“Te
lo ripeto: solo da
amici, va bene?” Lisa cercò di mettere le cose in
chiaro un’ultima volta prima
di salire sull’auto sportiva di Milhouse.
“Certo, certo, come vuoi
tu, mia principessa.”
Lisa sbuffò alzando gli
occhi al cielo, già pentita di aver accettato, quando, una
volta seduta, guardò
l’auto dall’interno: era una macchina sportiva di
ultimo modello,
probabilmente. Non che lei ci capisse molto, ma sapeva ancora come
giravano
alcune cose.
“Bella macchina” si
complimentò.
“Sì. Me l’ha regalata la
mamma” spiegò lui.
Come? Lisa dovette
trasformare una risata in un colpo di tosse. “Uhm…
Tua madre?”
“Sì. Adesso lavoro con
lei, sai?”
“Oh, bella cosa”. O no?
Milhouse alzò le spalle
mentre metteva in moto l’auto e si spostarono dal marciapiede.
“Penso di sì, ma non la
vedo mai. Facciamo orari diversi e mi ha messo a lavorare in un altro
piano.
Non posso dire che sono suo figlio e non possiamo mangiare
insieme.”
Lisa spalancò gli occhi e
fece un sorriso tirato per l’imbarazzo di quello che aveva
detto. Uno di quei
sorrisi che mettono in mostra solo i denti. Tutti. Sembrava un
emoticon. Richiuse
la bocca appena se ne accorse.
Dopo un po’ di giri per le
vie serali di Springfield, il ragazzo prese la strada per PineHill,
dove le
coppiette andavano a imboscarsi nella pineta sulla collina, e Lisa si
agitò.
“Milhouse, ho detto che
uscivamo da amici…”
“Non preoccuparti, Lisa.
Vedrai che sarà bello.”
Cosa? Cosa sarebbe stato bello?
“Cosa?”
“Chiacchieriamo, dai”
concesse lui.
Lisa non era del tutto
convinta, ma non disse niente. Quando spense la macchina, allineata nel
parcheggio della collina insieme alle altre, la ragazza non seppe
più cosa
dire. Cosa poteva raccontare a Milhouse? Niente. Assolutamente niente.
Ma come
al solito lui le aveva fatto pena e aveva accettato di uscirci. Ora se
ne stava
pentendo.
“Non mi dici niente?” le
chiese lui dopo un po’.
Lisa, pensando che se non
avesse aperto bocca lui ci avrebbe provato, disse la prima cosa stupida
che le
venne in mente. E il guaio è che non ci mise molto.
“Ieri ho avuto un problema
con la macchina e Nelson mi ha aiutato”. La ragazza si
sarebbe voluta strozzare
da sola.
“Nelson? A quanto pare non
è che abbia fatto molto da quando andavamo a scuola! Vive in
quel posto
orribile e pieno di ogni schifezza immaginabile. Sai che ha un cane
cattivissimo
che scatena contro la gente?” Lisa spalancò gli
occhi: ma chi, Batman? Poteva
sembrare un cane cattivissimo, ma in verità era molto dolce,
pensò. Si guardò
la mano, che il cane di Nelson aveva annusato e leccato con dolcezza e
con cui
lei gli aveva fatto le coccole.
“Non penso che…” cercò di
interromperlo, ma Milhouse, forse reduce dal giorno prima, ce
l’aveva a morte
con il ragazzo e continuò la sua tiritera.
“Mia madre ha detto che
hanno firmato una petizione, prima della fine del mese gli
sequestreranno tutto
se non ripulisce il cortile. Tu non sai quante cose ha davanti a casa
sua:
vecchie lavatrici, macchine, vecchi trattori, ha anche la carrozza di
un treno.
Ci fa i festini di notte, invita i suoi amici criminali e giocano
d’azzardo
insieme alle prostitute!”
Lisa non riusciva a
crederci. Stava quasi per ridere, perché lei non aveva visto
né trattori né vagoni
e la tiritera dell’amico le sembrava un gran chiacchiericcio
da bar, però aveva
detto anche una cosa interessante…
“Che petizione?” chiese.
Milhouse, contento di
avere l’attenzione della ragazza, continuò sulla
sua strada. “Una petizione per
cui gli porteranno via tutto: l’immondizia, la casa, anche il
carro attrezzi e
l’officina!”
Lisa sgranò gli occhi: gli
avrebbero portato via tutto? Davvero? E quando? Ma poi…
“Ma la casa è sua?”
Milhouse alzò le spalle come se la cosa non gli interessasse
e disse solamente:
“Basta che lo buttino fuori dalla
città…”
“Perché? Bart dice che non
dà più fastidio a nessuno…”
“Bart!” La voce di
Milhouse si fece carica di rabbia e il corpo gli vibrò di
indignazione. Lisa
capì il vero motivo per cui ce l’avesse a morte
con Nelson. “Sei geloso di
Bart? Perché ha detto che si frequentano?”
“Loro non si frequentano!”
urlò il ragazzo, innervosito. Lisa decise di non infierire
ulteriormente e
stette zitta, un po’ preoccupata per l’amico e un
po’ per il futuro
dell’officina di Nelson.
Dopo poco il braccio del
ragazzo si posò sul suo poggiatesta e lui si sporse
pericolosamente verso di
lei. “Milhouse, cosa stai facendo?”
Le labbra del ragazzo si
arricciarono e si avvicinò ancora, sempre di più.
Lisa si appiattì contro la
portiera della macchina e cercò di tenerlo a bada.
“Ascolta, io…”
“Sì, anch’io!”
gridò
Milhouse saltandole addosso. Lisa si bloccò nella posizione
in cui era perché
non si aspettava una cosa simile e il ragazzo ne approfittò
per prenderla per
le spalle e spingerla verso il finestrino. Si avvicinò
ancora e le sue labbra
si posarono violentemente su quelle di Lisa, mentre la sua lingua la
invadeva.
“Milhouse, no. Avevamo
detto che…”
“Dai, Lisa, diamine! Ti
prego, solo qualche bacio!” Lisa scosse la testa e
sospirò quando lui la baciò
ancora, ma venne scossa da un brivido di disgusto quando la sua saliva
le
imbrattò le labbra. “No, no.
Non…” disse lei, scostandolo e pulendosi le labbra
con l’orlo della maglietta.
“Ma allora cosa siamo
venuti a fare? Dai, dolcezza, ti ricordi quando abbiamo fatto
l’amore? Quanto è
stato bello, eh?”
Lisa, che al termine
‘dolcezza’ pensò a un altro ragazzo, si
spazientì e lo ammonì: “Milhouse,
è
stato un disastro! Tu hai pianto e non è stato…
sì, ecco un granchè…”
“Allora rifacciamolo! Ti
giuro che stavolta…”
“Milhouse, ti prego,
basta, non voglio far l’amore con te, siamo usciti da
amici!”
“Ma quali amici, Lisa, io
ti voglio!” Il ragazzo si sporse ancora e quando Lisa
capì che non sarebbe
riuscita a farlo smettere, aprì la portiera e scese dalla
macchina. “Ma dove
vai? Non puoi tornare a Springfield a piedi!”
gridò lui.
“Oh, sì che posso!”
borbottò Lisa, stringendosi nel golfino e guardandosi
intorno: c’erano un sacco
di macchine, in fila sulla collina, con la vista delle luci notturne
della
città, in alcune poteva vedere distintamente le ombre dei
ragazzi avvinghiati a
baciarsi. Qualche macchina aveva tirato dritto sulla piccola piazzola e
si era
avventurata nella pineta, dove c’era più privacy e
i ragazzi facevano di più
che scambiarsi qualche bacio.
La ragazza si voltò e si
incamminò lungo la strada che scendeva verso la
città: quante miglia erano?
Sicuramente non troppe.
***
Dannati
ragazzini che si
imboscavano nella pineta dopo la pioggia! Nelson risalì sul
suo automezzo e
sbuffò. Ma poi sorrise quando contò le banconote
che aveva in tasca: aveva
quasi trecento dollari.
Non era la prima volta che
qualcuno di quei mocciosi neopatentati si impantanasse nel fango e
chiamasse il
suo servizio per farsi aiutare. E capitava spesso che fossero ricchi
figli di
papà, a cui non andava di essere presi in giro da genitori e
amici, o non volessero
far sapere dov’erano o con chi, e gli chiedessero di tenere
la bocca chiusa. E
allora lì iniziava il suo momento.
Nelson mise in moto il
carro attrezzi e abbassò il finestrino per godersi
l’aria della sera: di solito
non adorava particolarmente l’estate, non da quando non era
più un adolescente,
ma le ultime sere erano state serene e lui si era sentito bene, come
quando la
sera stappava una bottiglia di Duff sotto il portico di casa sua.
Fuori dalla pineta,
oltrepassò il parcheggio pieno di macchine sportive e
imboccò la strada buia
che tornava a Springfield. Si strofinò un occhio quando vide
qualcosa sul
ciglio della strada e rallentò: non c’erano
lampioni lì, infatti era per questo
che Pinehill piaceva molto a chi preferiva discrezione. Quando
notò che la
creatura che camminava sul bordo della strada era una ragazza, di cui
si
distingueva nella notte solo la gonna che le sbatteva contro le gambe a
ogni
passo, rallentò ancora e tirò giù il
finestrino dalla parte del passeggero. Chi
diavolo poteva essere che scendeva a piedi dalla collina degli amori?
Qualcuna
che aveva sorpreso il fidanzato con un’altra? No,
immaginò Nelson, altrimenti
ci sarebbero state grida e schiamazzi e lui non aveva sentito niente.
Forse…
Una che aveva cambiato idea?
Mentre faceva queste
supposizioni la ragazza inciampò e si sporse troppo verso la
carreggiata, tanto
da costringerlo a frenare bruscamente per non investirla e a suonare il
clacson.
Lisa
aveva sentito il
rumore del motore e aveva visto le luci dei fari già da un
po’ ma, immaginando
che fosse Milhouse che la stesse cercando, aveva deciso di non girarsi.
Fu
quella maledetta radice che sporgeva fuori dal terreno a farla
inciampare e lei
per poco non cadde per terra.
Il suono del clacson la
colse comunque di sorpresa e si ritrovò a gridare, girandosi
verso la strada.
Voleva farle avere un infarto?
“Lisa!” gridò una voce che
riconobbe bene.
“Nelson?” chiese, di nuovo
nel giro di due giorni, ma questa volta si scoprì molto
più felice del giorno
prima.
“Tutto… a posto?” Nelson
si sporse verso il finestrino dal lato passeggero e lei
annuì, abbracciandosi
le spalle, nel fresco della sera.
“Vuoi
un passaggio?” le
chiese, quando lei fece quel gesto con le braccia. Cosa diavolo ci
faceva lì?
Con chi era venuta? Lisa annuì ancora e lui, allungando il
braccio, le aprì la
portiera, invitandola a salire.
Lisa
ci pensò forse un
secondo, o forse due, ma quando vide i fari di un’auto
scendere la strada dal
parcheggio, preferì accettare il passaggio e salire,
tirandosi dietro lo
sportello. “Grazie” disse solamente.
Sperò che lui non le chiedesse cosa ci
facesse lì, perché si sentiva
un’emerita stupida ad aver creduto che Milhouse
avesse accettato di uscire come semplici amici. Così
preferì parlare lei. “A
qualcuno si è scaricata la batteria
dell’auto?” chiese, tentando di essere
simpatica.
Il sorriso che si disegnò
sul viso del ragazzo non aveva niente a che fare con il ghigno che lui
aveva da
ragazzino e lei si sentì un po’ strana, in quel
momento. Forse era colpa della
poca luce che c’era, che le faceva immaginare cose che non
c’erano.
“A
volte qualcuno rimane
impantanato nel fango.”
Nelson non disse
nient’altro. Non disse che di solito lo chiamavano alle ore
più disparate o con
pretese più o meno assurde. Non disse che lui li guardava
tutti con sufficienza,
loro, le loro macchine costose e i loro soldi.
“Mi spiace, quindi lavori
sempre?” Come? Nelson si voltò verso la ragazza.
Lei non lo aveva ancora
guardato con sufficienza. Eppure era l’unica che potesse. O
l’unica a cui lui
lo avrebbe lasciato fare. Ma non voleva dire che i soldi guadagnati
così erano
i più facili, si sentiva… un ingannatore.
“E tu che facevi? Di
solito non si torna a piedi da PineHill…” Nelson,
che aveva imparato che
l’attacco è la miglior difesa, decise di sviare la
domanda, ma aveva
sottovalutato la ragazza, che non si scompose minimamente.
“Se non vuoi rispondere,
basta che non rispondi, Nelson”. Il suo naso si
arricciò mentre parlava e lui
pensò che c’era ancora quella ragazzina di otto
anni che ricordava benissimo,
lì sotto da qualche parte.
“Anche
tu” rispose Nelson
e Lisa sentì le guance calde.
Non prestò attenzione a
dove stessero andando e quando si fermarono, vedendo che non erano
nella via di
casa sua, dove i suoi abitavano da sempre, un po’ si
agitò: cosa aveva pensato Nelson
quando le aveva offerto il passaggio? Lei aveva pensato che lui
l’avrebbe
riaccompagnata a casa e invece… Oddio, possibile che tutti i
ragazzi fossero
uguali? Possibile che ci fosse un altro posto come PineHill? La
tristezza un
po’ le fece male. Era troppo ingenua?
“Dove siamo?” chiese,
sporgendosi verso il finestrino per guardare fuori: ma era tutto buio e
non riusciva
a vedere niente.
“Dove
siamo?”
Il tono di voce della
ragazza era sospettoso e Nelson non seppe se esserne contento o meno.
Ma decise
di non dar corda a certi pensieri e disse solamente: “Sembra
che tu abbia
bisogno di un gelato”.
“Gelato?” Lisa si voltò
verso di lui e, probabilmente, vide il diner al di là della
strada solo in quel
momento, a giudicare dalla sua faccia.
“Sì” continuò Nelson,
indicando il locale. “Sai, stamattina ho trovato questi sotto
la porta di casa
e ho pensato che il modo migliore per spenderli sia proprio il
gelato…” Mostrò
una banconota da venti dollari piegata.
Lisa
aggrottò le
sopracciglia riconoscendo il denaro che lei gli aveva infilato, con un
biglietto, sotto la porta quando quella mattina era andata da lui per
pagarlo e
non lo aveva trovato.
“E quindi?” chiese, ancora
stranita.
“Non vuoi una coppa di
gelato con panna montata e noccioline? Ok, ti porto a
casa…” La sua mano scattò
alla chiave per riaccendere il carro attrezzi, quando Lisa si
sentì smarrita.
“No, ok. Va bene il
gelato. Ma la panna deve essere tanta” disse lei, indicandolo
con il dito.
Stava già pregustando il freddo del cioccolato sulla lingua,
socchiudendo gli
occhi all’idea delle righe che avrebbe mostrato il ricciolo
di panna montata,
mentre si vedeva già con il cucchiaino a rompere la
crosticina bianca che si
formava quando era a contatto con il freddo del gelato.
Nelson
scese e aspettò che
lei lo raggiungesse da quel lato del mezzo, prima di attraversare.
Cercò
comunque di non toccarla, non sfiorarla, non fare… niente.
Si infilò le mani in
tasca e lì le tenne fino a quando non entrarono nel locale.
Il ragazzo conosceva
benissimo il diner: ci aveva lavorato sua madre, lo conoscevano tutti
ed Ellie
ci faceva il turno del pranzo, ora che non andava a scuola.
Il bancone lungo e lucido,
con gli sgabelli e le tovagliette, i contenitori di condimenti e lo
zucchero in
barattolo lo fecero subito sentire a casa. Alle medie, quando sua madre
aveva
iniziato a frequentare Trevor e aveva iniziato ad avere
un’esistenza
equilibrata, Nelson ci aveva passato interi pomeriggi, su quel bancone.
Ed era
proprio lì che aveva conosciuto Trevor. E anche Ellie.
Voltò lo sguardo e
riconobbe con gli occhi della mente i tavoli e i divanetti rossi, la
plastica
rumorosa e consumata, i menù infilati con cura dietro ai
barattoli di maionese
e ketchup.
“Sicuro che qui ci sia il
gelato?” gli chiese la sua accompagnatrice e Nelson dovette
ammettere che forse
non era stata una buona idea portarla lì, ma Lisa aveva
quella faccia triste e
lui aveva pensato subito a quando sua madre gli preparava la Happy Cup, come la chiamava lei, per
risollevargli il morale quando era particolarmente giù.
“Sì,
certo” rispose lui e
le fece cenno di sedersi. Lisa si strinse nelle spalle e si
avvicinò a un
tavolo, strisciando sul divanetto di finta pelle e andando a sedersi
vicino
alla vetrina.
“Come va la mano?” gli
chiese.
Lui alzò una spalla, si
sedette di fronte a lei e poi si guardò la mano: non era
messa malissimo, però,
dopo il lavoro alla pineta, tutte e due non sembravano molto pulite.
“Vado in
bagno”.
Lisa non disse niente e
guardò di nuovo fuori dalla vetrina.
Nelson
uscì dal bagno e
per un attimo pensò che lei non ci sarebbe stata. E invece
era ancora lì. Lisa
era seduta esattamente dove era dieci minuti prima, stava guardando il
menù e
sorrideva da sola. Era cambiata, dall’ultima volta che
l’aveva vista o che le
aveva parlato. Era più alta, più formosa,
più… bella. Diavolo, Lisa Simpson era
bella. MA questo, Nelson lo aveva sempre saputo. Lei era bella e
intelligente.
Sapeva anche che se ne sarebbe andata, un giorno, e aveva pensato che
non
sarebbe tornata più. E invece eccola lì.
Lì, al diner di Springfield. Con lui.
Ma che gli era venuto in mente? Doveva portarla a casa! Ecco cosa
avrebbe
dovuto fare: portarla a casa. E invece no.
“Nelson!” La voce di Ellie
lo fece girare e quando vide la ragazza che usciva dalla stanza sul
retro del
bancone, tornò indietro di due passi.
“Ellie. Che fai qui?” La
ragazza, con ancora il camice addosso, stava lavorando, ma di solito
finiva
alle quattro del pomeriggio.
“Sto coprendo anche il
turno di Trisha. Tu, invece?” Scrollò le spalle:
non sapeva bene cosa dire.
“Beh, mi va benissimo, mi dai un passaggio a casa? Finisco
fra quaranta minuti”.
Lui stava per risponderle
qualcosa quando lei continuò, ma alzando la voce di
un’ottava, come minimo. “Ma
sei qui con una ragazza!” Nelson si voltò verso il
tavolo dove era seduta Lisa,
l’unico occupato nel locale e notò che lei li
stava guardando tutti e due.
“Non è come pensi… Non è
un…”
“A me sembra proprio una
ragazza, Nelson!” Ellie ridacchiò e a Nelson
ricordò molto la bambina che era
stata anni prima.
“Non intendevo…”
“Oddio, che ottuso che
sei! Ho capito cosa intendevi!” disse lei, avvicinandosi al
tavolo, ma girando
la testa verso di lui per sorridergli. “Non preoccuparti,
faccio da sola!”
Lisa
aveva sentito quella
ragazza gridare il nome di Nelson con gioia e aveva alzato la testa,
incuriosita, ma poi loro avevano parlato sottovoce e non aveva sentito
cosa si
fossero detti. Aveva continuato a osservarli, ma poi quando si erano
voltati
verso di lei, lui l’aveva beccata a guardarli e si era
sentita un’intrusa. Chi era
quella ragazza? E perché era così contenta di
vedere Nelson?
Ma a lei cosa interessava?
Erano fatti loro! Ma non riuscì a non guardarli. E a non
sentire un po’ di
emozione che le stringeva il petto.
Quando la ragazza si
incamminò verso di lei, con un’andatura baldanzosa
e gioiosa, Lisa notò che
Nelson aveva una faccia preoccupata. Che fosse la sua ragazza e andasse
da lei
a chiederle cosa ci faceva al tavolo con lui? Un po’
preoccupata, anche se
innocente, la guardò avvicinarsi.
“Ciao! Sono Ellie, Ellie
Reed!” si presentò la ragazza, porgendole la mano.
Lisa rimase un po’ stupita e
guardò Nelson prima di stringerla. Lui alzò le
spalle e si sedette di nuovo
davanti a lei.
“Io sono Lisa Simpson…”
“Lisa Simpson? Lisa?
Simpson? Davvero?” La ragazza impazzì alla
notizia: i suoi occhi si
spalancarono e anche la sua bocca fece lo stesso. Si voltò
prima verso Nelson e
poi ancora verso di lei e poi di nuovo verso il ragazzo.
Lisa, che ancora stringeva
la sua mano, spalancò gli occhi preoccupata: che era
successo? Perché quella
ragazza conosceva il suo nome? E perché gridava contenta in
quel modo?
“Sì, l’ultima volta che ho
controllato era ancora il mio nome…”
“Oh, Nelson, perché non mi
hai mai detto che conoscevi Lisa Simpson?” la ragazza si
girò verso di lui e
lui si strinse nelle spalle.
“Non pensavo fosse così
importante.”
Lisa cercò di non
rimanerci male: per un attimo aveva sperato che fosse stato proprio
Nelson a
parlare di lei alla ragazza. A… Ellie. C’era da
dire che era simpatica,
comunque. Suo fratello le aveva dato un bentornato molto più
contenuto.
“Non pensavi fosse
importante? Ma… Tu sai chi è lei?”
chiese ancora Ellie.
“La sorella di Bart
Simpson?” provò a dire.
Lisa si morse un labbro. Forte.
Lei era la sorella di Bart Simpson per Nelson? Eh, sì,
effettivamente, lei era
proprio quello. Cos’altro avrebbe potuto essere? La
fidanzatina di quando aveva
dieci anni? Una storia durata un battito di ciglia? Chissà
se Nelson sapeva di
essere stato il suo primo bacio…
“Forse intendi Maggie
Simpson? Comunque… Lei è la leggenda dello
Springfield West High!” La ragazza,
no, Ellie, perché dopo una presentazione del genere, da quel
momento in poi
sarebbe stata Ellie, continuò a raccontare con gli occhi
spalancati. “Lei è la
prima studentessa a essere uscita con il massimo dei voti dal liceo di
Springfield West. Attiva in tantissime attività
extrascolastiche, ha
manifestato contro la vivisezione di rane e altri animali, ha fondato
un club
per i diritti delle donne, ha scritto per il giornalino della scuola e
il
giorno del ballo scolastico si è rifiutata
di…”
“Ok, basta, basta…”
Lisa interruppe la ragazza
quando arrivò al fatto che avesse saltato il ballo
scolastico per protesta. Sua
madre le aveva detto di non farlo. Aveva rifiutato tre inviti al ballo,
anche
se solo uno degno di nota, ed era rimasta ferma sulla sua decisione di
protesta. Ma era stata l’unica. L’unica a non
essere andata al suo ultimo
ballo. E le altre ragazze, al College, avevano parlato tutte del ballo,
nessuna
non c’era andata per protesta. Neanche quelle che non avevano
ricevuto nessun
invito. C’erano andate da sole o in compagnia di altre amiche
e si erano
divertite.
Anche Kristen parlava
ancora del Prom.
Nelson
vide lo sguardo
triste di Lisa e intervenne per fermare l’uragano Ellie.
“Ellie, puoi farci
portare una Happy Cup e una coca?”
Il ragazzo avrebbe
preferito prendere una birra, una pinta di birra, se avesse potuto
scegliere,
vista la situazione in cui si era cacciato, ma alla fine aveva deciso
per la
coca cola. Qualcosa gli suggeriva che avrebbe dovuto essere lucido.
“Una Happy Cup? Perché?
Che è successo?” chiese la ragazza, alzandosi dal
divanetto e guardando verso
le cucine. “Se è per te, Lisa, la faccio io.
Sarò un onore. Vedrai che
funzionerà!”
Ellie scappò via, tornò
dietro il bancone e si intrufolò nel retro.
Nelson la guardò sparire e
poi riposò lo sguardo su Lisa.
“Che voleva dire?” chiese
lei, con la fronte aggrottata.
“La Happy Cup era
un’invenzione di mia madre. Una grossa coppa di gelato quando
la tua giornata è
andata male o sei triste. Ti aiuta a farti tornare il
sorriso”. Nelson alzò le
spalle.
Lisa
formò un cerchio
perfetto con le labbra, ma non disse niente. Nelson pensava che lei
avesse
bisogno di un po’ di gelato. Perché pensava che
fosse triste. Sentì le guance
arrossarsi: lui aveva capito che era successo qualcosa di spiacevole?
Tipo
tutta la sua vita? Annuì e decise di tacere. Decise anche di
tacitare il suo
petto che implorava spiegazioni su quella giovane ragazza bellissima e
ultra
intraprendente che sembrava avere con Nelson una confidenza che lei gli
invidiò
tantissimo, così deviò l’argomento su
qualcosa che per lei era molto più sicuro
e stabile.
“Tua madre?” chiese
soltanto: la madre di Nelson era abbastanza famosa a scuola, era stata
abbandonata dal marito e faceva la spogliarellista per mantenere lei e
il
figlio. E anche se poi si era saputo che lui non l’aveva
veramente abbandonata,
non era cambiato molto e lei non sembrava proprio un esempio di materna
virtù.
Nelson
immaginava quello
che tutti pensavano di sua madre quindi la domanda non lo
stupì più di tanto.
Ma si sentì in dovere di dare onore alla sua memoria.
“Quando avevo undici anni
mia madre iniziò a frequentare un tipo. Io non lo capii
subito, ma era una
brava persona, uno a posto. In poco tempo lei mollò il suo
lavoro e iniziò a servire
qui, in questo diner e la nostra vita si normalizzò un
po’. Non molto, ma un
po’…”
Lisa
ascoltava Nelson
parlare di sua madre e della sua infanzia senza dire niente. Lui non la
guardava negli occhi, ma raccontava solo quello che era successo. Senza
grandi
discorsi, senza cerimonie, solo… come accaddero le cose. La
sua vita era
cambiata una volta finite le elementari e quando aveva cominciato le
medie, sua
madre si era trovata un compagno. Un compagno vero, non come gli altri,
aveva
chiarito lui. Ecco quando Nelson era cambiato. Era bastata una vita
normale.
“Così sei cambiato…” disse
lei.
“Chi? Io? No, non sono
cambiato per niente. Mi sono adeguato. Mia madre mi costringeva a stare
qui il
pomeriggio e controllava che facessi i compiti. La odiavo. Non ero
più libero
di andare in giro con gli altri e…”
Gli altri… Lisa li
ricordava, gli altri bulli con cui lui girava: Patata, Secco e Spada.
Erano
tutti più grandi di Nelson. Chissà che fine
avevano fatto.
Nelson
si agitò un po’ sul
divanetto. Lei non aveva capito. Pensava che lui fosse cambiato. E
più le
spiegava che lui non era cambiato per niente, più continuava
a guardarlo con
quel sorriso. Bellissimo, fra l’altro. I suoi denti bianchi
brillavano e lui
non era neanche sicuro che una cosa del genere potesse accadere.
“Frequentavo gli altri di
nascosto e mia madre mi sgridava quando se ne accorgeva. E poi mi
presentò
Trevor. All’inizio odiavo Trevor. Pensavo fosse come tutti
gli altri: che
volesse far colpo su mia madre e fingesse di interessarsi a me. Ma poi
ho
capito: lui… ci teneva. Loro erano insieme da un
po’ e quando andammo ad
abitare insieme, mi insegnò a stare al mondo.”
Nelson fece una pausa
pensando a quando, a quindici anni, lui e gli altri avevano rotto una
gamba a
un ragazzino e Trevor, che lo aveva scoperto, aveva promesso di non
parlarne
con sua madre soltanto a determinate condizioni. Nelson aveva
accettato, sua madre
lo aveva minacciato con l’iscrizione a una scuola militare e
pensava che
sarebbe stato più facile stare alle condizioni di Trevor.
Invece se n’era pentito:
Trevor lo aveva obbligato a presentarsi a casa del ragazzo che avevano
pestato,
a scusarsi davanti ai suoi genitori e lo aveva obbligato ad andare a
casa sua
ogni giorno finché lui non aveva tolto il gesso e ripreso a
camminare da solo.
Aveva dovuto servire il ragazzo, aiutarlo e obbedirgli.
All’inizio era stato
umiliante, i primi due giorni erano stati una lezione amara, in quanto
lui si
era voluto vendicare, ma poi, avevano iniziato a farsi compagnia a
vicenda e
ora, Nelson, poteva tranquillamente sostenere che Steve Sprike fosse
uno dei
suoi migliori amici. Era stata una lezione di vita, ma Nelson non lo
aveva
capito subito.
“E ora?”
Nelson ritornò al presente
e non seppe cosa gli stava chiedendo la ragazza. “Ora
cosa?”
“Tua madre. Lavora ancora
qui?”
“No, mia madre è morta
qualche anno fa…”
Oh,
cavolo. La madre di Nelson
era morta. “Oh, mi spiace, io…”
“Non preoccuparti” disse
lui, scuotendo le spalle. Ma poi il suo sguardo si voltò
verso il bancone del
locale.
Non sapendo più cosa dire
chiese di Trevor. Che fine aveva fatto, almeno lui? Era ancora in zona?
La voce di Ellie, che
reggeva un vassoio con una grossa coppa di gelato e una coca,
interruppe i suoi
pensieri, rispondendo alla sua domanda: “Trevor? Il vecchio
è a casa che guarda
il baseball, ci scommetto. Anzi, di sicuro dormirà e quando
lo sveglierò mi
dirà che non stava dormendo!”
Come? Lisa non riusciva a
concentrarsi mentre la mano esperta di Ellie le appoggiava davanti la
più bella
coppa gelato che avesse mai visto, intanto
che la ragazza parlava.]
“Ellie…”
Nelson cercò di
sgridare la ragazza, ma non riuscì ad andare avanti.
“Sì, Nelson, lo so, lo so…
‘Ellie non chiamare tuo padre vecchio
solo perché non vuole che ti faccia un tatuaggio o il
piercing sulla lingua…’
ne abbiamo già parlato, dai, lasciami
sfogare…”
“Padre?” La voce di Lisa
arrivò un po’ stranita da dietro la coppa gelato.
Nelson la guardò e cercò di
scusarsi con un’occhiata che comunque lei non poté
vedere.
“Non parlavate di Trevor
Reed, fratellone?” Ellie si fece graziosamente curiosa mentre
gli rivolgeva la
domanda.
Il
padre di Ellie. Il compagno
della madre di Nelson era il padre di Ellie. Mentre la ragazza
continuava a
guardarla stranita, Lisa prese il cucchiaino e lo affondò
nella panna fino a
rompere la famosa crosticina a contatto con il gelato. Sorrise mentre
portava
il suo bottino alle labbra: buonissimo.
“Quindi siete fratelli?”
chiese, mentre affogava il cucchiaino nel gelato.
Oh, la Happy Cup stava
funzionando davvero.
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***Eccomi! La storia va avanti, anche se io sono ancora insicura... Spero che a qualcuno piaccia. :-)