Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 04.10.2021
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Capitolo
Ventesimo
Confiteor
(Non
rubare)
Finché
Hironimo era rimasto a casa, sotto l’accorta egida materna,
o a zonzo per i campi della podesteria di Castelfranco e Treviso, egli
non
s’era curato un granché del suo aspetto fisico,
tranne per tenersi pulito e in
ordine, né la vanità l’aveva mai
stuzzicato né il bisogno di danari tarmato.
S’accontentava senza lagna alcuna delle sue scialbe braghe
monocolore, del
farsetto forse leggermente più grande di lui, del cappello
di feltro sulla
zazzera lunga e indomita e dei suoi comodi stivaletti perennemente
infanganti
per via delle sue errabonde sortite tra le torbe e canneti, affatto
turbato da
tanta spartanità. Curiosamente, la sobrietà del
suo vestire unita alla sua
giovinezza gli riserbavano gradite lodi da parte dei suoi maggiori e
delle
gentildonne che lo conoscevano, paragonandolo quest’ultime al
selvatico
Ippolito le cui irte chiome e l’aspetto brunito e agile del
cacciatore avevano
irretito il cupido cuore della sua matrigna Fedra. Credevano, infatti,
la sua
esser una bellezza un poco trascurata, citando il buon Ovidio, e
così volutamente.
Ignoravano, invece, che non solo Hironimo non aveva per niente
letto L’Arte
di Amare, dunque traendone i giusti benefici, ma che la sua
negligenza nel
vestire derivava più dall’economia domestica che
da un atteggiamento atto a
colpire positivamente l’altrui opinione.
La morte
di Padre aveva comportato una notevole e serrata
attenzione ad ogni spesa (malgrado gli aiuti economici della Signoria)
fintanto
che Lucha non avesse incominciato a guadagnare qualcosa dalle cariche
pubbliche
per rimpolpare le entrate del commercio laniero. Ogni sfizio venne
bandito e
non si comprò nulla se non lo stretto necessario, madona
Leonora ostinata nella
sua decisione di vivere più modestamente piuttosto di
licenziare anche uno solo
dei suoi servitori e operai. Di conseguenza, niente veniva sprecato a
Ca’ Miani
e tutto riciclato, incominciando dai vestiti di sier Anzolo che,
trascorso
qualche mese, grazie alle mani d’oro del gineceo vennero
immediatamente
distribuiti, smembrati e rigirati ad uso e consumo dei figli, tranne
per la sua
toga nera che madona Leonora custodiva gelosamente nel cassone in
camera sua.
Medesima sorte subirono i suoi gioielli, cappelli, mantelli, calze,
scarpe e
guanti (Hironimo pure imparò a ricucirli, quando le dita
incominciavano a far
capolino dal cuoio). D’altronde, anche a tali situazioni
aveva la Signoria
pensato, imponendo l’uso obbligatorio in pubblico della toga
nera ai patrizi a
partire dai vent’anni, un abito lungo allacciato sotto la
gola e con le maniche
a gomito, atto soprattutto a reprimere la fierezza e la
vanità giovanile,
inducendo invece gravezza e modestia, l’unico accessorio
concesso era una
cintura di velluto decorata con borchie d’argento.
D’inverno questa toga veniva
foderata o d’ormesino o di dossi e decisamente era
impossibile notare i vestiti
rigirati o di modesta qualità sotto una tal severa livrea.
Bisognò
attendere qualche anno per vedere un abito nuovo a Ca’
Miani, quando Carlo divenne avvocato del proprio mentre Lucha,
l’anno successivo,
si trasferiva a Marostica, suo podestà e capitano e poi
camerlengo a Treviso.
Ma piccole cose se comparate alla rivoluzione del
guardaroba quando
suo fratello Marco succedette Lucha nella medesima carica a Marostica,
neanche
fosse stato inviato a Brescia [1]: il ventiduenne podestà
era entrato nella
città dell’agro vicentino col lieto furore e
ottimismo della gioventù,
raggiante nel suo pesante e coprente mantello di broccato
d’oro da cui faceva
capolino l’ampia manica della sua vesta di cremisino. Sulla
spalla scendeva
morbida una stola di seta dorata e al petto una robusta catena
d’oro; sui
capelli da poco tagliati più corti aveva portato
un’aderente bereta di velluto
nero da cui pendeva una spilla di rubino dal bordo inferiore
incastonato da un
grappolo di perle. Seguendolo a piedi nella processione verso il Duomo,
Hironimo, con un abito da cerimonia invece gentilmente imprestatogli da
Lucha,
aveva seguito orgoglioso e senza alcun’invidia suo fratello,
così come aveva
fatto quando Lucha era divenuto camerlengo a Treviso e Carlo
podestà a Lonato
sul Garda. Gli importava poco di vestire gli abiti vecchi dei fratelli
che
magari erano stati pure di Padre o del biscugino Zuan Francesco.
Finché erano
in buono stato e fungevano al loro scopo, non avendo poi egli alcuna
vita
pubblica, non comprendeva perché sprecar soldi inutilmente.
Neanche
le stilettate dei parenti lo scalfivano, rispondendoli a
tono e assai divertito.
“Il
taglio perfetto di queste stoffe, l’accostamento ardito dei
colori … Dì, Momolo, quanti vestiti vecchi dei
tuoi fratelli ti sono serviti
per confezionare questo zipone?”
“Non
comprendo, sior Cujìn. Quest’abito è
nuovo.”
“Suvvia,
caro ti, so che dalla morte del sior tuo Pare non ne hai
più avuti.”
“E’
questione di punti di vista, Cujìn. Se tu intendi
“nuovo” un abito composto da stoffa appena comprata
in merceria, allora sì, non
posseggo un abito nuovo. Tuttavia, se per “nuovo”
ti riferisci ad un modello
che non hai mai visto prima d’oggi, ebbene il mio abito
è nuovo perché ieri non
vestivo uno zipone con codesta fantasia di colori, né forma.
Ho forse torto?”
Quando
incominciò ad importargli del suo aspetto fisico, della
moda? Dell’impellente necessità di danari? Quando
al posto di partecipare, come
i suoi fratelli, al ballottaggio per divenire balestriere di galea,
aveva
insistito con suo zio Batista acciocché trovasse un modo per
farlo ammettere
alla Compagnia della Calza? Quando incontrò per la prima
volta Luzia Trivixan,
la divina cantante? Quando presenziò al matrimonio di suo
fratello Marco con la
ricca Helena Spandolin o di sua cugina germana Maria con Zuane Querini
conte di
Stampalia e Amorgo?
Quando
divenne l’amante di lei? Il che
appariva
strano, poiché in pubblico la sua domina sfoggiava abiti
rigorosamente neri e
non portava gioielli, eppure si sentiva a suo confronto un perenne
straccione e
in generale un poveraccio, malessere acuito dalla consapevolezza di non
potersi
ancora permettere alcunché di suo, non avendo infatti un
ruolo definito nella
società. Il che lo imbestialiva, desiderando offrirle il
mondo e ritrovandosi
invece incapace di provvedere a quisquiglie quali vestiti nuovi,
figurarsi alla
moda. Per codesto motivo Hironimo rifiutava categoricamente un
qualsivoglia
regalo da parte della sua domina, interpretando il suo orgoglio quei
doni a un
moto di pietà nei suoi confronti, al posto del naturale e
sincero piacere di
viziare una persona amata.
No.
A
traviarlo definitivamente fu quando accettò un regalo
costoso.
Accadde
un giorno, mentre deambulava tra le calli di Rialto per delle
commissioni con suo zio materno sier Hironimo Morexini, che un malefico
piccione gli schittò in testa, rovinandogli la bereta di
feltro e l’umore, a
giudicare dalle rabbiose profanità ringhiate dal giovane
Miani, dopo aver
constatato i danni levandosi il cappello. Suo zio aveva discretamente
ridacchiato dinanzi all’incidente (come tutti gli insensibili
quando sono
spettatori e non vittime), tuttavia s’era velocemente
ricomposto, specie alla
vista di suo nipote sollevarsi il mantello di lana e coprirsi
così il capo,
neanche indossasse uno zendale, essendo la bora invernale inclemente a
Venezia.
“Via,
via, nezzo. È segno ch’è arrivato il
tempo di comprartene
una nuova, non vedi com’è lisa quella
bereta?”
“Mica
tanto, me l’ha passata Carlino!”
“An
bon, dopo che Marchetto l’ha usata largamente! Niente
putelezi, con quel mantello in testa mi sembri una sioreta dal becher!
Seguimi,
te ne compro io una nuova, non sia mai si vociferi in giro che io
m’associo ad
un accattone!”
Malgrado
la ruvidezza della risposta, invero sier Hironimo
Morexini l’aveva accompagnato in via Merceria dal suo
beretaro preferito e, a
fine visita, suo nipote si rigirava estasiato e commosso tra le mani la
sua
nuova bereta di velluto nero con applicazioni d’azzurro
chiaro. Il beretaro, inoltre,
s’era preso la libertà di spigargli come
indossarla, ossia un po’ a sghimbescio
acciocché la folta e ondulata chioma di ricci
d’Hironimo venisse risaltata
dall’accessorio.
“Grazie,
mille e mille grazie, sior Barba! E’ davvero bellissima!
Non dovevate! Anche una più semplice mi andava bene! Come
sto? È caldissima, mi
piace tantissimo, la terrò per sempre da conto!”
“Me
ne rallegro. Finalmente possiedi un capo alla moda e devo
ammettere che ti calza a pennello, manco te l’avessero cucita
in testa. Quasi-quasi
ti si scambierebbe per un duchetto.”
“In
effetti … Sennò non mi spiego perché
la gente continua a
salutarmi sì garbatamente.”
“Ha-ha,
nezzo mio! Beato il tuo candore. Mica salutano te,
salutano la tua bereta nuova!”
All’inizio
Hironimo non aveva afferrato il significato di quella
battuta, per poi realizzarlo alla prima visita ai parenti, il cui
sguardo si
focalizzò immediatamente sul suo cappello nuovo, suscitando
ora ammirazione,
ora sorpresa ora broncio e il giovane Miani si stupì di
leggere un sottile
fastidio nel volto dei suoi cugini.
“Non
capisco, siora Mare: i vostri nezzi miei zermani già
ricoprono cariche di rilievo nella Signoria; con quel che guadagnano,
possono
comprarsi tutti i cappelli di Rialto. Cos’hanno da
rimproverarmi?”
“Momolin
mio, tu possiedi qualcosa che loro non hanno e per questo
ti odiano. Così va il mondo: che sia una bereta, un palazzo,
una carica, delle
terre o semplicemente del talento, chi ha verrà sempre
invidiato da chi non ha.
E la cosa triste è che invece di sudarsi, guadagnandosele,
le loro mancanze,
preferiscono o invidiare l’altrui roba o peggio ancora
rubargliela. Ricordati:
il peccato d’Invidia sempre si marita in casa
dell’Accidia.”
Savie
parole su cui Hironimo dovette riflettere in molte
occasioni.
Infatti,
la bereta della discordia non suscitò i malumori
solamente dei suoi cugini, bensì anche dell’altro
suo zio sier Batista Morexini
e naturalmente della sua domina, la quale lo accusò
crudelmente d’ingiustizia e
ipocrisia, accettando doni dai parenti ma non da lei, bandendolo dalla
sua
presenza per all’incirca un mese, fino a ridurlo quasi alle
lacrime e supplice
alla sua porta in una crudele parodia di Canossa.
Suo zio
ci andò giù ancor più pesante,
irritato senza fine da quel
gesto a sua detta provocatorio da parte del fratello maggiore di cui
ormai mal
tollerava perfino l’ombra istessa. Me lo
vuole rubare! Me lo travia! Me
lo sta aizzando contro!, ringhiava furibondo a alla
sorellastra
Leonora e al di lei cugino per parte di madre, sier Stephano Contarini.
Da
qualche anno sier Batista e sier Hironimo si trovavano in lite tra di
loro e un
grandissimo odio li divideva, portandosi a reciproche scortesie tanto
da
preoccupare la Signoria medesima, che affidando loro incarichi distinti
sperava
di tenere i due contendenti ben separati a Palazzo. La teoria di sier
Batista
era che, con la scusa di ricoprirlo di doni, suo fratello si stesse
comprando
l’affezione dell’omonimo nipote e figlioccio,
guarda caso il prediletto
dell’ultimo maschio di Ca’ Morexini. [2] E questa
baronata sier Batista non la
sopportava. Inutilmente madona Leonora tentava di mediare tra i due,
rattristata nel più profondo da quella crepa in famiglia,
rifiutandosi
categoricamente di schierarsi a favore di chicchessia. Quanto ad
Hironimo, la questione
lo perplimeva: egli amava ambedue gli zii, gli piaceva la loro
compagnia e la
cercava contento e sincero, indipendentemente dai regali donatigli.
Perché ora
si stavano scannando su di lui?
“Lo
fa apposta, lo fa apposta per indispettirmi, quel cancaro
maladeto! Lo sta sfacciatamente manipolando per poi
farmi odiare dal
mio stesso nezzo, perdio, il mio fiozzo!”
“Ma
che mingionate andate ragliando, Titta? Già ve
l’ho spiegato:
la bereta del Momolo s’era rovinata e nostro fradelo gliene
ha comprata una
nuova! Punto! S’è trattata di
un’emergenza!”
“E
i guanti di cuoio, allora? Anche quelli erano
un’emergenza?”
“Titta
…”
“Sangue
di Cristo, smettetela di farmi il “Titta” e
ascoltatemi
bene: Momolo è mio nezzo e fiozzo e neanche un paio di
mutande mi avete
permesso di comprargli, spiegandomi che la roba nuova, se la voleva, se
la
doveva guadagnare! Adesso, quel … quel …
quell’impestato cao da brodo lo
ricopre di doni peggio di una mamola e voi non fiatate? Vi pare giusto?
Dopo la
morte di Anzolo, io v’ho sempre sostenuto, io,
non quell’indegno
caprone opportunista, e adesso scopro che mi preferite a lui?!
Cos’ha quella
cantarèla (scarabeo, ndr.) ch’io non posseggo?
Ditemelo, ché vi dimostro quanto
io sia settantamila volte sette meglio di quella bestia
innominabile!”
“Ioannes
Baptista Maurocene! [3] Basta! Basta, perdiana, basta!
Molighe! Non voglio guelfi e ghibellini in casa mia! Mi sembrate due
ottusi e
piagnucolosi tosateli intenti a misurar la lunghezza delle proprie
lance!
Dolcissima Trinità, sono stufa marcia dei vostri stupidi
litigi, delle vostre
faide! E soprattutto, non v’azzardate ad usare mio figlio
come scusa per farvi
la guerra, ché vi piglio ambedue a pedate fino a
Gradischa!” e calmandosi:
“Avete ragione: bereta a parte, Momolo non doveva accettare
regali da nostro
fradelo. D’ora in avanti non lo farà
più. Quelli ricevuti sarebbe scortesia
rimandarglieli indietro, però, anche perché,
conoscendolo, sicuramente
concluderà essere questa una decisione presa per causa
vostra ed io non voglio
buttar ulteriore paglia sul fuoco!”
Sier
Batista sbuffò iroso. “Sta bene. A patto che
anch’io dia a
Momolo un regalo, per rimettermi alla pari.”
“Oh
bone Jesu, Titta …”, si portò la
patrizia due dita alla
tempia, domandandosi se s’affermasse il vero quando si
teorizzava come,
invecchiando, si ritornasse ai medesimi ragionamenti insensati dei
fanciulli.
Ovviamente,
madona Leonora si raccomandò grandemente con Hironimo,
intimando il figlio a non lasciarsi condizionare dalle querelles degli
zii e di
rimanere fermo sui suoi principi di onesta
sobrietà: quando avrai i
tuoi danari, li spenderai come meglio credi, siccome però
ora vivi in comunità,
devi pensare al benessere collettivo ante del tuo.
Purtroppo
per la nobildonna, il seme della vanità stava
germogliando fecondo nel cuore del ragazzo, terreno arato
d’insolita invidia.
La bereta, similmente al frutto proibito dell’Eden, gli aveva
aperto gli occhi
abbastanza da scoprire la sua “nudità”:
dapprincipio a lui indifferenti, adesso
Hironimo guardava con malcelata golosità i broccati, i
damaschi, i velluti e le
sete delle maniche, dei ziponi, delle berete, dei mantelli di cugini e
amici;
pesava criticamente il valore dei loro gioielli, della fattura e della
circonferenza delle perle e delle pietre preziose; valutava il costo di
ogni
mobilio, quadri, vasellame, argenteria, statue, arazzi, tappeti e
decorazione
dei loro palazzi, nonché calcolava a mente quanto spendevano
ogniqualvolta si
bagolava a zonzo di notte per scatenarsi in gran baldoria, arrivando al
punto
da catalogare le cortigiane con cui i suoi compari
s’accompagnavano, dalla più
costosa alla più economica. Tutto il giovane Miani misurava
oramai in danari,
tutto. Sicché trovava ingiusto doversi ammettere il parente
e l’amico povero,
quello vestito cogli abiti rigirati dei suoi fratelli, quello che
poteva a
malapena offrire un giro di vino ai suoi amici durante i vagabondaggi
in
gondola e figurarsi quante volte aveva sospirato infelice davanti alle
gioiellerie nella speranza di trovare una gioia abbastanza a buon
prezzo da
regalare alla sua domina.
Sicché,
appresa della rivalità tra i suoi zii e in particolar modo
di come l’avessero eletto a misura della loro
prodigalità, Hironimo dopo
l’iniziale perplessità e dispiacere cedette alle
lusinghe della vanità e al
veleno dell’invidia: decise con malevole freddezza
d’approfittarne e trarne il
proprio utile, servendo se medesimo e i suoi scopi. Tra
i due litiganti
il terzo gode e infatti il giovane patrizio si
prodigò in esso col
massimo zelo del doppiogiochista.
L’idea
gli era sorta per caso: poco dopo la discussione con Madre,
il suo barba Batista gli aveva regalato una catena d’oro con
un pendente di
zaffiro e una grossa perla. Incautamente Hironimo l’aveva
indossata recandosi
in visita dall’altro suo zio e sier Hironimo, ghermendo il
gioiello e tirandolo
in avanti verso di sé, per poco strangolando suo nipote, gli
aveva chiesto
feroce l’identità del fautore di quel presente.
Senza pensarci, il ragazzo gli
aveva candidamente rivelato esser stato suo zio Batista al che il
furente sier
Hironimo l’aveva trascinato in gioielleria e prima ancora di
rendersene conto
un grosso e scintillante anello d’oro, il primo in assoluto
in vita sua, gli
circondava l’indice.
L’occasione
fa l’uomo ladro e in un certo qualmodo ladro Hironimo lo
divenne, sfruttando la competizione instauratasi tra i due Morexini, a
chi
fosse lo zio più meritevole (nonché il
più ricco) dimostrando a peso di ducati
il loro affetto verso il nipote, ignari che così stavano
finendo per rovinarlo,
viziandolo. Per una giubba larga di velluto nero, egli riceveva subito
dopo una
pelliccia di volpe rossa; per una scarsela di marocchino, un profumo
esotico.
Spille per cappelli; mantelli da indossare traversi alla romana;
farsetti
stretti da lasciar intravedere la camicia fin quasi
all’ombelico. E ovviamente
soldi, tanti soldi. Qualsiasi cosa volesse, Hironimo
l’otteneva e con furbizia
dissimulava per non irritare i cugini né per farsi scoprire
da Madre, alla cui
presenza seguitava ad indossare i soliti abiti spartani, per
trasformarsi in un
altro Hironimo al calare della notte, quando s’univa ai suoi
amici nelle loro
feste notturne e alle bische clandestine. Dal suo istruttore,
ex-cavalleggero,
non aveva soltanto imparato a cavalcare ma anche un paio di trucchetti
con le carte
ed i dadi, onde assicurarsi la vittoria e rimpinguare il suo
gruzzoletto
personale. Il giovane Miani, inoltre, si era infatti scoperto un
allievo assai
ricettivo e un grande osservatore, studiando accorto le varie mosse dei
bari
che riempivano le osterie, replicandole e perfezionandole al punto da
sembrare
la sua semplice sfacciata fortuna.
Vestito
all’ultima moda e col borsello pieno di tintinnanti
mocenighi e ducati, Hironimo si ritrovò maggiormente
considerato e apprezzato,
sempre al centro dell’attenzione e tutti
all’improvviso parvero volergli bene,
quando prima d’allora manco si ricordavano del suo nome.
Grazie alle
raccomandazioni e donazioni dei suoi zii lo avevano ammesso
all'esclusiva
Compagnia della Calza, dove la meglio gioventù veneziana si
raccoglieva e
socializzava. Col senno di poi - concluse amaramente l'Hironimo
venticinquenne
- avrebbe invece fatto meglio a partecipare ai ballottaggi per il posto
di
balestriere di galea: erano quattro anni in mare, sì,
però significava
guadagnarsi la priorità nelle elezioni a capitano e poi
sopracomito. E la paga
non era neanche male. Invero era stato un fannullone, un perditempo, un
mangiapane ad ufo. Ma che ne sapeva all'epoca del suo futuro, della
necessità
di costruirsi pian piano una carriera, scatenato e impulsivo ragazzo
poco
incline all'obbedienza ch'era stato? Gli si era aperto un mondo di
gaudente
lusso, nel quale Hironimo si era buttato con l'esuberanza del bambino
il giorno
dei regali dell'Epifania: gli inviti a cena, alle feste, alle
rappresentazioni
teatrali, ai freschi, a balli ora privati ora pubblici fioccavano senza
che lui
riuscisse a star dietro a tutti; imparò quanto delizioso
fosse il vino speziato
con vere e proprie spezie e non della frutta essiccata; l'unto
sfrigolante
della carne in agrodolce soppiantava il sapore quaresimale dei
molluschi, delle
sardine e del baccalà. E le pasticcerie, oh! Prima adorate
da distanza, adesso
quando entrava tutti a togliersi il cappello e quale soddisfazione
portare
tortini di mandorle dolci e fritelline alla cannella alla sua amante,
da
sbocconcellonare distesi sul letto sfatto, in complici risolini.
Perfino la sua
domina, digerito il dispetto iniziale per la sua improvvisa ricchezza,
lo
guardava con occhio diverso, compiaciuta della ricca eleganza del suo
drudo e
della sua generosità, spendendo egli i soldi degli zii per
farle a sua volta
dei graziosi regalini.
“Sicuro
che non stai corteggiando un’altra? Tutto questo lusso
…”,
insinuò ella maliziosa, beandosi dello spettacolo
offertole.
Nell’intimità
della felze, seduto tra i cuscini di velluto, il suo
diletto le appariva invero un’opera d’arte, coi
suoi tratti regolari e molto
fini incorniciati dalle ciocche ondulate dell’abbondante
zazzera bruna, cui
ella si divertiva ad arrotolare tra le sue magre e lunghe dita pallide.
Hironimo, per amor suo, quella sera aveva optato per una veste di
broccato
color ocra e rosso profondo e una sottile camicia plissettata, ambedue
molto
scollate al punto che la sua domina volendo poteva denudargli
facilmente la spalla,
gesto che puntualmente compì golosa, posandogli un rapido
bacio sulla pelle
calda che si sollevò recettiva e scossa da lievi brividi. A
completamento, il
ragazzo s’era avvolto nel mantello di pelliccia di volpe
rossa e indossava la
famosa bereta fonte della sua inaspettata fortuna, conferendogli
un’aria
leggermente civettuola, in contrasto con lo sguardo scioccato
nell’udire quella
malcelata accusa d’infedeltà.
“Non
oserei mai! M’inghiottisca il mare piuttosto!”
La
donna ridacchiò clemente, intimandogli di colmare la
distanza
tra di loro e, avutolo tra le sue braccia, gli annusò avida
i capelli
finalmente tagliati un pelino più corti. “E questo
profumo di gelsomino?”
“Una
pomata che producono le sorelle di Sen Lorenzo. Me l’ha
donata per il mio compleanno la mia zermana Anzola Morexini, la quale
vi si
reca spesso a pregare.”
“An,
così adesso pure le virtuose monachelle induci in
tentazione!
Bravo! I miei complimenti, mio giovane e licenzioso satiro! Quanto fui
sciocca
a leggerti il Boccaccio!”
“Vi
prego, non scherzate! Non mancherei mai di rispetto a quelle
pie donne!”
“Puoah!
Come se a loro dispiacesse!”
“Giuro
sulla mia vita che mi reco lì soltanto per far piacere alla
mia cara zermana: mi ha sempre voluto bene e sarebbe scortesia negarle
un sì
piccolo favore!”
“Quindi
sul serio questi begli abiti e i danari te li regalano i
siori tuoi Barba?”
“Sicuro,
chi altro?”, sbatté confuso le ciglia Hironimo e
molto
probabilmente il candore della sua schiettezza dovette luccicargli
negli occhi
nerissimi, se la patrizia si convinse della veridicità delle
sue parole.
“Nessuno
e prego Dio resti così. Ora però dammi un bacio e
tutta
la tua linguina; poi ti voglio contemplare nella tua livrea naturale
…”
Quegli
incalzanti sospetti da parte della sua domina Hironimo li
conservò tuttavia nel cuore, domandandosi infatti cosa li
avesse scatenati,
ignaro di come la nobildonna non li avesse vociati chiaramente
più che altro
per decenza, incapace lei per prima di concepire il suo amante
impegolato in
disonesti commerci per procurarsi il danaro necessario onde indulgere
comodamente nel lusso. A svelargli l’arcano fu
l’invidia di alcuni giovani
della compagnia che frequentava, cui il vino aveva sciolto la lingua in
una
pungente e accusatrice loquacità.
“Avanti,
sior Momolo, a noi lo puoi confessare: ti fai lavorare?”
Risolini
crudeli.
“Come?
Come? Io lavoro? Mi spii ai fonteghi, ora? Il tuo interesse
mi lusinga, ma come amico non credo tu incontri i miei gusti!”
“Certo,
certo … gusti … dipende quali e di che valore
…
Suvvia, poche parole: da quanto tempo fai il patiens?”
“Da
quando hai incominciato a mettermi in croce con tutte queste
tue stupide domande!”
“Non
te la prendere, si tratta soltanto di una piccola
curiosità: fino all’altroieri parevi Sen Hironimo
nel deserto, adesso vesti
quasi da satrapo persiano! È bizzarro, ecco.”
“Pure!”
“Dai,
dai … da quanto sei un patiens? Mica facciamo la spia,
né ti
giudichiamo …”
“Vorrei
ben vedere! Anche perché da troppo tempo sono stato
“patiens” [4] verso le tue stronzate!”
“Troia!”
“Succhiacazzi”
e Hironimo condì quell’insulto con un pugno ben
assestato alla bocca dello stomaco, per poi alzare in difesa gli
avambracci
quando il suo avversario lo caricò muggendo di rabbia e
indignazione. Finirono
per rotolarsi sul selciato, tra morsi, ceffoni e tirate di capelli,
finché il
giovane Miani, salendo sopra l’altro patrizio e bloccandolo
con le cosce, non
lo stordì tramite un’accurata sequela di cazzotti.
I
suoi compagni ruggirono dalle risate di scherno verso il
contendente sconfitto, peccato però che Hironimo non godette
di quella sua
personale vittoria, digrignando al contrario i denti, umiliato, le gote
rosse.
Quella sera l’occhio pesto, il labbro spaccato e il malanno
di qualche costola
incrinata nonché le occhiate di biasimo e commiserazione di
Madre gli pesarono
doppiamente sulla coscienza.
Era
questione di tempo prima che qualcuno insinuasse come
l’improvvisa eleganza e prodigalità di Hironimo
derivassero da turpi
intrallazzi con qualche facoltoso protettore. D’altronde, i
Dieci, tra le altre
cose anche strenui difensori del mos maiorum, ogni venerdì
si spaccavano la
testa su come frenare la sregolatezza e la smania di lusso nella
gioventù
veneziana, la quale non giudicava abbietto abbassarsi a lavorare e a
farsi
lavorare pur di mantenere lo stile di vita gaudente e agiato. Il
giovane Miani
conosceva tal pratica, addirittura poteva indicare chi la faceva per
negozio e
chi invece la faceva perché quella era la sua natura, come
ad esempio Anzolo
Thiepolo, [5] una persona squisita, amabile, cordialissima e generosa
e,
malgrado il suo difetto, da tutti stimato e mai una parola contro
l’onor suo
ch’egli sul serio si portava da galantuomo. Al contrario, il
giovane patrizio
disprezzava pieno di schifo chi s’esponeva a tali commerci
unicamente per
vantaggio personale. Eppure …
Non
s’era comportato ugualmente? Per carità, non era
mai giunto al
segno di giacere incestuosamente coi suoi zii tuttavia non aveva agito
in
maniera tanto diversa da qualche cortigiana che vendeva i suoi favori
al
migliore offerente, nel caso d’Hironimo il suo affetto.
S’era comportato tanto
disgustosamente quanto i suoi viziosi coetanei, almeno loro erano
onesti e si
facevano mantenere tramite un inequivocabile contratto di do
ut des,
invece d’ingannare con falso amore disinteressato, che poi
tanto falso non era,
egli adorava i suoi avunculi e ciononostante aveva spudoratamente
mercificato
quel prezioso sentimento.
Poiché
quella baldracca della dea Fortuna mai l’aveva favorito,
una volta giunto a quella realizzazione e desiderando il giovane Miani
porvi
rimedio e rassicurare i suoi zii che li frequentava perché
li voleva bene e non
per i loro soldi e i regali, ahimè l’oscuro
mietitore s’apprestava a colpire di
nuovo a suo danno.
Una
mattina di fine novembre del 1505 sier Hironimo Morexini non
s’era più alzato dal letto e il suo
decesso tosto dichiarato, adoprandosi
mesta la famiglia ad organizzare il funerale nella Chiesa di San
Cancian
secondo i dettami del suo testamento. Sennonché, esattamente
nel momento in cui
sier Batista Morexini, trascinato in chiesa a viva forza da sua sorella
madona
Leonora, s’apprestava a malincuore a baciare la fronte del
morto, ecco che
all’improvviso egli cacciò un urlo tremendo e
balzò all’indietro, neanche gli
fosse apparso innanzi lo sdegnato fantasma del defunto
fratello. Per le
dolcissime piaghe di Cristo! L’è vivo! ,
aveva gridato invasato e
all’inizio si pensò alla tipica follia del
rimorso, peccato che, tastando la
pelle del morto, con sommo orrore tutti gli astanti convennero come in
effetti
seguitasse ad essere calda e le carni molli e flessuose, la bocca
vermiglia e
così pure le gote e le gengive. [6]
Immediatamente,
Marco Miani e suo cugino Nicolò Morexini
afferrarono per le spalle e per i piedi lo zio e toltolo dal catafalco
corsero
forsennatamente in canonica con in testa il parroco esagitato, il quale
preparò
un giaciglio di fortuna nella saletta principale e ambedue i patrizi
s’erano
impegnati con ogni mezzo a rianimare il congiunto, tra scosse, ceffoni,
pizzicotti, richiami, apertura forzata di palpebre e bocca; gli
sfregarono le
gambe e le braccia e pure mandarono a chiamare un fisico, questo sotto
lo
sguardo attonito dell’intero clan e degli amici e parenti
acquisiti
dell’anziano patrizio. La vedova, madona Agnese Erizo Morexini
del fu
procuratore sier Antonio [7a], svenne tra le braccia di suo fratello
sier
Sebastian Erizo; la moglie di questi, madona Cypriana Trivixan Erizo,
per
soccorrerla dovette ricorrere ai sali mentre la figliastra Magdalena
Morexini
spronava la pallidissima matrigna a sorseggiare un goto di vin
liquoroso.
Qualcuno si sentì lo stomaco sottosopra e si gridava
ora Miracolo! ora Miserere
Nobis! Vani affanni: gli occhi di sier Hironimo
continuavano a
rimanere saldamente serrati e non reagiva agli stimoli, sebbene la sua
pelle
restasse tuttavia calda. Siccome però ugualmente non lo si
poteva seppellire,
per quel giorno si congedarono tutti i corocciosi e non si fece nulla.
Accanto
al “da Lisbona” rimase testardamente a vegliarlo
sua figlia Magdalena, dopo
aver domandando ai parenti la cortesia di riaccompagnare a casa la sua
sconvolta matrigna madona Agnese. Per i successivi due giorni lei non si
schiodò
dal capezzale del padre, accettando tuttavia di buon grado la compagnia
dei
suoi cugini germani Carlo Morexini e Lorenzo Moro figlio del suo barba
sier
Christofal, dei suoi cugini acquisiti sier Piero e sier Alvixe Diedo,
figli di
madona Helena Erizo relicta Diedo sua zia e del filosofo e dottore
valentissimo
in utroque jure sier Francesco Diedo e ovviamente di Hironimo. Il
gruppetto
s’era accampato in canonica a pregare stavolta per il
risveglio-resurrezione di
sier Hironimo Morexini e anche il giovane Miani in cuor suo
sperò ardentemente
in tal miracolo, acciocché potesse confessare al suo barba
quanto gli volesse
bene ed implorarne il perdono. Nel frattanto, la notizia del morto
resuscitato
era dilagata in tutta Cannaregio e il parroco ebbe il suo bel daffare a
cacciar
via i curiosi, che dalla finestra speravano di scorgere il corpo del
“da
Lisbona”, bramosi d’assistere ad una
rappresentazione dal vivo dell’episodio di
Lazzaro.
“Ti
sono grata, Momolo, d’esser rimasto qui con me. La
perdonanza,
ti ho giudicato male: pensavo che tu venissi a trovare il mio sior Pare
tuo
Barba soltanto per via dei regali.”
Al
che Hironimo non resistette più e, serrando i denti fin
quasi a
mordersi la lingua, si coprì il viso con la mano,
singhiozzando amaramente per
il rimorso e la vergogna. Mal interpretando quello sfogo, Magdalena lo
cinse
per le spalle, portando il disperato germano al petto, intanto che suo
cugino
Carlo gli accarezzava il capo.
“Mo
via, rasserenati: il nostro sior Barba sapeva per certo che tu
l’amavi teneramente.”
Il
giovane Miani se l’augurò, per quanto lui per
primo ne
dubitasse.
Il
miracolo non avvenne e sier Hironimo “da Lisbona”
si raffreddò,
segno innegabile della sua dipartita, sicché si
poté riprendere il funerale
interrotto, non senza qualche disagio tra i partecipanti. Dal canto
suo, il
giovane Miani osservava devastato la figura immobile dello zio,
così come aveva
osservato nove anni addietro quella di Padre, cogitando se fosse una
sua
maledizione, destinandolo a ferire chi amava senza potersi poi
riconciliare,
sottrattogli beffardamente dall’inesorabile morte.
Ladro,
parassita.
E chi non
lo era, tuttavia, a questo mondo? Ed appunto
di lì a poco incominciarono a scannarsi i parenti per
l’eredità, con tutte le
sue spiacevoli conseguenze: giocando d’anticipo sia sui Moro,
i parenti di
Magdalena Morexini per parte di madre, sia sugli Erizo, per parte della
matrigna, sier Batista Morexini aveva preso la nipote orfana sotto la
sua
protezione, dichiarando guerra a chiunque osasse intaccarne il
patrimonio,
forse allo scopo d’espiare la sua condotta ostile nei
confronti del fratello
deceduto.
La
fortuna lo assecondò: infatti non molto tempo dopo Ysabeta
Erizo, cognata di sier Hironimo “da Lisbona”, era
stata messa agli arresti,
incolpata d’avergli vilmente rubato una bella fetta di soldi
ad esequie neanche
terminate. [7b] A seguito d’un lungo e penoso anno di
processo, nel luglio del
1507 la nobildonna venne però assolta dall’accusa,
sebbene il giovane Miani
giurò d’aver sentito la sua cugina Maria Morexini
Querini confidare alla
sorella Querina, alla loro genitrice madona Morexina, a Crestina e a
Madre: “Scommetto che l’ha fatto
per procurarsi la dote, visto ch’è
l’unica delle sorelle Erizo rimasta zitella! Che mossa
disperata! Poereta, mi
fa quasi pena: costretta ad affidarsi alla carità e
all’onore dei fratelli e
dei cognati …”
Al che la
moglie di sier Batista, in un impeto di sorprendente
cattiveria, commentò: “Dopo un
anno trascorso in casa del capitano
delle carceri, nessuno la vorrà più nel suo
letto, neanche dietro
pagamento!” e prendendo nuovo filo per
l’ago. “Sempre meglio
di sua sorella, la cara siora Agnese: il letto del mio povero cugnado
non s’era
ancora raffreddato, che quella mamola di sua mojer non ha esitato a
riscaldarlo
con un altro uomo!”
“Adesso
state esagerando, Morexina: madona Agnese e sier Ferigo
Renier hanno diligentemente atteso l’anno di lutto prima di
sposarsi.”
“Scorgete
sempre del bene in coloro che non lo posseggono, mia
cara Leonora. Tre anni di matrimonio e la nostra cugnada non
è mai rimasta
incinta. Ma oh! Appena-appena terminata la festa nuziale che questo
Renier la
ingrossa e già in autunno lei si
sgraverà del primo figlio. Vi
pare?”
“Ecco
… sier Ferigo è molto più giovane del
mio povero fradelo
vostro cugnado; suo figlio Alvixe non è che un ragazzino
… E’ naturale che
madona Agnese sia rimasta subito pregna di lui …”
“Appunto,
sorela cara: appena ha intascato la sua fetta
d’eredità,
la nostra cara cugnada se l’è svignata e
bondì sioria! Voltà el canton, passà
la passion!”
“Non
sarà invece perché mio fradelo vostro marido,
dopo aver reso
il sangue amaro all’altro mio fradelo vostro cugnado, ha ben
pensato di
tarmare, per la par condicio, anche la nostra siora cugnada? In tutta
onestà,
mi fossi trovata al posto di madona Agnese, anch’io sarei
salpata via da questa
casa al primo vento favorevole!”
“In
effetti, siora amia, era penoso condividere il posto a tavola
con la siora amia Agnese, specie dopo lo spiacevole affare della siora
Ysabeta
…”
“Querina,
invece di parlare a vanvera, finisci una buona volta
quel ricamo: è più di un’ora che non
vai né avanti né indietro! Cosa dirà
il
tuo fidanzato, il sier Daniel Zustignan, a saperti così
pigra e chiacchierona?
Inoltre, madona Agnese Erizo Renier non è
più la tua siora
amia, ha voluto staccarsi da questa famiglia e da estranea allora
verrà
trattata!”
“Guardate
il lato positivo, siora Mare: il secondo matrimonio di
madona Agnese, oltre che a levarvela dai piedi, ha favorito il sior Pare
vostro
marido ad ottenere la custodia della zermana Magdalena”,
s’intromise Maria, interrompendo la genitrice prima che le
sue invettive degenerassero
in volgarità da bordello e salvando la sorella da
un’immeritata lavata di
capo.
Madona
Leonora sospirò affranta: pur di spuntarla sulla cognata,
il suo fratellastro Batista non aveva esitato a sfruttare
l’allora fidanzamento
della vedova Morexini per insinuare dubbi sulla sua
affidabilità e
morigeratezza in veste di tutrice della figliastra. Una donna che non
si fa
scrupoli di risposarsi così presto dalla morte del primo
marito, diceva, non
può allevare onorevolmente una figlia, figurarsi una figlia
non sua. E come
poteva lui, suo barba, permettere che la povera Magdalena fosse
costretta a
seguire codesto soggetto poco raccomandabile e ad andare a vivere in
una casa a
lei totalmente estranea, tra uomini non di famiglia cui nulla importava
di tutelare
la sua onestà? Quei disgraziati, pur
d’accaparrarsi le sostanze di Magdalena,
avrebbero anche potuto vergognarla e costringerla a nozze riparatrici,
per quel
che ne sapevano! Come poteva la sua famiglia di sangue rimanere
impassibile
dinanzi a tale orrenda prospettiva?
Madre
aveva disapprovato ogni singola parola di quell’arringa,
secondo lei infamante e crudele, però Hironimo sapeva che
suo zio aveva
semplicemente vociato ciò che tutti in famiglia pensavano:
ossia che madona
Agnese Erizo relicta Morexini ora Renier, altro non era che
un’avida sgualdrina,
una bugiarda e una ladra come sua sorella Ysabeta, solamente
più furba. Aveva
sfruttato lo scandalo generato dalla congiunta per defilarsi
comodamente
nell’ombra, tra le lussuriose braccia del secondo marito
più giovane di
venticinque anni rispetto al primo, che si mormorava essere stato il suo amante
quando
il povero “da Lisbona” era ancora vivo, adducendo a
somma prova di tal
disonesto commerzio sia la rapida gravidanza della nobildonna sia la
rapida
ascesa di carriera di sier Ferigo Renier, finanziato dai danari della
seconda
moglie.
Ladri.
Approfittatori. Bugiardi. Avidi. Gretti. Tirchi e meschini.
A quanto pareva, Hironimo non era l’unico adoratore del
Vitello d’Oro. Sicché,
consolatosi di questo, ogni suo senso di colpa nei confronti dello zio
e di
chiunque avesse ingannato per soldi si dissolse come la neve di
marzo.
***
La
riconquista di Padova il 17 luglio 1509 e l’eroica
testardaggine di Treviso che preferiva morire con le armi in mano
piuttosto di
sottomettersi a Maximilian von Habsburg equivalsero alla fine dello
spiraglio
di disgrazie e l’inizio dell’inaspettata riscossa
della
Serenissima. L’eterna notte che la Lega di
Cambrai voleva far calare
su Venezia invece le aveva portato consiglio, giacché
proprio di notte la
Signoria aveva recuperato Padova e la seguente mattina chi non veniva
arrestato
e deportato alle Torreselle o alle Nuovissime per tradimento, si vedeva
la casa
saccheggiata senza pietà alcuna, specie i nobili padovani.
Sier Andrea Griti
aveva scritto alla Signoria che si rammaricava di tal comportamento da
parte
dei soldati e degli Arsenalotti: in realtà, aveva gongolato
peggio d’un riccio
alla vista dei palazzi di quei traditori depredati e vandalizzati,
anche
perché, quando Padova s’era consegnata
all’Imperatore, analoga sorte era
toccata a quella dei patrizi veneziani.
Occhio
per occhio, dente per dente, razzia per razzia, ladro per
ladro.
L’ondata
d’entusiasmo rinsaldò il fronte veneziano e tra
agosto e
settembre oltre ai soldati mercenari più di 300 patrizi,
tutti volontari e a
spese proprie, erano partiti per difendere Padova che Maximilian aveva
giurato
di riprendersi, minacciando punizioni bibliche e ribollendo di stizzosa
rabbia
per averla perduta proprio mentre dormiva. Ad ambedue i fronti era
chiaro che
lì si sarebbe giocata la sorte di Venezia, sola contro tutto
il mondo.
Contagiato
dall’impeto guerriero e la smania di riscatto dopo
Agnadello, Hironimo s’era arruolato nei cavalleggeri e
assieme ai suoi fratelli
Lucha e Marco, al suo cugino germano Piero Morexini di sier Batista e
agli
altri cugini Batista e Jacomo Miani di sier Polo Antonio erano partiti
alla
custodia di Padova, tutti coi loro soldati provigionati.
All’ultimo s’era unito
anche Marco Contarini, l’amico di Hironimo, con la scusa di
controllare la
portata dei danni sicuramente inflitti alle loro proprietà a
Piazzola sul
Brenta, avendo infatti udito notizie poco rassicuranti sui pesanti
saccheggi ai
danni dei beni dei Veneziani e filo-veneziani in tutto il
padovano.
L’antico
Castello di Piazzola [9] dei Contarini era stato
costruito dai conti Dente attorno all’anno Mille a protezione
delle sue genti
dalle scorrerie degli Ungari, sfruttando l’ansa della Brenta
sia come confine
naturale sia come via di comunicazione. Secoli dopo il Castello,
divenuto nel
frattanto della famiglia Belludi, era stato acquistato da
Nicolò I da Carrara,
signore di Padova, probabilmente come strategica postazione di
controllo dei
suoi territori; Francesco I da Carrara l’aveva regalato
assieme a 1800 campi al
figlio naturale Jacopo, valoroso condottiero e peritissimo nel mestiere
delle
armi. Da lui aveva ereditato, nel 1406, sua figlia Maria natagli nel
1395 dalla
moglie madona Luzia Contarini della Madonna dell’Orto e
questo non perché Jacopo
non avesse avuto altra prole, bensì perché erano
stati proprio i suoi medesimi
figli Paolo e Bonifacio ad aver denunciato la sua alleanza con la
Repubblica di
Venezia ai danni del fratellastro Francesco Novello, denuncia che gli
era
costato l’arresto, la tortura e la morte, il 9 aprile 1405,
fatta passare dal
Novello per suicidio. In segno di ringraziamento per i servigi e la
fedeltà di
Jacopo da Carrara, la Serenissima aveva concesso a Maria la
proprietà dei feudi
paterni a scapito dei fratelli, i quali, senza più alcun
titolo e terra, erano
destinati a morire in esilio. [10]
Maria da
Carrara si era poi sposata nel 1418 in sier Nicolò
Contarini da San Cassian, portandogli quindi in dote il Castello, i
villaggi di
Piazzola, Sant’Angelo e Santa Maria di Sala, trasformando il
paesotto di
Piazzola nel fulcro centrale e sede amministrativa delle loro
proprietà,
accorgimento assai utile specie quando i Contarini si recavano in loco
per
curare l’andamento dei raccolti. Ivi avevano mantenuto gli
antichi privilegi
carraresi, ossia godevano dei diritti di mercato, pascolo, mulino, sui
passi di
barca sul fiume Brenta a Carturo, Carbogna e Camposanmartino,
nonché di guardia
armata e del giuspatronato della chiesa.
Il corpo
centrale del Castello si presentava quindi assai semplice
e funzionale all’ambiente rustico, un po’ palazzo
un po’ magazzino, con solo
due piani e coronato ai vertici meridionali da due torrette. Al termine
del
viale alberato ad est della piccola fortezza si trovava un mulino di
proprietà
dei Contarini sebbene non più funzionante poiché
posto su un’ansa della Brenta
rimasta negli anni all’asciutto. Poco distante sorgeva la
chiesetta e il
villaggio vero e proprio.
I due
giovani veneziani, attraversando quest’ultimo rapidamente a
cavallo con la loro piccola scorta, rimasero basiti e turbati dinanzi
all’impietosa miseria lasciata da quei quarantadue giorni
d’occupazione
imperiale e abbondante saccheggio dietro la scusante di rifornire
Padova: le
basse case dai tetti a cuspide si presentavano scheletriche e annerite
dal
fumo, scricchiolanti per qualche trave o pezzo di muro che si sfaldava
sotto il
loro medesimo marcio peso e cadeva rumorosamente al suolo,
l’unico rumore in
uno sconfortante silenzio da cimitero. La chiesetta aveva avuto sorte
migliore
grazie al materiale più nobile, ancora in piedi seppur
abbondantemente
depredata e dietro di essa, neanche fosse stato invaso dalle talpe, il
camposanto era tutto un tumulo più o meno fresco, senza
croci, di gran fretta.
I campi erano stati abbandonati a se stessi e gli alberi tagliati
indiscriminatamente, specie quelli decorativi del viale principale e
quelli
rimasti in piedi fungevano da forche improvvisate laddove i contadini,
prima
d’evacuare la zona, per sfiziosa vendetta avevano appeso i
soldati nemici o
quel che rimaneva di loro. Quanto al Castello, ancora portava i segni
di razzie
e bivacchi, le porte scardinate e le finestre prive d’imposte
e fracassate,
quel poco che v’era nei magazzini pignolosamente rubato
così come le scuderie e
le stalle degli animali vuote e semi-demolite. Niente però
paragonabile al
puzzo vomitevole che colpì le loro narici, non appena Marco
e Hironimo
entrarono dentro l’edificio, appestati dall’acre
odore delle feci e urine, sia
animali che umane, accompagnato da quello delle piume dei volatili che
si
libravano stizziti in aria al loro passaggio, reso difficoltoso
dall’accumulo
d’immondizia sui pavimenti un tempo lustrissimi.
“Sacramento!”,
ringhiò il giovane Contarini, nascondendo il viso
all’interno del gomito. “Sti cancari mi hanno
impestato la casa, sembra un
cagatoio! L’hanno fatto apposta perché non
c’era nulla da rubare! Maledetti!”
Evidentemente,
interpretò il ventenne, quello corrispondeva al
“Grazie!” dei saccheggiatori – qualsiasi
fosse stata la loro provenienza – nei
confronti dell’usanza dei nobili veneziani di portarsi seco i
mobili e ogni
oggetto di valore, ogniqualvolta ritornavano in laguna dalla campagna,
non fidandosi
sostanzialmente dell’onestà dei locali.
Sicché, avendo occupato il padovano
prima ancora ch’incominciasse la villeggiatura, quegli ospiti
sgraditi non
avevano trovato un granché, riempiendosi il sacco di poca
roba e di scarso
valore e a spregio avevano insozzato il Castello.
“O
sono lerci di loro e basta!”, la buttò sul ridere
Hironimo, pur
continuando a guardarsi alle spalle, insospettito sia dal poco
rassicurante eco
dei loro passi sia da un altro odore, più flebile ma fresco,
sotto quello di
fogna a cielo aperto. “Marcolin cor mio, cosa
d’aspetti da questi barbari?
Fosse per loro, ancora adorerebbero nudi gli alberi!”,
asserì lentamente,
mentre una mano scivolava sull’elsa della sua spada e
l’altra s’appoggiava
sulla spalla di Marco, costringendolo a fermarsi e a cambiar direzione,
subito
imitato dalla loro scorta, anch’essa in allerta.
Gli occhi
del giovane Contarini si sgranarono sorpresi e
intimoriti, le pupille dilatate sul punto indicatogli
dall’amico: tendendo le
orecchie e annusando ben bene l’aria, i due giovani captarono
un costante
brusio di sottofondo – voci, indubbio! –
nonché l’affumicato d’un fuoco
alimentato da legna malsana e paglia. Quand’ecco che il
borbottio s’infittì
prima e si chetò poi all’improvviso e i patrizi
coi loro compagni ebbero appena
il tempo d’alzar la difesa che dal buio di un corridoio
sbucarono urlando tre o
quattro uomini armati di picche, i quali tuttavia tanto velocemente
erano
comparsi, tanto velocemente s’impietrirono sul loro posto.
“Cul
dil cancaro! Domine Cribele! Cagasangue! Christo d’on
Christo! Fago humilentissima reverenzia a lori missieri bei
colendissimi!”, si
sciorinò il loro capo in un comico balletto
d’inchini e salamelecchi, le armi
gettate di riflesso ai piedi di Marco ed Hironimo, che li fissavano tra
il
perplesso e il guardingo, avendo riconosciuto dai loro vestiti rozzi e
laceri
dei contadini e anche male in arnese, tranne per le picche,
probabilmente
sottratte a qualche cadavere. “Vuostre stilenzie, vuostre
spaternitè
lostrissime, a me rebuto, (riverisco, ndr.) cari missieri! Bienvegnui
en tera
de Sen Marcho!”, continuò ansioso
l’improvvisato scalco zeneral, spiando di
sottecchi le affilate armi del gruppetto di veneziani davanti a lui e
ai suoi
compagni. “Cossa ve menò chialondena? (qui, ndr.)
Ze stà vinta o perdua ea
guera?”
“Ralegherati,
ti et la toa zente che se tegne fiel: par vuialtri
xé finio el timor, horra vuj seti tutti soto ea protetion di
la Signoria, la
qual fortissima governa Padoa e la custodisse dai barbari”,
replicò solenne
Marco, facendo cenno ai suoi uomini di rifoderare le spade.
Avvicinandosi al
contadino, che di riflesso s’esibì
nell’ennesima riverenza, si presentò:
“De
pì, ti te gh’ha da satre che mi sun el castelan,
el patron, el fio dil
magnifico sier Zacharia Contarini dai Scrigni!” e neanche
avesse nominato
Missier San Marco o il Serenissimo suo rappresentante in terra, ecco
che il
villano, scattando quasi sull’attenti, si girò
verso il suo compare, esclamando
sorpreso ed eccitato:
“El
paron, saivù?”
“El
paron!”, informò incredulo il suo interlocutore un
altro suo
compagno ancora e quest’ultimo si voltò, urlando a
quelli dietro: “El paron!”
“El
paron?”, s’intromisero da un angolo delle voci
femminili e di
bambini, tosto seguite dalle loro teste che facevano capolino,
incuriosite.
“Pota an l’amor che bell’om!”,
ridacchiarono tra di loro due ragazze, una delle
quali, notò Hironimo, gli ricordava per affilatezza di volto
e per fissità di
sguardo una volpe. Quella s’accorse del suo scrutinio e gli
strizzò complice
l’occhio, esibendogli un aguzzo sorriso di denti
sorprendentemente bianchissimi
e forti a guisa d’araba.
“Che
ci fate in casa mia? Chi siete? Perché non vi siete
rifugiati
a Padoa, al sicuro?”, li interrogò Marco adesso in
tono assai più colloquiale,
rilassando così di colpo l’atmosfera, tanto che i
villani tirarono un grosso
sospiro di sollievo per tal benevolenza nei loro confronti e pure le
donne e i
bambini s’azzardarono ad abbandonare i loro nascondigli.
“Se
Diè m’ai (Che Dio m’aiuti, ndr.),
missier beo, no semo ladri!
Aldì (sentite, ndr.), semo tuti scapolai di campi, di colli
… poara zente che
gh’ha corso coi soldé
et slançeman (lanzichenecchi, ndr.) drio del cul: i
nuj volé apichar, tajar en tocherin da dar a magnar
a li porzei, depo’
haber menà via le nuostre
christiane! Saivù perché? On
de sti
cancari, on can de quel fio d’on can dil Trisin, gera
vegnù a dirghe a
nuialtri: “Avé da darghe a nui biave,
fromento, bestie ché el paron gheo
comanda.” Mi gh’ho domandé:
“Et chi zelo el paron?” Queo:
“L’Imperaor
Maximiano, el Cesar Augusto!” Mi: “Ma mi
depo’, se ti te me
meni via tuto per darghe da magnar al Cesare Augusto, mi et la mia
famegia
cossa fagemo sto verno?” Queo: “V’acorderìo
cum l’Imperaor!”; Mi: “Sì,
a s’accorderón in lo culo!.”
Nuj no semo traditoron ribiegi, semo tuti per
il domini Missier Sen Marcho et a quel can mi no gh’ho
dà gnente!”, raccontò il
contadino concitatamente la sua storia, gesticolando e mimando i
dialoghi avuti
con lo sfrontato inviato di Leonardo Trissino, rappresentante del Re
dei Romani
e governatore di Padova in attesa dell’arrivo
dell’Imperatore. La pernacchia
che Treviso aveva elargito all’Habsburg aveva ringalluzzito i
villani, i quali
avevano colto la palla al balzo per ribellarsi ai nobili locali e darsi
alla
macchia se potevano, rifiutandosi di fornire il benché
minimo aiuto agli
invasori e anzi, tormentandoli in continui ed improvvisi agguati
notturni.
Aveva omesso, il contadino, il piccolo dettaglio
dell’uccisione dell’inviato e
dei suoi compari, non aspettandosi costoro quell’imboscata da
parte di
ignoranti bifolchi, quando invece loro s’erano aspettati
eccome una visita da
parte di quei ribelli traditori e già s’erano
previamente organizzati.
L’uomo
narrò poi dei saccheggi operati da parte delle truppe di
Maximilian, il quale man mano che s’avvicinava a Padova aveva
dato ordine di
sequestrare ogni cosa potesse servire come cibo, come strumento per i
guastatori e i genieri, come arma, come scaldaletto umano. Rubavano e
ammazzavano i contadini che s’opponevano, terrorizzati questi
all’idea di
perdere anche quel poco che possedevano, traditi dai loro stessi nobili
che pur
di darla sui corni ai Veneziani li gettavano in pasto alle fameliche
gole dei
Collegati. Villaggi bruciati, donne violentate e rapite, bambini uccisi
e
alberi pieni d’impiccati. I Tedeschi in
particolare soffrono di sto
gran mal della lupa: non si saziano giammai!, continuava,
paragonandoli alle cavallette, alle sanguisughe, ai
pidocchi e alle
zecche. Quand’erano in azione – spiegava - pareva
l’Apocalisse srotolarsi ai
loro occhi e dove incominciavano loro continuavano i Francesi, genia
malefica e
crudelissima, poi i Ferraresi – ladri e assassini!
– per finire con le truppe
italiane, altra marmaglia puzzolente, tutti figli bastardi di cagna
bastarda e
le cui mogli e figlie, asseriva serissimo il contadino, erano le
rinomate
puttane dei Tedeschi e dei Francesi. Tramite fosche pennellate dai
gusti molto
macabri, il contadino descrisse ai due patrizi delle lunghe marce
notturne per
campi e per i Colli Euganei; della paura di morire o infilzati o
affamati o
entrambi e perfino della paura di fermarsi a cagare, con le orecchie
sempre
tese onde captare il vociare dei nemici, il rumore dei loro passi,
delle
armature e del cigolio delle ruote di cannone. Si dilungò
infine sullo
sgozzamento di alcuni militari stranieri in cui erano sfortunatamente
incappati, morendo ammazzati questi nel sonno tra grandi convulsioni e
rantoli.
Dei loro abiti, viveri, danari, pezzi d’armatura e delle loro
picche s’erano
poi largamente serviti, non è giammai peccato rubare al
ladro.
“Orbentena,
missier beo, a ghe semo pur rivai a sto Castelo, che a
nu ghemo pí augurai d'arivarghe!”,
terminò il contadino le disavventure sue e
del suo gruppo, assicurandoli di come non avessero preso proprio nulla
dal
Castello, solo una stanza per starsene riparati, rifocillarsi, dormire
e
riscaldarsi quel giusto per levarsi l’umidità
dalle ossa dopo troppi sonni
sulla nuda terra. Già progettavano di raggiungere Padova per
dare una mano alla
sua custodia, parola d’onore che non mentivano!
“Sì,
l’altra gente?”, volle sapere Marco, non
tornandogli un
piccolo dettaglio.
“Chi?”
“La
gente di Plazóla!”
“An!
Muorti o ané (andati, ndr.) missier beo, come tutti
chialondena: chi pol se salva; chi no, dabaso!”, riassunse
l’uomo
sbrigativamente la faccenda, indicando o il pavimento sotto di lui o la
fantomatica direzione verso la città.
“Co’ ghe semo arivai, no ge gera nigun,
se no sto spion!”
“Spion?”
Rivolgendosi
al ragazzo vicino a lui, il villano lo istruì
berciando: “Moà, cori lesto a torre quea
bestia!” e ai due giovani patrizi: “Mi
criù (credo, ndr.) ser foresto e da com’el move ea
bocha mi criù ser on can de
Magna!” (Alemagna, ndr.), gli confidò compiaciuto,
neanche stesse discutendo
d’un vitello appena acquistato a buon prezzo al mercato.
“Gheo portemo a
missier el Podestà e al Provedador, per ea taja. An, el
vegne! Cancaro! Te
vegnisse ea peste roxa!”
Tirandolo
per un guinzaglio improvvisato, il giovane contadino suo
compare portò al cospetto dei due nobiluomini un uomo assai
malmenato, in
camicia e mutande, le braccia legate e costrette all’indietro
da una tavola
sulla schiena. La villanella dal viso di volpe gli elargì un
mirato e doloroso
calcio sui reni, costringendolo in ginocchio. Dal modo in cui
imprecò tra i
denti si tradì effettivamente l’accento straniero
del prigioniero, il che non
sorprese i veneziani, attendendosi infatti la presenza nel territorio
di
esploratori sia delle truppe imperiali che pontificie, onde carpire
informazioni sullo stato di difesa di Padova.
“Ora
capisco”, gli rise in faccia il giovane Contarini, le iridi
scure però dardeggianti di fuoco colmo d’odio
ferocissimo, “da dove proviene
questo tanfo di merda!”
Hironimo
si sventolò sotto il naso, sogghignando beffardo.
“I
sudditi rispecchiano sempre il loro signore, nevvero?
“Pensavi
sul serio di gironzolare indisturbato a casa nostra,
neanche fossimo un’osteria? An? Credevi che queste terre sul
serio appartenessero
al tuo codardissimo Imperatore?”
Peccato
che l’esploratore li fissasse inebetito, incapace di
comprendere quanto dettogli e dimenandosi sbrodolò nella sua
aspra lingua un
rivo sconclusionato di parole stavolta ai suoi ascoltatori
incomprensibili.
Dinanzi a
tal spettacolo il giovane Miani scoppiò in una fragorosa
risata e, acutizzando la voce in una sardonica cantilena, gli
cinguettò
falsamente compassionevole: “Ma guardatelo! Poverino, che
fai? Non capisci? Non
ci senti? Vuoi parlare? Ragli, asino? E-sen!”,
gli scandì accorto
l’ultima parola, che calmò di botto
l’esagitato prigioniero, la sua bocca
comicamente penzolante in una O giottesca.
Dopodiché,
agitandosi peggio d’un demonio nell’acquasantiera,
il
soldato tentò di balzare in avanti o per insultare o per
mordere la faccia di
Hironimo, destino risparmiatogli da un cazzotto da parte del capo dei
contadini
fuggiaschi, che lo spalmò per terra a mangiar polvere.
“Momolo
… che gli hai detto?”
“Asino,
una parola imparata dal sior mio Pare durante la
Guerra del Tirolo. Può essere che codesto somaro venga
appunto da quelle
bande.”
“Dunque
in Tirolo non dicono Esel come gli
altri
Todeschi?”
“Te
parestu che mi sonjo dotor de todesco? Se c’è una
sola cosa
che conosco bene degli imperiali, è che sono tutto stomaco e
niente spirito,
bravi ad arraffare l’altrui senza dar nulla in
cambio!”
Marco
strinse la bocca in una linea dura, istruendo i suoi soldati
di pigliarsi il prigioniero e di tenerlo ben sottocchio, questo dopo
aver
rassicurato il capo dei villani sulla tutela del suo investimento, anzi
pure
gli diede qualche ducato dalla sua scarsella a titolo di garanzia, che
non si
sarebbe intascato il premio al posto loro. L’uomo
dondolò in una serie di
profonde riverenze e fece cenno alla sua brigata di seguirlo, uscendo
assieme
ai provigionati dal Castello. Soltanto i giovani Miani e Contarini
rimasero
indietro, quest’ultimo dirigendosi di corsa verso quella che,
in estate,
fungeva da sua camera da letto.
“Zò,
Marcolin! Spetame almanco! Zò!”, gli
gridò dietro Hironimo,
partendo rapido all’inseguimento e bloccandosi di colpo alla
vista del suo
amico a bocconi sul caminetto, intento a rovistare forsennatamente tra
le
ceneri. “Cor mio …”
E per la
prima volta da quando la guerra era incominciata, Marco
Contarini scoppiò a piangere, sfogando tutta la
frustrazione, il dolore,
l’angoscia che per amor di sua madre aveva ingoiato a viva
forza.
Hironimo
si portò in un battito di ciglia accanto a lui,
inginocchiandosi, e lo cinse per le spalle sconquassate dai singulti,
portando
il viso del ventenne al suo petto, cullandolo,
accarezzandogli i
capelli castano-rossicci e sussurrandogli ogni parola di conforto che
gli
sorgeva sulle labbra, il suo sguardo puntato sul cumulo scuro dei
rimasugli di
un fuoco che doveva esser stato assai vivace.
Nella sua
stanza il giovane Contarini aveva lasciato indietro un
mobiletto di modesta fattura, che però conteneva le sue
“bagatelle estive”,
ossia quei sonetti, canzoni, poemetti e brevi commediole
ch’egli componeva per
suo diletto e per la sua stretta cerchia di amici intimi,
così da allietare i
pomeriggi e soprattutto le afose serate in campagna. Evidentemente,
cogitò il
giovane Miani, non avendo giudicato d’alcun valore quel
mobile e quei
fascicoli, i soldati nemici avevano ben pensato d’utilizzarli
come
combustibili, tenendosi probabilmente il quaderno di cuoio contenente
gli
scritti di Marco.
Ad occhi
profani, forse piangere per tali facezie poteva apparire
ridicolo e puerile, ma Hironimo sapeva che non era per i suoi
componimenti in
sé che Marco singhiozzava: era per ciò
ch’essi avevano rappresentato.
La loro
gioventù, la loro spensieratezza, la loro estate, rubata,
mutilata per sempre dall’altrui avidità e invidia.
Loro, i giovani, eletti a
capro espiatorio per le colpe e la cecità dei
padri, loro ch’avevano
appena incominciato a vivere, novelli Atlanti si dovevano sobbarcare di
una
responsabilità tremenda, costretti ad affrontare oltre alla
morte anche le
conseguenze a lungo termine della guerra, paura accompagnata
dall’incertezza
per la sorte propria e delle rispettive famiglie in caso di sconfitta.
Quanto
lontani gli apparivano adesso gli anni così lieti della
giovinezza! Il loro
mondo sicuro e stabile era stato bruciato come quei fogli pieni
d’ingenui
idilli amorosi ed eroici sogni del futuro; deturpato e inselvatichito
come il
giardino del Castello, un tempo rigoglioso e luogo di rifugio dal caldo
e di
confidenze tra amici fraterni; come il Castello stesso, violato e
insozzato.
Pensare
che finora a lui era anche andata relativamente bene: in
molte occasioni Hironimo aveva provato ad immaginare una sua reazione,
se gli
fosse mai arrivata la notizia della cattura e deportazione di uno dei
suoi
fratelli in Francia, dubitando di potersi comportare tanto stoicamente
quanto
Marco. Gli si era stretto il cuore al solo pensiero
dell’incerta sorte del suo
amico Piero Contarini, di quell’introverso e dolcissimo
pulcino “peritissimo nelle
lingue greca et latina” che tallonava tenacemente lui, Marco
e il suo più
spigliato gemello Polo, peggio d’un’ombra. Ancora
Hironimo poteva udire l’eco
della sua timida risata riecheggiare nelle stanze del Castello o nel
giardino,
quando a braccetto, in una sorta di scoordinata catena umana,
deambulavano
sghignazzanti tra i sentieri sulla collinetta decorativa o sulle rive
del
laghetto artificiale, scherzando, giocando a palla, confidandosi
segretucci o
cantando qualche frottola comodamente seduti sul soffice prato, sotto
le verdi
fronde degli alberi. Aveva avuto una tal faccia da funerale, Piero, il
giorno
in cui dovette lasciare Venezia per recarsi a Cremona insieme a sier
Zacharia,
elettovi podestà e capitano, neanche avesse inconsciamente
intuito di salutare
la sua famiglia e gli amici per l’ultima volta.
Solo
Hironimo aveva ascoltato le domande a vuoto proferite da un
catatonico Marco, mentre leggeva e rileggeva straziato e incredulo la
tremenda
notizia della caduta di Cremona e della cattura di suo padre e del
fratello e
dell’immediata deportazione a Milano; solo a lui il giovane
Contarini aveva
confidato le sue intime paure di non poter rivedere mai più
né Piero né sier
Zacharia, perduti forse per sempre, ostaggi in terra straniera, morendo
magari
in un misero tugurio senza il conforto e l’affetto dei loro
familiari, senza
poterli contemplare un’ultima volta né bearsi
degli amati contorni dei paesaggi
della loro madrepatria. Inutilmente sier Zacharia avrebbe in seguito
tentato di
consolarli, scrivendoli da Marquis, presso Parigi, che tuto
il
despiazer che io ho, è che io dubito de vostra madre e de
tutti vui più che de
mi, preoccupato egli più della sorte della sua
famiglia che della propria.
Sull’ultimogenito, invece, poche parole: Piero
è andato a Lixignan de
Lion, in uno castello sopra la strada de andar da Bles a Perpignan,
cercha 60
miglia lontan da Bles, et credo che el stagi ben ed
era quel “credo”
che tormentava e avrebbe tormentato per anni Marco, spronandolo assieme
ai
fratelli Francesco e Phelippo ed i cognati a trovare ogni stratagemma
per
liberarli. “Credo” stia bene – non
“so” che sta bene. Oh, Dio!
(In quel
momento, Hironimo poteva soltanto immaginare la pena
dell’amico; neanche un anno dopo e l’avrebbe
sperimentata sulla sua pelle, alla
cattura e deportazione di Lucha in Alemagna, quando anche lui avrebbe
dovuto
soffocare sul cuscino le proprie lacrime per non ammazzare Madre col
suo
dolore; quando anche lui e Marco avrebbero dovuto escogitare ogni
astuzia per
liberare il fratello; quando anche lui avrebbe provato una smania
assassina
verso ogni foresto, ogni traditore)
“A
sti cancari, sti baroni, sti maladeti gliela faremo pagare,
vedrai!”, mormorò solenne il giovane Miani,
circondando con le mani il viso
umido di Marco e costringendolo a guardarlo dritto negli occhi.
“Roma, Magna,
Franza, Spagna, Frara – che ci diano pure battaglia, questi
lupi vigliacchi
ch’attaccano in branco! A Padoa troveranno solo sangue e
vergogna! La vendetta
e la loro vita sono nostri e non sai che, a riscuotere i debiti, noi
Veneziani
abbiamo sempre eccelso?”
Il
giovane Contarini, tirando su il naso, abbozzò ad un timido
sorriso di sghimbescio, mentre l’amico fraterno gli asciugava
maternamente
premuroso le lacrime coi pollici. “Sangue e
vendetta”, ripeté il ventenne con
ritrovata freddezza, inspirando profondamente e una volta calmatosi,
s’erse in
piedi, pronto ad affrontare stoico quel folle mondo.
Quell’episodio,
oltre ad accrescere l’odio nei confronti dei
Collegati, aveva esacerbato il disprezzo d’Hironimo verso i
traditori sia
padovani sia in generale di tutti coloro che nel momento del bisogno
avevano
voltato le spalle alla Signoria. Non gl’importava che
quest’ultima stessa aveva
sciolto le sue città da ogni vincolò di
fedeltà pur di salvarle da saccheggi e
massacri: nell’intransigenza della sua gioventù,
dove ogni cosa è bianca o
nera, egli non concepiva alcuna giustificazione per quel voltafaccia,
quello
sputare sul piatto che li aveva nutriti e arricchiti. Nel suo intimo
provava
una perversa soddisfazione nell’apprendere delle angherie
subite dalle città
occupate, delle ruberie travestite da tasse e balzelli imposte dai
sovrani
stranieri. Se n’erano resi ben presto conto
- quei traditori! -
degli svantaggi del cambio di governo, della mano dura del nuovo
padrone, il
cui unico scopo corrispondeva allo sconsiderato sfruttamento delle loro
risorse
senza però investire in infrastrutture per consentirne un
continuo ciclo di
rinnovamento.
In casa
aveva difeso appassionatamente le razzie ai
palazzi dei nobili padovani: Hanno fatto bene,
probabilmente era roba
già rubata! E ancor di più gli
era piaciuto che avessero alloggiato
lui, i suoi fratelli e i suoi cugini in una casa a queste canaglie
confiscata.
Essa era stata risparmiata dalla depredazione molto probabilmente
poiché tra le
ultime, quando oramai l’impeto rubereccio s’era
calmato. Nondimeno la sua
proprietaria, domina Gigliola, si era dovuta ugualmente veder condotti
via il
marito e i figlioli a Venezia “per sicurezza loro e di
Padova”, senza ulteriori
spiegazioni, senza un addio e senza abiti di ricambio se non quelli
indosso. Ad
acuire il malessere della nobildonna s’era aggiunto
l’arrivo dei patrizi
veneziani e dei loro provigionati, temendo infatti ella per il pudore
delle sue
figlie: in tutta onestà né Hironimo né
i suoi parenti nutrivano alcun interesse
verso di loro, tuttavia far macerare nel dubbio la loro signora madre
era un
passatempo troppo divertente, così come punzecchiare lei e
le ragazze di
continuo tramite innumerevoli dispetti e servirsi largamente di ogni
bendiddio
della casa, a spese ovviamente della poveraccia.
Soltanto
Lucha disapprovava quel loro comportamento, più per timor
che i fratelli e cugini colmassero la misura e si cacciassero nei guai
col
provveditore, che per simpatia verso domina Gigliola che anzi pure lui
detestava. Taceva tuttavia in pubblico e, pur sorvegliando acutamente i
suoi
minori, li lasciava fare, serbando eventuali predicozzi e rimproveri
nel
segreto delle loro stanze, laddove ricordava loro di non comportarsi da
pirati
saraceni e puttanieri, specialmente Marco adesso ch’era
accasato con moglie e
figli, peccato che alla menzione di Helena suo fratello scattasse
inviperito,
ribadendogli di non necessitare dei suoi sciocchi consigli. Piccoli
screzi a
parte, dinanzi alla padrona di casa i Miani e i Morexini apparivano
saldamente
uniti nella loro ostilità mascherata da paternalistica
benevolenza e così
doveva essere, per tenere la nobildonna sottomessa e timorosa. Le
costava
obbedirli, lo notavano e ne approfittavano sfacciati, ciononostante
ella non
poteva sottrarsi né d’altronde glielo aveva
consigliato il medico di schierarsi
dalla parte dell’Imperatore, s’assumesse dunque le
sue responsabilità.
Quanto ad
Hironimo, egli aveva la sua volpetta a tenergli
compagnia dopo i turni di ronda ai bastioni, sebbene in cuor suo egli
avrebbe
di gran lunga preferito quella della sua domina. Se ancor sua lo
era, poi. L’ultima lettera di lei …
Hironimo
si bloccò davanti il portone d’ingresso del
palazzo in
cui era alloggiato, sgranando gli occhi perplesso: nel suo cupo
meditare non
s’era accorto tranne all’ultimo della presenza di
Lena all’uscio, seduta
imbronciata sugli scalini, la guancia appoggiata su di un pugno e
l’altra che
giocherellava con le cuticole delle sue dita. Che
cosa ci faceva lì? si
chiedeva, se già aveva terminato il suo turno a portar da
bere agli zappatori
alle mura, perché non se ne stava in camera sua a riposarsi?
“Lena”,
la chiamò allora Hironimo e la ragazza levò lo
sguardo in
alto verso il patrizio, per poi voltare di scatto il viso
dall’altra parte, le
labbra piegate infantilmente all’ingiù.
“Non mi saluti, ora?”, la rimproverò
scherzosamente il giovane, accarezzandole le gote con due dita.
“Paron,
stilenzia, a me rebuto”, obbedì quella di
controvoglia,
borbottando sia stizzita sia ironica, provocando nell’altro
un perplesso
arcuare di sopracciglio. Lena si scostò brusca dalla carezza
del Miani e si
passò la mano sugli occhi, strofinandoseli forte al punto
d’arrossarli.
Hironimo
si chinò su di lei, d’un tratto preoccupato,
cercando
d’incrociare i loro sguardi. “Pianzestu?”
“Siornò,
dea fumegàra (fumo, ndr.) en li ocij”, rispose in
fretta
la ragazza, ponendosi in piedi per rientrare dalla porta della cucina e
quell’atteggiamento così sospetto non piacque per
niente al giovane veneziano,
che le intimò perentorio, afferrandola celere per il polso e
così bloccandola:
“Fatti
guardare, non ho mica pressa di rientrare!”
Impossibilitata
a fuggire, Lena si morse l’interno della guancia,
incerta se soddisfare o meno il palese comando del ventitreenne
patrizio.
“Spicciati,
femena, son stanco e non ho né tempo né voglia di
giochetti!”
“Vi
servo, paron, ste’ seren”, dichiarò
stavolta più docile la
contadina, girandosi verso Hironimo e permettendogli di squadrarla da
capo a
piedi, pur seguitando ad evitare il suo sguardo, ora più
vergognosetta che
arrabbiata.
In pochi
giorni, Lena non pareva più la medesima emaciata
fuggiasca vestita di cenci e ricoperta di polvere e fango, che da
Piazzola era
giunta a Padova assieme agli altri suoi compari: il giovane Miani, cui
ella
s’accompagnava, di persona aveva provveduto a rimetterla in
sesto e adesso la
contadina già si presentava come un’altra persona,
il suo musetto di volpe più
pasciuto e roseo e l’occhio limpido e soddisfatto di chi
possedeva lo stomaco
pieno. La vecchia sottana e camicia, ambedue lerce e stracciate, erano
state
sostituite da una veste celeste alla rustica sopra ad
un’altra tela di color
biava, con un busto alquanto stretto che strizzava e sollevava il seno
pieno di
giovane donna e detto busto era allacciato con alcuni cordoncini grossi
in modo
che si vedesse la camicia bianca sottostante. Onde evitare di sporcare
l’abito
nuovo, la contadina s’era legata la veste alzandola con una
cintura di cuoio
sopra l’altra che aveva di sotto e mostrando quindi una bella
porzione delle
caviglie formose e ovviamente le pianelle.
Il
dettaglio più curioso della sua persona, quello che subito
attirò Hironimo, fu il velo di bambagia sul suo capo, visto
che di solito Lena
lo teneva allacciato al collo e lo sollevava soltanto a
mezzodì o in chiesa.
Adesso invece oltre a coprire i suoi ricci biondi celava anche mezzo
volto,
tanto da rassomigliare ad una di quelle donne turche quando
deambulavano fuori
casa.
“Coss’elo
sto negozio?”
“Gnente,
paron.”
Hironimo,
non credendole, per tutta risposta le scoperse la testa
e digrignò irato i denti all’indegno spettacolo
offertogli. “Chi è stato?”, la
costrinse a rivelargli, passando lievissimo il polpastrello sul livido
gonfio e
pulsante sullo zigomo della contadina. “An?”
“Nigun.”
“Bugiarda.”
“Cossa
v’importeu? Gi ho l’uso mi de ciaparme botte e
stramusoni,
no ze ‘na novità ...”
“Tasi!
Tu sei la mia femmina: chi t’offende, offende me!”,
l’interruppe bruscamente il patrizio, che già
ribolliva di rabbia all’idea che
qualcuno avesse picchiato la ragazza alle sue spalle, sentendosi preso
in
causa. Dopo l’affronto subìto per mano della sua
domina e del suo novizzo, non
tollerava ora di certo un secondo ceffone all’amor proprio
né tantomeno verso
roba sua. Inoltre, malgrado si fossero accordati una per sopravvivenza
e
l’altro per vendicarsi, un pelino a lei s’era
affezionato e non la voleva
sapere strapazzata da chicchessia, non se lui aveva voce in capitolo. A
suo
modo aveva promesso di proteggerla e l’avrebbe fatto fino in
fondo.
Lena
tirò su col naso, umettandosi le labbra un po’
secche per le
lunghe ore a trasportare borracce d’acqua e vino e secchie.
Un ultimo attimo
d’esitazione, valutando i pro e i contro, ed infine
rivelò al veneziano: “Zé
stà quea stomegosa de madona Ziliola: co’
rencaxavo, me gi ha dé on stramuson,
butandome forra de caxa a spentoni: Mi chialondena a
ti no te voggio,
ludra onta bisonta, cancara villana e troja!, ea
m’ha zigé. O mi criù,
ché mi nol capisso ben el tajan moscheto.”
(italiano da signori, ndr.)
Hironimo
inspirò l’aria in un rabbioso sibilo, le gote
scarlatte e
i muscoli del collo tesi allo spasimo, similmente a quelli dei pugni,
stretti
convulsi da far sbiancare le nocche. “An, così mi
racconti …”, mormorò in un
ringhio ingolato. “Corri in camera mia, risciacquati il viso
e dopo vienimi
appresso, ché chiarirò io la faccenda con la
siora patrona.”
Rise
malevolo, grato in fin dei conti di quella distrazione: la
lettera che aveva inviato a Venezia ancora non ritornava con una
risposta e
aveva una voglia matta di sfogarsi contro il genere femminile, meglio
ancora se
un suo rappresentante già di per sé gli stava
sullo stomaco.
L’aveva
rivista a Padova qualche giorno dopo la loro
perlustrazione del Castello di Piazzola e dei dintorni: allora Hironimo
aveva
già imparato a memoria la crudele missiva della sua domina,
rifiutando di
credere ad ogni singola parola ivi scritta e annegando le lacrime
traditrici
nell’acquavite, sicché al momento di rincasare
all’ora del coprifuoco se ne
stava leggermente barcollando a guisa di funambolo, incurante di
potenziali
borseggiatori o d’inciampare e sbattere il muso sul
selciato.
Incrociò
la contadina verso la strada conducente al palazzo dove
alloggiava e soltanto all’ultimo la riconobbe, infilando
celere nella scarsella
di cuoio la lettera, non desiderando ch’ella eseguisse i
proverbiali due più
due. La giovane stava arrancando sotto il
bàger alle cui estremità
erano agganciati dei secchi d’acqua. Correndole incontro,
Hironimo con molte
moine riuscì a farsi cedere il bastone ricurvo in modo da
sistemarselo sulle
sue di spalle.
“Hai
finito il turno?”
“Siorsì,
questi sono per me.”
“Dove
abiti?”
La
ragazza glielo disse.
“E’
lontano e fra poco calerà il buio, non dovresti andartene a
zonzo da sola. Manderò qualcuno ad accompagnarti. Il mio
alloggio non dista
molto lontano.”
“Paron,
siete troppo buono a preoccuparvi così per me”,
commentò
ella, levandosi lo sciugatoio dalla testa e usandolo per tamponarsi il
collo e
il petto sudati. Subitaneamente il suo viso lungo e affilato da volpe
s’illuminò d’un sorriso malizioso.
“Siete sempre così cavaliere?”
“No,
affatto”, ribatté brusco Hironimo. “Sei
sempre così ciarliera
cogli uomini?”, le chiese piuttosto acido di rimando.
“Soltanto
con quelli che mi piacciono.”
“Ed
io ti piaccio?”
“Moltissimo,
paron.”
Il
giovane patrizio piegò la bocca in un ghigno amaro,
preferendo
tuttavia rimanere in silenzio. Giunti alla porta di servizio del
palazzo, egli
batté forte sullo spesso legno, tra arditi equilibrismi col
bàger. Gli venne ad
aprire una pasciuta fantesca, la quale trasalì nel vederlo
così conciato e
doppiamente quando Hironimo le cedette sgarbatamente il bastone
ricurvo, che
s’arrangiasse a trovargli un’ubicazione.
Intuendo
d’aver forse pizzicato un nervo scoperto, la contadina lo
tallonò lesta, anticipando il veneziano quando questi
tentò di servirsi di un
boccale di vino, sottraendoglielo infatti e servendolo lei stessa.
“Perdonate,
paron, se v’ho offeso. Avete forse una cristiana a
Veniexia?”
“No.”
“Morosa?”
“Neanche.”
“Una
femena, allora?”
Hironimo
esitò un istante; dopodiché, si portò
l’orlo del boccale
alle labbra. “No”, rispose atono, ingollando in un
sol sorso il vino. Servitosi
ancora della bevanda e sovvenutosi delle buone maniere,
s’informò assai
disinteressato: “E tu? Non hai un sior marido?”
“Vivo
col mio uomo da quasi tre anni, sì.”
“Vattene
da lui dunque e non m’importunare.”
La
ragazza gli sorrise indulgente, come se stesse discutendo con
uno scolaretto piuttosto testardo. “Non si può,
paron, manco se lo volessi.”
“Perché?”,
posò perplesso il patrizio il boccale sul tavolo e si
sedette, d’un tratto coinvolto dal discorso della
villanella. “Pensavo fosse uno di quei
villani rifugiatisi a
Plazóla”, le fece cenno d’imitarlo e
perfino le servì del vino, stranamente
empatico verso di lei. “E’ morto?”
“Morto?
Sì, no, non so. Forse è ferito. Forse
è prigioniero. Forse
ha disertato e s’è nascosto in qualche buco. Forse
s’è perso o non gli riesce
di rimpatriare. È da maggio che non so più niente
di lui. Si fece soldato,
sapete, per tirarci fuori dalla miseria. Mi sa che m’ha
sprofondato doppiamente
in essa”, constatò pragmatica la ragazza, nel
frattanto che si risistemava lo
sciugatoio sui capelli biondi. “Quando ho capito che non
sarebbe più tornato,
ho preso le poche mie robe e via per i campi a cercar altri compagni di
sventura. O restavo e morivo ammazzata oppure tentavo la sorte. Quei
compari
veramente me li ha mandato la Madona, tanto gentili sono stati con me,
mi hanno
accolta senza domande … Perché mi guardate
così turbato? Poteva andarmi peggio:
ho forza e salute e qualche parente da cui recarmi per cercar lavoro.
Il resto
vien da sé o ci pensa il Padreterno.”
Hironimo
l’osservò a lungo in silenzio, studiandone i
lineamenti
volpini, la figura d’una magrezza nervosa, la saldezza della
sua presa sul
boccale, la fissità predatoria degli occhi. Una creatura
tutto istinto
determinata a sopravvivere ad ogni costo, materialista e incurante di
qualsiasi
cosa non potesse né toccare né vedere.
Così diversa dalla sua domina, ohibò,
così diversa da qualsiasi donna da lui conosciuta a Venezia.
Ecco, forse ancora
le sue fantesche possedevano quell’animalesca
vitalità, tuttavia leggermente
mitigata dalla sicurezza di un tetto sopra la testa, dalla protezione
dei loro
uomini e della certezza di tre pasti caldi al giorno. “Hai
figli?”, s’informò
incuriosito, tra un sorso e l’altro di vino.
“Uno,
seppellito lo scorso autunno. Ripensandoci, sono quasi
contenta: almanco il mio fantolino è morto nel sonno, come
un angioletto, senza
soffrire”, gli rivelò con voce tremula e una
piccola lacrima traditrice,
sincera, le colò lungo la guancia, prontamente asciugata.
“Perdonate, paron,
non so che …”
“Non
c’è vergogna alcuna nel piangere un figlio
morto.”
La
contadina gli sorrise timidamente, non sfuggendogli la dolcezza
e la genuina comprensione verso il suo intimo dolore: possedeva un
ché di
paterno, inusuale per la giovane età del nobiluomo.
“Avete creature vostre?
Magari da qualcuna delle vostre ganze.”
“No,
però ho dei nipoti che adoro; le uniche mie gioie, le mie
stelle che mi rendono più sopportabile ogni noia
quotidiana” e il viso
d’Hironimo s’illuminò per la prima volta
di un bel sorriso, sognante e pieno
d’orgoglio affettuoso, in bilico tra il possessivo e il
protettivo come se
Dionora, Gasparo, Anzolo e Crestina li avesse generati e allevati lui
stesso,
quel sorriso che Luzietta scherzosamente affermava quanto facesse di
colpo
innamorare la gente e di fatti il cuore della ragazza
sussultò e mancò di
qualche battito.
Arrossita
involontariamente e mancandole il fiato, ella commentò
sbiascicando: “Avessi avuto io un Barba così: i
vostri nipoti possono ritenersi
davvero fortunati!”
“An,
chissà …”, si schermì
modesto il Miani, passando pensoso il
dito sul bordo del boccale. Sebbene li amasse fino all’ultima
spanna della sua
anima e s’adoperasse in ogni modo per non farli mancar nulla,
dubitava talvolta
d’essere per loro un degno esempio da seguire. Dionora oramai
a breve si
sarebbe maritata; Gasparo cresceva forte e di testa fine, il cocco di
suo zio
acquisito sier Antonio Trum; Ina l'avrebbero spedita al convento per
studiare e
Zanzi … se non fosse stato per i capelli e gli occhi scuri
di Marco (e dei
Morexini in generale) sarebbe stato la copia sputata di suo nonno
Anzolo, pure
nel caratterino peperino che incominciava a saltar fuori. Probabilmente
per
questo motivo Zanzi era il suo preferito, ritrovava in lui Padre e lo
sentiva
quasi una parte di sé, più d’un nipote,
un figlio, una costola sua. “Ancora non
m’hai detto il tuo nome”, cambiò
Hironimo agilmente discorso, non garbandogli
esplorare oltre quei suoi sentimenti.
“Lena,
paron”, l’accontentò subito la
villanella.
“Magdalena?”
La
giovane fece spallucce. “Penso di sì,
m’han detto corrispondere
allo stesso nome della mia santola …
Siete per caso fratello del
magnifico missier Marco Contarini?”
“I nostri padri erano imparentati alla lontana, ma ormai lui è più
un amico di famiglia che un congiunto. Il mio nome è Hironimo, della casata
dei Miani del ramo di Carità - San Vidal.”
“An,
in effetti non v’assomigliate
affatto …”, si portò
pensosa Lena un dito sul mento, richiamando alla mente
l’immagine del viso di
Marco Contarini. “Paron, posso confidarvi una
cosa?”, si sovvenne
all’improvviso.
“Che
abbiamo fatto finora?”, si massaggiò sbuffando il
collo
Hironimo, controllando il fondo della brocca. “Avanti,
confessati, figliola.”
Lena
arricciò la bocca, divertita da quella selvatichezza.
“Non
avrei mai immaginato di poter un giorno conversare così
liberamente con un
patrizio veneziano; sempre vi si descrive come molto altezzosi e
inavvicinabili.”
Detto
patrizio grugnì sardonico, replicando leggermente offeso:
“Tipico degli sciocchi scambiare la riservatezza per
dell’arroganza!”
“Non
v’arrabbiate, riporto soltanto le dicerie.”
“Ma tu che
ne pensi?”, reclinò il capo Hironimo,
sporgendosi verso di lei e puntandole contro le iridi nerissime,
indagatrici.
La
ragazza ricambiò tale sguardo insistente, a sua volta
studiandolo. “Chi non sa di te non ti può
ferire”, sentenziò dopo un pregno silenzio
e aggrottando la fronte dinanzi alla risata amara del veneziano, il
quale,
battendo le mani, si complimentò senza particolar gusto
eppure senza deriderla:
“Brava,
bravissima! Vedo che capisci.”
Al
che Lena osò vociare il dubbio che l’aveva rosa
dalla prima
volta in cui aveva incrociato quello strano giovanotto: “Chi
vi ha ferito,
paron?”
Hironimo
sobbalzò sul posto, raddrizzando sulla difensiva la
schiena, gli occhi spalancati e increduli, induriti in un atteggiamento
però di
sfida e aggressione. Il petto, ansante, si strinse in una morsa di pura
agonia
e i denti presero a stridere tra di loro. Di riflesso si
scostò della polvere
invisibile dalle ciglia, volse caparbio il capo altrove:
così palese era stato
nella sua affiliazione? Si sentì improvvisamente avvampare
di vergogna, le
ultime difese abbattute dalle bombardate di quello spinosissimo dolore,
il più
tremendo, amare per finire odiato. Ironico come non potesse lamentarsi
con
nessuno di ciò, quando proprio da tali lai i poeti traevano
succosa materia per
sfogare le loro frustrazioni amorose. Puoah, mondo
all’incontrario che prima
feriva e poi canzonava!
Della
sua confusione Lena n’approfittò per posare la
mano
delicatamente sopra la sua. Conosceva la tristezza dell’animo
e aveva un
eccellente metodo per curarla. Sicché, nella profana
versione della vedova
Irene, ella a suo modo si prese cura delle ferite del suo Sebastiano.
Lui non
oppose resistenza, si lasciò fare, inerme e vulnerabile.
Senza favellare lei se
lo portò in camera, al lume di candela lo sanò,
leggere le sue dita sulla pelle
tesa, sudata, affannata, lì dove i muscoli si contraevano
ansiosi sotto i suoi
polpastrelli, risvegliando il sangue, i sospiri rochi e sinceri. Amò ella
osservare come la
vita riprendeva a scorrere sulle gote di lui, il bianco dei suoi denti
e l'umido
guizzare della sua lingua, unito al vibrante e improvviso gradito fuoco
nelle
iridi nerissime. In mezzo al gelo della morte che li avvolgeva e li
abbruttiva,
sfogarsi nell’atto primario del genere umano li
riscaldò nel profondo, rendendoli
anche per poco dimentichi di ogni cruccio e tormento, abbandonandosi
senza
rimorso a quegli illeciti attimi rubati. A nessuna carezza si negarono,
a
nessun bacio. L'odore pungente di lei - un misto di terra e il dolciastro dell'acqua fluviale, non dissimile a quello di qualche dea pagana dei campi e delle selve - si mescolò a quello più innaturale di lui - ferro, acciaio, cuoio, polvere da sparo - e lo ritrasformò in un uomo, estraendolo a viva forza da quel guscio di rancore e diffidenza, un'armatura senza volto dietro la celata.
Nella carne di Lena, Hironimo si rigenerò e scoprì non odiare più come prima la sua domina, un po' perché ora erano pari e patta, un po' perché finalmente non doveva più fingere, neppure con se stesso: la giovane contadina lo aveva visto nella sua nudità e l'aveva accettato senza pregiudizi o richieste.
Finalmente un legame semplice e sincero, anche se prosaico e probabilmente a breve termine. Poco importava che non s'amassero, poco importava che i loro cuori bruciassero ancora per chi li aveva abbandonati: sapevano chi erano e che cosa li aveva uniti. Ciò li bastava in quel mondo folle, che non garantiva l'indomani.
“Il
mio dovuto, paron”, allungò Lena la mano a coppa
verso
Hironimo, destandolo dal lieve sonno cui s’era abbandonato.
Le ombre vespertine
avevano ceduto il passo alle tenebre notturne, rischiarate dai flebili
raggi
lunari insinuatisi dalle sfese delle imposte. Nuda a carponi sul letto
e la
pelle riflettente il caldo arancio della fiammella della bugia, al
giovane
patrizio la ragazza pareva doppiamente ferina, una vera volpe a caccia.
Hironimo
sbadigliò e, postosi seduto di fronte a lei,
appoggiò
flemmatico il palmo della sua mano sopra quello aperto di Lena,
stringendole le
dita quasi volesse domarla. “Se tu divenissi la mia
fissa?”, le propose di
punto in bianco. In altre circostanze avrebbe dovuto strigliarsi via
l’odore di
quella donna dalla pelle e tagliarsi la lingua per
quell’offerta, che profanava
il voto di fedeltà alla sua amante; invece, la cosa adesso
gli recava un
malsano piacere, neanche avesse trovato il mezzo perfetto per
vendicarsi di
quell’infida, di quell’empia che l’aveva
menato per il naso peggio d’un
allocco.
“Io?
Vostra fissa?”
“La
tua compagnia mi aggrada.”
La
contadina ci rifletté su per qualche istante, per poi
annuire
soddisfatta col capo. “Mi sta bene, accetto.”
“Starai
con me e con nessun altro”, l’ammonì
perentorio Hironimo,
affatto desideroso di ritrovarsi nuovamente invischiato in un tiro a
due,
laddove lui era il terzo e inconsapevole incomodo.
“Ancora
meglio”, convenne Lena: l’aveva ben osservato e sul
suo
corpo non aveva trovato alcun segno sospetto, tranne delle cicatrici
frutto di
risse e combattimenti. Dal canto suo, lei aveva avuto in letto soltanto
il suo
cristiano, ergo se si congiungevano esclusivamente tra loro due,
potevano
evitare più facilmente di contrarre il malfrancese.
“Purché mi lasciate
ritornare dal mio uomo, dovesse ripresentarsi a Padoa”,
puntualizzò. Malgrado
le alterne vicende, alla fine lei aveva un obbligo nei confronti del
suo
compagno e se lui l’avesse reclamata indietro Lena doveva
obbedirgli e
seguirlo.
“Compro
i tuoi servigi, non la tua anima. Mi pare ovvio. Tu sei
libera di fare quel che vuoi, tranne ingannarmi.”
La
contadina si ritrovò
d’accordo. Quand’ecco che una
subitanea curiosità le balzò in testa.
“Mi porterete a Veniexia?”, gli chiese,
in caso esistesse la possibilità che il suo uomo non
tornasse mai più.
“Vuoi
venire?” e la serietà del veneziano le
provocò un gran riso.
“Come
mi giustificherete? Ecco la mia morosa padovana? Vi
rideranno in faccia! No, meglio di no. Di certo non sono una degna
preda di
guerra di cui vantarsi in giro. Alla prima occasione
ritornerò dai miei parenti
e poi si vedrà.”
“Cosa
diranno …?”
“…
che ho fatto la puttana per mantenermi? Niente, paron. Voi
forse vi stupite e vi scandalizzate se una donna ricorre a tali
espedienti,
proprio voi che siete i primi a richiedere tale negozio per poi
biasimare chi
lo pratica. Come dice il proverbio: chi predica il digiuno ha sempre la
pancia
piena. Noi, invece … a furia di star con
le bestie forse un poco lo
siamo divenuti anche noi. E d’altronde, mica ho intenzione di
farlo per sempre,
ché rischio di pigliarmi i franzosi? So lavorare, io.
Già aiuto gli zappatori
alle mura. Solo … pensavo di mettermi da parte qualche lira
per ogni evenienza
futura, senza contare che voi … insomma, siete ricco,
giovane, bello e gentile
…”
“…
e concludendo, unisci l’utile al dilettevole”,
riassunse
Hironimo con un rapido svolazzo della mano.
“Siete
arrabbiato con me?”
Il
giovane scosse il capo, rassicurandola. “Una donna non fa
niente per niente, l’ho ben imparato a mie spese. Qualcosa in
cambio dall’uomo
lo vuole sempre, che sia denaro, rango o il suo cazzo.”
Gli
angoli della bocca della ragazza si piegarono
all’insù,
divertiti da tanta prosaica schiettezza. “Non mentivo quando
affermavo che mi
piacete, paron. Vi servirò obbedientissima, io.”
“Me
ne consolo”, la cercò Hironimo e Lena non oppose
resistenza
quando lui la cinse per la vita e la posizionò sotto di
sé, né si spaventò
della subitanea forza impiegatavi eppure il suo tono di voce rimaneva
sempre
cortese, quasi titubante: “Vuoi?”,
inquisì e la contadina si sarebbe anche
offesa per la banalità di tal richiesta, dopo quel
ch’avevano già concluso,
s’ella non avesse letto negli occhi pur dilatati del patrizio
del genuino
timore d’un rifiuto. Sbuffò frustrata: come si
poteva sputare sulla propria
fortuna e scacciar via un amante disposto a tanta devozione e
gentilezza? Bah!
Gentiluomo
infatti Hironimo lo fu anche in letto e Lena ci trovò
nel suo negozio anche il suo spasso, l’accordo gradito ad
entrambi e
funzionante alla perfezione.
Domina
Gigliola infisse l’ago nel ricamo, levandosi in piedi e,
poste due mani sui fianchi, arcuò la schiena dolorante,
avendo dedicato infatti
quasi l’intera giornata a tale attività, non
possedendone altra con cui
ingannare il tempo. Colta da un’improvvisa ansia, si
guardò intorno,
domandandosi come mai la sua fantesca tardasse a ritornare: che si
fosse trattenuta
dalle sue figlie Biancha, Yxabela e Lucrecia? O da quegli screanzati
che da
settimane oramai le occupavano il palazzo, bivaccando allegramente? Tra
i
patrizi, i loro servitori e i provigionati, pareva di stare in
un’osteria
invece di una casa onorata, costringendo lei e le sue ragazze a vivere
da
recluse nelle rispettive stanze, onde evitare quanto più
possibile la compagnia
loro e delle sgualdrine che si portavano talora dietro.
I primi
giorni, facendo appello alla sua dignità di nobildonna,
domina Gigliola era scesa ad affrontarli nella speranza di ragionarci
assieme e
trovare un accordo di convivenza, ricevendo al contrario
null’altro se non
false cortesie al limite dello scherno e costanti provocazioni, al
punto che
alla fine v’aveva rinunciato anche perché timorosa
della sicurezza sua e delle
figlie. Aveva udito certi turpi storie da chi alloggiava in casa i
soldati,
roba da farle rizzare i capelli, specie associandole alle sconcezze
proferite
dai suoi “inquilini” quando lei, scandalizzata,
l’imponeva un minimo di decoro.
Finora s’erano limitati a parole, ma quando sarebbero passati
alle vie di
fatto?
Cielo!
Com’era giunta a quel punto? Quanti rovesciamenti in pochi
anni, mesi, giorni! V’era una fine a quella follia? Cremona
le aveva dato i
natali, quando si trovava ancora sotto il Ducato di Milano;
appartenente alla
piccola nobiltà, a corte domina Gigliola aveva presenziato
pochissime volte e
sempre con grandi spese per la sua famiglia, la quale sperava di
trovarle lì un
buon partito. All’inizio non era stata contenta di sposarsi
suo marito - un
padovano! - ma i soldi son soldi e
lei non era più
giovanissima. Ironia della sorte, Cremona stessa era passata in seguito
sotto
la Serenissima. Tuttavia, domina Gigliola aveva imparato ben presto che
il
patriziato veneziano e l’antica nobiltà di
Terraferma appartenevano a due razze
distinte, trovandosi quindi assai compatibile di mentalità
col consorte, il
quale sotto-sotto mal sopportava la soffocante intromissione veneziana
in ogni
loro questione amministrativa. Pertanto, la donna aveva gioito nel
cuore
all’arrivo di Leonardo Trissino a Padova e delle truppe
imperiali, felice di
veder cadere e deturpare l’odiatissimo leone alato,
sentendosi infine vendicata
per l’ignominiosa fine del Ducato di Milano. Finalmente la
giustizia divina
s’era abbattuta su coloro che avevano spalleggiato i Francesi
nella conquista,
era più che giusto che adesso Venezia perisse per mano loro,
dell’Imperatore,
del Papa e dei loro valorosi alleati.
Dio
però evidentemente parteggiava per i Veneziani e similmente
ai
ladri della parabola dei Vangeli, loro non avevano saputo né
il giorno né l’ora
della contromossa e quelle porte che credevano aver chiuso ai lagunari
per
sempre, con sprezzo e prepotenza quest’ultimi le avevano
forzate di nuovo,
scatenando l’ira della loro vendetta. Non
avrò pace finché non avrò
ridotto quei superbi Veneziani agli umili pescatori quali erano alle
origini!, aveva tuonato il Papa Giulio II,
sbagliandosi di grosso: non
erano pescatori, erano pirati perché se da una parte i
Veneziani erano entrati
col Griti a Porta Codalunga, dall’altra sbarcavano gli
agguerriti Arsenalotti
capitanati da sier Nicolò Pasqualigo, risaliti di notte
lungo il Brenta dalla
laguna. All’ordine del loro patron, l’Arsenale
aveva vomitato questi suoi
militari-operai, satanassi rossovestiti fedelissimi alla Signoria e sua
creatura dilettissima, da lei sguinzagliati nei momenti più
critici. Dopo aver
terminato d’occupare i punti strategici della
città, gli Arsenalotti s’erano
abbandonati ad una sfrenata orgia di saccheggi, violenze e bagordi
assieme agli
stradioti, ai cavalleggeri di Polo Contarini, ai fanti di Latanzio
Bonghi da
Bergamo, di Taddeo della Volpe e di Zitolo da Perugia, facendo
allegramente man
bassa dei beni dei “traditori gebelini.” Uomini,
donne e perfino i bambini
s’erano riversati sulle strade per aiutarli in tale
crudelissima impresa,
equiparando in ferocia i Turchi e i Mori, trascinando a spregio per le strade i vessilli di Maximilian. Circolavano poi
voci sinistre sul massacro degli imperiali al
Castello di Stra,
tagliati a pezzi per aver opposto resistenza alla rabbiosa cupidigia
della
folla. Leonardo Trissino, catturato assieme ai suoi fedelissimi, era
stato
inviato a Venezia e lì incarcerato nelle sue più
orride segrete.
Il
palazzo di domina Gigliola era stato risparmiato, ma suo marito
e i suoi figli strappateli via dagli Arsenalotti, lasciandola priva di
protezione, specialmente ora, alla mercé dei loro patrizi, o
meglio pirati
travestiti da gentiluomini. Non si fidava di nessuno, men che meno dei
suoi
servitori i quali la cremonese con suo sommo orrore aveva scoperto
esser stati
proprio gli stessi a denunciarli al podestà e ai
provveditori. Era rimasta da
sola, in trappola in casa sua. Talvolta aveva progettato di uccidere
nel sonno
quei disgraziati ma poi? Quale guadagno ne avrebbe ricevuto?
Sicuramente i loro
conterranei l’avrebbero scoperta e condannata, forse
addirittura torturata
prima di …
L’unica
sua speranza rimaneva che l’Imperatore e la Lega
riconquistassero Padova, liberandola per sempre da quei dannati,
specialmente
il più giovane di tre fratelli Miani, quel brunettino tanto
strafottente e
dalla bocca più sozza d’un marinaio. Addirittura
aveva invitato la sua ganza a
vivere sotto il medesimo tetto, sicché domina Gigliola
adesso pure una puttana
era costretta a sfamare gratuitamente! Oh, ma se quel pomeriggio non
l’aveva
rimessa al suo posto, quella sfacciata che gironzolava tutta trionfa
nel suo
palazzo, rifiutando d’eseguire un qualsivoglia suo ordine!
Quando le aveva
intimato per l’ennesima volta di raggiungere le altre serve a
pulire i
pavimenti, quella disgraziata, incrociando le braccia, le aveva
risposto
sogghignando in quel pavan alla cremonese tuttora ostico: Sbraitate
quanto volete, io obbedisco solamente al mio paron! Al
che la
nobildonna aveva visto rosso e, tra sberle e spintoni,
l’aveva buttata fuori in
strada, là dove appartenevano le troie come lei. A Dio
piacendo, presto sarebbe
toccato anche a quello sciagurato del suo padrone.
E neanche
l’avesse evocato, ecco che la porta della sua camera,
l’ultima sua sancta sanctorum, si spalancava fragorosamente
come s’egli avesse
voluto spaccarla contro il muro.
Domina
Gigliola balzò all’indietro, presa di contropiede
da quel
violento arrivo e inconsciamente la sua mano strinse il crocefisso
d’oro al
petto. Rapida corse dietro la colonnina del letto, sperando di porre
quanto più
spazio tra lei e il veneziano, ancora con l’armatura indosso
per via della
ronda appena termina, i capelli in battaglia e i denti ben in vista,
manco si
fosse trasformato nel medesimo leone marciano. A giudicare dallo
sguardo livido
e dal congiungimento delle sopracciglia, di sicuro veniva per il suo
sangue.
La
nobildonna, inutile negarlo, prese a tremare dalla paura:
l’avesse incontrato nel salone principale o altrove a
palazzo, forse sarebbe
riuscita a sostenere quello sguardo assassino ma vederselo
lì, nel suo rifugio,
equivaleva a mille violazioni e si sentiva estremamente vulnerabile.
“Co-così
quella … quella vigliacca è venuta a lamentarsi
da voi?”,
esordì domina Gigliola, raccogliendo il suo coraggio, i
pugni serrati e alzando
orgogliosa il mento.
“Come
giusto che fosse: insolentendo lei, avete insolentito me.
Eccomi qui, domina: quali rimostranze vi hanno portata a malmenarla
alla
stregua d’una ladra?”, le sorrise carnivoro
Hironimo, cantilenando affabile la
voce come il gatto ante di strappare le ali alla mosca.
“S’è
rifiutata d’ubbidirmi!”
“Giustamente,
serve me e non voi!”
“E’
una pigra, non fa niente in casa!”
“Lavora
alle mura, fa molto per la Signoria!”
“E’
una puttana!”, trillò infine snervata domina
Gigliola,
arrossendo per essersi espressa a voce alta in indecenti turpiloqui.
“Non tollero
di condividere il tetto e il pane con tal immondizia! Non
m’importa che sia la
prostituta di un patrizio o di un soldato, sempre la sua presenza mi
disonora
la casa e oltraggia la comune decenza!”
“Dunque
l’avete picchiata perché è una
puttana?”, riassunse
conciso Hironimo il succo di quell’appassionata filippica. E
girandosi verso
Lena, che se ne stava sull’uscio della porta, le tradusse per
la migliore sua
comprensione: “No sastu? Horra te ciaman putana!” E
rivolgendosi alla
nobildonna, sibilò feroce: “Sapete
perché è diventata puttana?”, fu la sua
domanda retorica, mentre avanzava lentamente verso madona Gigliola, la
quale
indietreggiò fin quasi ad appiattirsi contro il muro.
“Perché quella puttana di
vostro marito assieme a quelle puttane dei
suoi degni compari
hanno abbassato le braghe e aperto le porte di Padova e del padovano
intero a
quell’altra puttana di
Leonardo Trissino, permettendo a
quelle puttane ladre dei tedeschi
di sgavazzare a danno
soprattutto dei contadini inermi, che voi puttane avete
venduto alla stregua di bestie pur di riottenere indietro quei miseri
privilegi
ch’avevate ai tempi dei Carraresi!”,
ringhiò, sottolineando sprezzante il
sostantivo incriminato ogniqualvolta lo pronunciava.
Dopodiché, indicando Lena,
proseguì sdegnato: “Tutto a questa poveraccia
l’è stato rubato: la casa, la
roba sua, il marito …”
“…
el porzeo!”, aggiunse solenne la contadina, ché il
grasso roseo
animale possedeva per lei il medesimo valore di uno scrigno di gioielli
per una
gentildonna.
“
… il porcello. Cos’avrebbe dovuto fare, secondo
voi?”
“Meglio
morire, piuttosto di scendere così in basso!”,
replicò
fredda domina Gigliola, intransigente. “Ma
cosa può capire una
bestia come lei della parola dignità?”
“Puoah,
morire! Nessuno vuole morire a questo mondo, neanche
dignitosamente! L’uomo preferisce soffrire piuttosto di
crepare”, sghignazzò
sarcastico Hironimo, quand’ecco che una luce malevola gli
guizzò negli occhi
nerissimi. “Poiché la sua presenza vi disonora e
vi credete oltraggiata da
noialtri, perché non morite voi?
Uccidersi pur di non cedere
all’avversario, non è una fine degna di un Catone?
Oppure … le vostre sono
soltanto pompose parole da manuale, imparate a memoria e ripetute
diligentemente giusto per sentirvi superiori agli altri? È
facile vantarsi coi
villani, vi sfido dunque da mia pari.”
La
nobildonna rimase muta in ostinato silenzio, le mani strette in
una presa convulsa e deglutendo ansiosa, non attendendosi quel
capovolgimento
della situazione. Aveva contemplato d’uccidere per
l’onor suo, ma … ma suicidarsi?
Compromettere il destino eterno della sua anima per una
vanità terrena?
“Suvvia,
dimostratemi quanto valete e uccidetevi, qui, davanti a
me, se davvero ne avete il fegato!”, la provocò
inclemente Hironimo. “E
finirete di vivere nella vergogna!”
L’altra
rimase immobile, incominciando a tremare da capo a piedi,
umiliata dal suo intimo tentennamento e dall’occhiate avide e
curiose della
contadina, che seguiva l’intero teatrino attentissima,
mangiucchiandosi
l’unghia dell’indice.
“E
se proprio non vi regge il cuore e non potete dimostrarmi la
vostra grandezza d’animo, inginocchiatevi allora davanti a
colei ch’avete
picchiato ed imploratele perdono!”, proseguì
imperterrito il giovane patrizio,
indicando severo ora il pavimento ora i piedi di
Lena.
La
padrona di casa avvampò dall’indignazione,
imporporandosi
completamente e riacquistando un po’ di coraggio.
“Io umiliarmi così davanti ad
una meretrice?!”, esplose, levando il braccio onde
schiaffeggiare
quell’impudente d’un veneziano,
sennonché questi la bloccò senza sforzo alcuno,
commentando ironico:
“E’ quindi
un vostro vizio quello di percuotere chi non
dovete!” e costringendola a guardare la ragazza, aggiunse:
“Questa “meretrice”
ha un nome, sapete, si chiama Magdalena e così vi dovete
rivolgere d’ora in avanti
a lei”, la corresse gelido Hironimo, torcendo il braccio
della donna dietro la
schiena e strappandole un guaito di sorpresa e dolore.
“Avanti, chiedetele
scusa!”, l’incalzò, trascinandola al
centro della stanza verso la contadina, la
quale stava esibendo una bizzarra espressione trasognata, incapace di
credere a
quanto stesse accadendo e timorosa di aver capito male per la pochezza
del suo
italiano: sul serio quella gran dama si sarebbe scusata con lei?
“No,
no, no! Mi rifiuto! Non mi pongo al suo stesso livello! Se
l’è meritato, è una sgualdrina e
così vanno trattate tali donnacce!”,
protestò
strillando domina Gigliola, tentando di sciogliersi da quella ferrea
presa e
digrignando i denti alla lieve pressione sul polso applicatale dal
giovane
patrizio.
“Vale
più una sgualdrina fedele alla Signoria che una nobildonna
traditrice e sto proprio parlando di voi e della vostra immonda
masnada, razza
di lerci lenoni figli di cento padri! Proprio voi predicate le grandi
virtù,
che con faccia di bronzo avete prostituito la vostra madrepatria al
miglior
offerente! Meritereste mille forche, mille tenaglie ad ogni traghetto,
di
finire divorati dai cani randagi e di marcire in bocca al diavolo per
il vostro
voltafaccia!”, ruggì feroce Hironimo, spingendola
giù a carponi e, ponendole un
ginocchio sulla schiena, la costrinse a faccia a terra.
“Poche storie, schifosa
di un’ipocrita ghibellina: imploratele perdono!
Ora!”, insistette violento e
inflessibile il veneziano, strisciando pericolosamente le parole e
stringendo con
maggior forza la sua presa sul polso.
“No!
Non m’abbasso a tali vergognosi ricatti!”
“Ditele
che vi dispiace!”
“No!”
“Rassicuratela
che non l’insulterete mai più, né che
v’azzarderete
in futuro a metterle le mani addosso!”
“No!”
“Inoltre,
per farvi perdonare, ditele che le regalate uno dei
vostri abiti migliori e qualche bel gioiello. Ne possedete a bizzeffe,
no?
Potete ben separarvi da uno: vanitas vanitatum et omnia vanitas,
sorella!”, la
derise crudele Hironimo, scuotendola vigorosamente tanto che la lenza
le cadde
dalla fronte e abbondanti ciocche di capelli le uscirono dalla retina,
spettinandola.
“Fatelo
e vi denuncerò per furto!”, singhiozzò
domina Gigliola,
spasimata dall’ira e dal terrore.
Hironimo
gettò il capo all’indietro, ridendosela alla
grossa. “E
chi vi crederà?”, la tormentò,
sussurrandole quasi all’orecchio. “La parola di
una traditrice, d’origini straniere per giunta, contro la
mia? Vi rideranno in
faccia, vi daranno della pazza, della calunniatrice, della
bugiarda!”
“E
come giustificherete abiti così costosi?”, ritorse
quella,
sfinita. “È palese che siano frutto di una
ruberia! Vi denuncerò e godrò alla
vista della vostra mano appesa al collo!”,
gracchiò isterica, dimenandosi
esagitata.
“Leggete
troppe tragedie senechiane, domina. Furto? E chi parla di
un furto? La vostra è una donazione.
Racconterete come la storia di
questa povera ragazza vi abbia commossa al punto che vi siete sentita
in dovere di
regalarle qualcosa di vostro, anche ad espiazione delle vostre colpe.”
A quella
proposta a suo parere indecente la nobildonna perse in
parte il senno, urlando peggio d’un monaco infervorato nella
sua predica
fustigatrice: “Dio vede tutto! Dio sa tutto!”
“E
gli uomini sanno ciò che gli vien detto e vedono quel che
vogliono vedere!”, il cinismo nella replica di Hironimo
ammutolì di colpo
domina Gigliola, equivalendo quasi ad una frustata. “Se voi
dite che è un dono,
allora sarà un dono; la vostra parola determinerà
la loro verità”, le spiegò
egli assai spazientito e desideroso di terminare lì la
questione, non
gradendogli la presenza di quella spocchiosa che, man mano che passava
il
tempo, gli ricordava sempre di più la sua amante e
l’immagine delle due talora
si confondevano inquietantemente, tanto che Hironimo si chiedeva come
avesse
potuto perdere la testa per tale frivola, vigliacca e superficiale oca
giuliva.
“Giuro
che vi rovino! Troverò il modo per rovinarvi!”
Il
patrizio roteò gli occhi, imitandone puerilmente la vocetta
acuta. “Minacciate, adesso? Allora permettetemi di
contraccambiare: fate voi attenzione,
ché se v’azzardate a darci fastidio, una mia
parola sulla vostra dubbia lealtà
e vostro marito e i vostri figli li rivedrete cadaveri in bara! Se non
li
buttano in canale prima, le caviglie legate a dei pesi …
Insultate o alzate
ancora le mani sulle nostre donne e m’assicurerò
di farvi condividere la stessa
sorte di chi voi tanto ora disprezzate: state certa che i nostri
soldati giù in
sala semplicemente adoreranno la
possibilità di rompere il
vostro nobile e virtuoso culo nonché quello delle vostre
figlie! Già le vedo
piegate a metà sulla tavola a gemere come le cagne in calore
che in realtà
sono!”, la spintonò infine per terra, costringendo
la matrona a piantare i
palmi onde non spaccarsi il naso nell’impatto contro il
pavimento.
“Non
loro, maledetto, non loro!”, batté ella i pugni,
impotente,
angosciata dall’immagine mentale delle sue indifese figlie
tra le cupide
braccia di quella lasciva marmaglia.
“Dunque ingoiate
il vostro orgoglio e fate come
ordinatovi!”, fu la sentenza definitiva d’Hironimo,
mentre faceva cenno a Lena
d’entrare nella stanza e di porsi esattamente davanti la
faccia della prona
nobildonna. “Sto aspettando, madonna …”,
l’avvertì minaccioso, notando la sua
palese titubanza. “Volete che mandi qualcuno a far visita
alle vostre figlie?”,
parlò a ruota libera, senza freni inibitori e si sorprese
della stupidità di
quella cremonese, che sul serio lo
credeva capace di tale
nefandezza ai danni di quelle tre ragazze. Dell’onore della
madre poco se ne
crucciava, ma le fanciulle non meritavano di pagare per gli errori dei
loro
genitori voltagabbana.“Dopo che saranno divenute delle
puttane, non vi darà più
fastidio condividere tetto e tavola con quelle di vera o presunta
professione,
anche perché non noterete più la differenza tra
loro e le vostre care Biancha,
Lucrecia e Yxabela. Sapeste come ci guardano vogliose la braghetta,
quelle tre
false verginelle, non vedono l’ora di prenderselo tutto in
bocca …”
Un roco
singulto si librò nell’aria e domina Gigliola,
sconfitta,
mormorò flebile a denti stretti: “Mi
dispiace” e pianse amaramente di vergogna
per quella sua debolezza.
“L’interessata
non ha sentito.”
“Mi
dispiace!”
“In
pavan veneziano, per cortesia.”
“Me
despiase!”
“Magdalena,
cara amica mia, prendi il vestito che più ti piace
e anche la mia collana di perle, sono un mio regalo!”
“Ladro!
Furfante!”
“Domina
…”
“Magdalena
… cara amica mia … va’ a … a
torte el … el … el vestìo
che pì te piase et … anca ea colàna de
perle, zeli on … on mio presente!”
“Magdalena,
stasera cenerai alla mia tavola, da sorelle, con le
mie figlie.”
“Magdalena
… stasera ti te zenarà a la mia tola, da
… da sorée
… cum le mie fie.”
“Ora
un bacio sulla guancia e pace fatta.”
Il viso
scarlatto e rigato di lacrime, la nobildonna si ripose
barcollante in piedi, appoggiando le mani sulle spalle della divertita
contadina, la quale le porse beffarda la guancia su cui domina Gigliola
posò un
recalcitrante bacio manco le avessero domandato di sbaciucchiare un
rospo.
Dopodiché, resistendo all’istinto di nettarsi le
labbra tramite il dorso della
mano, la donna si recò in stato pressoché
sonnambolico verso uno dei suoi
cassoni, estraendo un prezioso abito di broccato d’argento e
dallo scrigno una
collana con due giri di grosse perle.
“Par
ti”, sussurrò atona la padrona di casa, cedendo
affranta alla
villanella quei due suoi averi: decisamente un condannato a morte
avrebbe
dimostrato più allegria di lei.
Al che
Lena scoppiò in una risata fragorosa e sguaiata,
strabuzzando gli occhi al punto che si vedeva il bianco dei bulbi
oculari; a
mo’ di ringraziamento l’intera sua lingua
mostrò alla gran signora che sulla
pelle sua, di sua madre, di sua nonna fino all’alba dei tempi
aveva fruttato
quel goloso lusso di cui tanto si pavoneggiava e che adesso la
contadina
ghermiva tra le sue forti dita. Poiché l’invidia e
l’avidità risiedevano sia
nel cuore del ricco che del povero, Lena non provava alcuna
pietà per le
disgrazie della nobildonna, semmai gongolava nell’apprendere
come anche la
malasorte ogni tanto si sfogasse sui cosiddetti intoccabili.
Quella
sera Lucha, Marco e i loro cugini Piero, Batista e Jacomo
si stupirono di veder scendere per la cena domina Gigliola e le sue
figlie,
solitamente più recluse delle monache di clausura, ma ancor
di più di vedere
l’altezzosa dama deambulare a braccetto con la contadina,
vestita lussuosamente
da sua pari e trattata con altrettanto raffinato garbo in una grottesca
parodia
d’intima amicizia, il tutto sotto l’occhio vigile
di Hironimo, il quale non si
perdeva il benché minimo movimento
dell’aristocratica. Davanti a tal giocondo
quadretto, nessuno dei convintati lì presenti, tranne Lucha
che dal disappunto
strinse le labbra manco volesse ingoiarle, riuscì a
trattenere il proprio
spasso e con crudele gusto stettero al gioco, rivolgendosi ossequiosi a
Lena e riempiendola di ogni galante carineria in un
carnevalesco gioco
delle parti. Invitarono a tavola perfino le loro compagne di guerra e
le
fantesche e a breve la sala si riempì d’ontissimi
schiamazzi e canzonette ancor
più sporche.
Tanto si
divertivano a bere, mangiare e sbaciucchiarsi
indecentemente con le loro ganze, da non curarsi minimamente
dell’espressioni
imbarazzate e ansiose delle damigelle Biancha, Yxabela e Lucrecia
dinanzi a tal
spettacolo da quartiere militare né di come la loro madre
domina Gigliola, tra
un boccone amaro e l’altro, ripetesse oramai ossessivamente
tra sé e sé:
“Ladro,
disgraziato, ladro, disgraziato, ladro …”
Continua
…
**************************************************************************************************
Alla
faccia della cavalleria, direte? Beh, l’Anonimo nei suoi
scritti ha mostrato con disarmante schiettezza il lato meno
“onorevole” dei
condottieri e capitani sia regolari sia di ventura e di chiunque si
desse in
generale alla vita militare, citando chiaramente le loro angherie,
ruberie e
atteggiamenti assai dissoluti.
E con
questo si conclude l’ultima digressione (ne mancano altre
tre ma saranno più in là) e nel prossimo capitolo
ritorniamo nel “presente” con
le vicissitudini del Nostro.
Capisco
che questi salti nel passato possano risultare noiosi se
non addirittura fuori contesto, invece vi anticipiamo che avranno un
ruolo
importante in futuro, altrimenti alcuni atteggiamenti del Nostro non
avrebbero
senso a voi lettori senza conoscere il suo passato.
Spero che
questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!
Un
po’ di noticine:
[1] di tutte le città dello Stato
di Terra,
Brescia era la più ricca subito seguita da Treviso.
[2] a titolo di ripasso, il nonno materno
del Nostro, Carlo Morosini “da Lisbona”, aveva
avuto i seguenti figli qui in
ordine di nascita. Da Querina Querini: Nicolò (1430);
Piero/Pietro (1431);
Ferigo / Federico (1433); Hironimo / Girolamo (1437); Lunardo /
Leonardo
(1441); Batista / Battista (1442). Da Elisabetta Contarini: Leonora /
Eleonora
(1452).
[3] sebbene sia sempre stato chiamato
“Battista” nelle cronache del Sanudo e altrove,
nell’atto di matrimonio lo zio
del Nostro è stato registrato come Zuam Batista /Giovan
Battista o
Giambattista. Supponiamo quindi esser quello il suo nome di battesimo
per
intero.
[4] Patiens vuol
dire “colui che
tollera”; “colui che soffre”, ma nel
gergo giuridico di Venezia è anche “colui
che si sottomette”, cioè un omosessuale passivo.
L’intero dialogo è dunque un
gioco di parole, il riferimento alla croce si rifà
all’iconografia bizantina e
duecentesca del “Christus Patiens”, cioè
del Cristo sofferente sulla Croce.
[5] Angelo Tiepolo, per via di una soffiata
incentivata poi dalla promessa di una ricompensa, verrà
arrestato mentre si
trovava nella Quarantia con l’accusa di sodomia passiva
nell’agosto del 1516.
Torturato per giorni lui e la sua serva, non confesserà mai
e pertanto ci si
limitò ad esiliarlo cinque anni da Venezia. Sia Marcantonio
Michiel che Marin
Sanudo descrivono la sua condanna un’ingiustizia,
descrivendolo come una persona
“gentile” e benvoluta da tutti, malgrado il suo
“difetto”, mostrando quindi che
si sapeva e ciononostante lo si tollerava per il comportamento
evidentemente
morale dell’uomo.
[6] Narra il Sanudo in data 28 novembre
1505: Item accidit, che morì in do zorni
sier Hironimo Morexini, da
Lisbona, era governador de l’intrada, ab intestato. El qual
era in lite, et in
grandissimo odio, con suo fratello, sier Batista; ma, ita volente Deo,
successe
il tutto. E portato il corpo in chiesia di San Canzian, fo trovato in
questo
zorno una zanza, che l’era vivo, perchè pareva
fusse caldo; fo portà di chiesia
in caxa dil piovan, fregato etc., et pur morto era.
La nostra
teoria è che probabilmente Girolamo Morosini fosse stato
creduto morto per un caso prolungato di
coma. Chissà perché questo
episodio mi ha subito ricordato “La Sepoltura
Prematura” di Edgar Allan Poe …
[7a]
È
vero che Agnese si risposò
relativamente presto con Federico
Renier (1462-1542): il loro primo figlio, Giovanni, nacque infatti il
16.09.1507 e lei era rimasta vedova a fine novembre del 1505.
Calcolando un anno
di lutto, praticamente era sul serio rimasta incinta poco dopo le
nozze.
Tuttavia, che lei e Federico fossero stati amanti prima della morte di
Girolamo
Morosini e una diceria da me creata per motivi di trama –
forse i parenti
Morosini l’avranno anche veramente pensata,
chissà. In ogni modo, prendetela
per la ciancia che è, non per la verità fino a
prova contraria. Io rimango
tuttavia dell’opinione (che ho espresso tramite Leonora) che
dopo lo scandalo
della sorella Elisabetta Erizzo e soprattutto a causa della faida tra i
fratelli Battista e Girolamo Morosini, il clima a Ca’
Morosini doveva essere
stato talmente pesante da spronarla a trovarsi in
tutta fretta un
secondo marito, pur d’andarsene via da
quell’ambiente divenuto decisamente tossico.
[7b] Narra il Sanudo in data 8 luglio
1507: In questo zorno fo expedito, in do quarantie,
la retention di la
fia fo di sier Antonio Erizo, procurator, incolpada aver
robà danari a la morte
di sier Hironimo Morexini da Lisbona, so cugnado; la qual è
stà più di uno anno
retenuta in caxa dil capitanio di le prexon. Parlò sier
Hironimo Querini, olim
avogador; li rispose domino Rigo
Antonio; poi sier Antonio
Zustignan, el dotor, olim avogador; e li rispose domino Bortolo Dafin,
dotor,
avochato. E posto da poi disnar, per li avogadori la parte di
procieder: 40 di
no, et 11 di sì. E fo asolta.
Delle
quattro figlie di Antonio Erizzo – Elena, Marina, Elisabetta
e Agnese – abbiamo identificato in
Elisabetta questa “fia fo di sier Antonio
Erizo” cognata di Girolamo Morosini. Questo perché
Elisabetta era nubile (e
tale morirà) e di conseguenza appare più logica
la scelta di Sanudo di
relazionarla al padre, l’unico uomo di riferimento sociale.
Infatti, se fosse
stata sua sorella Marina, sarebbe stato più immediato
introdurla come la moglie
di Giacomo da Canal; similmente anche l’altra sorella, Elena,
che pur vedova
comunque era stata la moglie di Francesco Diedo, il quale si era
distinto come
ambasciatore, militare e filosofo dottorato. Questa menzione
esclusivamente del
padre potrebbe equivalere ad un pudore del Sanudo, forse per non
infangare la
reputazione dei mariti? Poco probabile, visto che quando
c’era da cantarle,
Sanudo le cantava, basti pensare a come riportava tranquillamente la
canzonetta
sconcia e minacciosa verso Antonio Grimani e famiglia nel 1499 (e
costui
diverrà Doge nel 1521!). Inoltre, anche Antonio Erizzo era
stata una
personalità di tutto rispetto a Venezia, perché
associarlo allo scandalo della
figlia? No, molto probabilmente questa Erizzo non aveva altri legami
maschili
se non col padre e per questo abbiamo pensato ad Elisabetta. Tenendo
poi a
mente il suo precario status di donna nubile, indirettamente ci ha
fornito il
movente per il presunto furto, ossia d’ottenere una dote per
maritarsi.
[8] Voltà el
canton, passà la
passion! = quando il corteo funebre ha
girato l’angolo, il dolore
(del coniuge superstite) se n’è già
andato (detto veneziano).
[9] adesso nota come “Villa
Contarini
Camerini””, di nuovo si tratta ricostruzione
intuitiva grazie ai pochi disegni
rimasti. Sulla pianta del castello nel 1540-46 Paolo Contarini fratello
di
Marco commissionò al geniale architetto Andrea Palladio di
costruire un nuovo
maestoso edificio, il corpo centrale della villa. E’
riportato che il figlio di
Ludovico il Moro, Francesco, vi soggiornò gradito ospite dei
Contarini, quando
lo Sforza stava praticamente rincorrendo l’Imperatore Carlo V
fin quasi a
Bologna per riottenere il Ducato di Milano.
Nella
seconda metà del Seicento, il discendente di Paolo, Marco
Contarini procuratore di San Marco, farà ampliare la villa e
abbellendo il
parco, donandole l’attuale aspetto, talmente sfarzoso che i
contemporanei la
definirono una reggia.
[10] Francesco Novello da Carrara venne
sconfitto nel 1405 dai Veneziani e perdette la signoria di Padova,
annessa allo
Stato di Terraferma. Condotto assieme ai figli Francesco III e Giacomo
a
Venezia, morirono tutti e tre in prigione strangolati nel 1406. Nel
1435
Marsilio da Carrara, l’unico sopravvissuto dei maschi di
Francesco Novello
e Taddea d’Este, tentò di
riprendere il controllo di Padova col
supporto del duca di Milano Filippo Maria Visconti ma finì
catturato e
decapitato in Piazza San Marco il 24 marzo 1435, ponendo
così fine ad ogni
pretesa della famiglia signorile sulla città.
I
superstiti, assieme agli Scaligeri di Verona, si rifugeranno in
Germania e proveranno, tra il 1487 e il 1490 a preparare un'invasione
col
supporto del Duca di Sassonia e il Duca di Baviera, concludendosi
però la cosa
con un nulla di fatto.
Per
quanto riguarda Jacopo da Carrara padre di Maria, egli
dapprincipio aveva militato fedelmente per il padre Francesco I,
distinguendosi
per il valore in battaglia e per aver riconquistato, tramite uno
stratagemma,
Padova nel 1390 per il fratellastro Francesco Novello, che gli diede
metà delle
terre di Santa Maria di Sala. Tuttavia, i due fratelli entrarono ben
presto in
conflitto per le loro vedute politiche, spostando Jacopo le sue
simpatie verso
Venezia. Denunciato dai suoi stessi figli, Jacopo venne arrestato,
torturato ed
imprigionato e ufficialmente si suicidò, sebbene
già all’epoca si vociferasse
di un’esecuzione en cachette, addirittura per mano dello
stesso Francesco
Novello (che poi anch’egli venne giustiziato in segreto, oh
ironia!)
Conquistata
Padova, Venezia confiscò puntualmente ogni
proprietà
ai Carraresi, compresi tra questi i figli di Jacopo –
Nicolò, Paolo, Bonifacio
e Antonio – cedendoli alla sorella Maria e alla madre Lucia Contarini. in segno di riconoscenza
verso Jacopo.