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Autore: Baudelaire    04/12/2020    6 recensioni
Questa storia è liberamente ispirata alla saga di Harry Potter, ma al femminile.
Ho voluto cimentarmi, a modo mio, su questo tema.
Rebecca Bonner è una Strega Bianca e la sua vita sta per cambiare per sempre...
La stella di Amtara diCristina è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.
Genere: Fantasy, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 2
“PROVE GENERALI”    
 
I mesi seguenti furono un inferno, perché al dolore per la perdita di Banita si aggiunse il pensiero della sconcertante rivelazione che le aveva fatto in punto di morte. Rebecca si tormentava giorno e notte, dilaniata dalla rabbia e dal dolore. Soffriva terribilmente per la perdita di sua madre ma, allo stesso tempo, provava una rabbia cieca al pensiero di quel segreto che le era stato celato tanto a lungo.
Adesso, lentamente, tutti i pezzi del mosaico cominciavano ad andare a posto.
“Mamma, io da dove vengo?” – aveva chiesto allegra a sua madre, un giorno di molti anni prima. Doveva avere non più di quattro o cinque anni.
“Che significa da dove vengo?” – aveva risposto Banita sorridendo.
Rebecca aveva indicato l’incavo del suo polso destro:“Da una stella?”
Banita l’aveva fissata seria, per un istante. “Sì, una stella molto lontana.”
Rebecca aveva sgranato gli occhioni azzurri. “Davvero? E come si chiama?”
“Si chiama proprio come te.”
“Una stella col mio nome?!” – aveva esclamato, fuori di sé dalla gioia.
Mucchi di bugie, una dopo l’altra. Era molto piccola, è vero, ma Banita aveva avuto tante altre occasioni, in seguito, per dirle la verità. Era pur vero, pensò Rebecca con un improvviso senso di colpa, che lei stessa non aveva mai fatto domande in proposito. Non aveva mai chiesto cosa significasse quel piccolo simbolo che sia lei che sua madre avevano sul polso destro.
Una piccola voglia, di colore blu, a forma di stella. Aveva sempre pensato si trattasse di una semplice coincidenza.
Che stupida.
Adesso, più ci pensava, più si rendeva conto che avrebbe dovuto capire. La stella era assolutamente perfetta, quasi il disegno di un artista esperto e dalla mano ferma.
Non poteva essere una coincidenza. Doveva esserci qualcosa di più.
Eppure, Rebecca non avrebbe mai immaginato che nascondesse un potere magico. Forse anche perché sua madre non l’aveva mai usato.
Almeno, non davanti a lei.
Ripensò alle sue parole. “Questa stella nasconde un grande Potere, un Potere che solo io e te possediamo. È sufficiente toccarla, mentre pronuncerai il nome del posto in cui vorrai andare, e lei ti condurrà lì.”
Rebecca aveva corrugato la fronte. “In che modo?”
“Io lo chiamo Spostarsi”. – aveva risposto Banita.
“Spostarsi?”
“Una sorta di orbitazione. Potrai viaggiare da un posto all’altro nel giro di pochi secondi.”
Adesso la rabbia, pian piano, cominciava a svanire e Rebecca avrebbe tanto voluto avere sua madre ancora con sé. Avevano ancora così tanto da condividere.
La vita era ingiusta. Si era già portata via suo padre quando era piccola. Non ricordava niente di lui. Quando guardava le sue foto, Rebecca aveva l’impressione di vedere un estraneo.
Perché le era stata tolta anche sua madre? E perché proprio in un momento cruciale della sua vita? Pensava alle altre Prescelte, che sarebbero state accompagnate ad Amtara dai loro genitori. Loro, almeno, avevano qualcuno a cui appoggiarsi, un sostegno, qualcuno che li amava. Per lei, tutto questo non c’era più.
Era sola. E aveva paura. Paura di non farcela, paura di fallire, paura di farsi male. E soprattutto, paura di deluderla, perché era certa che Banita, ovunque fosse, non l’avesse abbandonata. La sentiva, in ogni momento, costantemente. Una presenza silenziosa e invisibile, ma c’era. Ne era certa. E si aspettava grandi cose da lei.
E se non fosse stata all’altezza delle sue aspettative? Se avesse fallito? Come avrebbe potuto continuare a vivere? Come avrebbe potuto guardarsi di nuovo allo specchio? E che ne sarebbe stato della sua vita?
Ma era una Prescelta, che le piacesse o meno.
Questo era il suo destino.
Non aveva scelta.
Doveva dare il massimo.
E non poteva permettersi di fallire.
 
Quella sera cenò tardi e poi si rilassò sul divano. Fuori, il vento si era placato e l’aria era tornata afosa e irrespirabile, nonostante il temporale di poche ore prima.
Sebbene avesse riposato pochissimo, i suoi sensi erano all’erta come quelli di un gatto. Rebecca rimuginava su quegli ultimi giorni. Dalla morte di sua madre, in realtà, non aveva combinato un granché. Inizialmente si era chiusa nel suo dolore, rifugiandosi in casa. Poi, a poco a poco, aveva ricominciato ad uscire, giusto il necessario per comprare qualcosa da mangiare e le piccole commissioni che non poteva tralasciare.
Era una fortuna che Banita l’avesse resa indipendente fin da subito. Ma, a parte le piccole incombenze quotidiane, Rebecca aveva trascorso la maggior parte del tempo ciondolando per casa e riflettendo sulla nuova scoperta. Si guardava continuamente il polso, con il terrore di toccarlo per timore che potesse accadere qualcosa di terribile. Stava evitando proprio quello che, invece, avrebbe dovuto fare da molto tempo ormai.
E i giorni passavano, inesorabili. Mancava poco meno di un mese al giorno in cui avrebbe dovuto lasciare Villa Bunkie Beach per raggiungere Amtara.
Se avesse aspettato ancora, non avrebbe mai imparato a Spostarsi. E non avrebbe certo potuto farlo ad Amtara, in mezzo alle altre Prescelte che non sapevano nulla del Potere e mai avrebbero dovuto saperlo. Banita era stata molto chiara: il segreto non doveva essere rivelato a nessuno. D’altro canto, Rebecca non aveva la minima intenzione di farlo, dal momento che non era nemmeno sicura di riuscire ad usarlo correttamente. E poi, a quale scopo raccontarlo a qualcuno? Non le sembrava qualcosa di così importante, dopotutto. E non si sentiva certo più speciale delle altre, nonostante quello che aveva detto Banita.
Immersa nel silenzio, la camicia che cominciava ad appiccicarsi alla pelle per il caldo, Rebecca prese la decisione. Non aveva senso continuare ad aspettare, e l’ulteriore attesa non avrebbe fatto altro che incrementare la paura.
Le sembrava perfino di vedere sua madre che la osservava in silenzio, con una profonda delusione dipinta sul volto. Aveva lasciato passare due mesi senza aver mosso un dito. Sentiva che Banita era lì, da qualche parte, e la stava guardando. Sapeva che non era orgogliosa di lei. Sapeva che, in qualche modo, l’aveva ferita.
Non era quello che le aveva promesso. Aveva giurato di farlo, ma poi la paura aveva preso il sopravvento.
Che senso aveva aspettare ancora?
Non sarebbe stato facile, certo.
Sarebbe stato pericoloso? Probabile.
Si sarebbe fatta male? Meglio non pensarci.
“Al diavolo!” – pensò.
Si alzò in piedi, di scatto. Il cuore cominciò a martellarle in petto, ma lo ignorò.
In fondo, cosa sarebbe potuto succedere di tanto grave? Era o no una Strega?
Fece un profondo respiro. Poi, con delicatezza, sfiorò piano la piccola stella.
“Alla spiaggia di Bunkie Beach.”  - disse.
Non sapeva di preciso come funzionasse la cosa. Sua madre non era entrata nei dettagli.
Restò lì a guardarsi il polso.
Non accadde nulla.
Perplessa, ci riprovò.
Stavolta premette con forza il pollice sinistro sulla stella.
“Alla spiaggia di Bunkie Beach.” – ripeté, in tono più deciso.
Funzionò. Fu risucchiata in un vortice e tutto attorno a lei cominciò a roteare così velocemente da darle la nausea. L’istinto le suggerì di chiudere gli occhi, mentre una forza invisibile e potente la trascinava via.
Era orribile, una sensazione mai provata prima. Era come stare in una lavatrice al livello massimo di centrifuga. Provò a riaprire gli occhi, ma si pentì immediatamente. Non distingueva nulla, solo una massa indistinta di oggetti e forme che non la finiva di roteare.
I residui della cena cominciarono a rimescolarsi nel suo stomaco. Si maledì mentalmente. Se lo avesse saputo, avrebbe saltato il pasto.
Ora capiva il motivo per cui sua madre le era sembrata tanto ansiosa. Questa era una cosa terrificante da gestire, e sicuramente la prospettiva di riprovarci non era per niente allettante.
Nel momento esatto in cui il suo stomaco stava per ribellarsi definitivamente a quella tortura, tutto finì. In un attimo, le vertigini cessarono. La paura si smaterializzò, subito sostituita dal panico, non appena Rebecca si accorse di trovarsi in acqua.
A giudicare dalla temperatura dell’acqua, piuttosto bassa nonostante fosse piena estate, doveva trattarsi dell’oceano. Rebecca era affondata per parecchi metri, quasi senza rendersene conto. Doveva essersi Spostata direttamente sott’acqua, invece che sulla spiaggia.
Quel pensiero la terrorizzò.
Aria. Aveva bisogno d’aria, o presto i suoi polmoni sarebbero esplosi. Il panico, di certo, non aiutava.
Disperata, cominciò a nuotare verso l’alto, pregando il cielo di riuscire a trattenere il respiro abbastanza a lungo. Si fece strada con ampie bracciate, spingendo al massimo sulle gambe, ignorando il dolore al petto.
“In alto. Guarda in alto. Concentrati su questo.”
Era un’impresa disperata, e lo sapeva. Era sempre stata una buona nuotatrice, ma non sapeva a che profondità si trovava e il senso di costrizione al petto stava diventando sempre più opprimente. Per quanto tempo ancora sarebbe riuscita a trattenere il fiato? Cominciava a girarle la testa, ma non poteva mollare. Non adesso.
Pensando a quanto sarebbe stato ridicolo morire così stupidamente, scalciò con più forza nelle gambe, pregando che la superficie dell’acqua non fosse così lontana.
“Ti prego, aiutami.” – pregò mentalmente.
Ora anche le gambe cominciavano a farle male e aveva dolori alle spalle per le potenti bracciate con cui, disperatamente, cercava di risalire in superficie.
Il suo bisogno di aria diventava sempre più urgente, ma non doveva pensarci. Non ancora. Se avesse aperto la bocca sarebbe stata la fine…
“Nuota. Nuota. Nuota.” Lo ripeteva nella sua testa come un mantra. E continuò a ripeterlo anche quando, senza nemmeno rendersene conto, il suo viso finalmente affiorò dalla superficie dell’acqua.
Tirò un respiro lungo e profondo, il più gratificante della sua intera esistenza. Il suo corpo si rilassò e Rebecca assaporò pienamente quella meravigliosa sensazione.
Aveva dolori ovunque, ma non le importava.
Inspirava ed espirava, come se fosse la prima volta.
Era inebriante.
Ce l’aveva fatta.
“Grazie, mio Dio.” – mormorò, con le lacrime agli occhi.
Non sarebbe morta. Perlomeno, non ancora.
Cercando di tenersi a galla tra le onde, si guardò attorno. Era buio pesto ed era impossibile calcolare la distanza dalla terraferma.
Poi, le vide.
Delle luci, in lontananza.
A quella distanza non riusciva a distinguere se si trattasse o meno di Bunkie Beach. Tecnicamente, se il suo Potere avesse funzionato, avrebbe indubbiamente dovuto trattarsi della sua spiaggia. Ma poteva anche essersi sbagliata ed essere finita chissà dove.
Poco male. In qualche modo sarebbe comunque riuscita a tornare a casa. Il problema, casomai, era riuscire a raggiungere la terraferma a nuoto.
Era spossata. Aveva dolori ovunque e non era così sicura di poter nuotare così a lungo senza difficoltà. Avrebbe sicuramente rischiato di annegare durante lo sforzo.
Ma che altra scelta aveva? Non poteva certo restare in alto mare tutta la notte. Sarebbe sicuramente morta assiderata.
All’improvviso, fu di nuovo assalita dal panico. Deglutì, sforzandosi di non pensare al peggio.
Non poteva morire così, dannazione. Doveva tornare a casa, in un modo o nell’altro.
Soffocando un’imprecazione, cominciò a nuotare in direzione delle luci, lentamente, per non affaticare il suo corpo già abbastanza provato.
Dopo cinque minuti, rallentò. Aveva il fiatone. Le onde erano aumentate e Rebecca cominciava a tenersi a galla con molta difficoltà. La stanchezza e i dolori ai muscoli non l’aiutavano di certo e l’affanno le impediva di respirare regolarmente.
Non sarebbe mai riuscita a raggiungere la spiaggia, in quelle condizioni.
Doveva nuotare più piano, dosare le bracciate, rilassare le gambe.
Ci riprovò, decisa ad impedire alla paura di prendere il sopravvento su di lei.
Non poteva morire così, accidenti. Doveva almeno provarci a salvarsi la pelle.
Nuotò a lungo, non seppe dire per quanto tempo. Minuti? Ore? Le spalle e le gambe le facevano male da morire e le luci sembravano ancora così lontane!
Si fermò un momento, per riprendere fiato e far riposare i muscoli, cercando di capire quanta distanza fosse riuscita a percorrere. La terra sembrava ancora tanto lontana…. Possibile che stesse andando così piano? Era stanchissima. Il freddo cominciava ad intorpidirle le gambe. Non poteva rischiare un crampo, non adesso.
“Dio, ti prego, non ora.”
Doveva ricominciare a muoversi, altrimenti il suo corpo l’avrebbe tradita. Non poteva permettere ai muscoli di raffreddarsi, o non sarebbe più riuscita a muoversi e, con ogni probabilità, sarebbe affogata.
Cercando di ignorare il panico che stava tornando ad impossessarsi di lei, ricominciò le sue lunghe bracciate.
Fu in quel momento che lo udì.
Un suono.
Tese l’orecchio. Erano cominciate le allucinazioni?
Lo udì, di nuovo.
Non c’erano dubbi, era il rumore dell’acqua che si infrangeva contro qualcosa. Una superficie dura, indubbiamente.
Forse una barca.
Si guardò intorno, ma era difficile riuscire a vedere qualcosa con quel buio pesto.
Poi, il suo cuore fece una capriola.
Poco distante da lei una debole luce illuminava una piccola imbarcazione. Qualcuno a bordo canticchiava una canzone. Poteva udire distintamente le parole.
Non era molto lontana. Sarebbe riuscita a raggiungerla senza problemi.
Rebecca aveva voglia di piangere.
Era salva.
Salva!
Con il cuore ricolmo di gioia cominciò a nuotare verso la barca.
 
Harry White, un anziano pescatore che viveva nei pressi di Bunkie Beach, era uscito in mare più tardi del solito quella sera. Sua moglie era rientrata tardi dal suo pomeridiano tè con le amiche, e avevano cenato tardi.
Appena finito di mangiare, Harry uscì subito di casa, avvisando la moglie che, probabilmente, dato l’orario, non sarebbe rincasato prima di mezzanotte.
“L’importante è che non torni a mani vuote.” – era stata la risposta.
“Tranquilla, tesoro, lo sai che i pesci mi aspettano, come sempre.”
Sogghignò. Quella era un’annata davvero favorevole per il suo lavoro. Le cose non erano mai andate meglio.
Harry era felice della sua vita serena e tranquilla. Bunkie Beach era il posto ideale in cui vivere, e lui e sua moglie non avrebbero voluto essere da nessun altra parte. Tranne che in estate, quando arrivavano i turisti. Ecco, quello era l’unico momento dell’anno in cui Harry avrebbe volentieri fatto le valigie per trasferirsi altrove. Ma non poteva. Il suo lavoro non glielo avrebbe permesso.
Per questo, in estate, trascorreva le giornate chiuso in casa, evitando accuratamente il caos e aspettando che la moglie tornasse dai suoi giri in paese con le amiche.
In questo erano molto diversi. A lei piaceva la compagnia. A lui no.
Forse per questo aveva scelto di fare il pescatore.
Era il momento migliore della giornata, quando saliva sulla sua piccola imbarcazione e scivolava via a pelo dell’acqua, lontano dalla terra, lontano dai pensieri, lontano dalle preoccupazioni.
Il mare era la cura migliore per qualunque male.
E lui era l’uomo più fortunato del mondo, perché con il mare ci lavorava, ed era un amico speciale, unico. Il mare non faceva domande, non chiedeva nulla. Gli donava quei pesci che gli permettevano di vivere serenamente e la pace interiore di cui aveva bisogno.
No. Il vecchio Harry White non aveva bisogno di altro per essere felice.
 
Quella sera, come sempre, partì verso il mare aperto. L’estate era ormai inoltrata, ma di notte, in mare aperto, faceva un po’ freddo. Prese la giacca e se la mise sulle spalle. L’ultima cosa che voleva era buscarsi un raffreddore.
Giunto ad una certa distanza dalla terraferma, gettò le reti e aspettò.
Passarono diversi minuti, durante i quali si udiva solo lo sciabordio dell’acqua contro l’imbarcazione e un motivetto che Harry era solito canticchiare mentre aspettava che i pesci arrivassero.
Era una canzoncina che aveva imparato da suo nonno, quando usciva a pesca con lui da piccolo. Harry non l’aveva mai dimenticata e ogni volta che andava per mare la cantava a bassa voce.
 
“Quando la rete getterai
Che bottino a casa porterai
Tutta la famiglia festa farà
Perché ancora una volta si mangerà!”
 
Sua moglie diceva che era una canzone stupida, ma a Harry non importava. Era un ricordo della sua infanzia, il legame più stretto che aveva con suo nonno.
Gli ricordava che la pesca era parte di lui. Suo nonno era un pescatore, così come suo padre. Harry non avrebbe potuto essere nulla di diverso.
I White la pesca ce l’avevano nel sangue.
 
“Aiuto!”
Harry sobbalzò.
Si guardò intorno, ma non vide nessuno. La spiaggia era troppo lontana perché quella voce provenisse da lì.
Perplesso, si rilassò. Doveva averlo solo immaginato.
“Per favore, mi aiuti!”
Per poco ad Harry non venne un colpo.
Spaventato, si tirò indietro d’istinto, quando vide qualcosa muoversi nell’acqua.
“Corpo di mille balene! Ma chi è?” – esclamò tutto agitato.
“Sono qui! Da questa parte!”
Harry afferrò la torcia e la puntò dritta verso il punto da cui veniva la voce.
Si trattava di una ragazza che annaspava faticosamente tra le onde.
Che diavolo ci faceva in mezzo al mare in piena notte?
“Dio del cielo, ma cosa ci fa lì?”
“La prego….. non ce la faccio più.”
Rebecca era ormai allo stremo delle forze.
Harry si sporse subito dalla barca, cercando di afferrarla, ma le sue mani scivolarono.
Sporgendosi di più, tese le braccia e riuscì ad afferrare la mano di Rebecca.
Con uno sforzo sovrumano, la tirò su, facendola cadere con poca grazie sul pavimento duro della barca.
Rebecca represse un grido di dolore. Si accasciò a terra, respirando rumorosamente.
Era salva. Finalmente quell’odissea era finita.
Piano piano, il respiro tornò regolare. Era scossa da brividi di freddo.
Harry se ne accorse, e le diede una coperta di lana.
Rebecca la prese e se l’avvolse attorno alle membra fradicie.
Alzò gli occhi e si accorse che quel vecchio signore, cui doveva la vita, la fissava incredulo.
Rebecca si lasciò sfuggire una risatina nervosa.
“Probabilmente si starà chiedendo cosa ci facevo in mezzo al mare….”
Harry si ridestò dal torpore.
“Beh, effettivamente…. La domanda viene spontanea. Aveva voglia di un bagnetto serale?”
Harry ridacchiò, nel timido tentativo di stemperare la tensione. Non gli era mai accaduta una cosa del genere. Forse quella ragazza non aveva tutte le rotelle a posto…
“Un bagnetto serale con i vestiti addosso?” – replicò Rebecca.
Harry rise. “No, forse no.”
Rebecca sorrise, imbarazzata. Cosa avrebbe dovuto dirgli? Che era una Strega con un Potere speciale e che si era di colpo materializzata sott’acqua nello stupido tentativo di imparare ad usarlo?
L’avrebbe riaccompagnata a terra e avrebbe chiamato un medico. Uno psichiatra, con ogni probabilità.
Sospirò, esausta. “E’ una lunga storia. E probabilmente non mi crederebbe.” – fu tutto quello che riuscì a rispondere.
“E io non farò domande. L’importante è che stia bene. Ma adesso è meglio se la riaccompagno a casa, o si prenderà una polmonite.”
“Già.” – rispose Rebecca, rabbrividendo. Aveva un bisogno disperato di un bagno caldo, di vestiti asciutti, di una tazza di tè bollente nel calore della sua casa.
Quel pensiero le riscaldò il cuore.
Rimase in silenzio mentre il vecchio pescatore tirava su le reti da pesca, con quello che aveva tutta l’aria di essere un ben magro bottino.
“Mi dispiace.” – gli disse.
“Oh, di solito va meglio. Ma non si preoccupi, non è la fine del mondo. Ora dobbiamo solo pensare a riportarla a casa. I pesci saranno qui anche domani.” Harry le sorrise.
“Io….. non so come ringraziarla.” – mormorò Rebecca, in evidente imbarazzo.
“Cosa avrei dovuto fare, secondo lei? Lasciarla in acqua?”
“No, certo che no.”
“Ho fatto quello che chiunque altro avrebbe fatto. Non mi deve ringraziare.”
“Sì. Resta il fatto che se lei non fosse stato qui, probabilmente sarei morta. Stavo cercando di raggiungere quella spiaggia laggiù.”
“Bunkie Beach?”
Rebecca sgranò gli occhi. “Quella è Bunkie Beach?” – mormorò allibita.
“Ma certo. Dove credeva di essere?” Harry ora la fissava, perplesso. Da dove veniva quella strana ragazza?
Rebecca stava riflettendo velocemente. Allora non si era sbagliata poi di molto. Per qualche oscura ragione, però, il Potere non aveva funzionato correttamente e si era Spostata appena qualche decina di metri più in là.
In mare aperto.
Sospirò, depressa. Avrebbe dovuto dare retta a sua madre e cominciare molto prima con le esercitazioni. Ora mancava solo un mese all’inizio della scuola e non aveva molto tempo per imparare padroneggiare il suo Potere.
Imprecò mentalmente contro di sé e la sua testardaggine.
Harry decise di non fare altre domande. Non ne avrebbe cavato un ragno dal buco e, dopotutto, cosa importava? Le aveva salvato la vita, questo è ciò che contava.
Sistemò i pochi pesci pescati, poi avviò il motore in direzione del porto.
Nessuno dei due parlò nel breve tragitto che li riportò a terra.
Harry l’aiutò a scendere dalla barca.
“Non per essere indiscreto, ma posso chiederle dove abita?”
“A Villa Bunkie Beach, proprio sopra la spiaggia.”
“Ah, allora anche lei è del posto.” – disse Harry sorpreso. “Prima mi era sembrato che non conoscesse la zona…”
“No, sono cresciuta qui.” – disse Rebecca sorridendo.
“Vuole che l’accompagni?”
“Non ce n’è bisogno.”
“Ne è sicura?”
“Ma sì, faccio due passi e sono a casa.”
“E’ sicura di stare bene?”
“Sì, la ringrazio.”
Era la verità. Ora che era finalmente di nuovo a terra, tutte le sue paure erano svanite.
“Beh, allora arrivederci.” Harry le tese la mano.
Rebecca la strinse tra le sue. “Non so davvero come ringraziarla. Grazie, grazie davvero.”
“E’ stato un piacere.”
La guardò allontanarsi lentamente.
Quella sera avrebbe avuto qualcosa di molto interessante da raccontare a sua moglie.
 
Rientrata a Villa Bunkie Beach, Rebecca si tolse in fretta i vestiti inzuppati e si immerse nella vasca da bagno.
Ci volle almeno mezz’ora prima che il calore penetrasse in ogni centimetro di pelle, fino a raggiungere le ossa. Purtroppo, l’acqua non servì a scacciare la sgradevole sensazione di essere una perfetta idiota. Tutto quello che sapeva, ora, era che sua madre non le aveva mentito. Il Potere era reale, e di certo funzionava. Il problema era riuscire a farlo funzionare correttamente.
Si pentì di aver perso così tanto tempo inutilmente. Se avesse cominciato subito, probabilmente ora sarebbe stata in grado di Spostarsi senza troppe difficoltà. La paura l’aveva frenata e, dopotutto, non si era rivelata vana. Rabbrividì al pensiero di cosa sarebbe successo se il vecchio pescatore non si fosse trovato lì. Qualcuno lassù aveva pensato a lei. Qualcuno….. forse era stata Banita a mandarle quell’uomo in suo aiuto. Anche se le aveva disobbedito, anche se aveva permesso alla paura di prendere il sopravvento, sua madre l’aveva protetta. Sì, le piaceva pensare che le cose fossero andate proprio così.
“Io sarò sempre con te.” Le aveva detto.
Rebecca non le aveva creduto, ma si sbagliava. Sua madre era sempre con lei. E quella notte glielo aveva dimostrato.
Non poteva arrendersi. Doveva riprovarci. Doveva farlo per lei.
E per se stessa.
Era ormai mezzanotte passata quando, sfinita, andò a dormire. Aveva davanti a sé ancora molti giorni per dedicarsi al suo Potere. Non li avrebbe sprecati.
 
Dormì fino a tardi. Quando si alzò, scoprì di avere dolori ovunque. Non c’era una singola parte del corpo che non le facesse male.
Si infilò la vestaglia e scese a fare colazione. Aveva urgente bisogno di carboidrati.
Scaldò del pane tostato, che spalmò con marmellata di arance amare e preparò un’abbondante tazza di caffelatte.
Mentre mangiava, valutò le diverse opzioni. Poteva provare a Spostarsi di nuovo alla spiaggia, ma la terribile esperienza appena vissuta la indusse a desistere. C’erano buone probabilità di ritrovarsi un’altra volta in mare aperto e stavolta non era sicura che un anziano pescatore fosse di nuovo lì pronto a raccoglierla dall’acqua.
Senza contare che era sabato e Bunkie Beach sarebbe stata troppo affollata. Anche nel caso in cui il Potere avesse funzionato correttamente, avrebbe avuto serie difficoltà a spiegare ai bagnanti la sua improvvisa apparizione dal nulla. Certo, questo discorso valeva praticamente per qualsiasi altro luogo. Bisognava trovare un posto poco affollato, ma in pieno agosto, in una cittadina di mare, sarebbe stata un’impresa impossibile.
Non aveva scelta, doveva correre il rischio.
Archiviata la spiaggia, le venne in mente che avrebbe potuto unire l’utile al dilettevole, provando a Spostarsi per fare la spesa al supermercato. Il frigo era quasi vuoto.
Perché no? Tanto valeva tentare.
Finì la colazione e salì a vestirsi. Indossò un paio di jeans, una leggera maglia in cotone e scarpe da jogging. Qualunque cosa fosse accaduta, almeno avrebbe avuto un abbigliamento comodo.
Le nuvole del giorno prima si erano quasi completamente diradate e un sole infuocato risplendeva nel cielo limpido. Anche quel giorno, la temperatura avrebbe superato i trenta gradi.
Come la sera prima, il cuore cominciò a batterle forte. Probabilmente ora era perfino peggio, perché sapeva esattamente a cosa andava incontro. Si domandò se lo stomaco, fresco di colazione, avrebbe retto alla pressione. Si era completamente dimenticata dell’orribile effetto che il Potere aveva avuto sul suo povero stomaco. Ma si era svegliata con una fame da lupi e non sarebbe mai riuscita ad affrontare quello che l’aspettava senza mangiare niente.
Forse sarebbe stato meglio aspettare un po’. Giusto il tempo di digerire….
“Questa scusa è pietosa, Rebecca. Puoi fare di meglio.” – si disse a voce alta.
Sghignazzò. Erano questi i primi sintomi della pazzia? Quando cominci a parlare da sola e ridere come una scema delle tue stesse battute?
Sedette sul letto e inspirò profondamente. Stavolta l’oceano era lontano. Non poteva accaderle nulla di male. Sarebbe andato tutto bene.
Abbassò gli occhi sul polso e lo toccò con decisione.
“Al parcheggio del Wingot!”
Chiuse immediatamente gli occhi e trattenne il fiato.
Il vortice la risucchiò di nuovo, come un tornado che trascina con sé tutto ciò che trova sul suo cammino e Rebecca, stavolta, non oppose resistenza. Si lasciò trasportare, avendo cura di non aprire gli occhi fino a quando non fosse stata sicura che l’incantesimo fosse finito. Aveva anche l’impressione che la nausea fosse più leggera. Forse cominciava già ad abituarsi. Questo pensiero la mise di buonumore.
Sentì che il vortice rallentava. Tuttavia, aspettò a riaprire gli occhi.
Poi, all’improvviso, un dolore lancinante al fondoschiena la costrinse a riaprirli. Qualcosa le cadde addosso e alzò istintivamente le braccia per proteggersi.
Imprecando a voce alta, Rebecca riemerse da un mucchio di scatole di cartone.
Si guardò intorno, incredula.
Aveva sbagliato di nuovo, maledizione.
Non si era Spostata nel parcheggio del supermercato, ma all’interno, direttamente sullo scaffale dei cereali per la prima colazione, che le erano appena rovinati addosso.
“Non ci posso credere” – mormorò tra sé, mentre alcuni clienti del supermercato facevano capolino nel corridoio, attirati dal rumore che aveva provocato.
Dandosi mentalmente dell’idiota, si alzò in piedi, con le scarpe che scricchiolavano sotto i cornflakes usciti dalle confezioni.
Abbozzò un sorriso alle persone, sempre più numerose, che la guardavano di sottecchi, incuriosite.
“Ehi, ma che diavolo è successo?”
Una voce emerse dal nulla.
Rebecca si voltò.
Un ragazzo con la faccia coperta di lentiggini la stava fissando. Indossava una maglietta con il logo del supermercato.
“Ahi ahi, guai in vista.” – pensò Rebecca.
Poi, lo sguardo del ragazzo cadde sulle confezioni di cereali sparse a terra.
“E’ stata lei a fare questo?” – le domandò, allibito.
“Mi dispiace.” – mormorò Rebecca, diventando paonazza.
Molti, troppi clienti si stavano godendo la scena divertiti.
Rebecca avrebbe tanto voluto sprofondare nel pavimento.
“Ma come ha fatto?”
“Beh…. Ecco…. Io….. volevo prendere una di quelle scatole là in alto ma….”
“E si è arrampicata sullo scaffale?” Il ragazzo la fissava con aria di rimprovero, facendola sentire come una scolaretta dinanzi al maestro. La situazione era a dir poco ridicola. Non aveva nulla di cui scusarsi, dopotutto.
“Sì.” – ammise a malincuore, sperando che il ragazzo si bevesse la storia.
Il giovane sospirò. “Poteva farsi molto male, signorina, lo sa?”
“Già.” – rispose Rebecca, cercando di ignorare il dolore al fondoschiena.
Ora che non c’era più nulla da guardare molti clienti tornarono ad occuparsi della spesa e Rebecca non se ne dispiacque. Era irritante sentire tutti quegli sguardi addosso.
“La prossima volta chiami un addetto al reparto. Saremo lieti di aiutarla e lei non rischierà di rompersi l’osso del collo.”
Rebecca abbozzò un sorriso. “D’accordo.”
“Ok. Ora sarà meglio che cominci a pulire questo disastro.”
Mortificata, Rebecca rimase a fissarlo mentre si accingeva a liberare il pavimento da tutte quelle scatole.
 
Rebecca decise di rimandare la spesa ad un altro momento, e uscì dal supermercato avviandosi verso casa.
Doveva ricominciare tutto da capo. Non aveva senso usare il Potere su distanze così grandi. Non era ancora pronta.
Decise che avrebbe cominciato ad esercitarsi in casa dove, sicuramente, non avrebbe corso alcun rischio.
Arrivata a casa mangiò un panino al volo, una mela e bevve una tazza di caffè. Aveva bisogno di riflessi pronti, per affrontare il pomeriggio di intenso lavoro che l’attendeva.
Cominciò subito. Prima si Spostò dalla sua camera a quella di sua madre. Poi dalla stanza di sua madre al bagno.
Funzionò.
Poi, tentò da un piano all’altro. Dal soggiorno alla camera e poi dalla camera alla cucina.
Alle cinque, aveva perso il conto delle esercitazioni.
Non ne aveva sbagliata neanche una. Certo, in casa era tutta un’altra storia. Ma questo significava che il Potere funzionava. E sarebbe stata solo questione di tempo, ma molto presto avrebbe funzionato ovunque. Rebecca adesso lo sapeva e questo pensiero la elettrizzava.
Prima di cena, volle tentare un piccolo esperimento. Se riusciva a Spostarsi in casa, allora perché non provare in giardino? Uscì nell’aria fresca del crepuscolo, ad una certa distanza dall’ingresso.
“Al soggiorno di Villa Bunkie Beach!”
Dieci secondi dopo era sdraiata sul divano, con un largo sorriso sulle labbra.
 
Quella sera cenò di buon gusto e andò a dormire presto. Era stanca, ma felice. In soli due giorni aveva fatto passi da gigante.
Era certa che per il 15 settembre sarebbe stata assoluta padrona del suo Potere.
Le successive tre settimane furono le più intense di tutta la sua vita. Si allenò duramente dalla mattina alla sera, facendo solo brevi soste per i pasti.
Fu estenuante. Ma ne valse la pena.
Ad appena una settimana dall’inizio della scuola, era in grado di Spostarsi quasi perfettamente da un posto all’altro. Cominciare da Villa Bunkie Beach le era stato di grande aiuto. Con il tempo prese la mano e raramente le capitava di sbagliare un colpo. Accadde poche volte, una delle quali si spaventò così tanto che si rinchiuse in casa per due giorni senza più riprovarci.
Accadde un venerdì. Nel tardo pomeriggio aveva deciso di fare un po’ di jogging sulla spiaggia. Il sole stava tramontando e Bunkie Beach era pressappoco deserta.
Quello era il momento della giornata che Rebecca preferiva. Amava correre a piedi nudi sulla sabbia umida quando il sole moriva all’orizzonte, accendendo il cielo di mille colori, sentendo solo il suo respiro e il suono carezzevole della risacca.
Corse per mezz’ora, poi le venne l’idea di usare il Potere per tornare a casa. La spiaggia era ormai vuota. Era il momento ideale.
Passati i primi tempi in cui usarlo le provocava ancora ansia, ora cominciava a prenderci gusto. La cosa stava diventando divertente.
Pensandoci successivamente, a mente fredda, Rebecca si domandò se non fosse stata quella eccessiva fiducia nelle proprie capacità a farle commettere l’ennesimo passo falso.
Assicuratasi che nessuno la stesse guardando, si toccò il polso.
“A Villa Bunkie Beach!”
Tutto accadde in un attimo. La rassicurante certezza che di lì a pochi secondi si sarebbe ritrovata tra le familiari pareti di casa cedette il posto, in un battibaleno, al panico assoluto.
Rebecca inorridì quando scoprì di trovarsi su un ottovolante in corsa, per di più nel preciso istante in cui stava per lanciarsi nel primo di una serie di giri della morte.
Rebecca detestava l’alta velocità e tutto ciò che aveva a che fare con essa. Riusciva a malapena a tollerare il senso di vuoto che Spostarsi le provocava, ma riusciva a sopportarlo chiudendo gli occhi fino a quando la nausea non passava. E, in fin dei conti, quello era il suo Potere. Volente o nolente, doveva farci i conti.
Ma con le giostre, no. Rebecca evitava i luna park come la peste bubbonica. Non era mai riuscita a capire come la gente potesse divertirsi in posti simili. Il suo concetto di divertimento aveva ben altre fondamenta. Soffriva di vertigini e detestava il caos e i luoghi affollati.
Fortunatamente, si era Spostata proprio all’ultimo posto dell’ottovolante, così che nessuno si accorse della sua apparizione.
In preda al panico, senza avere nemmeno il tempo di pensare, si aggrappò con forza alle protezioni, un attimo prima che la giostra si lanciasse nei giri della morte.
Rebecca urlò con quanto fiato aveva in corpo. Urlò e urlò fino a quando non ebbe più forza nei polmoni.
Dopo quelle che sembrarono ore, la giostra finalmente si fermò.
Le protezioni furono sollevate e Rebecca si alzò sulle gambe tremanti, seguendo gli altri verso l’uscita.
Le veniva da vomitare.
Si abbandonò sulla prima panchina che trovò, pregando che lo stomaco non la tradisse proprio adesso, lì, in mezzo alla folla allegra di quel dannato luna park.
Si prese la testa tra le mani, pregando che smettesse presto di girare.
Respirò a pieni polmoni, sperando che questo l’aiutasse a riprendersi.
Doveva andarsene da lì e tornare a casa sulle sue gambe.
Perché era accaduto di nuovo?
Qualcosa non aveva funzionato, ma cosa?
Forse non si era concentrata abbastanza.
Forse aveva tralasciato qualche dettaglio? Scosse la testa. Impossibile. Non aveva commessi errori, ne era certa.
Più ci rimuginava sopra, meno ci capiva.
Venti minuti dopo, cominciò a sentirsi meglio. Si guardò intorno. Il luna park era pieno di famiglie con bambini. Poco lontano, un carretto di dolciumi distribuiva gelati e bibite fresche ai turisti accaldati. Aveva sete. Acquistò una bottiglietta d’acqua e la bevve tutta d’un fiato. Si sentì meglio. All’imbrunire, uscì dal luna park e tornò verso casa.
Non uscì di casa per due giorni. Sapeva che questa non era la soluzione. Le paure andavano affrontate al di fuori della propria zona di confort, come le aveva sempre detto Banita, non rifugiandosi in casa. Il problema era che non riusciva ancora a capire per quale assurda ragione si fosse Spostata al luna park. Non era un luogo vicino casa. Possibile che commettesse ancora simili errori? Si maledisse per non aver ascoltato subito sua madre. Se non avesse perso tempo e avesse cominciato subito ad allenarsi, forse ora le cose sarebbero state diverse.
Ma era del tutto inutile rimuginare sul passato. Doveva ricominciare, non c’era più tempo da perdere. Anche a costo di sbagliare ancora.
E lo fece. Da qualche parte dentro di sé trovò il coraggio di riprendere gli allenamenti. Stavolta non commise più errori e, con il passare dei giorni, la sua fiducia in sé aumentò sempre di più. Era orgogliosa di se stessa.
 
Il giorno della partenza si avvicinava sempre più. Presto avrebbe dovuto dire addio a Villa Bunkie Beach. Certo, non era esattamente un addio. Sarebbe tornata per le vacanze di Natale, anche se non riusciva a pensare a nulla di più deprimente che trascorrere il Natale da sola. E ci avrebbe trascorso le vacanze estive. Ma niente sarebbe più stato come prima.
Eppure, chissà, forse ad Amtara avrebbe stretto nuovi legami…. Forse non si sarebbe più sentita così sola. Le avrebbe fatto bene stare a contatto con le altre Prescelte, di questo ne era sicura. Meglio, indubbiamente, che rimanere tutto il giorno in quella casa vuota senza nessuno con cui parlare. All’improvviso, Rebecca si rese conto che era stato proprio il suo Potere ad averla distratta dai lugubri pensieri sulla morte di sua madre. L’urgenza di imparare ad utilizzarlo prima del suo arrivo a scuola aveva fatto sì che la sua mente rimanesse focalizzata su quello. Diversamente, era certa che sarebbe impazzita. Se non avesse avuto qualcosa su cui concentrarsi, avrebbe trascorso quei tre mesi a piangere e disperarsi per la morte di Banita. Si sentì intimamente grata per questo. Per la prima volta fu grata a sua madre per averle svelato il suo segreto solo in punto di morte. In qualche modo, senza saperlo, Banita l’aveva salvata da se stessa.
 
Amtara si trovava in un luogo sperduto, sulle rive di un fiume di nome Silos e a ridosso di una foresta. Calì Amtara in persona aveva provveduto a celarne l’ubicazione a possibili nemici, Streghe Nere e Posimaar in primis, attraverso Incantesimi di protezione noti solo agli insegnanti e alla preside. Era una roccaforte inespugnabile.
Pochi giorni prima della partenza Rebecca decise che l’avrebbe raggiunta con il suo Potere.
Sarebbe partita con largo anticipo, nella spaventosa eventualità che qualcosa non funzionasse a dovere. Era fiduciosa, ma meglio non rischiare di arrivare tardi il primo giorno di scuola…
 
La sera prima della partenza, Rebecca era sdraiata sul divano. Era tardi, ma non riusciva a prendere sonno. Era troppo agitata. Quella era l’ultima volta che avrebbe dormito nel suo letto caldo e comodo. Da domani tutta la sua vita sarebbe cambiata per sempre. Mille domande affollavano la sua mente. Come sarebbe stata la sua camera? Con chi l’avrebbe condivisa? E se le compagne di stanza non le fossero piaciute? E se lei non fosse piaciuta a loro?
Con un sospiro, si mise seduta e lasciò vagare lo sguardo sulla sua casa. Il divano, il tavolo in cristallo, i soprammobili, le foto di mamma e papà. Ne aveva prese alcune e le aveva messe in valigia. Non poteva portarle via tutte o le sue compagne non avrebbero avuto spazio per i loro effetti personali. C’erano tante foto dei suoi genitori e altrettante di lei e sua madre. Rebecca ne aveva prese un paio per ciascuna. Voleva che fossero lì con lei, che l’accompagnassero silenziosi nel lungo viaggio che stava per intraprendere.
Quella era la sua casa, il posto in cui era cresciuta, il custode silenzioso di tutti i suoi ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza. Il luogo in cui aveva conosciuto la Magia e quello in cui aveva appreso di non essere una Strega qualsiasi, ma una Prescelta. Una Strega il cui destino era segnato.
Da piccola sognava di fare grandi cose, di incontrare l’uomo dei suoi sogni, proprio come era accaduto a sua madre,  sposarsi e poi chissà… un giorno forse avere dei figli.
Adesso sapeva che difficilmente tutto questo sarebbe accaduto. Poteva considerarsi fortunata se fosse sopravvissuta alle Streghe Nere. Questo, al momento, era il massimo a cui potesse aspirare.
Banita le aveva sempre detto che essere una Prescelta era un grande privilegio. Forse aveva ragione, ma a volte, come quella sera, Rebecca si domandava se fosse davvero così. Ogni Prescelta portava sulle spalle un pesante fardello: le sorti della Magia Bianca. Erano davvero delle privilegiate? Certo, finora erano state le sole ad essere risparmiate dal Demone, forse proprio in virtù del loro potere speciale. Ma, in fin dei conti, anche loro avrebbero rischiato la vita, direttamente sul campo. La differenza, forse, era che non avevano scelta. L’ammissione ad Amtara non era un diritto, ma un dovere. Nessuno la metteva in questi termini, ma era la pura realtà dei fatti.
Si vergognò un po’ di quei pensieri. Sapeva che era la paura a parlare per lei. In fondo al suo cuore, Rebecca sapeva che non c’era ormai alcuna differenza tra le Prescelte e le altre Streghe Bianche, che venivano trucidate ogni giorno insieme ai loro figli. Come poteva pretendere di essere esclusa da tutto questo? Senza Streghe Bianche, la Magia Bianca sarebbe scomparsa e il suo stesso mondo sarebbe svanito in una bolla di sapone. Non ci sarebbero stati né mariti, né figli. Nessuna futura generazione per loro. Nessun futuro per lei.
Guardò l’orologio. Era mezzanotte passata. Aveva bisogno di una bella dormita, o il mattino dopo non sarebbe stata abbastanza lucida da utilizzare il Potere senza commettere stupidi errori. Non poteva rischiare di Spostarsi su un altro ottovolante, stavolta con valigie al seguito.
Salì in camera, per l’ultima volta. Si infilò nel letto sperando di addormentarsi presto e cercando di non pensare che, la notte seguente, avrebbe dormito altrove, molto lontano dal suo mondo ovattato e sicuro.
 
 
 
 
 
   
 
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