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Autore: Hoel    12/12/2020    4 recensioni
Nell’agosto del 1511, gli esploratori veneziani intercettano una lettera scritta dal governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours e indirizzata al maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, in cui l’informa di come il Re di Francia Louis XII stia inviando rinforzi per aiutare l’Imperatore Maximilian I. von Habsburg nella sua “impresa di Treviso”, ovvero la conquista dell’ultimo ostinato baluardo veneto che separa la Lega di Cambrai dalla laguna di Venezia. Da ben due anni Treviso resiste irriducibile, così come la Serenissima, ripresasi in fretta dallo shock di Agnadello, ha ben dimostrato il suo fermo proposito di non lasciarsi cancellare tanto facilmente dalle pagine della Storia, rivelandosi un avversario più tenace di quanto prefiguratosi dai Collegati.
Su questo sfondo dell’assedio di Treviso si snoderanno le vicende di un giovane e misconosciuto patrizio veneziano, destinato però a diventare più grande di re e imperatori, di valenti condottieri e del Papa stesso.
[Vietati la riproduzione e il plagio; questa storia è tutelata]
Genere: Guerra, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Rinascimento
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Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il 04.10.2021

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Capitolo Ventesimo

Confiteor

(Non rubare)

 

 

 

Finché Hironimo era rimasto a casa, sotto l’accorta egida materna, o a zonzo per i campi della podesteria di Castelfranco e Treviso, egli non s’era curato un granché del suo aspetto fisico, tranne per tenersi pulito e in ordine, né la vanità l’aveva mai stuzzicato né il bisogno di danari tarmato. S’accontentava senza lagna alcuna delle sue scialbe braghe monocolore, del farsetto forse leggermente più grande di lui, del cappello di feltro sulla zazzera lunga e indomita e dei suoi comodi stivaletti perennemente infanganti per via delle sue errabonde sortite tra le torbe e canneti, affatto turbato da tanta spartanità. Curiosamente, la sobrietà del suo vestire unita alla sua giovinezza gli riserbavano gradite lodi da parte dei suoi maggiori e delle gentildonne che lo conoscevano, paragonandolo quest’ultime al selvatico Ippolito le cui irte chiome e l’aspetto brunito e agile del cacciatore avevano irretito il cupido cuore della sua matrigna Fedra. Credevano, infatti, la sua esser una bellezza un poco trascurata, citando il buon Ovidio, e così volutamente. Ignoravano, invece, che non solo Hironimo non aveva per niente letto L’Arte di Amare, dunque traendone i giusti benefici, ma che la sua negligenza nel vestire derivava più dall’economia domestica che da un atteggiamento atto a colpire positivamente l’altrui opinione.

La morte di Padre aveva comportato una notevole e serrata attenzione ad ogni spesa (malgrado gli aiuti economici della Signoria) fintanto che Lucha non avesse incominciato a guadagnare qualcosa dalle cariche pubbliche per rimpolpare le entrate del commercio laniero. Ogni sfizio venne bandito e non si comprò nulla se non lo stretto necessario, madona Leonora ostinata nella sua decisione di vivere più modestamente piuttosto di licenziare anche uno solo dei suoi servitori e operai. Di conseguenza, niente veniva sprecato a Ca’ Miani e tutto riciclato, incominciando dai vestiti di sier Anzolo che, trascorso qualche mese, grazie alle mani d’oro del gineceo vennero immediatamente distribuiti, smembrati e rigirati ad uso e consumo dei figli, tranne per la sua toga nera che madona Leonora custodiva gelosamente nel cassone in camera sua. Medesima sorte subirono i suoi gioielli, cappelli, mantelli, calze, scarpe e guanti (Hironimo pure imparò a ricucirli, quando le dita incominciavano a far capolino dal cuoio). D’altronde, anche a tali situazioni aveva la Signoria pensato, imponendo l’uso obbligatorio in pubblico della toga nera ai patrizi a partire dai vent’anni, un abito lungo allacciato sotto la gola e con le maniche a gomito, atto soprattutto a reprimere la fierezza e la vanità giovanile, inducendo invece gravezza e modestia, l’unico accessorio concesso era una cintura di velluto decorata con borchie d’argento. D’inverno questa toga veniva foderata o d’ormesino o di dossi e decisamente era impossibile notare i vestiti rigirati o di modesta qualità sotto una tal severa livrea.

Bisognò attendere qualche anno per vedere un abito nuovo a Ca’ Miani, quando Carlo divenne avvocato del proprio mentre Lucha, l’anno successivo, si trasferiva a Marostica, suo podestà e capitano e poi camerlengo a Treviso. Ma piccole cose se comparate alla rivoluzione del guardaroba  quando suo fratello Marco succedette Lucha nella medesima carica a Marostica, neanche fosse stato inviato a Brescia [1]: il ventiduenne podestà era entrato nella città dell’agro vicentino col lieto furore e ottimismo della gioventù, raggiante nel suo pesante e coprente mantello di broccato d’oro da cui faceva capolino l’ampia manica della sua vesta di cremisino. Sulla spalla scendeva morbida una stola di seta dorata e al petto una robusta catena d’oro; sui capelli da poco tagliati più corti aveva portato un’aderente bereta di velluto nero da cui pendeva una spilla di rubino dal bordo inferiore incastonato da un grappolo di perle. Seguendolo a piedi nella processione verso il Duomo, Hironimo, con un abito da cerimonia invece gentilmente imprestatogli da Lucha, aveva seguito orgoglioso e senza alcun’invidia suo fratello, così come aveva fatto quando Lucha era divenuto camerlengo a Treviso e Carlo podestà a Lonato sul Garda. Gli importava poco di vestire gli abiti vecchi dei fratelli che magari erano stati pure di Padre o del biscugino Zuan Francesco. Finché erano in buono stato e fungevano al loro scopo, non avendo poi egli alcuna vita pubblica, non comprendeva perché sprecar soldi inutilmente.

Neanche le stilettate dei parenti lo scalfivano, rispondendoli a tono e assai divertito.

“Il taglio perfetto di queste stoffe, l’accostamento ardito dei colori … Dì, Momolo, quanti vestiti vecchi dei tuoi fratelli ti sono serviti per confezionare questo zipone?”

“Non comprendo, sior Cujìn. Quest’abito è nuovo.”

“Suvvia, caro ti, so che dalla morte del sior tuo Pare non ne hai più avuti.”

 “E’ questione di punti di vista, Cujìn. Se tu intendi “nuovo” un abito composto da stoffa appena comprata in merceria, allora sì, non posseggo un abito nuovo. Tuttavia, se per “nuovo” ti riferisci ad un modello che non hai mai visto prima d’oggi, ebbene il mio abito è nuovo perché ieri non vestivo uno zipone con codesta fantasia di colori, né forma. Ho forse torto?”

Quando incominciò ad importargli del suo aspetto fisico, della moda? Dell’impellente necessità di danari? Quando al posto di partecipare, come i suoi fratelli, al ballottaggio per divenire balestriere di galea, aveva insistito con suo zio Batista acciocché trovasse un modo per farlo ammettere alla Compagnia della Calza? Quando incontrò per la prima volta Luzia Trivixan, la divina cantante? Quando presenziò al matrimonio di suo fratello Marco con la ricca Helena Spandolin o di sua cugina germana Maria con Zuane Querini conte di Stampalia e Amorgo?

Quando divenne l’amante di lei? Il che appariva strano, poiché in pubblico la sua domina sfoggiava abiti rigorosamente neri e non portava gioielli, eppure si sentiva a suo confronto un perenne straccione e in generale un poveraccio, malessere acuito dalla consapevolezza di non potersi ancora permettere alcunché di suo, non avendo infatti un ruolo definito nella società. Il che lo imbestialiva, desiderando offrirle il mondo e ritrovandosi invece incapace di provvedere a quisquiglie quali vestiti nuovi, figurarsi alla moda. Per codesto motivo Hironimo rifiutava categoricamente un qualsivoglia regalo da parte della sua domina, interpretando il suo orgoglio quei doni a un moto di pietà nei suoi confronti, al posto del naturale e sincero piacere di viziare una persona amata.

No.

A traviarlo definitivamente fu quando accettò un regalo costoso.

Accadde un giorno, mentre deambulava tra le calli di Rialto per delle commissioni con suo zio materno sier Hironimo Morexini, che un malefico piccione gli schittò in testa, rovinandogli la bereta di feltro e l’umore, a giudicare dalle rabbiose profanità ringhiate dal giovane Miani, dopo aver constatato i danni levandosi il cappello. Suo zio aveva discretamente ridacchiato dinanzi all’incidente (come tutti gli insensibili quando sono spettatori e non vittime), tuttavia s’era velocemente ricomposto, specie alla vista di suo nipote sollevarsi il mantello di lana e coprirsi così il capo, neanche indossasse uno zendale, essendo la bora invernale inclemente a Venezia.

“Via, via, nezzo. È segno ch’è arrivato il tempo di comprartene una nuova, non vedi com’è lisa quella bereta?”

“Mica tanto, me l’ha passata Carlino!”

“An bon, dopo che Marchetto l’ha usata largamente! Niente putelezi, con quel mantello in testa mi sembri una sioreta dal becher! Seguimi, te ne compro io una nuova, non sia mai si vociferi in giro che io m’associo ad un accattone!”

Malgrado la ruvidezza della risposta, invero sier Hironimo Morexini l’aveva accompagnato in via Merceria dal suo beretaro preferito e, a fine visita, suo nipote si rigirava estasiato e commosso tra le mani la sua nuova bereta di velluto nero con applicazioni d’azzurro chiaro. Il beretaro, inoltre, s’era preso la libertà di spigargli come indossarla, ossia un po’ a sghimbescio acciocché la folta e ondulata chioma di ricci d’Hironimo venisse risaltata dall’accessorio.

“Grazie, mille e mille grazie, sior Barba! E’ davvero bellissima! Non dovevate! Anche una più semplice mi andava bene! Come sto? È caldissima, mi piace tantissimo, la terrò per sempre da conto!”

“Me ne rallegro. Finalmente possiedi un capo alla moda e devo ammettere che ti calza a pennello, manco te l’avessero cucita in testa. Quasi-quasi ti si scambierebbe per un duchetto.”

“In effetti … Sennò non mi spiego perché la gente continua a salutarmi sì garbatamente.”

“Ha-ha, nezzo mio! Beato il tuo candore. Mica salutano te, salutano la tua bereta nuova!”

All’inizio Hironimo non aveva afferrato il significato di quella battuta, per poi realizzarlo alla prima visita ai parenti, il cui sguardo si focalizzò immediatamente sul suo cappello nuovo, suscitando ora ammirazione, ora sorpresa ora broncio e il giovane Miani si stupì di leggere un sottile fastidio nel volto dei suoi cugini.

“Non capisco, siora Mare: i vostri nezzi miei zermani già ricoprono cariche di rilievo nella Signoria; con quel che guadagnano, possono comprarsi tutti i cappelli di Rialto. Cos’hanno da rimproverarmi?”

“Momolin mio, tu possiedi qualcosa che loro non hanno e per questo ti odiano. Così va il mondo: che sia una bereta, un palazzo, una carica, delle terre o semplicemente del talento, chi ha verrà sempre invidiato da chi non ha. E la cosa triste è che invece di sudarsi, guadagnandosele, le loro mancanze, preferiscono o invidiare l’altrui roba o peggio ancora rubargliela. Ricordati: il peccato d’Invidia sempre si marita in casa dell’Accidia.”

Savie parole su cui Hironimo dovette riflettere in molte occasioni.

Infatti, la bereta della discordia non suscitò i malumori solamente dei suoi cugini, bensì anche dell’altro suo zio sier Batista Morexini e naturalmente della sua domina, la quale lo accusò crudelmente d’ingiustizia e ipocrisia, accettando doni dai parenti ma non da lei, bandendolo dalla sua presenza per all’incirca un mese, fino a ridurlo quasi alle lacrime e supplice alla sua porta in una crudele parodia di Canossa.

Suo zio ci andò giù ancor più pesante, irritato senza fine da quel gesto a sua detta provocatorio da parte del fratello maggiore di cui ormai mal tollerava perfino l’ombra istessa. Me lo vuole rubare! Me lo travia! Me lo sta aizzando contro!, ringhiava furibondo a alla sorellastra Leonora e al di lei cugino per parte di madre, sier Stephano Contarini. Da qualche anno sier Batista e sier Hironimo si trovavano in lite tra di loro e un grandissimo odio li divideva, portandosi a reciproche scortesie tanto da preoccupare la Signoria medesima, che affidando loro incarichi distinti sperava di tenere i due contendenti ben separati a Palazzo. La teoria di sier Batista era che, con la scusa di ricoprirlo di doni, suo fratello si stesse comprando l’affezione dell’omonimo nipote e figlioccio, guarda caso il prediletto dell’ultimo maschio di Ca’ Morexini. [2] E questa baronata sier Batista non la sopportava. Inutilmente madona Leonora tentava di mediare tra i due, rattristata nel più profondo da quella crepa in famiglia, rifiutandosi categoricamente di schierarsi a favore di chicchessia. Quanto ad Hironimo, la questione lo perplimeva: egli amava ambedue gli zii, gli piaceva la loro compagnia e la cercava contento e sincero, indipendentemente dai regali donatigli. Perché ora si stavano scannando su di lui?

“Lo fa apposta, lo fa apposta per indispettirmi, quel cancaro maladeto! Lo sta  sfacciatamente manipolando per poi farmi odiare dal mio stesso nezzo, perdio, il mio fiozzo!”

“Ma che mingionate andate ragliando, Titta? Già ve l’ho spiegato: la bereta del Momolo s’era rovinata e nostro fradelo gliene ha comprata una nuova! Punto! S’è trattata di un’emergenza!”

“E i guanti di cuoio, allora? Anche quelli erano un’emergenza?”

“Titta …”

“Sangue di Cristo, smettetela di farmi il “Titta” e ascoltatemi bene: Momolo è mio nezzo e fiozzo e neanche un paio di mutande mi avete permesso di comprargli, spiegandomi che la roba nuova, se la voleva, se la doveva guadagnare! Adesso, quel … quel … quell’impestato cao da brodo lo ricopre di doni peggio di una mamola e voi non fiatate? Vi pare giusto? Dopo la morte di Anzolo, io v’ho sempre sostenuto, io, non quell’indegno caprone opportunista, e adesso scopro che mi preferite a lui?! Cos’ha quella cantarèla (scarabeo, ndr.) ch’io non posseggo? Ditemelo, ché vi dimostro quanto io sia settantamila volte sette meglio di quella bestia innominabile!”

“Ioannes Baptista Maurocene! [3] Basta! Basta, perdiana, basta! Molighe! Non voglio guelfi e ghibellini in casa mia! Mi sembrate due ottusi e piagnucolosi tosateli intenti a misurar la lunghezza delle proprie lance! Dolcissima Trinità, sono stufa marcia dei vostri stupidi litigi, delle vostre faide! E soprattutto, non v’azzardate ad usare mio figlio come scusa per farvi la guerra, ché vi piglio ambedue a pedate fino a Gradischa!” e calmandosi: “Avete ragione: bereta a parte, Momolo non doveva accettare regali da nostro fradelo. D’ora in avanti non lo farà più. Quelli ricevuti sarebbe scortesia rimandarglieli indietro, però, anche perché, conoscendolo, sicuramente concluderà essere questa una decisione presa per causa vostra ed io non voglio buttar ulteriore paglia sul fuoco!”

Sier Batista sbuffò iroso. “Sta bene. A patto che anch’io dia a Momolo un regalo, per rimettermi alla pari.”

“Oh bone Jesu, Titta …”, si portò la patrizia due dita alla tempia, domandandosi se s’affermasse il vero quando si teorizzava come, invecchiando, si ritornasse ai medesimi ragionamenti insensati dei fanciulli.

Ovviamente, madona Leonora si raccomandò grandemente con Hironimo, intimando il figlio a non lasciarsi condizionare dalle querelles degli zii e di rimanere fermo sui suoi principi di onesta sobrietà: quando avrai i tuoi danari, li spenderai come meglio credi, siccome però ora vivi in comunità, devi pensare al benessere collettivo ante del tuo.

Purtroppo per la nobildonna, il seme della vanità stava germogliando fecondo nel cuore del ragazzo, terreno arato d’insolita invidia. La bereta, similmente al frutto proibito dell’Eden, gli aveva aperto gli occhi abbastanza da scoprire la sua “nudità”: dapprincipio a lui indifferenti, adesso Hironimo guardava con malcelata golosità i broccati, i damaschi, i velluti e le sete delle maniche, dei ziponi, delle berete, dei mantelli di cugini e amici; pesava criticamente il valore dei loro gioielli, della fattura e della circonferenza delle perle e delle pietre preziose; valutava il costo di ogni mobilio, quadri, vasellame, argenteria, statue, arazzi, tappeti e decorazione dei loro palazzi, nonché calcolava a mente quanto spendevano ogniqualvolta si bagolava a zonzo di notte per scatenarsi in gran baldoria, arrivando al punto da catalogare le cortigiane con cui i suoi compari s’accompagnavano, dalla più costosa alla più economica. Tutto il giovane Miani misurava oramai in danari, tutto. Sicché trovava ingiusto doversi ammettere il parente e l’amico povero, quello vestito cogli abiti rigirati dei suoi fratelli, quello che poteva a malapena offrire un giro di vino ai suoi amici durante i vagabondaggi in gondola e figurarsi quante volte aveva sospirato infelice davanti alle gioiellerie nella speranza di trovare una gioia abbastanza a buon prezzo da regalare alla sua domina.

Sicché, appresa della rivalità tra i suoi zii e in particolar modo di come l’avessero eletto a misura della loro prodigalità, Hironimo dopo l’iniziale perplessità e dispiacere cedette alle lusinghe della vanità e al veleno dell’invidia: decise con malevole freddezza d’approfittarne e trarne il proprio utile, servendo se medesimo e i suoi scopi. Tra i due litiganti il terzo gode e infatti il giovane patrizio si prodigò in esso col massimo zelo del doppiogiochista.

L’idea gli era sorta per caso: poco dopo la discussione con Madre, il suo barba Batista gli aveva regalato una catena d’oro con un pendente di zaffiro e una grossa perla. Incautamente Hironimo l’aveva indossata recandosi in visita dall’altro suo zio e sier Hironimo, ghermendo il gioiello e tirandolo in avanti verso di sé, per poco strangolando suo nipote, gli aveva chiesto feroce l’identità del fautore di quel presente. Senza pensarci, il ragazzo gli aveva candidamente rivelato esser stato suo zio Batista al che il furente sier Hironimo l’aveva trascinato in gioielleria e prima ancora di rendersene conto un grosso e scintillante anello d’oro, il primo in assoluto in vita sua, gli circondava l’indice.

L’occasione fa l’uomo ladro e in un certo qualmodo ladro Hironimo lo divenne, sfruttando la competizione instauratasi tra i due Morexini, a chi fosse lo zio più meritevole (nonché il più ricco) dimostrando a peso di ducati il loro affetto verso il nipote, ignari che così stavano finendo per rovinarlo, viziandolo. Per una giubba larga di velluto nero, egli riceveva subito dopo una pelliccia di volpe rossa; per una scarsela di marocchino, un profumo esotico. Spille per cappelli; mantelli da indossare traversi alla romana; farsetti stretti da lasciar intravedere la camicia fin quasi all’ombelico. E ovviamente soldi, tanti soldi. Qualsiasi cosa volesse, Hironimo l’otteneva e con furbizia dissimulava per non irritare i cugini né per farsi scoprire da Madre, alla cui presenza seguitava ad indossare i soliti abiti spartani, per trasformarsi in un altro Hironimo al calare della notte, quando s’univa ai suoi amici nelle loro feste notturne e alle bische clandestine. Dal suo istruttore, ex-cavalleggero, non aveva soltanto imparato a cavalcare ma anche un paio di trucchetti con le carte ed i dadi, onde assicurarsi la vittoria e rimpinguare il suo gruzzoletto personale. Il giovane Miani, inoltre, si era infatti scoperto un allievo assai ricettivo e un grande osservatore, studiando accorto le varie mosse dei bari che riempivano le osterie, replicandole e perfezionandole al punto da sembrare la sua semplice sfacciata fortuna.

Vestito all’ultima moda e col borsello pieno di tintinnanti mocenighi e ducati, Hironimo si ritrovò maggiormente considerato e apprezzato, sempre al centro dell’attenzione e tutti all’improvviso parvero volergli bene, quando prima d’allora manco si ricordavano del suo nome. Grazie alle raccomandazioni e donazioni dei suoi zii lo avevano ammesso all'esclusiva Compagnia della Calza, dove la meglio gioventù veneziana si raccoglieva e socializzava. Col senno di poi - concluse amaramente l'Hironimo venticinquenne - avrebbe invece fatto meglio a partecipare ai ballottaggi per il posto di balestriere di galea: erano quattro anni in mare, sì, però significava guadagnarsi la priorità nelle elezioni a capitano e poi sopracomito. E la paga non era neanche male. Invero era stato un fannullone, un perditempo, un mangiapane ad ufo. Ma che ne sapeva all'epoca del suo futuro, della necessità di costruirsi pian piano una carriera, scatenato e impulsivo ragazzo poco incline all'obbedienza ch'era stato? Gli si era aperto un mondo di gaudente lusso, nel quale Hironimo si era buttato con l'esuberanza del bambino il giorno dei regali dell'Epifania: gli inviti a cena, alle feste, alle rappresentazioni teatrali, ai freschi, a balli ora privati ora pubblici fioccavano senza che lui riuscisse a star dietro a tutti; imparò quanto delizioso fosse il vino speziato con vere e proprie spezie e non della frutta essiccata; l'unto sfrigolante della carne in agrodolce soppiantava il sapore quaresimale dei molluschi, delle sardine e del baccalà. E le pasticcerie, oh! Prima adorate da distanza, adesso quando entrava tutti a togliersi il cappello e quale soddisfazione portare tortini di mandorle dolci e fritelline alla cannella alla sua amante, da sbocconcellonare distesi sul letto sfatto, in complici risolini. Perfino la sua domina, digerito il dispetto iniziale per la sua improvvisa ricchezza, lo guardava con occhio diverso, compiaciuta della ricca eleganza del suo drudo e della sua generosità, spendendo egli i soldi degli zii per farle a sua volta dei graziosi regalini.  

“Sicuro che non stai corteggiando un’altra? Tutto questo lusso …”, insinuò ella maliziosa, beandosi dello spettacolo offertole. 

Nell’intimità della felze, seduto tra i cuscini di velluto, il suo diletto le appariva invero un’opera d’arte, coi suoi tratti regolari e molto fini incorniciati dalle ciocche ondulate dell’abbondante zazzera bruna, cui ella si divertiva ad arrotolare tra le sue magre e lunghe dita pallide. Hironimo, per amor suo, quella sera aveva optato per una veste di broccato color ocra e rosso profondo e una sottile camicia plissettata, ambedue molto scollate al punto che la sua domina volendo poteva denudargli facilmente la spalla, gesto che puntualmente compì golosa, posandogli un rapido bacio sulla pelle calda che si sollevò recettiva e scossa da lievi brividi. A completamento, il ragazzo s’era avvolto nel mantello di pelliccia di volpe rossa e indossava la famosa bereta fonte della sua inaspettata fortuna, conferendogli un’aria leggermente civettuola, in contrasto con lo sguardo scioccato nell’udire quella malcelata accusa d’infedeltà.

“Non oserei mai! M’inghiottisca il mare piuttosto!”

La donna ridacchiò clemente, intimandogli di colmare la distanza tra di loro e, avutolo tra le sue braccia, gli annusò avida i capelli finalmente tagliati un pelino più corti. “E questo profumo di gelsomino?”

“Una pomata che producono le sorelle di Sen Lorenzo. Me l’ha donata per il mio compleanno la mia zermana Anzola Morexini, la quale vi si reca spesso a pregare.”

“An, così adesso pure le virtuose monachelle induci in tentazione! Bravo! I miei complimenti, mio giovane e licenzioso satiro! Quanto fui sciocca a leggerti il Boccaccio!”

“Vi prego, non scherzate! Non mancherei mai di rispetto a quelle pie donne!”

“Puoah! Come se a loro dispiacesse!”

“Giuro sulla mia vita che mi reco lì soltanto per far piacere alla mia cara zermana: mi ha sempre voluto bene e sarebbe scortesia negarle un sì piccolo favore!”

“Quindi sul serio questi begli abiti e i danari te li regalano i siori tuoi Barba?”

“Sicuro, chi altro?”, sbatté confuso le ciglia Hironimo e molto probabilmente il candore della sua schiettezza dovette luccicargli negli occhi nerissimi, se la patrizia si convinse della veridicità delle sue parole.

“Nessuno e prego Dio resti così. Ora però dammi un bacio e tutta la tua linguina; poi ti voglio contemplare nella tua livrea naturale …”

Quegli incalzanti sospetti da parte della sua domina Hironimo li conservò tuttavia nel cuore, domandandosi infatti cosa li avesse scatenati, ignaro di come la nobildonna non li avesse vociati chiaramente più che altro per decenza, incapace lei per prima di concepire il suo amante impegolato in disonesti commerci per procurarsi il danaro necessario onde indulgere comodamente nel lusso. A svelargli l’arcano fu l’invidia di alcuni giovani della compagnia che frequentava, cui il vino aveva sciolto la lingua in una pungente e accusatrice loquacità.

“Avanti, sior Momolo, a noi lo puoi confessare: ti fai lavorare?”

Risolini crudeli.

“Come? Come? Io lavoro? Mi spii ai fonteghi, ora? Il tuo interesse mi lusinga, ma come amico non credo tu incontri i miei gusti!”

 “Certo, certo … gusti … dipende quali e di che valore … Suvvia, poche parole: da quanto tempo fai il patiens?”

“Da quando hai incominciato a mettermi in croce con tutte queste tue stupide domande!”

 “Non te la prendere, si tratta soltanto di una piccola curiosità: fino all’altroieri parevi Sen Hironimo nel deserto, adesso vesti quasi da satrapo persiano! È bizzarro, ecco.”

“Pure!”

“Dai, dai … da quanto sei un patiens? Mica facciamo la spia, né ti giudichiamo …”

“Vorrei ben vedere! Anche perché da troppo tempo sono stato “patiens” [4] verso le tue stronzate!”

“Troia!”

“Succhiacazzi” e Hironimo condì quell’insulto con un pugno ben assestato alla bocca dello stomaco, per poi alzare in difesa gli avambracci quando il suo avversario lo caricò muggendo di rabbia e indignazione. Finirono per rotolarsi sul selciato, tra morsi, ceffoni e tirate di capelli, finché il giovane Miani, salendo sopra l’altro patrizio e bloccandolo con le cosce, non lo stordì tramite un’accurata sequela di cazzotti.

I suoi compagni ruggirono dalle risate di scherno verso il contendente sconfitto, peccato però che Hironimo non godette di quella sua personale vittoria, digrignando al contrario i denti, umiliato, le gote rosse. Quella sera l’occhio pesto, il labbro spaccato e il malanno di qualche costola incrinata nonché le occhiate di biasimo e commiserazione di Madre gli pesarono doppiamente sulla coscienza.

Era questione di tempo prima che qualcuno insinuasse come l’improvvisa eleganza e prodigalità di Hironimo derivassero da turpi intrallazzi con qualche facoltoso protettore. D’altronde, i Dieci, tra le altre cose anche strenui difensori del mos maiorum, ogni venerdì si spaccavano la testa su come frenare la sregolatezza e la smania di lusso nella gioventù veneziana, la quale non giudicava abbietto abbassarsi a lavorare e a farsi lavorare pur di mantenere lo stile di vita gaudente e agiato. Il giovane Miani conosceva tal pratica, addirittura poteva indicare chi la faceva per negozio e chi invece la faceva perché quella era la sua natura, come ad esempio Anzolo Thiepolo, [5] una persona squisita, amabile, cordialissima e generosa e, malgrado il suo difetto, da tutti stimato e mai una parola contro l’onor suo ch’egli sul serio si portava da galantuomo. Al contrario, il giovane patrizio disprezzava pieno di schifo chi s’esponeva a tali commerci unicamente per vantaggio personale. Eppure …

Non s’era comportato ugualmente? Per carità, non era mai giunto al segno di giacere incestuosamente coi suoi zii tuttavia non aveva agito in maniera tanto diversa da qualche cortigiana che vendeva i suoi favori al migliore offerente, nel caso d’Hironimo il suo affetto. S’era comportato tanto disgustosamente quanto i suoi viziosi coetanei, almeno loro erano onesti e si facevano mantenere tramite un inequivocabile contratto di do ut des, invece d’ingannare con falso amore disinteressato, che poi tanto falso non era, egli adorava i suoi avunculi e ciononostante aveva spudoratamente mercificato quel prezioso sentimento.

Poiché quella baldracca della dea Fortuna mai l’aveva favorito, una volta giunto a quella realizzazione e desiderando il giovane Miani porvi rimedio e rassicurare i suoi zii che li frequentava perché li voleva bene e non per i loro soldi e i regali, ahimè l’oscuro mietitore s’apprestava a colpire di nuovo a suo danno.

Una mattina di fine novembre del 1505 sier Hironimo Morexini non s’era più alzato dal letto e il suo decesso tosto dichiarato, adoprandosi mesta la famiglia ad organizzare il funerale nella Chiesa di San Cancian secondo i dettami del suo testamento. Sennonché, esattamente nel momento in cui sier Batista Morexini, trascinato in chiesa a viva forza da sua sorella madona Leonora, s’apprestava a malincuore a baciare la fronte del morto, ecco che all’improvviso egli cacciò un urlo tremendo e balzò all’indietro, neanche gli fosse apparso innanzi lo sdegnato fantasma del defunto fratello. Per le dolcissime piaghe di Cristo! L’è vivo! , aveva gridato invasato e all’inizio si pensò alla tipica follia del rimorso, peccato che, tastando la pelle del morto, con sommo orrore tutti gli astanti convennero come in effetti seguitasse ad essere calda e le carni molli e flessuose, la bocca vermiglia e così pure le gote e le gengive. [6]

Immediatamente, Marco Miani e suo cugino Nicolò Morexini afferrarono per le spalle e per i piedi lo zio e toltolo dal catafalco corsero forsennatamente in canonica con in testa il parroco esagitato, il quale preparò un giaciglio di fortuna nella saletta principale e ambedue i patrizi s’erano impegnati con ogni mezzo a rianimare il congiunto, tra scosse, ceffoni, pizzicotti, richiami, apertura forzata di palpebre e bocca; gli sfregarono le gambe e le braccia e pure mandarono a chiamare un fisico, questo sotto lo sguardo attonito dell’intero clan e degli amici e parenti acquisiti dell’anziano patrizio. La vedova, madona Agnese Erizo Morexini del fu procuratore sier Antonio [7a], svenne tra le braccia di suo fratello sier Sebastian Erizo; la moglie di questi, madona Cypriana Trivixan Erizo, per soccorrerla dovette ricorrere ai sali mentre la figliastra Magdalena Morexini spronava la pallidissima matrigna a sorseggiare un goto di vin liquoroso. Qualcuno si sentì lo stomaco sottosopra e si gridava ora Miracolo! ora Miserere Nobis! Vani affanni: gli occhi di sier Hironimo continuavano a rimanere saldamente serrati e non reagiva agli stimoli, sebbene la sua pelle restasse tuttavia calda. Siccome però ugualmente non lo si poteva seppellire, per quel giorno si congedarono tutti i corocciosi e non si fece nulla. Accanto al “da Lisbona” rimase testardamente a vegliarlo sua figlia Magdalena, dopo aver domandando ai parenti la cortesia di riaccompagnare a casa la sua sconvolta matrigna madona Agnese. Per i successivi due giorni lei non si schiodò dal capezzale del padre, accettando tuttavia di buon grado la compagnia dei suoi cugini germani Carlo Morexini e Lorenzo Moro figlio del suo barba sier Christofal, dei suoi cugini acquisiti sier Piero e sier Alvixe Diedo, figli di madona Helena Erizo relicta Diedo sua zia e del filosofo e dottore valentissimo in utroque jure sier Francesco Diedo e ovviamente di Hironimo. Il gruppetto s’era accampato in canonica a pregare stavolta per il risveglio-resurrezione di sier Hironimo Morexini e anche il giovane Miani in cuor suo sperò ardentemente in tal miracolo, acciocché potesse confessare al suo barba quanto gli volesse bene ed implorarne il perdono. Nel frattanto, la notizia del morto resuscitato era dilagata in tutta Cannaregio e il parroco ebbe il suo bel daffare a cacciar via i curiosi, che dalla finestra speravano di scorgere il corpo del “da Lisbona”, bramosi d’assistere ad una rappresentazione dal vivo dell’episodio di Lazzaro.

“Ti sono grata, Momolo, d’esser rimasto qui con me. La perdonanza, ti ho giudicato male: pensavo che tu venissi a trovare il mio sior Pare tuo Barba soltanto per via dei regali.”

Al che Hironimo non resistette più e, serrando i denti fin quasi a mordersi la lingua, si coprì il viso con la mano, singhiozzando amaramente per il rimorso e la vergogna. Mal interpretando quello sfogo, Magdalena lo cinse per le spalle, portando il disperato germano al petto, intanto che suo cugino Carlo gli accarezzava il capo.

“Mo via, rasserenati: il nostro sior Barba sapeva per certo che tu l’amavi teneramente.”

Il giovane Miani se l’augurò, per quanto lui per primo ne dubitasse.

Il miracolo non avvenne e sier Hironimo “da Lisbona” si raffreddò, segno innegabile della sua dipartita, sicché si poté riprendere il funerale interrotto, non senza qualche disagio tra i partecipanti. Dal canto suo, il giovane Miani osservava devastato la figura immobile dello zio, così come aveva osservato nove anni addietro quella di Padre, cogitando se fosse una sua maledizione, destinandolo a ferire chi amava senza potersi poi riconciliare, sottrattogli beffardamente dall’inesorabile morte.

Ladro, parassita.

E chi non lo era, tuttavia, a questo mondo?  Ed appunto di lì a poco incominciarono a scannarsi i parenti per l’eredità, con tutte le sue spiacevoli conseguenze: giocando d’anticipo sia sui Moro, i parenti di Magdalena Morexini per parte di madre, sia sugli Erizo, per parte della matrigna, sier Batista Morexini aveva preso la nipote orfana sotto la sua protezione, dichiarando guerra a chiunque osasse intaccarne il patrimonio, forse allo scopo d’espiare la sua condotta ostile nei confronti del fratello deceduto.

La fortuna lo assecondò: infatti non molto tempo dopo Ysabeta Erizo, cognata di sier Hironimo “da Lisbona”, era stata messa agli arresti, incolpata d’avergli vilmente rubato una bella fetta di soldi ad esequie neanche terminate. [7b] A seguito d’un lungo e penoso anno di processo, nel luglio del 1507 la nobildonna venne però assolta dall’accusa, sebbene il giovane Miani giurò d’aver sentito la sua cugina Maria Morexini Querini confidare alla sorella Querina, alla loro genitrice madona Morexina, a Crestina e a Madre: “Scommetto che l’ha fatto per procurarsi la dote, visto ch’è l’unica delle sorelle Erizo rimasta zitella! Che mossa disperata! Poereta, mi fa quasi pena: costretta ad affidarsi alla carità e all’onore dei fratelli e dei cognati …”

Al che la moglie di sier Batista, in un impeto di sorprendente cattiveria, commentò: “Dopo un anno trascorso in casa del capitano delle carceri, nessuno la vorrà più nel suo letto, neanche dietro pagamento!” e prendendo nuovo filo per l’ago. “Sempre meglio di sua sorella, la cara siora Agnese: il letto del mio povero cugnado non s’era ancora raffreddato, che quella mamola di sua mojer non ha esitato a riscaldarlo con un altro uomo!”

“Adesso state esagerando, Morexina: madona Agnese e sier Ferigo Renier hanno diligentemente atteso l’anno di lutto prima di sposarsi.”

“Scorgete sempre del bene in coloro che non lo posseggono, mia cara Leonora. Tre anni di matrimonio e la nostra cugnada non è mai rimasta incinta. Ma oh! Appena-appena terminata la festa nuziale che questo Renier la ingrossa e già in autunno lei  si sgraverà del primo figlio. Vi pare?”

“Ecco … sier Ferigo è molto più giovane del mio povero fradelo vostro cugnado; suo figlio Alvixe non è che un ragazzino … E’ naturale che madona Agnese sia rimasta subito pregna di lui …”

“Appunto, sorela cara: appena ha intascato la sua fetta d’eredità, la nostra cara cugnada se l’è svignata e bondì sioria! Voltà el canton, passà la passion!”

“Non sarà invece perché mio fradelo vostro marido, dopo aver reso il sangue amaro all’altro mio fradelo vostro cugnado, ha ben pensato di tarmare, per la par condicio, anche la nostra siora cugnada? In tutta onestà, mi fossi trovata al posto di madona Agnese, anch’io sarei salpata via da questa casa al primo vento favorevole!”

“In effetti, siora amia, era penoso condividere il posto a tavola con la siora amia Agnese, specie dopo lo spiacevole affare della siora Ysabeta …”

“Querina, invece di parlare a vanvera, finisci una buona volta quel ricamo: è più di un’ora che non vai né avanti né indietro! Cosa dirà il tuo fidanzato, il sier Daniel Zustignan, a saperti così pigra e chiacchierona? Inoltre, madona Agnese Erizo Renier non è più la tua siora amia, ha voluto staccarsi da questa famiglia e da estranea allora verrà trattata!”

“Guardate il lato positivo, siora Mare: il secondo matrimonio di madona Agnese, oltre che a levarvela dai piedi, ha favorito il sior Pare vostro marido ad ottenere la custodia della zermana Magdalena”, s’intromise Maria, interrompendo la genitrice prima che le sue invettive degenerassero in volgarità da bordello e salvando la sorella da un’immeritata lavata di capo.  

Madona Leonora sospirò affranta: pur di spuntarla sulla cognata, il suo fratellastro Batista non aveva esitato a sfruttare l’allora fidanzamento della vedova Morexini per insinuare dubbi sulla sua affidabilità e morigeratezza in veste di tutrice della figliastra. Una donna che non si fa scrupoli di risposarsi così presto dalla morte del primo marito, diceva, non può allevare onorevolmente una figlia, figurarsi una figlia non sua. E come poteva lui, suo barba, permettere che la povera Magdalena fosse costretta a seguire codesto soggetto poco raccomandabile e ad andare a vivere in una casa a lei totalmente estranea, tra uomini non di famiglia cui nulla importava di tutelare la sua onestà? Quei disgraziati, pur d’accaparrarsi le sostanze di Magdalena, avrebbero anche potuto vergognarla e costringerla a nozze riparatrici, per quel che ne sapevano! Come poteva la sua famiglia di sangue rimanere impassibile dinanzi a tale orrenda prospettiva?

Madre aveva disapprovato ogni singola parola di quell’arringa, secondo lei infamante e crudele, però Hironimo sapeva che suo zio aveva semplicemente vociato ciò che tutti in famiglia pensavano: ossia che madona Agnese Erizo relicta Morexini ora Renier, altro non era che un’avida sgualdrina, una bugiarda e una ladra come sua sorella Ysabeta, solamente più furba. Aveva sfruttato lo scandalo generato dalla congiunta per defilarsi comodamente nell’ombra, tra le lussuriose braccia del secondo marito più giovane di venticinque anni rispetto al primo, che si mormorava essere stato il suo amante quando il povero “da Lisbona” era ancora vivo, adducendo a somma prova di tal disonesto commerzio sia la rapida gravidanza della nobildonna sia la rapida ascesa di carriera di sier Ferigo Renier, finanziato dai danari della seconda moglie. 

Ladri. Approfittatori. Bugiardi. Avidi. Gretti. Tirchi e meschini. A quanto pareva, Hironimo non era l’unico adoratore del Vitello d’Oro. Sicché, consolatosi di questo, ogni suo senso di colpa nei confronti dello zio e di chiunque avesse ingannato per soldi si dissolse come la neve di marzo.  

 

***

 

La riconquista di Padova il 17 luglio 1509 e l’eroica testardaggine di Treviso che preferiva morire con le armi in mano piuttosto di sottomettersi a Maximilian von Habsburg equivalsero alla fine dello spiraglio di disgrazie e l’inizio dell’inaspettata riscossa della Serenissima.  L’eterna notte che la Lega di Cambrai voleva far calare su Venezia invece le aveva portato consiglio, giacché proprio di notte la Signoria aveva recuperato Padova e la seguente mattina chi non veniva arrestato e deportato alle Torreselle o alle Nuovissime per tradimento, si vedeva la casa saccheggiata senza pietà alcuna, specie i nobili padovani. Sier Andrea Griti aveva scritto alla Signoria che si rammaricava di tal comportamento da parte dei soldati e degli Arsenalotti: in realtà, aveva gongolato peggio d’un riccio alla vista dei palazzi di quei traditori depredati e vandalizzati, anche perché, quando Padova s’era consegnata all’Imperatore, analoga sorte era toccata a quella dei patrizi veneziani.

Occhio per occhio, dente per dente, razzia per razzia, ladro per ladro.

L’ondata d’entusiasmo rinsaldò il fronte veneziano e tra agosto e settembre oltre ai soldati mercenari più di 300 patrizi, tutti volontari e a spese proprie, erano partiti per difendere Padova che Maximilian aveva giurato di riprendersi, minacciando punizioni bibliche e ribollendo di stizzosa rabbia per averla perduta proprio mentre dormiva. Ad ambedue i fronti era chiaro che lì si sarebbe giocata la sorte di Venezia, sola contro tutto il mondo.

Contagiato dall’impeto guerriero e la smania di riscatto dopo Agnadello, Hironimo s’era arruolato nei cavalleggeri e assieme ai suoi fratelli Lucha e Marco, al suo cugino germano Piero Morexini di sier Batista e agli altri cugini Batista e Jacomo Miani di sier Polo Antonio erano partiti alla custodia di Padova, tutti coi loro soldati provigionati. All’ultimo s’era unito anche Marco Contarini, l’amico di Hironimo, con la scusa di controllare la portata dei danni sicuramente inflitti alle loro proprietà a Piazzola sul Brenta, avendo infatti udito notizie poco rassicuranti sui pesanti saccheggi ai danni dei beni dei Veneziani e filo-veneziani in tutto il padovano.  

L’antico Castello di Piazzola [9] dei Contarini era stato costruito dai conti Dente attorno all’anno Mille a protezione delle sue genti dalle scorrerie degli Ungari, sfruttando l’ansa della Brenta sia come confine naturale sia come via di comunicazione. Secoli dopo il Castello, divenuto nel frattanto della famiglia Belludi, era stato acquistato da Nicolò I da Carrara, signore di Padova, probabilmente come strategica postazione di controllo dei suoi territori; Francesco I da Carrara l’aveva regalato assieme a 1800 campi al figlio naturale Jacopo, valoroso condottiero e peritissimo nel mestiere delle armi. Da lui aveva ereditato, nel 1406, sua figlia Maria natagli nel 1395 dalla moglie madona Luzia Contarini della Madonna dell’Orto e questo non perché Jacopo non avesse avuto altra prole, bensì perché erano stati proprio i suoi medesimi figli Paolo e Bonifacio ad aver denunciato la sua alleanza con la Repubblica di Venezia ai danni del fratellastro Francesco Novello, denuncia che gli era costato l’arresto, la tortura e la morte, il 9 aprile 1405, fatta passare dal Novello per suicidio. In segno di ringraziamento per i servigi e la fedeltà di Jacopo da Carrara, la Serenissima aveva concesso a Maria la proprietà dei feudi paterni a scapito dei fratelli, i quali, senza più alcun titolo e terra, erano destinati a morire in esilio. [10]

Maria da Carrara si era poi sposata nel 1418 in sier Nicolò Contarini da San Cassian, portandogli quindi in dote il Castello, i villaggi di Piazzola, Sant’Angelo e Santa Maria di Sala, trasformando il paesotto di Piazzola nel fulcro centrale e sede amministrativa delle loro proprietà, accorgimento assai utile specie quando i Contarini si recavano in loco per curare l’andamento dei raccolti. Ivi avevano mantenuto gli antichi privilegi carraresi, ossia godevano dei diritti di mercato, pascolo, mulino, sui passi di barca sul fiume Brenta a Carturo, Carbogna e Camposanmartino, nonché di guardia armata e del giuspatronato della chiesa.

Il corpo centrale del Castello si presentava quindi assai semplice e funzionale all’ambiente rustico, un po’ palazzo un po’ magazzino, con solo due piani e coronato ai vertici meridionali da due torrette. Al termine del viale alberato ad est della piccola fortezza si trovava un mulino di proprietà dei Contarini sebbene non più funzionante poiché posto su un’ansa della Brenta rimasta negli anni all’asciutto. Poco distante sorgeva la chiesetta e il villaggio vero e proprio.

I due giovani veneziani, attraversando quest’ultimo rapidamente a cavallo con la loro piccola scorta, rimasero basiti e turbati dinanzi all’impietosa miseria lasciata da quei quarantadue giorni d’occupazione imperiale e abbondante saccheggio dietro la scusante di rifornire Padova: le basse case dai tetti a cuspide si presentavano scheletriche e annerite dal fumo, scricchiolanti per qualche trave o pezzo di muro che si sfaldava sotto il loro medesimo marcio peso e cadeva rumorosamente al suolo, l’unico rumore in uno sconfortante silenzio da cimitero. La chiesetta aveva avuto sorte migliore grazie al materiale più nobile, ancora in piedi seppur abbondantemente depredata e dietro di essa, neanche fosse stato invaso dalle talpe, il camposanto era tutto un tumulo più o meno fresco, senza croci, di gran fretta. I campi erano stati abbandonati a se stessi e gli alberi tagliati indiscriminatamente, specie quelli decorativi del viale principale e quelli rimasti in piedi fungevano da forche improvvisate laddove i contadini, prima d’evacuare la zona, per sfiziosa vendetta avevano appeso i soldati nemici o quel che rimaneva di loro. Quanto al Castello, ancora portava i segni di razzie e bivacchi, le porte scardinate e le finestre prive d’imposte e fracassate, quel poco che v’era nei magazzini pignolosamente rubato così come le scuderie e le stalle degli animali vuote e semi-demolite. Niente però paragonabile al puzzo vomitevole che colpì le loro narici, non appena Marco e Hironimo entrarono dentro l’edificio, appestati dall’acre odore delle feci e urine, sia animali che umane, accompagnato da quello delle piume dei volatili che si libravano stizziti in aria al loro passaggio, reso difficoltoso dall’accumulo d’immondizia sui pavimenti un tempo lustrissimi.

“Sacramento!”, ringhiò il giovane Contarini, nascondendo il viso all’interno del gomito. “Sti cancari mi hanno impestato la casa, sembra un cagatoio! L’hanno fatto apposta perché non c’era nulla da rubare! Maledetti!”

Evidentemente, interpretò il ventenne, quello corrispondeva al “Grazie!” dei saccheggiatori – qualsiasi fosse stata la loro provenienza – nei confronti dell’usanza dei nobili veneziani di portarsi seco i mobili e ogni oggetto di valore, ogniqualvolta ritornavano in laguna dalla campagna, non fidandosi sostanzialmente dell’onestà dei locali. Sicché, avendo occupato il padovano prima ancora ch’incominciasse la villeggiatura, quegli ospiti sgraditi non avevano trovato un granché, riempiendosi il sacco di poca roba e di scarso valore e a spregio avevano insozzato il Castello.

“O sono lerci di loro e basta!”, la buttò sul ridere Hironimo, pur continuando a guardarsi alle spalle, insospettito sia dal poco rassicurante eco dei loro passi sia da un altro odore, più flebile ma fresco, sotto quello di fogna a cielo aperto. “Marcolin cor mio, cosa d’aspetti da questi barbari? Fosse per loro, ancora adorerebbero nudi gli alberi!”, asserì lentamente, mentre una mano scivolava sull’elsa della sua spada e l’altra s’appoggiava sulla spalla di Marco, costringendolo a fermarsi e a cambiar direzione, subito imitato dalla loro scorta, anch’essa in allerta.

Gli occhi del giovane Contarini si sgranarono sorpresi e intimoriti, le pupille dilatate sul punto indicatogli dall’amico: tendendo le orecchie e annusando ben bene l’aria, i due giovani captarono un costante brusio di sottofondo – voci, indubbio! – nonché l’affumicato d’un fuoco alimentato da legna malsana e paglia. Quand’ecco che il borbottio s’infittì prima e si chetò poi all’improvviso e i patrizi coi loro compagni ebbero appena il tempo d’alzar la difesa che dal buio di un corridoio sbucarono urlando tre o quattro uomini armati di picche, i quali tuttavia tanto velocemente erano comparsi, tanto velocemente s’impietrirono sul loro posto.

“Cul dil cancaro! Domine Cribele! Cagasangue! Christo d’on Christo! Fago humilentissima reverenzia a lori missieri bei colendissimi!”, si sciorinò il loro capo in un comico balletto d’inchini e salamelecchi, le armi gettate di riflesso ai piedi di Marco ed Hironimo, che li fissavano tra il perplesso e il guardingo, avendo riconosciuto dai loro vestiti rozzi e laceri dei contadini e anche male in arnese, tranne per le picche, probabilmente sottratte a qualche cadavere. “Vuostre stilenzie, vuostre spaternitè lostrissime, a me rebuto, (riverisco, ndr.) cari missieri! Bienvegnui en tera de Sen Marcho!”, continuò ansioso l’improvvisato scalco zeneral, spiando di sottecchi le affilate armi del gruppetto di veneziani davanti a lui e ai suoi compagni. “Cossa ve menò chialondena? (qui, ndr.) Ze stà vinta o perdua ea guera?”

“Ralegherati, ti et la toa zente che se tegne fiel: par vuialtri xé finio el timor, horra vuj seti tutti soto ea protetion di la Signoria, la qual fortissima governa Padoa e la custodisse dai barbari”, replicò solenne Marco, facendo cenno ai suoi uomini di rifoderare le spade. Avvicinandosi al contadino, che di riflesso s’esibì nell’ennesima riverenza, si presentò: “De pì, ti te gh’ha da satre che mi sun el castelan, el patron, el fio dil magnifico sier Zacharia Contarini dai Scrigni!” e neanche avesse nominato Missier San Marco o il Serenissimo suo rappresentante in terra, ecco che il villano, scattando quasi sull’attenti, si girò verso il suo compare, esclamando sorpreso ed eccitato:

“El paron, saivù?”

“El paron!”, informò incredulo il suo interlocutore un altro suo compagno ancora e quest’ultimo si voltò, urlando a quelli dietro: “El paron!”

“El paron?”, s’intromisero da un angolo delle voci femminili e di bambini, tosto seguite dalle loro teste che facevano capolino, incuriosite. “Pota an l’amor che bell’om!”, ridacchiarono tra di loro due ragazze, una delle quali, notò Hironimo, gli ricordava per affilatezza di volto e per fissità di sguardo una volpe. Quella s’accorse del suo scrutinio e gli strizzò complice l’occhio, esibendogli un aguzzo sorriso di denti sorprendentemente bianchissimi e forti a guisa d’araba.

“Che ci fate in casa mia? Chi siete? Perché non vi siete rifugiati a Padoa, al sicuro?”, li interrogò Marco adesso in tono assai più colloquiale, rilassando così di colpo l’atmosfera, tanto che i villani tirarono un grosso sospiro di sollievo per tal benevolenza nei loro confronti e pure le donne e i bambini s’azzardarono ad abbandonare i loro nascondigli.

“Se Diè m’ai (Che Dio m’aiuti, ndr.), missier beo, no semo ladri! Aldì (sentite, ndr.), semo tuti scapolai di campi, di colli … poara zente che gh’ha corso coi soldé et slançeman (lanzichenecchi, ndr.) drio del cul: i nuj volé apichar, tajar en tocherin da dar a magnar a li porzei, depo’ haber menà via le nuostre christiane!  Saivù perché? On de sti cancari, on can de quel fio d’on can dil Trisin, gera vegnù a dirghe a nuialtri: “Avé da darghe a nui biave, fromento, bestie ché el paron gheo comanda.” Mi gh’ho domandé: “Et chi zelo el paron?” Queo: “L’Imperaor Maximiano, el Cesar Augusto!” Mi: “Ma mi depo’, se ti te me meni via tuto per darghe da magnar al Cesare Augusto, mi et la mia famegia cossa fagemo sto verno?” Queo: “V’acorderìo cum l’Imperaor!”; Mi: “Sì, a s’accorderón in lo culo!.” Nuj no semo traditoron ribiegi, semo tuti per il domini Missier Sen Marcho et a quel can mi no gh’ho dà gnente!”, raccontò il contadino concitatamente la sua storia, gesticolando e mimando i dialoghi avuti con lo sfrontato inviato di Leonardo Trissino, rappresentante del Re dei Romani e governatore di Padova in attesa dell’arrivo dell’Imperatore. La pernacchia che Treviso aveva elargito all’Habsburg aveva ringalluzzito i villani, i quali avevano colto la palla al balzo per ribellarsi ai nobili locali e darsi alla macchia se potevano, rifiutandosi di fornire il benché minimo aiuto agli invasori e anzi, tormentandoli in continui ed improvvisi agguati notturni. Aveva omesso, il contadino, il piccolo dettaglio dell’uccisione dell’inviato e dei suoi compari, non aspettandosi costoro quell’imboscata da parte di ignoranti bifolchi, quando invece loro s’erano aspettati eccome una visita da parte di quei ribelli traditori e già s’erano previamente organizzati.

L’uomo narrò poi dei saccheggi operati da parte delle truppe di Maximilian, il quale man mano che s’avvicinava a Padova aveva dato ordine di sequestrare ogni cosa potesse servire come cibo, come strumento per i guastatori e i genieri, come arma, come scaldaletto umano. Rubavano e ammazzavano i contadini che s’opponevano, terrorizzati questi all’idea di perdere anche quel poco che possedevano, traditi dai loro stessi nobili che pur di darla sui corni ai Veneziani li gettavano in pasto alle fameliche gole dei Collegati. Villaggi bruciati, donne violentate e rapite, bambini uccisi e alberi pieni d’impiccati. I Tedeschi in particolare soffrono di sto gran mal della lupa: non si saziano giammai!, continuava, paragonandoli  alle cavallette, alle sanguisughe, ai pidocchi e alle zecche. Quand’erano in azione – spiegava - pareva l’Apocalisse srotolarsi ai loro occhi e dove incominciavano loro continuavano i Francesi, genia malefica e crudelissima, poi i Ferraresi – ladri e assassini! – per finire con le truppe italiane, altra marmaglia puzzolente, tutti figli bastardi di cagna bastarda e le cui mogli e figlie, asseriva serissimo il contadino, erano le rinomate puttane dei Tedeschi e dei Francesi. Tramite fosche pennellate dai gusti molto macabri, il contadino descrisse ai due patrizi delle lunghe marce notturne per campi e per i Colli Euganei; della paura di morire o infilzati o affamati o entrambi e perfino della paura di fermarsi a cagare, con le orecchie sempre tese onde captare il vociare dei nemici, il rumore dei loro passi, delle armature e del cigolio delle ruote di cannone. Si dilungò infine sullo sgozzamento di alcuni militari stranieri in cui erano sfortunatamente incappati, morendo ammazzati questi nel sonno tra grandi convulsioni e rantoli. Dei loro abiti, viveri, danari, pezzi d’armatura e delle loro picche s’erano poi largamente serviti, non è giammai peccato rubare al ladro.

“Orbentena, missier beo, a ghe semo pur rivai a sto Castelo, che a nu ghemo pí augurai d'arivarghe!”, terminò il contadino le disavventure sue e del suo gruppo, assicurandoli di come non avessero preso proprio nulla dal Castello, solo una stanza per starsene riparati, rifocillarsi, dormire e riscaldarsi quel giusto per levarsi l’umidità dalle ossa dopo troppi sonni sulla nuda terra. Già progettavano di raggiungere Padova per dare una mano alla sua custodia, parola d’onore che non mentivano!

“Sì, l’altra gente?”, volle sapere Marco, non tornandogli un piccolo dettaglio.

“Chi?”

“La gente di Plazóla!”

“An! Muorti o ané (andati, ndr.) missier beo, come tutti chialondena: chi pol se salva; chi no, dabaso!”, riassunse l’uomo sbrigativamente la faccenda, indicando o il pavimento sotto di lui o la fantomatica direzione verso la città. “Co’ ghe semo arivai, no ge gera nigun, se no sto spion!”

“Spion?”

Rivolgendosi al ragazzo vicino a lui, il villano lo istruì berciando: “Moà, cori lesto a torre quea bestia!” e ai due giovani patrizi: “Mi criù (credo, ndr.) ser foresto e da com’el move ea bocha mi criù ser on can de Magna!” (Alemagna, ndr.), gli confidò compiaciuto, neanche stesse discutendo d’un vitello appena acquistato a buon prezzo al mercato. “Gheo portemo a missier el Podestà e al Provedador, per ea taja. An, el vegne! Cancaro! Te vegnisse ea peste roxa!”

Tirandolo per un guinzaglio improvvisato, il giovane contadino suo compare portò al cospetto dei due nobiluomini un uomo assai malmenato, in camicia e mutande, le braccia legate e costrette all’indietro da una tavola sulla schiena. La villanella dal viso di volpe gli elargì un mirato e doloroso calcio sui reni, costringendolo in ginocchio. Dal modo in cui imprecò tra i denti si tradì effettivamente l’accento straniero del prigioniero, il che non sorprese i veneziani, attendendosi infatti la presenza nel territorio di esploratori sia delle truppe imperiali che pontificie, onde carpire informazioni sullo stato di difesa di Padova.

“Ora capisco”, gli rise in faccia il giovane Contarini, le iridi scure però dardeggianti di fuoco colmo d’odio ferocissimo, “da dove proviene questo tanfo di merda!”

Hironimo si sventolò sotto il naso, sogghignando beffardo. “I sudditi rispecchiano sempre il loro signore, nevvero?

“Pensavi sul serio di gironzolare indisturbato a casa nostra, neanche fossimo un’osteria? An? Credevi che queste terre sul serio appartenessero al tuo codardissimo Imperatore?”

Peccato che l’esploratore li fissasse inebetito, incapace di comprendere quanto dettogli e dimenandosi sbrodolò nella sua aspra lingua un rivo sconclusionato di parole stavolta ai suoi ascoltatori incomprensibili.

Dinanzi a tal spettacolo il giovane Miani scoppiò in una fragorosa risata e, acutizzando la voce in una sardonica cantilena, gli cinguettò falsamente compassionevole: “Ma guardatelo! Poverino, che fai? Non capisci? Non ci senti? Vuoi parlare? Ragli, asino? E-sen!”, gli scandì accorto l’ultima parola, che calmò di botto l’esagitato prigioniero, la sua bocca comicamente penzolante in una O giottesca.

Dopodiché, agitandosi peggio d’un demonio nell’acquasantiera, il soldato tentò di balzare in avanti o per insultare o per mordere la faccia di Hironimo, destino risparmiatogli da un cazzotto da parte del capo dei contadini fuggiaschi, che lo spalmò per terra a mangiar polvere.

“Momolo … che gli hai detto?”

Asino, una parola imparata dal sior mio Pare durante la Guerra del Tirolo. Può essere che codesto somaro venga appunto da quelle bande.”

“Dunque in Tirolo non dicono Esel come gli altri Todeschi?”

“Te parestu che mi sonjo dotor de todesco? Se c’è una sola cosa che conosco bene degli imperiali, è che sono tutto stomaco e niente spirito, bravi ad arraffare l’altrui senza dar nulla in cambio!”

Marco strinse la bocca in una linea dura, istruendo i suoi soldati di pigliarsi il prigioniero e di tenerlo ben sottocchio, questo dopo aver rassicurato il capo dei villani sulla tutela del suo investimento, anzi pure gli diede qualche ducato dalla sua scarsella a titolo di garanzia, che non si sarebbe intascato il premio al posto loro. L’uomo dondolò in una serie di profonde riverenze e fece cenno alla sua brigata di seguirlo, uscendo assieme ai provigionati dal Castello. Soltanto i giovani Miani e Contarini rimasero indietro, quest’ultimo dirigendosi di corsa verso quella che, in estate, fungeva da sua camera da letto.

“Zò, Marcolin! Spetame almanco! Zò!”, gli gridò dietro Hironimo, partendo rapido all’inseguimento e bloccandosi di colpo alla vista del suo amico a bocconi sul caminetto, intento a rovistare forsennatamente tra le ceneri. “Cor mio …”

E per la prima volta da quando la guerra era incominciata, Marco Contarini scoppiò a piangere, sfogando tutta la frustrazione, il dolore, l’angoscia che per amor di sua madre aveva ingoiato a viva forza.

Hironimo si portò in un battito di ciglia accanto a lui, inginocchiandosi, e lo cinse per le spalle sconquassate dai singulti, portando il viso del ventenne al suo petto,  cullandolo, accarezzandogli i capelli castano-rossicci e sussurrandogli ogni parola di conforto che gli sorgeva sulle labbra, il suo sguardo puntato sul cumulo scuro dei rimasugli di un fuoco che doveva esser stato assai vivace.

Nella sua stanza il giovane Contarini aveva lasciato indietro un mobiletto di modesta fattura, che però conteneva le sue “bagatelle estive”, ossia quei sonetti, canzoni, poemetti e brevi commediole ch’egli componeva per suo diletto e per la sua stretta cerchia di amici intimi, così da allietare i pomeriggi e soprattutto le afose serate in campagna. Evidentemente, cogitò il giovane Miani, non avendo giudicato d’alcun valore quel mobile e quei fascicoli, i soldati nemici avevano ben pensato d’utilizzarli come combustibili, tenendosi probabilmente il quaderno di cuoio contenente gli scritti di Marco.

Ad occhi profani, forse piangere per tali facezie poteva apparire ridicolo e puerile, ma Hironimo sapeva che non era per i suoi componimenti in sé che Marco singhiozzava: era per ciò ch’essi avevano rappresentato.

La loro gioventù, la loro spensieratezza, la loro estate, rubata, mutilata per sempre dall’altrui avidità e invidia. Loro, i giovani, eletti a capro espiatorio per le colpe e la cecità dei padri, loro ch’avevano appena incominciato a vivere, novelli Atlanti si dovevano sobbarcare di una responsabilità tremenda, costretti ad affrontare oltre alla morte anche le conseguenze a lungo termine della guerra, paura accompagnata dall’incertezza per la sorte propria e delle rispettive famiglie in caso di sconfitta. Quanto lontani gli apparivano adesso gli anni così lieti della giovinezza! Il loro mondo sicuro e stabile era stato bruciato come quei fogli pieni d’ingenui idilli amorosi ed eroici sogni del futuro; deturpato e inselvatichito come il giardino del Castello, un tempo rigoglioso e luogo di rifugio dal caldo e di confidenze tra amici fraterni; come il Castello stesso, violato e insozzato.

Pensare che finora a lui era anche andata relativamente bene: in molte occasioni Hironimo aveva provato ad immaginare una sua reazione, se gli fosse mai arrivata la notizia della cattura e deportazione di uno dei suoi fratelli in Francia, dubitando di potersi comportare tanto stoicamente quanto Marco. Gli si era stretto il cuore al solo pensiero dell’incerta sorte del suo amico Piero Contarini, di quell’introverso e dolcissimo pulcino “peritissimo nelle lingue greca et latina” che tallonava tenacemente lui, Marco e il suo più spigliato gemello Polo, peggio d’un’ombra. Ancora Hironimo poteva udire l’eco della sua timida risata riecheggiare nelle stanze del Castello o nel giardino, quando a braccetto, in una sorta di scoordinata catena umana, deambulavano sghignazzanti tra i sentieri sulla collinetta decorativa o sulle rive del laghetto artificiale, scherzando, giocando a palla, confidandosi segretucci o cantando qualche frottola comodamente seduti sul soffice prato, sotto le verdi fronde degli alberi. Aveva avuto una tal faccia da funerale, Piero, il giorno in cui dovette lasciare Venezia per recarsi a Cremona insieme a sier Zacharia, elettovi podestà e capitano, neanche avesse inconsciamente intuito di salutare la sua famiglia e gli amici per l’ultima volta.

Solo Hironimo aveva ascoltato le domande a vuoto proferite da un catatonico Marco, mentre leggeva e rileggeva straziato e incredulo la tremenda notizia della caduta di Cremona e della cattura di suo padre e del fratello e dell’immediata deportazione a Milano; solo a lui il giovane Contarini aveva confidato le sue intime paure di non poter rivedere mai più né Piero né sier Zacharia, perduti forse per sempre, ostaggi in terra straniera, morendo magari in un misero tugurio senza il conforto e l’affetto dei loro familiari, senza poterli contemplare un’ultima volta né bearsi degli amati contorni dei paesaggi della loro madrepatria. Inutilmente sier Zacharia avrebbe in seguito tentato di consolarli, scrivendoli da Marquis, presso Parigi, che tuto il despiazer che io ho, è che io dubito de vostra madre e de tutti vui più che de mi, preoccupato egli più della sorte della sua famiglia che della propria. Sull’ultimogenito, invece, poche parole: Piero è andato a Lixignan de Lion, in uno castello sopra la strada de andar da Bles a Perpignan, cercha 60 miglia lontan da Bles, et credo che el stagi ben ed era quel “credo” che tormentava e avrebbe tormentato per anni Marco, spronandolo assieme ai fratelli Francesco e Phelippo ed i cognati a trovare ogni stratagemma per liberarli. “Credo” stia bene – non “so” che sta bene. Oh, Dio!

(In quel momento, Hironimo poteva soltanto immaginare la pena dell’amico; neanche un anno dopo e l’avrebbe sperimentata sulla sua pelle, alla cattura e deportazione di Lucha in Alemagna, quando anche lui avrebbe dovuto soffocare sul cuscino le proprie lacrime per non ammazzare Madre col suo dolore; quando anche lui e Marco avrebbero dovuto escogitare ogni astuzia per liberare il fratello; quando anche lui avrebbe provato una smania assassina verso ogni foresto, ogni traditore)

“A sti cancari, sti baroni, sti maladeti gliela faremo pagare, vedrai!”, mormorò solenne il giovane Miani, circondando con le mani il viso umido di Marco e costringendolo a guardarlo dritto negli occhi. “Roma, Magna, Franza, Spagna, Frara – che ci diano pure battaglia, questi lupi vigliacchi ch’attaccano in branco! A Padoa troveranno solo sangue e vergogna! La vendetta e la loro vita sono nostri e non sai che, a riscuotere i debiti, noi Veneziani abbiamo sempre eccelso?”

Il giovane Contarini, tirando su il naso, abbozzò ad un timido sorriso di sghimbescio, mentre l’amico fraterno gli asciugava maternamente premuroso le lacrime coi pollici. “Sangue e vendetta”, ripeté il ventenne con ritrovata freddezza, inspirando profondamente e una volta calmatosi, s’erse in piedi, pronto ad affrontare stoico quel folle mondo.

 

Quell’episodio, oltre ad accrescere l’odio nei confronti dei Collegati, aveva esacerbato il disprezzo d’Hironimo verso i traditori sia padovani sia in generale di tutti coloro che nel momento del bisogno avevano voltato le spalle alla Signoria. Non gl’importava che quest’ultima stessa aveva sciolto le sue città da ogni vincolò di fedeltà pur di salvarle da saccheggi e massacri: nell’intransigenza della sua gioventù, dove ogni cosa è bianca o nera, egli non concepiva alcuna giustificazione per quel voltafaccia, quello sputare sul piatto che li aveva nutriti e arricchiti. Nel suo intimo provava una perversa soddisfazione nell’apprendere delle angherie subite dalle città occupate, delle ruberie travestite da tasse e balzelli imposte dai sovrani stranieri. Se n’erano resi ben presto conto -  quei traditori! - degli svantaggi del cambio di governo, della mano dura del nuovo padrone, il cui unico scopo corrispondeva allo sconsiderato sfruttamento delle loro risorse senza però investire in infrastrutture per consentirne un continuo ciclo di rinnovamento.

In  casa aveva difeso appassionatamente le razzie ai palazzi dei nobili padovani: Hanno fatto bene, probabilmente era roba già rubata! E ancor di più gli era piaciuto che avessero alloggiato lui, i suoi fratelli e i suoi cugini in una casa a queste canaglie confiscata. Essa era stata risparmiata dalla depredazione molto probabilmente poiché tra le ultime, quando oramai l’impeto rubereccio s’era calmato. Nondimeno la sua proprietaria, domina Gigliola, si era dovuta ugualmente veder condotti via il marito e i figlioli a Venezia “per sicurezza loro e di Padova”, senza ulteriori spiegazioni, senza un addio e senza abiti di ricambio se non quelli indosso. Ad acuire il malessere della nobildonna s’era aggiunto l’arrivo dei patrizi veneziani e dei loro provigionati, temendo infatti ella per il pudore delle sue figlie: in tutta onestà né Hironimo né i suoi parenti nutrivano alcun interesse verso di loro, tuttavia far macerare nel dubbio la loro signora madre era un passatempo troppo divertente, così come punzecchiare lei e le ragazze di continuo tramite innumerevoli dispetti e servirsi largamente di ogni bendiddio della casa, a spese ovviamente della poveraccia.

Soltanto Lucha disapprovava quel loro comportamento, più per timor che i fratelli e cugini colmassero la misura e si cacciassero nei guai col provveditore, che per simpatia verso domina Gigliola che anzi pure lui detestava. Taceva tuttavia in pubblico e, pur sorvegliando acutamente i suoi minori, li lasciava fare, serbando eventuali predicozzi e rimproveri nel segreto delle loro stanze, laddove ricordava loro di non comportarsi da pirati saraceni e puttanieri, specialmente Marco adesso ch’era accasato con moglie e figli, peccato che alla menzione di Helena suo fratello scattasse inviperito, ribadendogli di non necessitare dei suoi sciocchi consigli. Piccoli screzi a parte, dinanzi alla padrona di casa i Miani e i Morexini apparivano saldamente uniti nella loro ostilità mascherata da paternalistica benevolenza e così doveva essere, per tenere la nobildonna sottomessa e timorosa. Le costava obbedirli, lo notavano e ne approfittavano sfacciati, ciononostante ella non poteva sottrarsi né d’altronde glielo aveva consigliato il medico di schierarsi dalla parte dell’Imperatore, s’assumesse dunque le sue responsabilità.

Quanto ad Hironimo, egli aveva la sua volpetta a tenergli compagnia dopo i turni di ronda ai bastioni, sebbene in cuor suo egli avrebbe di gran lunga preferito quella della sua domina. Se ancor sua lo era, poi. L’ultima lettera di lei …

Hironimo si bloccò davanti il portone d’ingresso del palazzo in cui era alloggiato, sgranando gli occhi perplesso: nel suo cupo meditare non s’era accorto tranne all’ultimo della presenza di Lena all’uscio, seduta imbronciata sugli scalini, la guancia appoggiata su di un pugno e l’altra che giocherellava con le cuticole delle sue dita. Che cosa ci faceva lì?  si chiedeva, se già aveva terminato il suo turno a portar da bere agli zappatori alle mura, perché non se ne stava in camera sua a riposarsi?

“Lena”, la chiamò allora Hironimo e la ragazza levò lo sguardo in alto verso il patrizio, per poi voltare di scatto il viso dall’altra parte, le labbra piegate infantilmente all’ingiù. “Non mi saluti, ora?”, la rimproverò scherzosamente il giovane, accarezzandole le gote con due dita.

“Paron, stilenzia, a me rebuto”, obbedì quella di controvoglia, borbottando sia stizzita sia ironica, provocando nell’altro un perplesso arcuare di sopracciglio. Lena si scostò brusca dalla carezza del Miani e si passò la mano sugli occhi, strofinandoseli forte al punto d’arrossarli.

Hironimo si chinò su di lei, d’un tratto preoccupato, cercando d’incrociare i loro sguardi. “Pianzestu?”

“Siornò, dea fumegàra (fumo, ndr.) en li ocij”, rispose in fretta la ragazza, ponendosi in piedi per rientrare dalla porta della cucina e quell’atteggiamento così sospetto non piacque per niente al giovane veneziano, che le intimò perentorio, afferrandola celere per il polso e così bloccandola:

“Fatti guardare, non ho mica pressa di rientrare!”

Impossibilitata a fuggire, Lena si morse l’interno della guancia, incerta se soddisfare o meno il palese comando del ventitreenne patrizio.

“Spicciati, femena, son stanco e non ho né tempo né voglia di giochetti!”

“Vi servo, paron, ste’ seren”, dichiarò stavolta più docile la contadina, girandosi verso Hironimo e permettendogli di squadrarla da capo a piedi, pur seguitando ad evitare il suo sguardo, ora più vergognosetta che arrabbiata.

In pochi giorni, Lena non pareva più la medesima emaciata fuggiasca vestita di cenci e ricoperta di polvere e fango, che da Piazzola era giunta a Padova assieme agli altri suoi compari: il giovane Miani, cui ella s’accompagnava, di persona aveva provveduto a rimetterla in sesto e adesso la contadina già si presentava come un’altra persona, il suo musetto di volpe più pasciuto e roseo e l’occhio limpido e soddisfatto di chi possedeva lo stomaco pieno. La vecchia sottana e camicia, ambedue lerce e stracciate, erano state sostituite da una veste celeste alla rustica sopra ad un’altra tela di color biava, con un busto alquanto stretto che strizzava e sollevava il seno pieno di giovane donna e detto busto era allacciato con alcuni cordoncini grossi in modo che si vedesse la camicia bianca sottostante. Onde evitare di sporcare l’abito nuovo, la contadina s’era legata la veste alzandola con una cintura di cuoio sopra l’altra che aveva di sotto e mostrando quindi una bella porzione delle caviglie formose e ovviamente le pianelle.

Il dettaglio più curioso della sua persona, quello che subito attirò Hironimo, fu il velo di bambagia sul suo capo, visto che di solito Lena lo teneva allacciato al collo e lo sollevava soltanto a mezzodì o in chiesa. Adesso invece oltre a coprire i suoi ricci biondi celava anche mezzo volto, tanto da rassomigliare ad una di quelle donne turche quando deambulavano fuori casa.

“Coss’elo sto negozio?”

“Gnente, paron.”

Hironimo, non credendole, per tutta risposta le scoperse la testa e digrignò irato i denti all’indegno spettacolo offertogli. “Chi è stato?”, la costrinse a rivelargli, passando lievissimo il polpastrello sul livido gonfio e pulsante sullo zigomo della contadina. “An?”

“Nigun.”

“Bugiarda.”

“Cossa v’importeu? Gi ho l’uso mi de ciaparme botte e stramusoni, no ze ‘na novità ...”

“Tasi! Tu sei la mia femmina: chi t’offende, offende me!”, l’interruppe bruscamente il patrizio, che già ribolliva di rabbia all’idea che qualcuno avesse picchiato la ragazza alle sue spalle, sentendosi preso in causa. Dopo l’affronto subìto per mano della sua domina e del suo novizzo, non tollerava ora di certo un secondo ceffone all’amor proprio né tantomeno verso roba sua. Inoltre, malgrado si fossero accordati una per sopravvivenza e l’altro per vendicarsi, un pelino a lei s’era affezionato e non la voleva sapere strapazzata da chicchessia, non se lui aveva voce in capitolo. A suo modo aveva promesso di proteggerla e l’avrebbe fatto fino in fondo.

Lena tirò su col naso, umettandosi le labbra un po’ secche per le lunghe ore a trasportare borracce d’acqua e vino e secchie. Un ultimo attimo d’esitazione, valutando i pro e i contro, ed infine rivelò al veneziano: “Zé stà quea stomegosa de madona Ziliola: co’ rencaxavo, me gi ha dé on stramuson, butandome forra de caxa a spentoni: Mi chialondena a ti no te voggio, ludra onta bisonta, cancara villana e troja!, ea m’ha zigé. O mi criù, ché mi nol capisso ben el tajan moscheto.” (italiano da signori, ndr.)

Hironimo inspirò l’aria in un rabbioso sibilo, le gote scarlatte e i muscoli del collo tesi allo spasimo, similmente a quelli dei pugni, stretti convulsi da far sbiancare le nocche. “An, così mi racconti …”, mormorò in un ringhio ingolato. “Corri in camera mia, risciacquati il viso e dopo vienimi appresso, ché chiarirò io la faccenda con la siora patrona.”

Rise malevolo, grato in fin dei conti di quella distrazione: la lettera che aveva inviato a Venezia ancora non ritornava con una risposta e aveva una voglia matta di sfogarsi contro il genere femminile, meglio ancora se un suo rappresentante già di per sé gli stava sullo stomaco.

L’aveva rivista a Padova qualche giorno dopo la loro perlustrazione del Castello di Piazzola e dei dintorni: allora Hironimo aveva già imparato a memoria la crudele missiva della sua domina, rifiutando di credere ad ogni singola parola ivi scritta e annegando le lacrime traditrici nell’acquavite, sicché al momento di rincasare all’ora del coprifuoco se ne stava leggermente barcollando a guisa di funambolo, incurante di potenziali borseggiatori o d’inciampare e sbattere il muso sul selciato.  

Incrociò la contadina verso la strada conducente al palazzo dove alloggiava e soltanto all’ultimo la riconobbe, infilando celere nella scarsella di cuoio la lettera, non desiderando ch’ella eseguisse i proverbiali due più due.  La giovane stava arrancando sotto il bàger alle cui estremità erano agganciati dei secchi d’acqua. Correndole incontro, Hironimo con molte moine riuscì a farsi cedere il bastone ricurvo in modo da sistemarselo sulle sue di spalle.

“Hai finito il turno?”

“Siorsì, questi sono per me.”

“Dove abiti?”

La ragazza glielo disse.

“E’ lontano e fra poco calerà il buio, non dovresti andartene a zonzo da sola. Manderò qualcuno ad accompagnarti. Il mio alloggio non dista molto lontano.”

“Paron, siete troppo buono a preoccuparvi così per me”, commentò ella, levandosi lo sciugatoio dalla testa e usandolo per tamponarsi il collo e il petto sudati. Subitaneamente il suo viso lungo e affilato da volpe s’illuminò d’un sorriso malizioso. “Siete sempre così cavaliere?”

“No, affatto”, ribatté brusco Hironimo. “Sei sempre così ciarliera cogli uomini?”, le chiese piuttosto acido di rimando.

“Soltanto con quelli che mi piacciono.”

“Ed io ti piaccio?”

“Moltissimo, paron.”

Il giovane patrizio piegò la bocca in un ghigno amaro, preferendo tuttavia rimanere in silenzio. Giunti alla porta di servizio del palazzo, egli batté forte sullo spesso legno, tra arditi equilibrismi col bàger. Gli venne ad aprire una pasciuta fantesca, la quale trasalì nel vederlo così conciato e doppiamente quando Hironimo le cedette sgarbatamente il bastone ricurvo, che s’arrangiasse a trovargli un’ubicazione.

Intuendo d’aver forse pizzicato un nervo scoperto, la contadina lo tallonò lesta, anticipando il veneziano quando questi tentò di servirsi di un boccale di vino, sottraendoglielo infatti e servendolo lei stessa. “Perdonate, paron, se v’ho offeso. Avete forse una cristiana a Veniexia?”

“No.”

“Morosa?”

“Neanche.”

“Una femena, allora?”

Hironimo esitò un istante; dopodiché, si portò l’orlo del boccale alle labbra. “No”, rispose atono, ingollando in un sol sorso il vino. Servitosi ancora della bevanda e sovvenutosi delle buone maniere, s’informò assai disinteressato: “E tu? Non hai un sior marido?”

“Vivo col mio uomo da quasi tre anni, sì.”

 “Vattene da lui dunque e non m’importunare.”

La ragazza gli sorrise indulgente, come se stesse discutendo con uno scolaretto piuttosto testardo. “Non si può, paron, manco se lo volessi.”

“Perché?”, posò perplesso il patrizio il boccale sul tavolo e si sedette, d’un tratto coinvolto dal discorso della villanella.  “Pensavo fosse uno di quei villani rifugiatisi a Plazóla”, le fece cenno d’imitarlo e perfino le servì del vino, stranamente empatico verso di lei. “E’ morto?”

“Morto? Sì, no, non so. Forse è ferito. Forse è prigioniero. Forse ha disertato e s’è nascosto in qualche buco. Forse s’è perso o non gli riesce di rimpatriare. È da maggio che non so più niente di lui. Si fece soldato, sapete, per tirarci fuori dalla miseria. Mi sa che m’ha sprofondato doppiamente in essa”, constatò pragmatica la ragazza, nel frattanto che si risistemava lo sciugatoio sui capelli biondi. “Quando ho capito che non sarebbe più tornato, ho preso le poche mie robe e via per i campi a cercar altri compagni di sventura. O restavo e morivo ammazzata oppure tentavo la sorte. Quei compari veramente me li ha mandato la Madona, tanto gentili sono stati con me, mi hanno accolta senza domande … Perché mi guardate così turbato? Poteva andarmi peggio: ho forza e salute e qualche parente da cui recarmi per cercar lavoro. Il resto vien da sé o ci pensa il Padreterno.”

Hironimo l’osservò a lungo in silenzio, studiandone i lineamenti volpini, la figura d’una magrezza nervosa, la saldezza della sua presa sul boccale, la fissità predatoria degli occhi. Una creatura tutto istinto determinata a sopravvivere ad ogni costo, materialista e incurante di qualsiasi cosa non potesse né toccare né vedere. Così diversa dalla sua domina, ohibò, così diversa da qualsiasi donna da lui conosciuta a Venezia. Ecco, forse ancora le sue fantesche possedevano quell’animalesca vitalità, tuttavia leggermente mitigata dalla sicurezza di un tetto sopra la testa, dalla protezione dei loro uomini e della certezza di tre pasti caldi al giorno. “Hai figli?”, s’informò incuriosito, tra un sorso e l’altro di vino.

“Uno, seppellito lo scorso autunno. Ripensandoci, sono quasi contenta: almanco il mio fantolino è morto nel sonno, come un angioletto, senza soffrire”, gli rivelò con voce tremula e una piccola lacrima traditrice, sincera, le colò lungo la guancia, prontamente asciugata. “Perdonate, paron, non so che …”

“Non c’è vergogna alcuna nel piangere un figlio morto.”

La contadina gli sorrise timidamente, non sfuggendogli la dolcezza e la genuina comprensione verso il suo intimo dolore: possedeva un ché di paterno, inusuale per la giovane età del nobiluomo. “Avete creature vostre? Magari da qualcuna delle vostre ganze.”

“No, però ho dei nipoti che adoro; le uniche mie gioie, le mie stelle che mi rendono più sopportabile ogni noia quotidiana” e il viso d’Hironimo s’illuminò per la prima volta di un bel sorriso, sognante e pieno d’orgoglio affettuoso, in bilico tra il possessivo e il protettivo come se Dionora, Gasparo, Anzolo e Crestina li avesse generati e allevati lui stesso, quel sorriso che Luzietta scherzosamente affermava quanto facesse di colpo innamorare la gente e di fatti il cuore della ragazza sussultò e mancò di qualche battito.

Arrossita involontariamente e mancandole il fiato, ella commentò sbiascicando: “Avessi avuto io un Barba così: i vostri nipoti possono ritenersi davvero fortunati!”

“An, chissà …”, si schermì modesto il Miani, passando pensoso il dito sul bordo del boccale. Sebbene li amasse fino all’ultima spanna della sua anima e s’adoperasse in ogni modo per non farli mancar nulla, dubitava talvolta d’essere per loro un degno esempio da seguire. Dionora oramai a breve si sarebbe maritata; Gasparo cresceva forte e di testa fine, il cocco di suo zio acquisito sier Antonio Trum; Ina l'avrebbero spedita al convento per studiare e Zanzi … se non fosse stato per i capelli e gli occhi scuri di Marco (e dei Morexini in generale) sarebbe stato la copia sputata di suo nonno Anzolo, pure nel caratterino peperino che incominciava a saltar fuori. Probabilmente per questo motivo Zanzi era il suo preferito, ritrovava in lui Padre e lo sentiva quasi una parte di sé, più d’un nipote, un figlio, una costola sua. “Ancora non m’hai detto il tuo nome”, cambiò Hironimo agilmente discorso, non garbandogli esplorare oltre quei suoi sentimenti.

“Lena, paron”, l’accontentò subito la villanella.

“Magdalena?”

La giovane fece spallucce. “Penso di sì, m’han detto corrispondere allo stesso nome della mia santola  … Siete per caso fratello del magnifico missier Marco Contarini?”

“I nostri padri erano imparentati alla lontana, ma ormai lui è più un amico di famiglia che un congiunto. Il mio nome è Hironimo, della casata dei Miani del ramo di Carità - San Vidal.”

“An, in effetti non v’assomigliate affatto  …”, si portò pensosa Lena un dito sul mento, richiamando alla mente l’immagine del viso di Marco Contarini. “Paron, posso confidarvi una cosa?”, si sovvenne all’improvviso.

“Che abbiamo fatto finora?”, si massaggiò sbuffando il collo Hironimo, controllando il fondo della brocca. “Avanti, confessati, figliola.”

Lena arricciò la bocca, divertita da quella selvatichezza. “Non avrei mai immaginato di poter un giorno conversare così liberamente con un patrizio veneziano; sempre vi si descrive come molto altezzosi e inavvicinabili.”

Detto patrizio grugnì sardonico, replicando leggermente offeso: “Tipico degli sciocchi scambiare la riservatezza per dell’arroganza!”

“Non v’arrabbiate, riporto soltanto le dicerie.”

“Ma tu che ne pensi?”, reclinò il capo Hironimo, sporgendosi verso di lei e puntandole contro le iridi nerissime, indagatrici.

La ragazza ricambiò tale sguardo insistente, a sua volta studiandolo. “Chi non sa di te non ti può ferire”, sentenziò dopo un pregno silenzio e aggrottando la fronte dinanzi alla risata amara del veneziano, il quale, battendo le mani, si complimentò senza particolar gusto eppure senza deriderla:

“Brava, bravissima! Vedo che capisci.”

Al che Lena osò vociare il dubbio che l’aveva rosa dalla prima volta in cui aveva incrociato quello strano giovanotto: “Chi vi ha ferito, paron?”

Hironimo sobbalzò sul posto, raddrizzando sulla difensiva la schiena, gli occhi spalancati e increduli, induriti in un atteggiamento però di sfida e aggressione. Il petto, ansante, si strinse in una morsa di pura agonia e i denti presero a stridere tra di loro. Di riflesso si scostò della polvere invisibile dalle ciglia, volse caparbio il capo altrove: così palese era stato nella sua affiliazione? Si sentì improvvisamente avvampare di vergogna, le ultime difese abbattute dalle bombardate di quello spinosissimo dolore, il più tremendo, amare per finire odiato. Ironico come non potesse lamentarsi con nessuno di ciò, quando proprio da tali lai i poeti traevano succosa materia per sfogare le loro frustrazioni amorose. Puoah, mondo all’incontrario che prima feriva e poi canzonava!

Della sua confusione Lena n’approfittò per posare la mano delicatamente sopra la sua. Conosceva la tristezza dell’animo e aveva un eccellente metodo per curarla. Sicché, nella profana versione della vedova Irene, ella a suo modo si prese cura delle ferite del suo Sebastiano. Lui non oppose resistenza, si lasciò fare, inerme e vulnerabile. Senza favellare lei se lo portò in camera, al lume di candela lo sanò, leggere le sue dita sulla pelle tesa, sudata, affannata, lì dove i muscoli si contraevano ansiosi sotto i suoi polpastrelli, risvegliando il sangue, i sospiri rochi e sinceri. Amò ella osservare come la vita riprendeva a scorrere sulle gote di lui, il bianco dei suoi denti e l'umido guizzare della sua lingua, unito al vibrante e improvviso gradito fuoco nelle iridi nerissime. In mezzo al gelo della morte che li avvolgeva e li abbruttiva, sfogarsi nell’atto primario del genere umano li riscaldò nel profondo, rendendoli anche per poco dimentichi di ogni cruccio e tormento, abbandonandosi senza rimorso a quegli illeciti attimi rubati. A nessuna carezza si negarono, a nessun bacio. L'odore pungente di lei - un misto di terra e il dolciastro dell'acqua fluviale, non dissimile a quello di qualche dea pagana dei campi e delle selve - si mescolò a quello più innaturale di lui - ferro, acciaio, cuoio, polvere da sparo - e lo ritrasformò in un uomo, estraendolo a viva forza da quel guscio di rancore e diffidenza, un'armatura senza volto dietro la celata.

Nella carne di Lena, Hironimo si rigenerò e scoprì non odiare più come prima la sua domina, un po' perché ora erano pari e patta, un po' perché finalmente non doveva più fingere, neppure con se stesso: la giovane contadina lo aveva visto nella sua nudità e l'aveva accettato senza pregiudizi o richieste.

Finalmente un legame semplice e sincero, anche se prosaico e probabilmente a breve termine. Poco importava che non s'amassero, poco importava che i loro cuori bruciassero ancora per chi li aveva abbandonati: sapevano chi erano e che cosa li aveva uniti. Ciò li bastava in quel mondo folle, che non garantiva l'indomani.

“Il mio dovuto, paron”, allungò Lena la mano a coppa verso Hironimo, destandolo dal lieve sonno cui s’era abbandonato. Le ombre vespertine avevano ceduto il passo alle tenebre notturne, rischiarate dai flebili raggi lunari insinuatisi dalle sfese delle imposte. Nuda a carponi sul letto e la pelle riflettente il caldo arancio della fiammella della bugia, al giovane patrizio la ragazza pareva doppiamente ferina, una vera volpe a caccia.

Hironimo sbadigliò e, postosi seduto di fronte a lei, appoggiò flemmatico il palmo della sua mano sopra quello aperto di Lena, stringendole le dita quasi volesse domarla. “Se tu divenissi la mia fissa?”, le propose di punto in bianco. In altre circostanze avrebbe dovuto strigliarsi via l’odore di quella donna dalla pelle e tagliarsi la lingua per quell’offerta, che profanava il voto di fedeltà alla sua amante; invece, la cosa adesso gli recava un malsano piacere, neanche avesse trovato il mezzo perfetto per vendicarsi di quell’infida, di quell’empia che l’aveva menato per il naso peggio d’un allocco.

“Io? Vostra fissa?”

“La tua compagnia mi aggrada.”

La contadina ci rifletté su per qualche istante, per poi annuire soddisfatta col capo. “Mi sta bene, accetto.”

“Starai con me e con nessun altro”, l’ammonì perentorio Hironimo, affatto desideroso di ritrovarsi nuovamente invischiato in un tiro a due, laddove lui era il terzo e inconsapevole incomodo.

“Ancora meglio”, convenne Lena: l’aveva ben osservato e sul suo corpo non aveva trovato alcun segno sospetto, tranne delle cicatrici frutto di risse e combattimenti. Dal canto suo, lei aveva avuto in letto soltanto il suo cristiano, ergo se si congiungevano esclusivamente tra loro due, potevano evitare più facilmente di contrarre il malfrancese. “Purché mi lasciate ritornare dal mio uomo, dovesse ripresentarsi a Padoa”, puntualizzò. Malgrado le alterne vicende, alla fine lei aveva un obbligo nei confronti del suo compagno e se lui l’avesse reclamata indietro Lena doveva obbedirgli e seguirlo.

“Compro i tuoi servigi, non la tua anima. Mi pare ovvio. Tu sei libera di fare quel che vuoi, tranne ingannarmi.”

La contadina si ritrovò d’accordo.  Quand’ecco che una subitanea curiosità le balzò in testa. “Mi porterete a Veniexia?”, gli chiese, in caso esistesse la possibilità che il suo uomo non tornasse mai più.

“Vuoi venire?” e la serietà del veneziano le provocò un gran riso.

“Come mi giustificherete? Ecco la mia morosa padovana? Vi rideranno in faccia! No, meglio di no. Di certo non sono una degna preda di guerra di cui vantarsi in giro. Alla prima occasione ritornerò dai miei parenti e poi si vedrà.”

“Cosa diranno …?”

“… che ho fatto la puttana per mantenermi? Niente, paron. Voi forse vi stupite e vi scandalizzate se una donna ricorre a tali espedienti, proprio voi che siete i primi a richiedere tale negozio per poi biasimare chi lo pratica. Come dice il proverbio: chi predica il digiuno ha sempre la pancia piena.  Noi, invece … a furia di star con le bestie forse un poco lo siamo divenuti anche noi. E d’altronde, mica ho intenzione di farlo per sempre, ché rischio di pigliarmi i franzosi? So lavorare, io. Già aiuto gli zappatori alle mura. Solo … pensavo di mettermi da parte qualche lira per ogni evenienza futura, senza contare che voi … insomma, siete ricco, giovane, bello e gentile …”

“… e concludendo, unisci l’utile al dilettevole”, riassunse Hironimo con un rapido svolazzo della mano.

“Siete arrabbiato con me?”

Il giovane scosse il capo, rassicurandola. “Una donna non fa niente per niente, l’ho ben imparato a mie spese. Qualcosa in cambio dall’uomo lo vuole sempre, che sia denaro, rango o il suo cazzo.”

Gli angoli della bocca della ragazza si piegarono all’insù, divertiti da tanta prosaica schiettezza. “Non mentivo quando affermavo che mi piacete, paron. Vi servirò obbedientissima, io.”

“Me ne consolo”, la cercò Hironimo e Lena non oppose resistenza quando lui la cinse per la vita e la posizionò sotto di sé, né si spaventò della subitanea forza impiegatavi eppure il suo tono di voce rimaneva sempre cortese, quasi titubante: “Vuoi?”, inquisì e la contadina si sarebbe anche offesa per la banalità di tal richiesta, dopo quel ch’avevano già concluso, s’ella non avesse letto negli occhi pur dilatati del patrizio del genuino timore d’un rifiuto. Sbuffò frustrata: come si poteva sputare sulla propria fortuna e scacciar via un amante disposto a tanta devozione e gentilezza? Bah!

Gentiluomo infatti Hironimo lo fu anche in letto e Lena ci trovò nel suo negozio anche il suo spasso, l’accordo gradito ad entrambi e funzionante alla perfezione.

Domina Gigliola infisse l’ago nel ricamo, levandosi in piedi e, poste due mani sui fianchi, arcuò la schiena dolorante, avendo dedicato infatti quasi l’intera giornata a tale attività, non possedendone altra con cui ingannare il tempo. Colta da un’improvvisa ansia, si guardò intorno, domandandosi come mai la sua fantesca tardasse a ritornare: che si fosse trattenuta dalle sue figlie Biancha, Yxabela e Lucrecia? O da quegli screanzati che da settimane oramai le occupavano il palazzo, bivaccando allegramente? Tra i patrizi, i loro servitori e i provigionati, pareva di stare in un’osteria invece di una casa onorata, costringendo lei e le sue ragazze a vivere da recluse nelle rispettive stanze, onde evitare quanto più possibile la compagnia loro e delle sgualdrine che si portavano talora dietro.

I primi giorni, facendo appello alla sua dignità di nobildonna, domina Gigliola era scesa ad affrontarli nella speranza di ragionarci assieme e trovare un accordo di convivenza, ricevendo al contrario null’altro se non false cortesie al limite dello scherno e costanti provocazioni, al punto che alla fine v’aveva rinunciato anche perché timorosa della sicurezza sua e delle figlie. Aveva udito certi turpi storie da chi alloggiava in casa i soldati, roba da farle rizzare i capelli, specie associandole alle sconcezze proferite dai suoi “inquilini” quando lei, scandalizzata, l’imponeva un minimo di decoro. Finora s’erano limitati a parole, ma quando sarebbero passati alle vie di fatto?

Cielo! Com’era giunta a quel punto? Quanti rovesciamenti in pochi anni, mesi, giorni! V’era una fine a quella follia? Cremona le aveva dato i natali, quando si trovava ancora sotto il Ducato di Milano; appartenente alla piccola nobiltà, a corte domina Gigliola aveva presenziato pochissime volte e sempre con grandi spese per la sua famiglia, la quale sperava di trovarle lì un buon partito. All’inizio non era stata contenta di sposarsi suo marito - un padovano! -  ma i soldi son soldi e lei non era più giovanissima. Ironia della sorte, Cremona stessa era passata in seguito sotto la Serenissima. Tuttavia, domina Gigliola aveva imparato ben presto che il patriziato veneziano e l’antica nobiltà di Terraferma appartenevano a due razze distinte, trovandosi quindi assai compatibile di mentalità col consorte, il quale sotto-sotto mal sopportava la soffocante intromissione veneziana in ogni loro questione amministrativa. Pertanto, la donna aveva gioito nel cuore all’arrivo di Leonardo Trissino a Padova e delle truppe imperiali, felice di veder cadere e deturpare l’odiatissimo leone alato, sentendosi infine vendicata per l’ignominiosa fine del Ducato di Milano. Finalmente la giustizia divina s’era abbattuta su coloro che avevano spalleggiato i Francesi nella conquista, era più che giusto che adesso Venezia perisse per mano loro, dell’Imperatore, del Papa e dei loro valorosi alleati.

Dio però evidentemente parteggiava per i Veneziani e similmente ai ladri della parabola dei Vangeli, loro non avevano saputo né il giorno né l’ora della contromossa e quelle porte che credevano aver chiuso ai lagunari per sempre, con sprezzo e prepotenza quest’ultimi le avevano forzate di nuovo, scatenando l’ira della loro vendetta. Non avrò pace finché non avrò ridotto quei superbi Veneziani agli umili pescatori quali erano alle origini!, aveva tuonato il Papa Giulio II, sbagliandosi di grosso: non erano pescatori, erano pirati perché se da una parte i Veneziani erano entrati col Griti a Porta Codalunga, dall’altra sbarcavano gli agguerriti Arsenalotti capitanati da sier Nicolò Pasqualigo, risaliti di notte lungo il Brenta dalla laguna. All’ordine del loro patron, l’Arsenale aveva vomitato questi suoi militari-operai, satanassi rossovestiti fedelissimi alla Signoria e sua creatura dilettissima, da lei sguinzagliati nei momenti più critici. Dopo aver terminato d’occupare i punti strategici della città, gli Arsenalotti s’erano abbandonati ad una sfrenata orgia di saccheggi, violenze e bagordi assieme agli stradioti, ai cavalleggeri di Polo Contarini, ai fanti di Latanzio Bonghi da Bergamo, di Taddeo della Volpe e di Zitolo da Perugia, facendo allegramente man bassa dei beni dei “traditori gebelini.” Uomini, donne e perfino i bambini s’erano riversati sulle strade per aiutarli in tale crudelissima impresa, equiparando in ferocia i Turchi e i Mori, trascinando a spregio per le strade i vessilli di Maximilian. Circolavano poi voci  sinistre sul massacro degli imperiali al Castello di Stra, tagliati a pezzi per aver opposto resistenza alla rabbiosa cupidigia della folla. Leonardo Trissino, catturato assieme ai suoi fedelissimi, era stato inviato a Venezia e lì incarcerato nelle sue più orride segrete.

Il palazzo di domina Gigliola era stato risparmiato, ma suo marito e i suoi figli strappateli via dagli Arsenalotti, lasciandola priva di protezione, specialmente ora, alla mercé dei loro patrizi, o meglio pirati travestiti da gentiluomini. Non si fidava di nessuno, men che meno dei suoi servitori i quali la cremonese con suo sommo orrore aveva scoperto esser stati proprio gli stessi a denunciarli al podestà e ai provveditori. Era rimasta da sola, in trappola in casa sua. Talvolta aveva progettato di uccidere nel sonno quei disgraziati ma poi? Quale guadagno ne avrebbe ricevuto? Sicuramente i loro conterranei l’avrebbero scoperta e condannata, forse addirittura torturata prima di …

L’unica sua speranza rimaneva che l’Imperatore e la Lega riconquistassero Padova, liberandola per sempre da quei dannati, specialmente il più giovane di tre fratelli Miani, quel brunettino tanto strafottente e dalla bocca più sozza d’un marinaio. Addirittura aveva invitato la sua ganza a vivere sotto il medesimo tetto, sicché domina Gigliola adesso pure una puttana era costretta a sfamare gratuitamente! Oh, ma se quel pomeriggio non l’aveva rimessa al suo posto, quella sfacciata che gironzolava tutta trionfa nel suo palazzo, rifiutando d’eseguire un qualsivoglia suo ordine! Quando le aveva intimato per l’ennesima volta di raggiungere le altre serve a pulire i pavimenti, quella disgraziata, incrociando le braccia, le aveva risposto sogghignando in quel pavan alla cremonese tuttora ostico: Sbraitate quanto volete, io obbedisco solamente al mio paron! Al che la nobildonna aveva visto rosso e, tra sberle e spintoni, l’aveva buttata fuori in strada, là dove appartenevano le troie come lei. A Dio piacendo, presto sarebbe toccato anche a quello sciagurato del suo padrone.

E neanche l’avesse evocato, ecco che la porta della sua camera, l’ultima sua sancta sanctorum, si spalancava fragorosamente come s’egli avesse voluto spaccarla contro il muro.

Domina Gigliola balzò all’indietro, presa di contropiede da quel violento arrivo e inconsciamente la sua mano strinse il crocefisso d’oro al petto. Rapida corse dietro la colonnina del letto, sperando di porre quanto più spazio tra lei e il veneziano, ancora con l’armatura indosso per via della ronda appena termina, i capelli in battaglia e i denti ben in vista, manco si fosse trasformato nel medesimo leone marciano. A giudicare dallo sguardo livido e dal congiungimento delle sopracciglia, di sicuro veniva per il suo sangue.

La nobildonna, inutile negarlo, prese a tremare dalla paura: l’avesse incontrato nel salone principale o altrove a palazzo, forse sarebbe riuscita a sostenere quello sguardo assassino ma vederselo lì, nel suo rifugio, equivaleva a mille violazioni e si sentiva estremamente vulnerabile.

“Co-così quella … quella vigliacca è venuta a lamentarsi da voi?”, esordì domina Gigliola, raccogliendo il suo coraggio, i pugni serrati e alzando orgogliosa il mento.

“Come giusto che fosse: insolentendo lei, avete insolentito me. Eccomi qui, domina: quali rimostranze vi hanno portata a malmenarla alla stregua d’una ladra?”, le sorrise carnivoro Hironimo, cantilenando affabile la voce come il gatto ante di strappare le ali alla mosca.

“S’è rifiutata d’ubbidirmi!”

“Giustamente, serve me e non voi!”

“E’ una pigra, non fa niente in casa!”

“Lavora alle mura, fa molto per la Signoria!”

“E’ una puttana!”, trillò infine snervata domina Gigliola, arrossendo per essersi espressa a voce alta in indecenti turpiloqui. “Non tollero di condividere il tetto e il pane con tal immondizia! Non m’importa che sia la prostituta di un patrizio o di un soldato, sempre la sua presenza mi disonora la casa e oltraggia la comune decenza!”

“Dunque l’avete picchiata perché è una puttana?”, riassunse conciso Hironimo il succo di quell’appassionata filippica. E girandosi verso Lena, che se ne stava sull’uscio della porta, le tradusse per la migliore sua comprensione: “No sastu? Horra te ciaman putana!” E rivolgendosi alla nobildonna, sibilò feroce: “Sapete perché è diventata puttana?”, fu la sua domanda retorica, mentre avanzava lentamente verso madona Gigliola, la quale indietreggiò fin quasi ad appiattirsi contro il muro. “Perché quella puttana di vostro marito assieme a quelle puttane dei suoi degni compari hanno abbassato le braghe e aperto le porte di Padova e del padovano intero a quell’altra puttana di Leonardo Trissino, permettendo a quelle puttane ladre dei tedeschi di sgavazzare a danno soprattutto dei contadini inermi, che voi puttane avete venduto alla stregua di bestie pur di riottenere indietro quei miseri privilegi ch’avevate ai tempi dei Carraresi!”, ringhiò, sottolineando sprezzante il sostantivo incriminato ogniqualvolta lo pronunciava. Dopodiché, indicando Lena, proseguì sdegnato: “Tutto a questa poveraccia l’è stato rubato: la casa, la roba sua, il marito …”

“… el porzeo!”, aggiunse solenne la contadina, ché il grasso roseo animale possedeva per lei il medesimo valore di uno scrigno di gioielli per una gentildonna.

“ … il porcello. Cos’avrebbe dovuto fare, secondo voi?”

“Meglio morire, piuttosto di scendere così in basso!”, replicò fredda domina Gigliola, intransigente.  “Ma cosa può capire una bestia come lei della parola dignità?”

“Puoah, morire! Nessuno vuole morire a questo mondo, neanche dignitosamente! L’uomo preferisce soffrire piuttosto di crepare”, sghignazzò sarcastico Hironimo, quand’ecco che una luce malevola gli guizzò negli occhi nerissimi. “Poiché la sua presenza vi disonora e vi credete oltraggiata da noialtri, perché non morite voi? Uccidersi pur di non cedere all’avversario, non è una fine degna di un Catone? Oppure … le vostre sono soltanto pompose parole da manuale, imparate a memoria e ripetute diligentemente giusto per sentirvi superiori agli altri? È facile vantarsi coi villani, vi sfido dunque da mia pari.”

La nobildonna rimase muta in ostinato silenzio, le mani strette in una presa convulsa e deglutendo ansiosa, non attendendosi quel capovolgimento della situazione. Aveva contemplato d’uccidere per l’onor suo, ma … ma suicidarsi? Compromettere il destino eterno della sua anima per una vanità terrena?

“Suvvia, dimostratemi quanto valete e uccidetevi, qui, davanti a me, se davvero ne avete il fegato!”, la provocò inclemente Hironimo. “E finirete di vivere nella vergogna!”

L’altra rimase immobile, incominciando a tremare da capo a piedi, umiliata dal suo intimo tentennamento e dall’occhiate avide e curiose della contadina, che seguiva l’intero teatrino attentissima, mangiucchiandosi l’unghia dell’indice.

“E se proprio non vi regge il cuore e non potete dimostrarmi la vostra grandezza d’animo, inginocchiatevi allora davanti a colei ch’avete picchiato ed imploratele perdono!”, proseguì imperterrito il giovane patrizio, indicando severo ora il pavimento ora  i piedi di Lena.

La padrona di casa avvampò dall’indignazione, imporporandosi completamente e riacquistando un po’ di coraggio. “Io umiliarmi così davanti ad una meretrice?!”, esplose, levando il braccio onde schiaffeggiare quell’impudente d’un veneziano, sennonché questi la bloccò senza sforzo alcuno, commentando ironico:

“E’  quindi un vostro vizio quello di percuotere chi non dovete!” e costringendola a guardare la ragazza, aggiunse: “Questa “meretrice” ha un nome, sapete, si chiama Magdalena e così vi dovete rivolgere d’ora in avanti a lei”, la corresse gelido Hironimo, torcendo il braccio della donna dietro la schiena e strappandole un guaito di sorpresa e dolore. “Avanti, chiedetele scusa!”, l’incalzò, trascinandola al centro della stanza verso la contadina, la quale stava esibendo una bizzarra espressione trasognata, incapace di credere a quanto stesse accadendo e timorosa di aver capito male per la pochezza del suo italiano: sul serio quella gran dama si sarebbe scusata con lei?

“No, no, no! Mi rifiuto! Non mi pongo al suo stesso livello! Se l’è meritato, è una sgualdrina e così vanno trattate tali donnacce!”, protestò strillando domina Gigliola, tentando di sciogliersi da quella ferrea presa e digrignando i denti alla lieve pressione sul polso applicatale dal giovane patrizio.

“Vale più una sgualdrina fedele alla Signoria che una nobildonna traditrice e sto proprio parlando di voi e della vostra immonda masnada, razza di lerci lenoni figli di cento padri! Proprio voi predicate le grandi virtù, che con faccia di bronzo avete prostituito la vostra madrepatria al miglior offerente! Meritereste mille forche, mille tenaglie ad ogni traghetto, di finire divorati dai cani randagi e di marcire in bocca al diavolo per il vostro voltafaccia!”, ruggì feroce Hironimo, spingendola giù a carponi e, ponendole un ginocchio sulla schiena, la costrinse a faccia a terra. “Poche storie, schifosa di un’ipocrita ghibellina: imploratele perdono! Ora!”, insistette violento e inflessibile il veneziano, strisciando pericolosamente le parole e stringendo con maggior forza la sua presa sul polso.

“No! Non m’abbasso a tali vergognosi ricatti!”

“Ditele che vi dispiace!”

“No!”

“Rassicuratela che non l’insulterete mai più, né che v’azzarderete in futuro a metterle le mani addosso!”

“No!”

“Inoltre, per farvi perdonare, ditele che le regalate uno dei vostri abiti migliori e qualche bel gioiello. Ne possedete a bizzeffe, no? Potete ben separarvi da uno: vanitas vanitatum et omnia vanitas, sorella!”, la derise crudele Hironimo, scuotendola vigorosamente tanto che la lenza le cadde dalla fronte e abbondanti ciocche di capelli le uscirono dalla retina, spettinandola.

“Fatelo e vi denuncerò per furto!”, singhiozzò domina Gigliola, spasimata dall’ira e dal terrore.

Hironimo gettò il capo all’indietro, ridendosela alla grossa. “E chi vi crederà?”, la tormentò, sussurrandole quasi all’orecchio. “La parola di una traditrice, d’origini straniere per giunta, contro la mia? Vi rideranno in faccia, vi daranno della pazza, della calunniatrice, della bugiarda!”

“E come giustificherete abiti così costosi?”, ritorse quella, sfinita. “È palese che siano frutto di una ruberia! Vi denuncerò e godrò alla vista della vostra mano appesa al collo!”, gracchiò isterica, dimenandosi esagitata.

“Leggete troppe tragedie senechiane, domina. Furto? E chi parla di un furto? La vostra è una donazione. Racconterete come la storia di questa povera ragazza vi abbia commossa al punto che vi siete sentita in dovere di regalarle qualcosa di vostro, anche ad espiazione delle vostre colpe.”

A quella proposta a suo parere indecente la nobildonna perse in parte il senno, urlando peggio d’un monaco infervorato nella sua predica fustigatrice: “Dio vede tutto! Dio sa tutto!”

“E gli uomini sanno ciò che gli vien detto e vedono quel che vogliono vedere!”, il cinismo nella replica di Hironimo ammutolì di colpo domina Gigliola, equivalendo quasi ad una frustata. “Se voi dite che è un dono, allora sarà un dono; la vostra parola determinerà la loro verità”, le spiegò egli assai spazientito e desideroso di terminare lì la questione, non gradendogli la presenza di quella spocchiosa che, man mano che passava il tempo, gli ricordava sempre di più la sua amante e l’immagine delle due talora si confondevano inquietantemente, tanto che Hironimo si chiedeva come avesse potuto perdere la testa per tale frivola, vigliacca e superficiale oca giuliva.

“Giuro che vi rovino! Troverò il modo per rovinarvi!”

Il patrizio roteò gli occhi, imitandone puerilmente la vocetta acuta. “Minacciate, adesso? Allora permettetemi di contraccambiare: fate voi attenzione, ché se v’azzardate a darci fastidio, una mia parola sulla vostra dubbia lealtà e vostro marito e i vostri figli li rivedrete cadaveri in bara! Se non li buttano in canale prima, le caviglie legate a dei pesi … Insultate o alzate ancora le mani sulle nostre donne e m’assicurerò di farvi condividere la stessa sorte di chi voi tanto ora disprezzate: state certa che i nostri soldati giù in sala semplicemente adoreranno la possibilità di rompere il vostro nobile e virtuoso culo nonché quello delle vostre figlie! Già le vedo piegate a metà sulla tavola a gemere come le cagne in calore che in realtà sono!”, la spintonò infine per terra, costringendo la matrona a piantare i palmi onde non spaccarsi il naso nell’impatto contro il pavimento.

“Non loro, maledetto, non loro!”, batté ella i pugni, impotente, angosciata dall’immagine mentale delle sue indifese figlie tra le cupide braccia di quella lasciva marmaglia.

Dunque ingoiate il vostro orgoglio e fate come ordinatovi!”, fu la sentenza definitiva d’Hironimo, mentre faceva cenno a Lena d’entrare nella stanza e di porsi esattamente davanti la faccia della prona nobildonna. “Sto aspettando, madonna …”, l’avvertì minaccioso, notando la sua palese titubanza. “Volete che mandi qualcuno a far visita alle vostre figlie?”, parlò a ruota libera, senza freni inibitori e si sorprese della stupidità di quella cremonese, che sul serio lo credeva capace di tale nefandezza ai danni di quelle tre ragazze. Dell’onore della madre poco se ne crucciava, ma le fanciulle non meritavano di pagare per gli errori dei loro genitori voltagabbana.“Dopo che saranno divenute delle puttane, non vi darà più fastidio condividere tetto e tavola con quelle di vera o presunta professione, anche perché non noterete più la differenza tra loro e le vostre care Biancha, Lucrecia e Yxabela. Sapeste come ci guardano vogliose la braghetta, quelle tre false verginelle, non vedono l’ora di prenderselo tutto in bocca …”

Un roco singulto si librò nell’aria e domina Gigliola, sconfitta, mormorò flebile a denti stretti: “Mi dispiace” e pianse amaramente di vergogna per quella sua debolezza.

“L’interessata non ha sentito.”

“Mi dispiace!”

“In pavan veneziano, per cortesia.”

“Me despiase!”

Magdalena, cara amica mia, prendi il vestito che più ti piace e anche la mia collana di perle, sono un mio regalo!”

“Ladro! Furfante!”

“Domina …”

“Magdalena … cara amica mia … va’ a … a torte el … el … el vestìo che pì te piase et … anca ea colàna de perle, zeli on … on mio presente!”

Magdalena, stasera cenerai alla mia tavola, da sorelle, con le mie figlie.”

“Magdalena … stasera ti te zenarà a la mia tola, da … da sorée …  cum le mie fie.”

“Ora un bacio sulla guancia e pace fatta.”

Il viso scarlatto e rigato di lacrime, la nobildonna si ripose barcollante in piedi, appoggiando le mani sulle spalle della divertita contadina, la quale le porse beffarda la guancia su cui domina Gigliola posò un recalcitrante bacio manco le avessero domandato di sbaciucchiare un rospo. Dopodiché, resistendo all’istinto di nettarsi le labbra tramite il dorso della mano, la donna si recò in stato pressoché sonnambolico verso uno dei suoi cassoni, estraendo un prezioso abito di broccato d’argento e dallo scrigno una collana con due giri di grosse perle.

“Par ti”, sussurrò atona la padrona di casa, cedendo affranta alla villanella quei due suoi averi: decisamente un condannato a morte avrebbe dimostrato più allegria di lei.

Al che Lena scoppiò in una risata fragorosa e sguaiata, strabuzzando gli occhi al punto che si vedeva il bianco dei bulbi oculari; a mo’ di ringraziamento l’intera sua lingua mostrò alla gran signora che sulla pelle sua, di sua madre, di sua nonna fino all’alba dei tempi aveva fruttato quel goloso lusso di cui tanto si pavoneggiava e che adesso la contadina ghermiva tra le sue forti dita. Poiché l’invidia e l’avidità risiedevano sia nel cuore del ricco che del povero, Lena non provava alcuna pietà per le disgrazie della nobildonna, semmai gongolava nell’apprendere come anche la malasorte ogni tanto si sfogasse sui cosiddetti intoccabili.

Quella sera Lucha, Marco e i loro cugini Piero, Batista e Jacomo si stupirono di veder scendere per la cena domina Gigliola e le sue figlie, solitamente più recluse delle monache di clausura, ma ancor di più di vedere l’altezzosa dama deambulare a braccetto con la contadina, vestita lussuosamente da sua pari e trattata con altrettanto raffinato garbo in una grottesca parodia d’intima amicizia, il tutto sotto l’occhio vigile di Hironimo, il quale non si perdeva il benché minimo movimento dell’aristocratica. Davanti a tal giocondo quadretto, nessuno dei convintati lì presenti, tranne Lucha che dal disappunto strinse le labbra manco volesse ingoiarle, riuscì a trattenere il proprio spasso e con crudele gusto stettero al gioco, rivolgendosi ossequiosi a Lena e riempiendola di ogni galante carineria in un carnevalesco gioco delle parti. Invitarono a tavola perfino le loro compagne di guerra e le fantesche e a breve la sala si riempì d’ontissimi schiamazzi e canzonette ancor più sporche.

Tanto si divertivano a bere, mangiare e sbaciucchiarsi indecentemente con le loro ganze, da non curarsi minimamente dell’espressioni imbarazzate e ansiose delle damigelle Biancha, Yxabela e Lucrecia dinanzi a tal spettacolo da quartiere militare né di come la loro madre domina Gigliola, tra un boccone amaro e l’altro, ripetesse oramai ossessivamente tra sé e sé:

“Ladro, disgraziato, ladro, disgraziato, ladro …”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Alla faccia della cavalleria, direte? Beh, l’Anonimo nei suoi scritti ha mostrato con disarmante schiettezza il lato meno “onorevole” dei condottieri e capitani sia regolari sia di ventura e di chiunque si desse in generale alla vita militare, citando chiaramente le loro angherie, ruberie e atteggiamenti assai dissoluti.

E con questo si conclude l’ultima digressione (ne mancano altre tre ma saranno più in là) e nel prossimo capitolo ritorniamo nel “presente” con le vicissitudini del Nostro.

Capisco che questi salti nel passato possano risultare noiosi se non addirittura fuori contesto, invece vi anticipiamo che avranno un ruolo importante in futuro, altrimenti alcuni atteggiamenti del Nostro non avrebbero senso a voi lettori senza conoscere il suo passato.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

[1] di tutte le città dello Stato di Terra, Brescia era la più ricca subito seguita da Treviso.

[2] a titolo di ripasso, il nonno materno del Nostro, Carlo Morosini “da Lisbona”, aveva avuto i seguenti figli qui in ordine di nascita. Da Querina Querini: Nicolò (1430); Piero/Pietro (1431); Ferigo / Federico (1433); Hironimo / Girolamo (1437); Lunardo / Leonardo (1441); Batista / Battista (1442). Da Elisabetta Contarini: Leonora / Eleonora (1452).

[3] sebbene sia sempre stato chiamato “Battista” nelle cronache del Sanudo e altrove, nell’atto di matrimonio lo zio del Nostro è stato registrato come Zuam Batista /Giovan Battista o Giambattista. Supponiamo quindi esser quello il suo nome di battesimo per intero.

[4] Patiens vuol dire “colui che tollera”; “colui che soffre”, ma nel gergo giuridico di Venezia è anche “colui che si sottomette”, cioè un omosessuale passivo. L’intero dialogo è dunque un gioco di parole, il riferimento alla croce si rifà all’iconografia bizantina e duecentesca del “Christus Patiens”, cioè del Cristo sofferente sulla Croce.

[5] Angelo Tiepolo, per via di una soffiata incentivata poi dalla promessa di una ricompensa, verrà arrestato mentre si trovava nella Quarantia con l’accusa di sodomia passiva nell’agosto del 1516. Torturato per giorni lui e la sua serva, non confesserà mai e pertanto ci si limitò ad esiliarlo cinque anni da Venezia. Sia Marcantonio Michiel che Marin Sanudo descrivono la sua condanna un’ingiustizia, descrivendolo come una persona “gentile” e benvoluta da tutti, malgrado il suo “difetto”, mostrando quindi che si sapeva e ciononostante lo si tollerava per il comportamento evidentemente morale dell’uomo.

[6] Narra il Sanudo in data 28 novembre 1505: Item accidit, che morì in do zorni sier Hironimo Morexini, da Lisbona, era governador de l’intrada, ab intestato. El qual era in lite, et in grandissimo odio, con suo fratello, sier Batista; ma, ita volente Deo, successe il tutto. E portato il corpo in chiesia di San Canzian, fo trovato in questo zorno una zanza, che l’era vivo, perchè pareva fusse caldo; fo portà di chiesia in caxa dil piovan, fregato etc., et pur morto era.

La nostra teoria è che probabilmente Girolamo Morosini fosse stato creduto morto per un caso prolungato di coma.  Chissà perché questo episodio mi ha subito ricordato “La Sepoltura Prematura” di Edgar Allan Poe …

[7a] 

È vero che Agnese si risposò relativamente presto con Federico Renier (1462-1542): il loro primo figlio, Giovanni, nacque infatti il 16.09.1507 e lei era rimasta vedova a fine novembre del 1505. Calcolando un anno di lutto, praticamente era sul serio rimasta incinta poco dopo le nozze. Tuttavia, che lei e Federico fossero stati amanti prima della morte di Girolamo Morosini e una diceria da me creata per motivi di trama – forse i parenti Morosini l’avranno anche veramente pensata, chissà. In ogni modo, prendetela per la ciancia che è, non per la verità fino a prova contraria. Io rimango tuttavia dell’opinione (che ho espresso tramite Leonora) che dopo lo scandalo della sorella Elisabetta Erizzo e soprattutto a causa della faida tra i fratelli Battista e Girolamo Morosini, il clima a Ca’ Morosini doveva essere stato talmente pesante da spronarla a  trovarsi in tutta fretta un secondo marito, pur d’andarsene via da quell’ambiente divenuto decisamente tossico.

[7b] Narra il Sanudo in data 8 luglio 1507: In questo zorno fo expedito, in do quarantie, la retention di la fia fo di sier Antonio Erizo, procurator, incolpada aver robà danari a la morte di sier Hironimo Morexini da Lisbona, so cugnado; la qual è stà più di uno anno retenuta in caxa dil capitanio di le prexon. Parlò sier Hironimo Querini, olim avogador; li rispose domino  Rigo Antonio; poi sier Antonio Zustignan, el dotor, olim avogador; e li rispose domino Bortolo Dafin, dotor, avochato. E posto da poi disnar, per li avogadori la parte di procieder: 40 di no, et 11 di sì. E fo asolta.

Delle quattro figlie di Antonio Erizzo – Elena, Marina, Elisabetta e Agnese – abbiamo identificato in Elisabetta questa “fia fo di sier Antonio Erizo” cognata di Girolamo Morosini. Questo perché Elisabetta era nubile (e tale morirà) e di conseguenza appare più logica la scelta di Sanudo di relazionarla al padre, l’unico uomo di riferimento sociale. Infatti, se fosse stata sua sorella Marina, sarebbe stato più immediato introdurla come la moglie di Giacomo da Canal; similmente anche l’altra sorella, Elena, che pur vedova comunque era stata la moglie di Francesco Diedo, il quale si era distinto come ambasciatore, militare e filosofo dottorato. Questa menzione esclusivamente del padre potrebbe equivalere ad un pudore del Sanudo, forse per non infangare la reputazione dei mariti? Poco probabile, visto che quando c’era da cantarle, Sanudo le cantava, basti pensare a come riportava tranquillamente la canzonetta sconcia e minacciosa verso Antonio Grimani e famiglia nel 1499 (e costui diverrà Doge nel 1521!). Inoltre, anche Antonio Erizzo era stata una personalità di tutto rispetto a Venezia, perché associarlo allo scandalo della figlia? No, molto probabilmente questa Erizzo non aveva altri legami maschili se non col padre e per questo abbiamo pensato ad Elisabetta. Tenendo poi a mente il suo precario status di donna nubile, indirettamente ci ha fornito il movente per il presunto furto, ossia d’ottenere una dote per maritarsi.

[8] Voltà el canton, passà la passion! = quando il corteo funebre ha girato l’angolo, il dolore (del coniuge superstite) se n’è già andato (detto veneziano).

[9] adesso nota come “Villa Contarini Camerini””, di nuovo si tratta ricostruzione intuitiva grazie ai pochi disegni rimasti. Sulla pianta del castello nel 1540-46 Paolo Contarini fratello di Marco commissionò al geniale architetto Andrea Palladio di costruire un nuovo maestoso edificio, il corpo centrale della villa. E’ riportato che il figlio di Ludovico il Moro, Francesco, vi soggiornò gradito ospite dei Contarini, quando lo Sforza stava praticamente rincorrendo l’Imperatore Carlo V fin quasi a Bologna per riottenere il Ducato di Milano.

Nella seconda metà del Seicento, il discendente di Paolo, Marco Contarini procuratore di San Marco, farà ampliare la villa e abbellendo il parco, donandole l’attuale aspetto, talmente sfarzoso che i contemporanei la definirono una reggia. 

[10] Francesco Novello da Carrara venne sconfitto nel 1405 dai Veneziani e perdette la signoria di Padova, annessa allo Stato di Terraferma. Condotto assieme ai figli Francesco III e Giacomo a Venezia, morirono tutti e tre in prigione strangolati nel 1406. Nel 1435 Marsilio da Carrara, l’unico sopravvissuto dei maschi di Francesco Novello e  Taddea d’Este, tentò di riprendere il controllo di Padova col supporto del duca di Milano Filippo Maria Visconti ma finì catturato e decapitato in Piazza San Marco il 24 marzo 1435, ponendo così fine ad ogni pretesa della famiglia signorile sulla città.

I superstiti, assieme agli Scaligeri di Verona, si rifugeranno in Germania e proveranno, tra il 1487 e il 1490 a preparare un'invasione col supporto del Duca di Sassonia e il Duca di Baviera, concludendosi però la cosa con un nulla di fatto.

Per quanto riguarda Jacopo da Carrara padre di Maria, egli dapprincipio aveva militato fedelmente per il padre Francesco I, distinguendosi per il valore in battaglia e per aver riconquistato, tramite uno stratagemma, Padova nel 1390 per il fratellastro Francesco Novello, che gli diede metà delle terre di Santa Maria di Sala. Tuttavia, i due fratelli entrarono ben presto in conflitto per le loro vedute politiche, spostando Jacopo le sue simpatie verso Venezia. Denunciato dai suoi stessi figli, Jacopo venne arrestato, torturato ed imprigionato e ufficialmente si suicidò, sebbene già all’epoca si vociferasse di un’esecuzione en cachette, addirittura per mano dello stesso Francesco Novello (che poi anch’egli venne giustiziato in segreto, oh ironia!)

Conquistata Padova, Venezia confiscò puntualmente ogni proprietà ai Carraresi, compresi tra questi i figli di Jacopo – Nicolò, Paolo, Bonifacio e Antonio – cedendoli alla sorella Maria e alla madre Lucia Contarini.  in segno di riconoscenza verso Jacopo.



  
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