lo stava aspettando, però, e osservò il disegno che la bambina gli aveva voluto far avere al costo della sua incolumità.
Thorn aggrottò le sopracciglia. Non era una persona fantasiosa, si basava su fatti e numeri. L’immaginazione non era il suo forte, presupponeva il calcolo di troppe probabilità, casistiche e variabili per essere considerata una scienza. Non si era nemmeno creato un’idea di come Ofelia avrebbe potuto essere, quando sua zia gli aveva annunciato di aver trovato la fidanzata ideale. La fisionomia di Ofelia non era deducibile dal nome, e sarebbe stato impossibile farsi un’immagine precisa di come fosse anche se gli avessero fornito dettagli particolareggiati del suo volto e delle sue proporzioni.
Immaginare era una perdita di tempo. La realtà era la realtà, non era deducibile in base a speculazioni cerebrali basate su fatti aleatori.
Quindi non aveva pensato a cosa Seconda avesse disegnato. O scritto. E non avrebbe perso tempo nemmeno a cercare di interpretare quello scarabocchio infantile.
L’unica cosa che capiva era che nel disegno era rappresentato un coniglio che saltava fuori da un pozzo.
E che quel coniglio era rosso sangue. Quest’ultima non era che una congettura. Forse la bambina aveva usato una matita rossa senza una motivazione precisa (chi li capiva i bambini?), oppure rappresentava qualcos’altro. Thorn strinse le dita che tenevano il disegno.
Poteva formulare almeno centosessantasette teorie circa il significato della matita rossa, ma per una volta non gli sarebbe servito, perché il senso di quel rosso era uno solo.
Sangue.
Sangue, sangue sangue. Violenza. Dolore. Malvagità.
Lui.
Si incamminò nel corridoio senza voltarsi indietro.
 
Arrivò di fronte agli appartamenti direttoriali con la mente offuscata, inconsapevole di come ci fosse giunto, lui che era così ricettivo e operava su più fronti (contava i secondi, contava i gradini, contava i passi, pensava a quattro cose diverse e parlava della quinta). Ad aggravare la situazione c’era la consapevolezza di aver impiegato più di cinquemilaquattrocentotrentatrè secondi per andare dall’infermeria alla porta di legno scuro, un tempo decisamente non breve. Un’assenza mentale così lunga era deplorevole.
Sentiva come… un’implosione dentro di lui, qualcosa di indefinito che premeva per uscire. Faceva male. Faceva più male delle sue emicranie costanti, più del dolore alle articolazioni, più di quello che aveva provato quando gli avevano rotto la gamba, di quando lo avevano pestato a sangue, in diversi occasioni. Più di quanto Godefroy, Freya, padre Vladimir e il resto della sua famiglia lo avevano sfregiato.
Era peggio in maniera esponenziale e Thorn sapeva che, per quanto potesse sembrare un’esagerazione, non lo era. Perché lui quantificava alla perfezione, e attribuiva ad ogni cosa il giusto peso.
E quel peso, quello, era insopportabile.
Stringeva ancora in mano il disegno di Seconda. Si sentiva prudere dappertutto, un po’ per il contatto della sua pelle con il sangue di un altro essere umano, un po’ per il bisogno viscerale di disinfettarsi, di ripulirsi, di togliersi dalle mani quella lordura che era la sua stessa essenza. Ma non sarebbe bastata nemmeno la candeggina a purificarlo.
Era un essere immondo, e lo sarebbe sempre stato. Forse, capì, era per quello che non era mai stato veramente amato da nessuno: perché lui, più di tutti al mondo, meritava di soffrire per ciò che era. C’era una solo eccezione a quella regola, un’eccezione a cui non voleva pensare, per quanto potesse essere in pericolo a causa sua in quel momento, e si detestò anche per quello. Perché pensando a lei si sarebbe sentito ancora più inadeguato, più sbagliato, più rotto e inguaribile.
Lei un giorno si sarebbe accorta di che mostro era lui realmente.
Se ne sarebbe andata senza guardarsi indietro, come tutti. Come sua madre.
E lui se lo sarebbe meritato.
Non meritava che abbandono.
Thorn rimase fermo di fronte alla porta d’ebano, con le spalle al muro, cercando di abbracciare l’intero ambiente con lo sguardo e al tempo stesso di non guardarsi nelle superfici riflettenti. Era stato assente, sì, ma non tanto sbadato da non far caso alle persone che incrociavano il suo cammino. Se lo avesse fatto ci sarebbero state altre vittime, una cosa che non avrebbe mai tollerato, ancor meno in quel momento.
Solo allora si rese conto che la sua guida non accennava ad andarsene. Lo accompagnava spesso fino alla porta degli appartamenti, ma poi si congedava con deferenza lasciandolo a sbrigare le sue faccende, che secondo lei erano colloqui con i direttori, mentre per lui erano tutt’altro.
Non erano passate nemmeno ventiquattro ore da quando era stato dall’altra parte di quella porta con Ofelia, sentendosi così… completo, appagato…
Così accettabile. Amabile, persino. Per due secondi si era addirittura sentito desiderabile, quando Ofelia lo aveva guardato con intensità prima di chiudere gli occhi e gemere, la testa reclinata all’indietro.
Il suo corpo non reagì a quel pensiero… disgustoso. Rimase immobile, orripilato da se stesso. Ofelia non doveva guardarlo in quel modo, o... provare quello che provava e… no.
Quel turbine di dolore psicofisico lo pervase a ondate, facendole sentire quasi estraneo al suo corpo e al contempo estremamente pesante, radicato a terra. E bisognoso di stare da solo.
- Aspetterò da solo.
- Mi permettete di tenervi compagnia, sir? – chiese la ragazza, cogliendo l’occasione per rivolgergli la parola. - I direttori sono sempre extremely occupati. Io stessa non li ho ancora mai visti. So che ci tenete a far loro il vostro rapporto stasera, ma forse dovrete aspettare un bel po’.
Aspettare era quello che voleva. Aspettare. Da solo. In silenzio.
La sua voce insolitamente stridula lo infastidiva. E il fatto che lei non volesse allontanarsi, che non lo temesse, gli dava ancora più fastidio. Donna arrivista e superficiale, ammaliata da una doratura su una divisa.
- Aspetterò da solo – si sentì ripetere nuovamente, stupito di come la sua voce risuonasse vuota. Ma non era vuoto anche il corpo che pronunciava quelle parole, alla fine?
- Forse… forse dovreste cambiarvi, sir. Posso portare l’uniforme alla nostra lavanderia se… well, se me la date.
Thorn non la degnò di uno sguardo e continuò a fissare la porta, senza vederla. Sapeva che la ragazza aveva in mano i documenti relativi alle letture dei contatori, che in qualche modo gli aveva preso. Con un minuscolo brandello di pensiero si chiese come quella giovane potesse pensare di reggere sia i suoi vestiti che i documenti. Poi si domandò perché avrebbe dovuto darle la propria uniforme, e in che modo. Si interrogò se fosse una trappola, ma era un’elucubrazione così remota e sepolta nella sua coscienza che non ci badò neanche.
E nemmeno rispose.
- A proposito di miss Seconda il dottore ha detto che la ferita era impressionante, ma non preoccupante.
Impressionante. Quella parola gli era sfuggita quando aveva sentito il resoconto del dottore. La parola impressionante talvolta aveva accezione positiva. In quel caso era il peggior aggettivo che avrebbero potuto scegliere. Anche le sue cicatrici erano impressionanti, e non avrebbe augurato a nessuno di essere come lui.
Impressionante significava inguaribile, marchiata a vita. Inevitabile. Spiccata. Deturpata.
- Non sarei autorizzata a dirvelo, sir, ma queste lenti nere che porto mi permettono di vedere certe cose. Malgrado le apparenze, non siete responsabile di quello che è successo. Miss Seconda non avrebbe dovuto lanciarsi su di voi in quel modo. Certe volte è così impulsiva con i suoi disegni! La colpa è sua. Poco importa chi siate stato in passato, now siete un Lord di LUX! I Lord di LUX sono intoccabili e non commetterò mai l’err…
- Aspetterò da solo.
L’ostilità nella sua voce quella volta non lo sorprese. Era inevitabile.
Non sapeva se a riempirlo di furia fossero state le parole leggere e noncuranti della ragazza, il loro significato profondamente sbagliato, che attribuiva ai Lord di LUX una deferenza che proprio non meritavano, il voler sminuire la sua gravissima e imperdonabile perdita di controllo, la sua insistenza e la sua vicinanza non richiesta e non gradita o l’aver addirittura fatto ricadere su una bambina la colpa della sua violenza. O forse, più di tutto fu il fatto che lei credeva che essere Lord di LUX fosse meglio di qualunque cosa fosse stato in passato. Non amava il Thorn intendente del Polo, ma ancora meno amava sir Henry, il Lord di LUX. Avrebbe preferito essere quello che era un tempo, forse, per quanto fosse comunque inaccettabile.
Quella ragazza doveva andarsene o i suoi… artigli mostruosi avrebbero mietuto un’altra vittima quel giorno. Non si sentiva più padrone del suo corpo, oltre che dei suoi pensieri.
- Buonanotte, sir – si congedò finalmente la ragazza.
Rimase solo. Lo squillo e il meccanismo dell’ascensore in funzione furono i suoni più sollevanti che avesse mai sentito. Era solo. Come meritava. Solo per… per implodere. O esplodere.
Si sbagliava. Aveva sentito un fruscio che aveva deciso di ignorare, ma il rumore attutito di passi nudi sul pavimento lo costrinsero a voltarsi appena per individuare chi si stesse avvicinando.
Lei. L’unica persona che non voleva vedere. L’unica di cui aveva bisogno in quel momento.
Era uscita da dietro la tenda che nascondeva l’entrata che avevano percorso insieme il giorno prima. Aveva sentito. Sapeva.
La guardò con impassibilità, e fu sorpreso di non vedere la stessa maschera di contrarietà sul suo volto. Gli pareva di aver scorto un’ombra di… determinazione, forse, appena l’aveva guardata. O era…? Qualsiasi cosa fosse non era rivolta a lui, e non era nemmeno positiva. Poi i suoi occhi erano diventati apprensivi.
Ofelia era stanca. Lo si leggeva dal linguaggio del suo corpo. Aveva sempre i piedi scalzi, che dovevano dolerle indicibilmente visto quanto aveva camminato in quei giorni, sui terreni più impervi. Sembrava aver in qualche modo bisogno di conforto per non crollare, ma nel modo in cui incedeva verso di lui la vide prendere confidenza e diventare lei stessa portatrice di forza.
E non c’era l’ombra di un’accusa nei suoi occhi, né di rimpianto, di odio, di delusione, di disillusione. Non sembrava nemmeno spaventata, solo cauta, come di fronte ad un animale selvatico. O ad un mostro. In procinto di divorare qualcuno.
Ma non intimorita. Non ripugnata.
Poi, mentre lo scrutava, il suo sguardo si fece sconvolto. Sconvolto per lui, non per quello che aveva fatto.
Nonostante tutto lei era preoccupata per lui.
- Tutto ciò per un disegno – le disse come spiegazione.
Solo che non era una spiegazione. Era una richiesta. Era il tentativo di capire perché fosse successo tutto quello che era successo, tutto quel sangue, quel dolore, per un disegno. Un disegno! Di una bambina!
Le gambe gli cedettero. Thorn si sentì attratto dal basso, dal pavimento, da una qualsiasi superficie su cui potesse accartocciare quel corpo maledetto e deforme che si ritrovava, quelle ossa sottili e appuntite. Si sentiva pesante. Si sentiva disastrosamente sbagliato e incapace di compiere qualcosa di buono, di giusto.
Si sentiva solo.
Forse fu per quello che si aggrappò ad Ofelia quando le sue ginocchia toccarono terra con uno scricchiolio macabro mischiato al rumore infernale dell’armatura che cedeva. Per quello, o magari per tenere Ofelia lontana, invece che vicina, perché era giusto che lui stesse solo, era l’unica cosa che avrebbe potuto preservare gli altri da lui. Preservare anche lei.
Eppure aveva bisogno di un contatto. Di avere la certezza che lei c’era.
Egoista. Meschino.
Rischiò di far perdere l’equilibrio pure a lei, di farla cadere. Goffa com’era, aggrapparsi a Ofelia non era certo una mossa intelligente, ma la sua ragione era andata, sepolta sotto quella marea di dolore e risentimento che stava risalendo lungo il suo intestino, gli bruciava lo stomaco, gli accelerava il battito cardiaco e si era insinuato nella sua gola, bloccandogli il respiro.
Continuò a piegarsi, sentendosi sempre più pesante, incapace di sostenersi, reggendosi a lei, che non meritava di essere trascinata a fondo con lui. Che non si meritava di essere sposata con uno come lui. Che sapeva di cosa era capace e non scappava, non fuggiva, non si allontanava.
Perché?
Era consapevole della sua pericolosità e della sua mancanza di controllo. Si era vergognato quando glielo aveva rivelato, ma aveva dovuto farlo. Perché allora rimaneva lì? Non era una donna stupida, non amava i rischi inutili. Non era masochista. Perché, allora, non se ne andava?
E perché lui sentiva che si sarebbe definitivamente spezzato se lei lo avesse fatto?
Chiuso nel suo dolore, Thorn si rese conto solo delle braccia di Ofelia, come uno spiraglio di luce in fondo ad un tunnel buio. Lo stava abbracciando. Lo stava abbracciando con forza, premendosi contro di lui, cercando di sostenerlo. Imponendosi a lui, imponendo la sua presenza.
Non lo lasciò andare nemmeno per un istante.
Poi lo sentì.
Era come una puntura, un contatto estraneo direttamente nel suo midollo spinale. Non era doloroso, era solo insolito. Sconosciuto. Thorn si irrigidì involontariamente, perché i suoi nervi erano a pezzi e cercavano di difendersi da quell’intrusione. Trasalì, le sue spalle si tesero facendogli male più per la tensione della posizione che per quello che Ofelia stava facendo.
Perché veniva da Ofelia quel contatto.
E poi non sentì più nulla. Nessun dolore fisico, nessun mal di testa, nessuna botta, nessuna stanchezza, delusione, tristezza. Sembrava che Ofelia gli avesse fatto scorrere acqua fresca nelle vene, lenitiva, un balsamo per i nervi. Una medicina miracolosa.
Sentì i suoi artigli entrare in contatto con quelli di lei, i suoi refrattari e acuminati, indocili e violenti, quelli di Ofelia incerti, sfasati, come dei cuccioli non stabili sulle zampe, ma determinati.
Si mescolarono, come si erano mescolati anche loro due. Si toccarono, e con grande sorpresa di Thorn si placarono. Si annullarono. Si addomesticarono.
Il suo intero corpo, dal collo alle spalle, busto, gambe e persino le caviglie si rilassarono, come se le ossa si fossero polverizzate e lui fosse diventato una bambola inerte nelle mani di qualcun altro. Un burattino.
Non credeva che il potere congiunto degli artigli potesse avere un tale effetto. Sembrava quasi un curativo, un massaggio. Si poteva pensare che fossero mitigativi, sedativi, benefici.
Si crogiolò per un istante infinitesimale in quella sensazione, conscio di essersi legato a Ofelia in modo ancora più profondo di quando si erano uniti fisicamente. Quella congiunzione non era materiale, era molto più intima. Era viscerale, sanguigna.
E Ofelia non se n’era andata. Ofelia gli stava dando conforto senza parole, senza quelle parole che sarebbero state superflue, sgradite, fuori luogo. Come sempre, contrariamente ad ogni calcolo e statistica, come sempre, gli stava dando quello di cui aveva bisogno senza nemmeno che lui si rendesse conto di cosa fosse.
Come sempre, era ancora lì con lui. Consapevole di chi era lui. E, forse, proprio perché lo era.
Il fuoco che aveva in gola fuoriuscì senza ritegno, sotto forma di lacrime. Con la testa posata contro il ventre di Ofelia, che ancora lo teneva stretto, cullandolo come un bambino, custodendolo come nessuno aveva mai fatto, pianse. Riversò fuori ogni pensiero, emozione, sentimento buono o cattivo, brandello di dolore e ricordo acuminato, inzuppando la tunica di Ofelia, stanco, spossato, desolato e arido. Pianse tutto ciò che aveva senza emettere un suono, buttando solo via tutta l’amarezza, mentre pensava a due cose.
La prima era che, chissà come e chissà perché, nella sua vita anaffettiva e desertica, nella sua solitudine primigenia, aveva trovato una persona, una donna disposta ad amarlo con tutto quello che aveva. A consolarlo nei momenti più difficili senza tirarsi indietro, a stargli accanto nel suo peggio, senza essere impietosita o spaventata. Ofelia gli era stata scelta come sposa, unita a lui con un legame che avrebbe dovuto essere indissolubile, il matrimonio, e che aveva visto dentro di lui qualcosa che nessun altro aveva scorto e che lui stesso dubitava esistesse, ma che era abbastanza buono da indurla a restare.
Ofelia amava tutto ciò che era, e lui non lo meritava. Non glielo avrebbe, però, mai fatto notare, perché avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di continuare a tenersela accanto.
La seconda era che, per quanto Ofelia potesse amarlo, questo non cambiava la sua natura, forse irrimediabilmente corrotta dall’odio del passato. Si sentiva incapace di essere una persona migliore. Seconda era ancora rovinata, a vita, e lui aveva rischiato di ucciderla. Chiunque avesse scelto di stargli accanto si sarebbe ferito.
Mentre queste due correnti gli dilaniavano la mente, in contrasto tra di loro, Thorn continuò a sorreggersi a Ofelia, stringendo le dita sulle sue esili spalle nel tentativo ora di allontanarla, ora di avvicinarla. Spalle esili, sì, ma che erano più forti delle sue e di quelle di chiunque altro.
E continuò a piangere finché credette di non avere più liquidi in corpo.
A quel punto si ritrovò, relitto di se stesso, talmente accartocciato da non capire più in che posizione fosse. L’unica cosa di cui era consapevole era Ofelia, che si era inginocchiata di fronte a lui e continuava ad abbracciarlo, accarezzandogli la schiena e i capelli con dita leggere, piccole e sottili, eppure sicure di ciò che facevano.
E per un istante, anche se si maledisse per quella codardia e quel desiderio di rifuggire le conseguenze delle sue azioni, Thorn chiuse gli occhi e non pensò a nulla, godendosi in silenzio il suono del respiro di Ofelia contro le orecchie. Non sentiva più l’odio contro se stesso ribollirgli nelle vene. Non udiva più il ruggito degli artigli nei timpani. Non provava più dolore.
Tornò per un istante ai pensieri di quella mattina, quando aveva cercato di dare un nome, una definizione, all’odore di Ofelia. Non era odore di casa, ma di ricordi, di polvere e di libri vecchi. Di memorie che non erano mai state sue, ma avrebbero potuto esserlo. L’odore di chi gli aveva dato un futuro.
Stretto tra le braccia di Ofelia, si concesse di tornare per un momento il bambino che non era mai stato, rassicurato dalle braccia materne, consapevole di essere diventato fondamentale per qualcuno. Consapevole che, comunque fossero andate le cose, ci sarebbe stata Ofelia al suo fianco, pronta ad elargirgli un amore che gli era sempre stato negato.
 
Ma fu solo un attimo.
Il secondo dopo si riscosse, scostandosi lentamente ma risolutamente.
Tornando ad odiarsi.
 
Anche un po’ di più.
  
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > L'Attraversaspecchi / Vai alla pagina dell'autore: MaxB