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Autore: Mr Lavottino    04/12/2020    4 recensioni
STORIA AD OC
In una fredda giornata di Ottobre, Noah Hayden, famoso avvocato, riceve una lettera anonima che lo invita a tornare a Wawanakwa. Una volta giunto all’indirizzo indicatogli, incontra sei ragazzi che, circa sette anni prima, aveva aiutato a salvarsi dal carcere mentendo sulla loro colpevolezza, e scopre di essere all’indirizzo della casa di Dawn, la ragazza uccisa dal gruppo in un incidente d’auto.
Lo spirito di Dawn è tornato per vendicarsi ed il gruppo è rinchiuso all’interno della casa fino a che il fantasma non otterrà ciò che vorrà.
Genere: Horror, Introspettivo, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Altro personaggio, Emma, Noah, Nuovo Personaggio
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Contesto generale
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Disegno di: reginaZoey1999


- Ti prego, dicci cosa è successo. Tu eri sua amica. - Abbey non poté mai dimenticare gli occhi tristi della signora Medrek. La donna piangeva a dirotto con il marito affianco che cercava di consolarla. Vedere quella scena fu per lei un colpo al cuore. Mai avrebbe immaginato che la signora Medrek, donna di classe e dall’aspetto altolocato, sarebbe arrivata a prostrarsi ai suoi piedi pur di scoprire la verità. “Le è morta la figlia” le suggerì una voce nella sua testa, che la portò a comprendere come in certe situazioni anche le persone più dure finivano inevitabilmente messe al tappeto dalla vita. 

- No, signora Medrek. - disse, con un groppo alla gola che le impediva di risultare convincente – Noi non c’entriamo nulla. Glielo giuro sulla mia vita. - si portò una mano sul cuore per sembrare più convincente. Era proprio un’ipocrita per giurare in quel modo nonostante sapesse perfettamente la verità, non si sarebbe stupita se fosse morta sul colpo. 

- Ne sei sicura? - chiese il signor Medrek. L’uomo aveva gli occhi stanchi, Abbey lo vide chiaramente. La stanchezza era dovuta dall’assenza di una giustizia sulla quale aveva fatto ciecamente affidamento e che, col senno di poi, l’aveva deluso. Fu proprio il suo sguardo a farla vacillare. Ci mise un po’ a rispondere. 

- Noi non c’entriamo nulla. - ripeté – Abbiamo fatto un incidente, ma è successo da tutt’altra parte rispetto al luogo in cui è morta Dawn. - le propose esattamente la versione che Noah le aveva detto di dire in giro. Delle lacrime argentee incominciarono ad uscire dai suoi occhi, tanto per rendere quella scenetta ancora più pietosa.  

Le bastò guardarli negli occhi per capire che non la credevano, che erano sicuri stesse mentendo. Però non dissero nulla, non obiettarono. Si limitarono a scuotere la testa con le facce rattristite e poi, dopo averla salutata, ad andarsene dalla sua stanza senza proferire parola. 

E a quel punto, quando fu rimasta da sola, Abbey si asciugò le lacrime con la manica della maglietta e si gettò di peso sul letto puntando lo sguardo verso il soffitto giallognolo della sua cameretta. Ci era riuscita, più o meno: aveva salvato il suo futuro, aveva fatto in modo che quell’errore non incidesse in alcun modo su quello che sarebbe stato il suo avvenire. Non poteva dire di esserne felice, ma al tempo stesso sentiva un forte sollievo che la induceva a ridere. E così fece, rise con le mani sulla pancia, la stessa pancia che dentro borbottava per i sensi di colpa. 

 

 

- No, non è possibile. - Brodie scosse la testa – Abbey se ne sarebbe dovuta accorgere. - il respiro del moro iniziò a farsi sempre più pesante. Noah lo guardò e gli fece cenno di sì con la testa, poi guardò la ragazza sanguinante stesa sul divano.  

- Abbey se ne sarebbe dovuta accorgere. - ripeté l’avvocato.  

- Dawn era sua amica. L’avrebbe sicuramente aiutata. - Brodie guardò Noah. L’indiano lesse nei suoi occhi il desiderio di sentirsi dire che era come diceva lui, che Abbey non avrebbe mai potuto fare una cosa del genere.  

Solo lei può dirci la verità. - indicò Abbey con un dito. Tutti si voltarono nella sua direzione 

- Esatto. - concordò Ginevra. 

- Non può essere stata lei. - Brodie iniziava a capire dove Noah volesse andare a parare. Non poteva essere stato un semplice incidente, Abbey non poteva essersi sbarazzata del corpo di Dawn senza capire che fosse ancora viva. Le mani di Brodie iniziarono a tremare sempre più forte.  

- Chiediamoglielo. - Ginevra mosse la testa verso la castana. Sulle prime, rimasero tutti immobili. Clara era shoccata, perché non aveva minimamente pensato ad una soluzione del genere, mentre Aya si limitava ad ascoltare quanto detto con la bocca aperta. La prima cosa che le venne in mente fu che, paradossalmente, a quel punto Delfina avrebbe avuto ragione quando accusava Abbey di averli portati lì.  

Fu Brodie ad avvicinarsi, a passi incerti, verso di Abbey. Si piegò sulle ginocchia e le accarezzò il viso delicatamente. Sussultò quando vide la castana aprire gli occhi.  

- Abbey, sei stata tu? - iniziò, fermandosi subito – Hai ucciso tu Dawn? - sentì un enorme groppo formarsi all’altezza della gola. Il respiro si fece ancora più affannoso, così come il battito del suo cuore. Guardò la ragazza con gli occhi lucidi, sull’orlo di una crisi di nervi che l’assenza delle sue pasticche rendeva molto più facile.  

- Sì, sono stata io. -  

 

 

Brodie parcheggiò la macchina lungo il bordo della strada. Guardò Delfina dallo specchietto retrovisore che, dopo aver buttato un occhio fuori dal finestrino, fece cenno di sì con la testa. 

- C’è un fossato qui accanto, possiamo gettarla lì. - spiegò la mora, indicando il punto con l’indice tremante. 

- Okay. Vai Brodie. - Ginevra mosse la testa in direzione del ragazzo, che spalancò la bocca ed iniziò a tartagliare parole confuse 

- Non è in condizione di farlo. - lo sostenne Abbey, girandosi verso l’amica. 

- Allora fallo tu. Io di certo non mi metterò a nascondere il corpo della persona che lui ha ucciso. - Ginevra indicò Brodie e guardò Abbey. Il ragazzo spostò gli occhi tremanti sulla fidanzata che, dopo averlo visto in faccia, capì esattamente cosa doveva fare. Si slacciò la cintura con fatica ed aprì lo sportello. 

- Quanto ci vuole per arrivare al fossato? - chiese.  

- Due o tre minuti, è appena entri nel bosco. - spiegò Delfina.  

Abbey si avvicinò al bagagliaio e lo aprì lentamente. Sentì un tuffo al cuore quando i suoi occhi videro il corpo di Dawn tutto piegato all’interno di quello spazio ristretto. Si fece forza, la prese da sotto le spalle e la spinse di peso fuori, poi la trascinò, con fatica, fino al punto stabilito.  

Le ci vollero quasi dieci minuti per raggiungere il fossato. Il corpo di Dawn non pesava così tanto, ma erano comunque quaranta chili che lei, di poco più alta della bionda, non riusciva a trasportare con facilità. Per di più, i continui rami e foglie degli alberi le andavano a sbattere contro il volto, impedendole di vedere bene, senza contare la borsetta che, come un’idiota, aveva dimenticato di lasciare in macchina che le penzolava fra i piedi rendendole il tutto ancora più difficile e scomodo.  

Una volta giunta, sdraiò Dawn per terra e si mise a sedere su una roccia lì vicino, completamente stremata. Aveva il fiatone e sentiva le braccia staccarsi dal resto del corpo. Affondò la testa nelle gambe e si lasciò andare a dei lunghi sospiri. Aveva quasi finito, doveva solo gettare il corpo nel fossato e poi tornare a casa come se nulla fosse successo. Un ultimo sforzo che le avrebbe permesso di vivere la sua vita in pace, perché infondo Ginevra aveva ragione: non poteva buttare tutto via per colpa di un incidente.  

- Aiuto. - quando sentì quelle parole le venne la pelle d’oca – Aiutatemi. - un sussurro lento, lagnoso e stridulo, come quello di un bebè in una culla. Abbey sollevò lentamente la testa dalle gambe e guardò Dawn: aveva un braccio alzato e muoveva le dita della mano con fatica.  

- Dawn, sei viva? - Abbey si alzò di scatto e, con il cuore in gola, si avvicinò verso di lei. Si buttò al suo fianco e le prese la mano stringendola con forza.  

- Abbey, sei tu? - chiese l’altra, con un filo di voce.  

- Sì, sono io. Andrà tutto bene, non preoccuparti. Vado a chiamare gli altri, aspettami qui. - si alzò di scatto, facendo ben attenzione a riporle la mano a terra con cautela, e fece per tornare indietro.  

Ti prego, chiama un’ambulanza. Non sento più le gambe. - disse Dawn piangendo, per poi tossire un po’ di sangue. Fu quella frase a fermare Abbey. Cosa sarebbe successo se avessero chiamato l’ambulanza? A loro volta avrebbero chiamato la polizia e loro sarebbero stati arrestati. E, quindi, Abbey avrebbe potuto dire addio per sempre alla sua università. 

Abbey si guardò attorno: vicino a lei c’era un sasso grande quando la sua mano. Sarebbe stato perfetto. Si avvicinò e lo prese. Perse qualche secondo a guardarlo, mentre Dawn continuava a lamentarsi sottovoce.  

- Abbey, per favore. Fa male. - la castana si avvicinò a Dawn e la guardò fissa in volto. Dawn si rese subito conto che c’era qualcosa che non andava, anche se la sua vista era leggermente offuscata. L’espressione di Abbey non era quella giusta. Non sembrava in pena per lei, né vogliosa di aiutarla. Era seria, quasi infastidita da qualcosa che avrebbe dovuto fare per forza. La castana alzò il braccio che teneva in mano il sasso al cielo. 

- Abbey? - chiese Dawn con voce tremante. Abbey la guardò per qualche secondo, indecisa sul da farsi. Doveva scegliere, era tutto nelle sue mani: fare la scelta giusta e compromettersi l’esistenza, oppure nascondere le prove e fare finta che nulla fosse successo. Esitò parecchie volte, tenne il braccio rivolto al cielo per quasi due minuti prima di avere la risposta al suo quesito.  

- Abbey, io e te siamo amiche. - Dawn scoppiò a piangere ancora più forte. Non poteva muoversi, aveva le gambe fuori uso e troppe poche forze per difendersi.  

- Sì, lo siamo. - Abbey strinse la presa attorno al sasso e con tutta la forza che aveva in corpo lo sbatté contro la faccia della bionda.  

- Fermati, ti prego! - sussurrò Dawn, impotente. Ma Abbey non lo fece. Continuò imperterrita a colpirla in faccia con il sasso senza alcuna pietà, con l’espressione di chi uccide un ragno sul muro. La colpì fin quando non sentì la mano di Dawn afferrarle debolmente la maglietta. A quel punto si fermò di e, dopo pochi istanti, la bionda lasciò la presa.  

Abbey guardò quello che aveva fatto con gli occhi sgranati: il volto di Dawn era tumefatto e sporco di sangue, con il naso spaccato, un occhio spappolato e qualche dente sfracellato. Non riuscì a trattenere il vomito, rigettò fuori tutti i cocktail che aveva bevuto quella sera e, con la bocca ancora colante della sua saliva, rimase ad osservare il cadavere fino a quando non si riprese del tutto.  

Per prima cosa, gettò via la pietra nel bosco, poi prese Dawn per un piede e, con fatica, la lanciò giù dal dirupo. Sentì il corpo rotolare per qualche secondo, fino a quando non udì un schiocco sonoro che le fece capire fosse andato a sbattere su di un sasso infondo al fossato.  

Prese poi la sua inseparabile borsetta e ne estrasse un bottiglia d’acqua, con la quale si pulì il volto sporco di sangue, e, dopo aver tratto un enorme sospiro liberatorio, tornò indietro come se nulla fosse successo.  

- Perché ci hai messo tanto? - le chiese Ginevra, infastidita da tutta quell’attesa.  

- Pesava. - non aggiunse altro, si limitò a mettersi la cintura e a rimanere in silenzio per tutto il resto del tragitto. Nessuno avrebbe saputo la verità, nessuno avrebbe sospettato della sua piena colpevolezza ed andava bene così. Nel peggiore dei casi, le colpe sarebbero andate solo a Brodie. 

 

 

- L’ho uccisa io. - sussurrò Abbey con le poche forze rimaste. La casa iniziò a tremare – L’ho uccisa e poi gettata nel fossato. - più andava avanti e più le scosse aumentavano di intensità.  

- Abbey – sussurrò Brodie, senza riuscire a dire altro.  

- Oh, Cristo. - disse Ginevra portandosi una mano alla bocca. 

- Questo spiega un bel po’ di cose. - Noah scosse la testa e si massaggiò gli occhi con l’indice e il pollice della mano destra. Fu solo quando sentì un pezzo di calce cadergli sulla spalla che si accorse che la casa stava crollando.  

- Merda. - disse Clara dopo aver visto la grossa spaccatura sul soffitto che si faceva pian piano sempre più forte.  

- Dobbiamo andarcene da qui! - urlò Noah, per sovrastare il baccano.  

- Come facciamo? Non ci sono uscite. - replicò Ginevra, indicando la porta senza maniglia. L’avvocato si morse il labbro e, senza perdere tempo, vi si fiondò davanti. Iniziò a colpirla con foga, mentre alcuni pezzi di intonaco iniziavano a cadere dal soffitto. Della sottile polverina bianca si espanse per tutta la stanza e piccoli pezzi di calce lì colpivano di tanto in tanto.  

- Siamo morti! - urlò Clara, che tenne stretta a se Aya afferrandole la mano con forza. Noah non si fermò nemmeno per un istante, continuò a colpire la porta con calci pugni e testate, nella speranza di farla cadere giù. Anche Ginevra, presa dalla disperazione, iniziò a fare lo stesso. 

- Apriti, porca puttana! - le urla di Ginevra andavano a tempo con i colpi sulla porta, che non sembrava voler cedere. La stanza era completamente invasa dalla polvere, che gli impediva di vedere poco più in là del loro naso, e che ormai si era depositata nei loro occhi, costringendoli a proseguire quasi alla cieca.  

- Hai avuto quello che volevi, ora lasciaci andare! - gridò Noah con tutto il fiato che aveva in corpo. Dall’altra parte della stanza, Brodie stava tenendo la mano di Abbey che respirava a stento. 

- Perché non me l’hai detto? - chiese il moro con le lacrime agli occhi, mentre vari pezzi di calce lo colpivano – Ho vissuto per anni con il trauma, non sono riuscito a realizzare i miei sogni per questo motivo. - le lacrime scesero verso le guance, pulendo la polvere dalla sua faccia.  

- Non lo so. - sussurrò lei, guardando in alto – Volevo far finta che non fosse mai successo. - aggiunse, per poi sorridere. 

- Avresti potuto parlarmene. - Brodie abbassò lo sguardo – Avresti dovuto parlarmene! - alzò la voce di colpo.  

- Mi dispiace così tanto. - la castana allungò la mano. Gli accarezzò una guancia e gli fece cenno di alzare la testa – Mi dispiace per tutto. - disse, poi esalò un profondo sospiro e chiuse gli occhi.  

- Si è aperta! - l’urlo di Noah portò Brodie a girarsi verso di lui. Dal nulla, la porta si era aperta. Clara ed Aya si precipitarono fuori all’istante. Anche Ginevra fece per andare, ma Noah la afferrò per un braccio.  

- Dobbiamo prendere Delfina. - le disse, guardandola dritta negli occhi. La ragazza rimase immobile per qualche istante. Le venne in mente la volta in cui aveva deciso, a nome di tutti, di non aiutare Dawn. Chiuse gli occhi e scosse la testa: non lo avrebbe fatto mai più.  

- Andiamo! - urlò, per poi entrare di nuovo nella casa. Presero Delfina, appoggiata al bordo del divano senza coscienza, e la sollevarono insieme.  

- Brodie, sbrigati! - Noah guardò il moro che, in lacrime, era ancora fermo con la mano di Abbey fra le sue.  

- Dovevi dirmelo! - il ragazzo continuò ad urlare in direzione di Abbey, ignorando le parole di Noah. 

- Sbrigati! - gridò l’avvocato. Una forte scossa annunciò l’imminente crollo della struttura. I pezzi di calce, cemento e legno incominciarono a farsi sempre più grossi, la polvere aumentò ancora e le fondamenta si piegarono. 

- Andiamocene! - Ginevra indicò l’uscita. Aveva le braccia stanche e non sarebbe riuscita a tenere Delfina ancora per molto. Con il cuore in gola, Noah decise di lasciare Brodie lì.  

- Sì. - disse, per poi correre verso l’uscita mentre i pezzi della casa iniziavano a cadere attorno nel bel mezzo della sala.  

Appena uscirono, la casa crollò su se stessa. Un enorme alone bianco si espanse per tutta la zona circostante, ricoprendo di polvere tutto ciò che c’era intorno.  

Noah si girò giusto in tempo per vedere l’edificio crollare completamente a pezzi, poi le sue gambe cedettero e sprofondò nel prato verde assieme a Ginevra. Attorno a lui il silenzio. La polvere si stava pian piano dissipando permettendogli di vedere le stelle nel cielo nero della notte. Sentiva l’aria gelida perforargli la pelle ed una strana sensazione di euforia mista ad adrenalina in pancia. Avrebbe voluto vomitare, ma non riusciva a tirarsi su. Poté solo restare fermo ad osservare le piccole luci bianche che tappezzavano quell’infinito manto nero che vedeva sopra di se.  

 

 

Brodie si tirò su non senza qualche difficoltà. Attorno a se c’erano una marea di detriti di quella che, poco prima, era stata l’abitazione dei coniugi Medrek. Scosse la testa, che sentiva vuota e pulsante, poi si ricordò di Abbey e scattò sull’attenti.  

- Abbey, dove sei? - iniziò a guardarsi attorno e a cercare con lo sguardo la ragazza, della quale non sembrava esserci traccia. Iniziò quindi a spostare i detriti, noncurante del forte dolore che sentiva alla testa e alle gambe.  

Tirò su un pezzo di tavolo, poi un grosso calcinaccio, addirittura una stecca di ferro delle fondamenta. Infine, nel bel mezzo delle macerie, vide una mano. Corse in quella direzione ed iniziò a spostare tutto ciò che c’era sopra, fino a scovare il corpo di Abbey.  

La ragazza era ancora stesa sul divano, con il volto angelico piegato in un sorriso, mentre la fronte era sporca di sangue seccato per via della polvere. Aveva gli occhi socchiusi e non sembrava assolutamente triste, anzi, quasi era alquanto felice.  

- Abbey? - domandò, sperando con tutto il cuore che fosse ancora viva. Nessuna risposta. Spostò un altro macigno e, solo a quel punto, si accorse della trave di ferro che tagliava di netto lo stomaco della ragazza. Le toccò il polso, tanto per essere sicuro al cento per cento, e quando non sentì battito iniziò a ridere istericamente. Dovette premere con forza sulla pancia per riuscire a smettere, tanto era forte l’attacco isterico che gli era preso. Riuscì a calmarsi poco dopo e, appena fatto, si girò ed appoggiò la schiena contro il divano. 

- Sei sopravvissuto. - Noah apparve alle sue spalle. Non ricevette risposta, ma non ne ebbe bisogno. Si avventurò fra le calci e i detriti della casa distrutta e gli andò incontro.  

- Ho vissuto in una bugia. - sussurrò il moro, deglutendo poi con forza. Si asciugò una guancia dalla polvere con la mano ed abbassò la testa verso quello che restava del pavimento in legno.  

- Mi dispiace. È anche colpa mia. - Noah appoggiò una mano sui capelli del ragazzo ed iniziò a massaggiarglieli. Non capiva il perché, ma sentiva il forte bisogno di consolarlo. Forse era il suo istinto paterno che, pian piano, stava venendo fuori, o magari della semplice empatia che per la prima volta nella sua vita provava nei confronti di qualcuno. Perché se non l’avesse provata nei confronti di Brodie non ci sarebbe riuscito per nessuno altro. Tradito da chi amava, lasciato a marcire con il peso di qualcosa che non aveva fatto ed ormai arresosi ad un’inevitabile vita fatta di rimorsi e rimpianti.  

- Ho freddo. - disse Brodie, portando lo sguardo verso il cielo stellato notturno. 

  - Andiamo a casa. - Noah gli dette una leggera pacca sulla collo.  

- Che cosa succederà adesso? - il moro alzò lo sguardo verso l’avvocato e lo guardò con gli occhi di un cucciolo smarrito.  

- Non lo so, Brodie. - si sentiva fuori contesto nel fare quei discorsi, ma in quel momento soltanto lui poteva farlo, per quanto gli pesasse – Potremmo tornare alle nostre vite come se nulla fosse successo. Potremmo fare quello che abbiamo fatto per sei lunghi anni. - guardò da prima la luna, poi abbassò lo sguardo verso il cadavere di Abbey davanti a lui – Sarebbe giusto così. - Brodie lo guardò in silenzio per qualche secondo, poi, seppur con molta difficoltà, aprì la bocca.  

- Lo sai cosa sarebbe giusto? - non lasciò rispondere Noah, ci pensò lui stesso a porre fine a quel dubbio etico – Denunciare tutto. Ammettere quello che abbiamo fatto ai quattro venti. Dire la verità. - marcò particolarmente su l’ultima parola. 

- Vuoi fare la spia? - Noah esitò per un istante. Se lo avesse fatto sarebbe stata la fine per tutti loro. 

- Non è che voglio. - Brodie estrasse con fatica il telefono dalla tasca – Lo devo fare. - nonostante lo schianto, il cellulare era perfettamente intatto. In altre circostanze lo avrebbe definito un miracolo, ma non dopo quello che aveva vissuto quella notte. Sembrava chiaramente la volontà di qualcuno di superiore.  

- Così metterai tutti nei casini. - Noah sentì la gola farsi secca. Se davvero Brodie avesse rivelato a tutto il mondo cosa era successo avrebbe distrutto completamente la sua vita. Sarebbe passato da avvocato rispettato ad oggetto dell’odio pubblico, per non parlare di quello che avrebbe pensato Emma, alla quale aveva sempre detto che i ragazzi erano innocenti. Emma si fidava di lui ed odiava sentirsi dire bugie. Bugie che Noah perennemente le diceva per evitare di far crollare l’immagine perfetta che aveva costruito di se. 

- Non mi interessa. - Brodie aprì la rubrica e cercò quel numero che non aveva mai avuto il coraggio di cancellare. Guardò il nome del contatto con gli occhi sgranati, mentre il suo respiro si fece sempre più affannoso. 

- “Scott Wallis” – lesse sottovoce, per poi sospirare ed appoggiare lievemente il dito sull’icona della chiamata.  

Noah sentì la testa pulsargli come non aveva mai fatto prima. Se Brodie avesse fatto quella chiamata sarebbe tutto finito: la sua carriera, il suo matrimonio e tutto quello che gli rimaneva. Una marea di pensieri sul come poter risolvere la situazione iniziarono a ronzargli in testa, dai più ortodossi ai più estremi. E non ci mise molto a capire che solo con quegli ultimi sarebbe riuscito nel suo intento. Afferrò un pezzo di ferro da terra, probabilmente appartenente ad un qualche mobile andato a pezzi, e si avvicinò verso Brodie, ancora alla ricerca del coraggio per fare la telefonata.  

Alla fine il moro si convinse e schiacciò con forza l’icona. La chiamata partì. “Tuuu”, “Tuuu”, “Tuuu”. 

- Pronto? - una voce acida uscì dal telefono. Si sentì un grido distorto di aiuto in sottofondo – Chi cazzo è che chiama a quest’ora? - la mancata pronta risposta di Brodie si rivelò essenziale per Noah. L’indiano strinse la presa sul pezzo di ferro e si mise fermo dietro al moro.  

Non lo fare. - sentì una voce candida, che dopo quella notte riconosceva bene – Lascialo parlare. - aggiunse. Noah tenne l’arma in alto  - Fidati di me. - quella frase bastò a convincerlo. Col cavolo che si sarebbe fidato di quel demone.  

Strinse il pezzo di ferro saldamente e, con gli occhi chiusi, colpì Brodie alla testa. Un tonfo sordo vibrò nell’aria, poi il moro cadde faccia in avanti contro le macerie perdendo la presa sul cellulare.  

Noah guardò il corpo di Brodie con respiro affannato, mentre in sottofondo la voce di Scott contribuiva a rendere l’atmosfera ancora più cupa. 

- Oh, dannazione! Vuoi rispondere? Ho di meglio da fare. - urlò Scott, sovrastando le grida provenienti da dietro di lui, e a quel punto Noah si girò verso il cellulare. Alzò la spranga verso il cielo notturno e la rigettò con forza contro l’oggetto che, appena colpito, si frantumò in mille pezzi. La voce di Scott sparì immediatamente e tornò il silenzio. 

Hai fatto la tua scelta. - sussurrò la voce candida e pura nella sua testa.  

 

 

- Noah, hai trovato qualcosa? - domandò Ginevra quando lo vide tornare indietro. L’indiano abbassò lo sguardo verso il pavimento e fece cenno di no con la testa.  

- Sono morti. - sussurrò, per poi lasciarsi andare ad un lungo sospiro. Portò una mano alla bocca ed iniziò a piangere – Sono morti tutti e due. Ho trovato i loro cadaveri. - disse fra un singhiozzo e l’altro.  

Le quattro rimasero immobili con la bocca spalancata. Brodie ed Abbey avevano perso la vita. Le loro menti andarono in tilt, non sapevano esattamente cosa pensare e come farlo. Se da un lato c’era la consapevolezza di essere sopravvissute ad un inferno del genere, dall’altro quella di aver perso delle persone che, seppur in passato, erano state loro amiche.  

Questo valeva per Aya, Ginevra e Clara, ma non per Delfina. Lei, fra tutte, era l’unica a sentire in petto un peso da milioni, se non miliardi, di chili che la trascinava verso il pavimento. Si lasciò cadere giù di peso, finendo in ginocchio. Il respiro iniziò a mancarle e le lacrime a scendere con talmente tanta velocità che quasi non se ne rese conto. Brodie era morto. L’amore della sua vita, il ragazzo per il quale avrebbe volentieri sacrificato se stessa, quello che l’aveva fatta soffrire ma che, inevitabilmente, le stava a cuore. Delfina pianse, pianse senza sosta per tutto il tempo. Pianse talmente tanto che Clara sentì il dovere morale di cercare di consolarla abbracciandola, anche perché Brodie le aveva salvato la vita dandole la sua ultima pasticca e lei, per quanto fosse cinica e ingrata, non poteva che riconoscergli di averla salvata.  

- Mi dispiace. - le sussurrò nell’orecchio, mentre anche lei sentiva un leggero prurito agli occhi. Aya si unì all’abbraccio e allora Clara scoppiò definitivamente a piangere. Fu un scena triste e mielosa, che Ginevra guardò con un groppo in gola.  

- Andiamocene. - disse quasi mezz’ora dopo, ormai conscia che non ci fosse più alcun motivo per rimanere lì.  

- Con i loro corpi cosa facciamo? - chiese Clara, asciugandosi le lacrime.  

- Appena tornerò a casa chiamerò la polizia. - spiegò Ginevra – Poi, con calma, decideremo tutti assieme cosa fare. - concluse.  

- Concordo. - disse Noah. 

- Qualcosa da questa notte abbiamo imparato: nulla resta impunito. - constatò Ginevra, soffermandosi a guardare per un’ultima volta i detriti della casa – A qualcuno serve un passaggio? - estrasse le chiavi di tasca e le mosse davanti al gruppo. 

- Io ho la mia. - Noah scosse la testa.  

- Anche io, ma penso sia meglio venire con te. Non so se riuscirei a guidare e penso che sia meglio portare Delfina all’ospedale. Non ha una bella cera. - Clara, con l’aiuto di Aya, sollevò Delfina ed andò dietro Ginevra.  

- E sia, venite con me. - detto ciò, si diressero al cancello di ferro che, questa volta, si aprì senza fare troppe storie.  

 

 

Il rumore delle onde del mare, l’odore della brezza marina e il caldo del sole che le batteva sulla pelle.  Erano secoli che Clara non andava al mare.  

L’ultima volta, se non ricordava male, aveva circa sedici anni e ci era stata assieme alle sue amiche del tempo per fumare erba sulla scogliera più alta di Wawanakwa 

Tornare lì a distanza di anni le provocò un senso di nostalgia alla quale aveva pensato di poter essere indifferente. Eppure, lo sentiva, lo sentiva eccome. Si sarebbe volentieri gettata in mare se solo non fosse stato ottobre. Il sole era inaspettatamente cocente, da quelle parti era alquanto normale, tuttavia era piuttosto sicura che se avesse messo un piede nell’acqua sarebbe finita ricoverata per ipotermia. E all’ospedale c’era già Delfina, perciò voleva evitare di dare altre rogne ai medici.  

- Oh, Cristo. - sussurrò, per poi sedersi di colpo sulla sabbia. In altre circostanze sarebbe stata attenta a dove si sedeva, ma dopo quello che aveva passato sentivo il bisogno di concedersi del sano e meritato riposo – Sono stanca morta. - aveva dormito poco più di un’ora nella macchina di Ginevra, fino a quando non erano arrivate all’ospedale dove avevano portato Delfina per evitarle una, probabilissima, crisi respiratoria. E, dopo quasi cinque ore passate ad aspettare in sala d’attesa, il medico aveva detto loro che potevano andare a fare un giro visto che la situazione era sotto controllo.  

A Clara sarebbe piaciuto tornare a prendere la sua macchina, ma Ginevra l’aveva liquidata spiegandole che doveva tenere sott’occhio Delfina e non poteva assolutamente assentarsi, per di più voleva andare quel pomeriggio stesso dalla polizia per denunciare cosa era accaduto quella fatidica strada.  

Quindi l’unica cosa che Clara poté fare fu andare in spiaggia assieme ad Aya che, come un fedele cagnolino, l’aveva seguita silenziosamente. 

  - Spero di potermene tornare a casa il prima possibile. Ho bisogno di un po’ di riposo. - Clara estrasse dalla borsa una sigaretta e la accese. Tirò con tutte le sue forze e lasciò andare un’ondata di fumo verso l’orizzonte con sguardo malinconico – Che farai ora? - chiese ad Aya, seduta silenziosamente al suo fianco. La mora la guardò inclinando la testa, poi tirò fuori un pezzo di carta ed una penna, che aveva prontamente rubato all’ospedale, ed iniziò a scrivere. 

- “Non lo so” – lesse Clara ad alta voce. 

- Che significa? - chiese poi.  

- “Che non lo so”. - Aya aggiunse semplicemente la congiunzione e sottolineò di nuovo la frase. 

- Grazie tante, adesso ho capito. - sbottò ironicamente Clara roteando gli occhi.  

- “Tu?” - scrisse Aya, portandola a leggerlo ad alta voce. 

- Cazzo, mi sembra di parlare da sola. - la mora scosse la testa e si massaggiò la fronte – Comunque, non lo so nemmeno io. - sbatté la sigaretta per far cadere la cenere che vi si era accumulata. Aya alzò le sopracciglia e la guardò con un’espressione incredula, quasi indispettita. 

- Ehi, non rompere. - Clara sbuffò sonoramente e riportò la sigaretta alla bocca – Vuoi venire con me? - chiese, tenendo stretta la cicca fra i denti. 

Mh? - Aya la guardò e con gli occhi le fece cenno di ripetere. 

- Oh, Dio, che imbarazzo. - spinse i palmi delle mani contro gli occhi e cercò il coraggio che aveva perso quando la sua adolescenza era finita – Vuoi venire con me? - ripeté, stando ben attenta a guardarla solo con la coda dell’occhio. 

- Va bene. - disse Aya, lasciandola di stucco. Aveva parlato. Aveva usato la sua voce per rispondere alla sua domanda, senza scrivere sul foglio o usare quel maledetto linguaggio dei segni. 

- Okay, allora è deciso. - Clara si alzò di colpo e si pulì i pantaloni dalla sabbia – Facciamo un viaggio. - aggiunse. 

- “Dove?” - scrisse l’altra, facendole perdere tutta l’euforia che fino a poco prima l’aveva avvolta. Ne aveva ancora di strada da fare se voleva “guarire” Aya, ma forse con il passare del tempo ci sarebbe riuscita e chissà, forse sarebbe guarita anche lei.  

- Ti piace il freddo? Stavo pensando a Taloyoak. -  

 

 

Una volta salito in macchina, Noah si asciugò le lacrime dagli occhi con la manica della giacca. Accese l’auto e partì in direzione dell’autostrada che, in meno di un’ora, lo avrebbe riportato a casa. Si toccò le tasche per prendere il telefono, ma si rese conto di non averlo più. Con tutta probabilità gli era caduto durante la rocambolesca fuga dalla casa.  

- Maledizione. - sussurrò, per poi roteare gli occhi e lasciarsi crogiolare dal silenzio più totale.  

Solo quanto tutto tacque Noah si rese conto di quello che aveva fatto: aveva ucciso Brodie a sangue freddo, quello stesso ragazzo che poco prima aveva cercato di consolare per chissà quale motivo. Era un povero ipocrita, un bastardo approfittatore che per ottenere quello che voleva era disposto a tutto. Anche ad uccidere.  

Proprio mentre pensava a quanto fosse marcio, iniziò a sentire lo stomaco sempre più leggero. Ci era riuscito, aveva salvato la sua immagine, così chiara fuori e sporca dentro. Aveva evitato la rovina e, in un certo senso, il karma.  

Fu proprio il karma a venirgli in mente all’improvviso e a portarlo a ridere di gusto. Dicevano che al karma non si sfugge, ma lui ci era riuscito in pieno. Aveva completamente ribaltato la situazione, perché Noah Hayden era il migliore al mondo. Era il massimo ottenibile su quel globo inquinato e corrotto, di cui lui era il chiaro rappresentate: un uomo potente diventato tale con l’inganno e la truffa. Ripensò a quello che aveva detto poco prima Ginevra e rise ancora più forte. Tutte cazzate, pensava lui.  

E, proprio mentre derideva il karma, arrivò davanti casa sua. Sulle prime non si preoccupò quando vide un’ambulanza ed una macchina della polizia parcheggiate vicino all’entrata, lo fece solo quando una poliziotta gli andò incontro non appena lo vide uscire dall’auto.  

- Signor Hayden, sono l’ispettrice Sanders. - gli mostrò il distintivo.  

- Che succede? - domandò Noah con un sopracciglio alzato. Ci fu un secondo di silenzio.  

- Sua moglie è stata uccisa. - Noah non riuscì a sentire altro. Sentì il respiro mancargli e le forza abbandonarlo e, qualche istante dopo, si ritrovò in ginocchio sull’asfalto freddo.  

- Signor Hayden, si sente bene? - la donna si fiondò subito su di lui e si girò verso l’ambulanza – Venga qualcuno, presto! - gridò. 

- Che cosa è successo? - chiese nuovamente Noah, aggrappandosi con tutte le poche forze che gli rimanevano alla divisa della poliziotta.

- Un uomo è entrato all’interna della casa ed ha ucciso sua moglie. I vicini hanno sentito dei rumore sospetti e ci hanno prontamente avvisato, siamo intervenuti il prima possibile, ma non siamo riusciti ad evitare la tragedia. - sospirò - Però abbiamo già preso il colpevole. - sentendo quelle parole, Noah scostò la testa ed osservò la macchina della polizia al cui interno c’era un ragazzo ammanettato. 

Ci mise qualche secondo a riconoscerlo, perché l’unica fonte di luce erano le sirene dell’ambulanza a qualche metro di distanza. Appena intravide i capelli rossi, le lentiggini ed il ghigno impresso sul volto si ricordò perfettamente di lui: Scott Wallis. 

Noah si pietrificò sul posto, mentre l’ispettrice continuava imperterrita a parlare. Non sentiva nulla, solo un fischio nelle sue orecchie ed il battito del suo cuore andare sempre più forte.  

- Io ti avevo avvisato. - la voce candida e pura tornò alle sue orecchie – Se Brodie gli avesse parlato, questo non sarebbe successo. Spero tu ti sia divertito nella mia casa dei ricordi 

 

 

 

 

ANGOLO AUTORE:  

(Ebbene sì, signori, ho citato The Getaway [la frase su Taloyoak è la stessa che dice Duncan a Zoey nel finale di TG])  

Questo finale cosa significa? Significa che il karma torna sempre indietro, che niente resta impunito e che adoro troppo i colpi di scena per ometterli del tutto. Ho lasciato alla fine la scoperta di Noah, anche se nella prima stesura era prima del discorso fra Aya e Clara. Questo perché ho pensato potesse essere più incisiva da leggere alla fine, quando sotto l’ultima parola scritta in corsivo e grassetto si intravedono le parole “Angolo Autore” che fanno capire che, no, non ci sarà altro, che è finita così. Perché, ricordate bene, spesso colpire i familiari è peggio che far male alla persona stessa (ovviamente parlo di risvolti narrativi, non della vita vera, pls evitate omicidi AHAHAH) e mi sono reso conto che questa piccola chicca non c’era mia stata nelle mie storie. Spero che abbiate sentito un leggero gorgoglio allo stomaco, vorrebbe dire che sono riuscito nel mio intento. 

Che dire… questo finale mi piace tanto. Ero in dubbio se far morire Brodie oppure no e, giocandomela a testa o croce, è stata decretata la sua brutta fine. Mi dispiace per lui, ma per tutti gli altri sono contento e, ad essere onesto, non penso neanche serva un epilogo che parli delle loro vite dopo questo incidente. Anzi, addirittura non ho nemmeno parlato di ciò che trova la polizia e di tutto il resto. Perché, a mio modesto parere, non ce n’è bisogno.  

Sarebbe come infiocchettare con del velo di realismo una storia che in realtà di reale ha ben poco. E con questo, concludo le mie riflessioni LOL  

Vi lascio giusto due piccoli trivia, giusto per chi, come me, ama sapere le idee scartate ed il possibile evolversi degli eventi che, se avessi fatto altre scelte, ci sarebbe potuto essere. 

Partiamo dai tre finali: il primissimo finale vedeva Brodie colpevole dell’omicidio (cioè, che al posto di Abbey ad uccidere Dawn era stato lui) ed un finale nel quale Abbey moriva schiacciata dalle macerie e lui, rimasto in vita per miracolo dopo il crollo, chiamava Scott e gli confessava l’omicidio. Vi lascio qua un piccolo estratto: 

- Chi è? - domandò una voce assonnata e molto poco accogliente.  

- Scott Wallis? - sussurrò Brodie, con il tono più serio che potesse assumere. 

- Sì, sono io. Chi sei? - domandò il ragazzo. Brodie esitò per qualche istante, come se le parole non riuscissero ed uscire dalla sua bocca, le sentiva quasi congelate all’altezza della gola. Piegò la testa all’indietro e vide il volto di Abbey, e solo allora trovò la forza di andare avanti.  

- Sono Brodie. Brodie Harper. Abbiamo ucciso noi Dawn. -  

Il finale era proprio quello, senza specificare nient’altro su cosa accadesse al resto del cast. Mi era sembrata una bella idea, ma poi mi sono reso conto che fosse fin troppo sbrigativa.  

 

Il “secondo” finale vedeva un finale molto simile a questo: Noah uccide Brodie prima che possa chiamare Scott, poi riceve una chiamata dalla polizia che lo avvisa della morta di sua moglie e lui, a quel punto, confessa tutto. Però questo finale avrebbe portato non pochi problemi logici: 1) la morte di Emma sarebbe avvenuta in parallelo a quella di Brodie e perciò ci sarebbe stato un buco temporale di 30 minuti (supponendo che la polizia fosse intervenuta subito sul luogo del crimine) 2) Sarebbe stato difficile attribuire l’omicidio a Scott, perché dubito che una poliziotta direbbe una cosa del genere al telefono 3) Onestamente, lo trovavo noioso e, anche qui, non si sarebbe dovuto sapere nulla del resto del cast. Ve lo lascio qui: 

- Emma, amore, ce l’ho – non ebbe modo di finire. 

- Signor Hayden, sono l’ispettrice Sanders. - ci fu un secondo di silenzio – Sua moglie è stata uccisa. - non riuscì a sentire altro. Il telefono gli cadde di mano e si schiantò contro il terreno. Noah fece lo stesso: finì in ginocchio senza nemmeno la forza per respirare.  

- Signor Hayden, mi sente? - la voce dal cellulare gli venne alle orecchie. Noah, impassibile, tirò su l’aggeggio e lo portò all’orecchio. 

- Sì. - disse.  

- L’assassino è stato identificato come Scott Wallis, lo stesso che sei anni fa la aggredì. - proseguì la poliziotta. Sentendo quelle parole, Noah spalancò la bocca. Si pietrificò sul posto, mentre l’ispettrice continuava imperterrita a parlare. Non sentiva nulla, solo un fischio nelle sue orecchie ed il battito del suo cuore andare sempre più forte. 

- Io ti avevo avvisato. - la voce candida e pura tornò alle sue orecchie – Se tu avessi permesso a Brodie di parlare questo non sarebbe successo. Spero tu ti sia divertito nella mia casa dei ricordi. -  

- Sono stati loro. - disse Noah, con la voce di un robot – Loro hanno ucciso Dawn Medrek ed io li ho coperti. - aveva perso. Ormai non aveva più nulla da perdere. Riattaccò la chiamata e si gettò a terra in lacrime. Le gocce argentee scesero da sole, senza bisogno di muovere un muscolo. Era tutto andato. La sua famiglia, la sua carriera e la sua vita. Tutto distrutto.  

 

Il terzo è quello che avete letto nella storia ed è il mio preferito. Inizialmente pensavo che questa storia non fosse altro che un semplice spreco di tempo, ma con l’andare mi ha preso sempre di più e sono arrivato alla conclusione che mi è piaciuto davvero tanto scriverla. Sono davvero felice di essere riuscito a completarla!  

Adesso che succede? Ah, boh, non ne ho idea. Ho sempre dato per scontato che questa sarebbe stata la mia ultima storia ad OC ed attualmente sono ancora di quell’idea. L’altro ieri, se ricordo bene, ho riletto alcune delle recensioni che ho ottenuto alla mia prima storia ad OC (per capirci, le Total Drama’s) e mi sono accorto di quanto il tempo passi in fretta.  

Purtroppo, A Tutto Reality (Grazie mille FreshTv!) sta scemando ed è normale che, pian piano, il fandom diventi sempre più inattivo. Mancano le nuove leve, siamo rimasti ormai in pochi a scrivere qui. Ma alla fine amen, tutto prima o poi arriva ad una fine.  

Avevo pensato di spostarmi su Wattpad, ma onestamente non lo so. Lo trovo troppo espansivo e l’assenza di categorie in cui pubblicare le storie mi mette fin troppa paura. Vabbé, caso mai farò un tentativo.  

Detto questo, spero di scrivere a breve un capitolo di PSS (anche se ad oggi non ho fatto molto) e, nel caso, ci vediamo lì con quella. O forse su Wattpad con la storia dei Pokémon Zombie. Non lo so, voi, se volete, datele un’occhiata.  

Alla prossima ;-)  

Ah, quasi dimenticavo: il titolo della storia è tratto dalla canzone “House of Memories” dei Panic! At the Disco, vi consiglio caldamente di ascoltarla ;-) 

   
 
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