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Autore: Chris_88    15/12/2020    2 recensioni
Dal testo:
[...]«Avanti», sentii una voce calda al di là dell’uscio invitarmi ad entrare.
Aprii la porta, scontrandomi con le iridi celesti più belle che avessi mai visto, lo stesso colore del mare cristallino della Costa Azzurra. Il ragazzo che mi aveva accolta aveva i capelli lunghi ramati, racchiusi in una crocchia fermata alla meno peggio sopra la nuca con una matita. Mi resi conto solo in quell’istante che davanti a me non c’era Ron Weasley, bensì il ragazzo che avevo visto prima della Terza Prova ad Hogwarts. Ed aveva anche gli stessi orecchini! Imbarazzata, allungai la mano, «Fleur Delacour».[...]
[PRIMA CLASSIFICATA al contest “Missing Moments – Quello che la Rowling non dice” indetto da parsefeni sul forum di EFP]
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bill Weasley, Fleur Delacour | Coppie: Bill/Fleur
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
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Millenovecentonovantatre giorni
 
 24 Giugno 1994

La Terza Prova del Torneo Tremaghi sarebbe cominciata quella sera stessa, ma la tradizione prevedeva che i famigliari dei campioni fossero invitati ad assistervi. Così, quella mattina fresca di Giugno, ai tre maghi e all’unica strega partecipante al Torneo – ovvero me medesima - fu concessa una giornata da passare con i propri affetti.
Giusto il tempo della colazione e poi venimmo trascinati in un grazioso salotto adiacente alla Sala Grande di Hogwarts. Cedric Diggory e i suoi genitori si erano accaparrati un posto accanto all’ingresso, mentre Krum aveva optato per un angolo in cui poter parlottare con sua madre e suo padre in un bulgaro così stretto che quasi non distinsi neanche una lettera.
Davanti alla finestra che dava sul Lago Nero, mamma e Gabrielle mi aspettavano. Quando mi videro si allargarono in un sorriso e non mi restò che azzerare la distanza tra noi per abbracciarle.
L’ultimo ad entrare fu Harry Potter, che salutai con un cenno della mano. Era solo, del resto tutti sapevano che non aveva parenti in vita se non gli zii babbani. Così, curiosa, lo seguii con lo sguardo fino a che non capitolò tra le braccia di una signora paffutella. Accanto a lei c’era un pezzo di gnocco coi capelli lunghi di un ramato così intenso da sembrare seta, legati alla bene e meglio, e con dei particolari orecchini zannuti nell’orecchio destro.
Per Merlino se era figo! Ero rimasta incantata dalla sua particolare bellezza, ma lui non aveva accennato neanche a guardarmi per un attimo. Al contrario di Potter che mi aveva beccata in pieno.
 
 
26 Giugno 1995

Va tutto bene. Fleur, respira.
Io e il mio subconscio quella mattina stavamo cercando di tenere a bada l’ansia. Guardai l’orologio da polso, mancava mezz’ora al primo giorno di lavoro ma ero già praticamente davanti alla Gringott.
Ero arrivata a Diagon Alley da un giorno soltanto, tramite un’amica di mia madre avevo preso un piccolo appartamento in affitto per pochi galeoni al mese. La proprietaria di casa mi aveva dato il permesso di cambiare qualunque cosa avessi voluto della casa, così avevo passato tutta la domenica a cambiare colori delle pareti e delle tende, e trasfigurando oggetti inutili in cuscini per adornare il divano con chaise longue che sarebbe stato il mio nido. Era proprio davanti al camino, e già mi vedevo lì a leggere un buon libro col solo rumore del crepitio del fuoco.
Sospirai, facendomi forza. Sentivo gli sguardi dei passanti addosso e, guardando il mio riflesso in una vetrina, mi pentii della scelta dell’outfit: jeans stretti, camicetta smanicata sblusata rigorosamente dentro ai pantaloni, e un paio di sneakers bianche ai piedi. Troppo casual? Per sicurezza allacciai anche l’ultimo bottone della camicia, non volevo risultare troppo provocante. Dopo l’ennesima occhiata di un uomo sulla cinquantina, feci apparire un cardigan dal nulla e me lo misi in vita per nascondere le mie curve. Troppo in vista.
Alla fine io sono sempre stata “troppo”. Troppo bella. Troppo magra. Troppo bionda. Troppo simile ad una Veela per essere, insomma, vera. Ecco cosa ero per tutti: troppo. Sempre tutto dannatamente troppo.
Rassegnata mi diressi verso la banca, dove il maestoso portone di legno si aprì al mio passaggio. Avanzai lentamente fino ad arrivare davanti ad un bancone alto almeno come Madame Maxime, dietro il quale sbucava la testa di un folletto che sembrava non volesse degnarmi neanche di uno sguardo. Tossicchiai, cercando di attirare la sua attenzione ma la creatura continuava a muovere la testa seguendo ciò che stava scrivendo. «Monsieur», cominciai con voce decisa, «sono Fleur Delacour».
Il mio nome lo fece fermare di colpo, «signorina, la prego di seguire Bonci».
Un altro folletto – alto circa cinquanta centimetri, le orecchie a punta e occhiali a mezzaluna – sbucò da una porta che non avevo assolutamente notato fino a quel momento e si inchinò al mio cospetto con un breve cenno del capo. «Benvenuta Miss. La prego di seguirmi. La presenterò a Bill Weasley, il suo mentore per i prossimi mesi», disse dandomi le spalle.
Weasley… Ma l’amico di Harry Potter non era un po’ troppo giovane per lavorare alla Gringott? Non mi restò che trotterellare dietro alla creatura magica fino ad un ufficio con la porta marrone scuro e, quando Bonci si congedò, non mi rimase che bussare.
«Avanti», sentii una voce calda al di là dell’uscio invitarmi ad entrare.
Aprii la porta, scontrandomi con le iridi celesti più belle che avessi mai visto, lo stesso colore del mare cristallino della Costa Azzurra. Il ragazzo che mi aveva accolta aveva i capelli lunghi ramati, racchiusi in una crocchia fermata alla meno peggio sopra la nuca con una matita. Mi resi conto solo in quell’istante che davanti a me non c’era Ron Weasley, bensì il ragazzo che avevo visto prima della Terza Prova ad Hogwarts. Ed aveva anche gli stessi orecchini! Imbarazzata, allungai la mano, «Fleur Delacour».
Il volto disteso del dipendente della Gringott si allargò in un sorriso, «Bill Weasley! Ci siamo incrociati ad Hogwarts, non so se ti ricordi di me ma ero con Harry Potter!».
Non capii praticamente nulla di ciò che aveva detto se non Howgarts ed Harry Potter. Come potrei scordarmi questo pezzo di figo? Pensai comunque. «VagamOnte», dissi invece con un inglese stentato, ipotizzando a senso la domanda.
«Perfetto, ci sarà molto da fare», e mi diede una pacca sulla spalla come se fossimo stati amici di vecchia data.
 
 
1 Agosto 1995

Era passato poco più di un mese dal mio arrivo in Inghilterra, e dovevo ammettere che il lavoro mi piaceva davvero. Prima di prendere posto in ufficio, credevo che mi avrebbero fatto svolgere delle mansioni sciocche da matricola, invece Bill Weasley mi aveva trattata sin da subito come una sua pari. Le prime settimane mi aveva affiancata in tutto e per tutto, parlando ostinatamente in inglese. Avevo sì delle difficoltà, tuttavia apprezzai il suo modo paziente e pacato di dire le parole con molta calma.
Pochi giorni prima mi aveva affidato un compito piuttosto complicato: dei maghi avevano trovato uno strano manoscritto francese con intricate linee magiche che lo tenevano chiuso come cinghie. «Spezza l’incantesimo», mi aveva detto come se mi stesse ordinando di comprare un sacchetto di Api Frizzole.
«Ma io…», avevo farfugliato.
«Niente “ma”. Sei una Campionessa del Torneo Tremaghi, è ora che tu prenda il volo. Spiega le ali, e torna vittoriosa con la soluzione», e se ne era andato, lasciandomi sulla scrivania quel vecchio libro consunto.
Sette giorni, erano passati sette giorni prima che riuscissi a portare a termine la missione. Notti in cui non avevo dormito praticamente mai, provando e riprovando fino a trovare la soluzione che mi premurai di sbattere in faccia a Bill quel martedì pomeriggio. «Les jeux son fait», esclami tronfia entrando nel suo studio, i capelli biondi legati in una coda alta che ondeggiavano ad ogni mio passo. Ignorai il battere incessante del mio cuore e la leggerissima – più o meno – morsa allo stomaco, mostrandogli soddisfatta il tomo libero dall’incantesimo che lo legava. Mi sorrise, facendomi sentire le gambe molli come pastafrolla, e allungò la mano per stringere la mia. Il contatto con la sua pelle – calda e morbida – mi fece arrossire: era inutile continuare a mentire a me stessa, perché William Weasley mi piaceva davvero.
«Ci hai messo solo una settimana, bel colpo novellina», mi canzonò dolcemente, «credo che dovremmo festeggiare, andiamo!».
Guardai l’orologio, «è presto per staccare», obiettai.
«Suvvia, cosa sarà mai un’oretta di permesso», e mi fece l’occhiolino facendomi strada. Rassegnata ed incantata allo stesso tempo, lo seguii fuori dalla Gringott.
Il sole stava tramontando, ed il cielo si stava adombrando con nuvole cariche d’acqua. Si prospettava un’altra nottata piovosa da passare da sola a casa. Sospirai, seguendolo nella via commerciale principale.
Bill si fermò davanti ad un negozio dall’ingresso curioso e sporgente, dove ampie vetrate fungevano da vetrine per attirare i clienti. Alzai lo sguardo verso l’insegna, spalancando la bocca per lo stupore. «Andiamo a fare un giro, sei mai entrata al Serraglio Stregato?», mi chiese con un piede già nell’Emporio. Scossi il capo, entrando dietro di lui.
La grande stanza era più lunga che larga, a destra dell’ingresso si trovava il bancone dove un mago con il cappello a punta ci salutò cordiale. La parete di destra era occupata da box e spazi dedicati ai felini e ai vari mammiferi, mentre quella di sinistra da teche ampliate da incantesimi estensivi in cui c’erano numerose razze di rettili, anfibi, roditori e aracnidi. Sul fondo, acquari che si estendevano fino al soffitto ospitando arcobaleni di pesci esotici e vari esseri marini, che nuotavano calmi fra coralli e piccole alghe. A sinistra della porta d'ingresso c’era uno spazio riservato a numerose specie di rapaci: barbagianni, gufi e civette che sonnecchiavano beati sui loro rispettivi trespoli, totalmente indisturbati dall’ambiente circostante. Proprio al centro della stanza c’erano delle scaffalature di ferro, dove erano state ordinatamente sistemate gabbiette da trasporto, targhette, giocattoli, cibo e accessori vari per ogni animale.
«È meraviglioso», dissi sinceramente guardando tutte le creature. Mi fermai davanti alla gabbia dei felini, dove alcuni esemplari di Kneazle dormicchiavano acciambellati.
«Hai detto che ti senti sola a casa», cominciò Bill poggiandosi alla gabbia con un gomito, «scegline uno».
«Non posso», risposi amareggiata. Non avevo mai avuto un animale da compagnia, se non il gufo di mia madre.
«Certo che puoi, te lo regalo io», e spostò lo sguardo verso le bestioline che ora sembrano ricettive delle nostre attenzioni. «Credo che quella femminuccia lì stia solo aspettando di essere accarezzata», ed indicò un esemplare di Kneazle con il manto pezzato arancione, bianco e nero.
«Che ne sai che è una femmina?», domandai accigliata.
«Genetica. Ogni felino tricolore, babbano e non, è di sesso femminile. Tobias!», e sbracciò in direzione del proprietario del negozio, «possiamo?».
«William caro, certamente. Sono arrivati stamattina, nuova cucciolata», ci informò il mago.
Tornai ad osservare quella gattina bellissima che mi stava guardando con i suoi curiosi occhi ambrati, sentendo uno strano calore invadermi il petto. Senza pensarci, mi allungai oltre la ringhiera della gabbia per prenderla, scoprendola leggera come una piuma. Me la avvicinai al corpo, e lei si spalmò sulla mia maglietta dandomi dei piccoli buffetti ed emettendo degli strani suoni.
«Le piaci», constatò Bill, «e a me piaci tu, quindi che ne dici se andiamo a mangiare qualcosa insieme?».
Per poco non mi cadde la gattina dalle braccia, avevo sentito male o William si era appena dichiarato?
«Sei veramente impertinente, Bill Weasley», esclamai, «prima mi affidi un cucciolo di Kneazle e poi mi inviti a cena?».
«Che posso farci», cominciò lui avanzando verso di me, «le occasioni vanno afferrate al volo». Era ad un palmo dal mio viso, potevo sentire il suo profumo di menta inebriarmi le narici. Impunemente azzerai quella distanza, sorprendendolo in un bacio casto. La gatta miagolò delicatamente, quasi a volerci ricordare della sua presenza.
«E sia, ma andiamo a casa mia così farò ambientare Brioche», dissi dirigendomi verso la cassa e lasciando senza parole Bill, che si toccava le labbra quasi stentasse a credere a ciò che avevo fatto. «Allora, che fai lì impalato?», e gli rivolsi un sorriso che racchiudeva speranze e sogni per il futuro.
 
 
1 Agosto 1996

«Andiamo, Bill! Non ne posso più di camminare!», piagnucolai spazientita. William si voltò verso di me, facendomi sentire improvvisamente sulle nuvole. Da quel giorno in cui gli ero piombata in ufficio, non ci eravamo più separati. Non lo avrei mai detto, ma adesso mi trovavo in balia dei sentimenti incontenibili che provavo nei suoi confronti. Era uomo generoso, onesto, con un coraggio che probabilmente io non avrei mai avuto. Tra noi due c’era una chimica così forte che avevo dimenticato le mie vecchie esperienze con Roger Davies e con André Grandier in un batter d’occhio.
«Vecchia pelandrona che non sei altro, mancano solo cinque minuti», mi rimbeccò prendendomi per mano e trascinandomi dietro a lui.
Sospirai, osservando tuttavia con estrema attenzione il suo sedere… Ehm, il panorama intorno a noi. Ci trovavamo in Galles, e avevamo raggiunto quel bosco tramite una passaporta. Mi fidavo ciecamente di Bill, ma quando sentii un ruggito in lontananza ebbi uno scompenso. «Sei serio?», mi fermai di colpo, «i draghi, William?». Zittì le mie proteste con un bacio a fior di labbra, il ruggito melodioso dei draghi che diventava via via più vicino. «Gallesi Verdi Comuni», mormorai più a me stessa che a lui.
«Un tuffo nel passato», mi sorrise, «vieni, Charlie ci aspetta».
Sbucammo in una radura completamente ricoperta da un manto erboso alto quanto me, nel cielo una decina di draghi verdi che svolazzavano imponenti e liberi.
«Fratellone! Fleur, come stai?», Charlie ci raggiunse in pochissime falcate. Stesso colore di capelli legati in una coda, occhi color ambra e una miriade di orecchini ad anello ma, a differenza di Bill, aveva almeno dieci chili di muscoli in più concentrati sulle braccia e sui quadricipiti. «Ti ricordi il Gallese del Torneo?», mi chiese Charlie sorridente. Annuii, incantata dalla nonchalance con cui si muoveva tra i grossi rettili. «È quello lì!», e mi indicò il drago che dormiva serafico sopra un nido fatto di rami e paglia. Sotto di esso, dei versi acuti annunciavano la presenza dei cuccioli.
«Che posto è questo?», domandai stupefatta, osservando i colleghi di Charlie visitare un drago legato con delle spesse catene di metallo.
«Questa è la riserva più grande del mondo dei Gallesi Verdi Comuni. Quale posto migliore, se non la propria patria, per crescere sereni?», spiegò allargando le braccia muscolose, facendo tendere la t-shirt bianca.
«E che ci fate voi qui?», chiesi.
«Abbiamo portato Trogor qui dopo averlo sottratto ad un mago russo, ha bisogno di stare coi suoi simili. Ora Bartosh e Pavel stanno facendo gli ultimi controlli, poi lo libereremo», era così felice mentre parlava di quelle creature che gli occhi gli sorridevano.
«Hai quello che ti avevo chiesto?», borbottò Bill piuttosto concitato.
Lo guardai accigliata, cosa stava confabulando? Il fratello annuì, facendo cenno al maggiore di seguirlo. Interdetta, mi sedetti su un masso di pietra bianca in attesa dei due.
Nel frattempo, i colleghi di Charlie diedero amichevolmente un buffetto sul muso del drago – come specie era tra le più pacifiche, tutto sommato alla prova del Torneo non mi era andata così male – e lo liberarono dalla costrizione delle catene. L’animale scosse tutto il corpo, fino a spiegare le immense e maestose ali verdi. Incantata, seguii lo slancio delle sue possenti zampe fino a vederlo librarsi in volo, causando una folata di vento che mi solleticò i capelli. Era così bello osservarlo finalmente nel suo habitat che mi sfuggì una lacrima e, nello stesso istante, tornò Bill. Ma non c’era Charlie con lui, bensì un grosso uovo di un color bruno terroso, con delle macchie verdi. «Putain*!», esclamai in francese, «un uovo? Cosa hai in mente adesso!?», sbottai agitata. Un conto era vederli da lontano, un conto era prendersene cura.
«Tieni», e mi allungò l’uovo con determinazione. Scossi il capo, ma lui insistette. «Lo ha deposto la dragonessa che hai affrontato alla Prima Prova», insistette, «prendilo».
La fermezza con cui disse quelle parole mi convinse ad assecondarlo, trovandomi con l’uovo tra le mani. «E ora?», sussurrai col cuore che mi batteva in gola, terrorizzata dal trovarmi un cucciolo sopra le gambe.
«Rompilo», disse semplicemente.
Per poco non caddi dal masso su cui ero seduta. «Sei per caso impazzito?», trillai.
Ti fidi di me?», disse. Eh no, non poteva usare l’artiglieria pesante. Sapeva benissimo che mi fidavo di lui ciecamente.
Rassegnata, obbedii e spaccai il guscio spesso con entrambi i pollici. L’uovo si sgretolò come creta, rivelando al suo interno un anello con un brillantino incastonato al centro. «William», riuscii a dire prima che le lacrime affiorassero ai miei occhi.
«Vuoi sposarmi?», ribatté lui in tutta risposta inginocchiandosi davanti a me.
  
30 Giugno 1997
 
Io, Molly e Arthur varcammo la soglia dell’infermeria di Hogwarts. Non mi premurai di fingere che non fosse successo nulla, ero sconvolta e terrorizzata. Come potevo non esserlo quando il volto del mio Bill era irriconoscibile? Era appoggiato ad un cuscino, il viso lacerato e squarciato in ogni punto. Le ferite scendevano lungo le spalle e il petto, nascoste da bende bianche unticce. Ero letteralmente pietrificata, volevo andare accanto a lui e accarezzarlo per fargli capire che in qualche modo c’ero e ci sarei stata, ma i miei suoceri mi precedettero.
Molly strappò dalle mani di Madama Chips l’unguento, spalmandolo delicatamente sul collo del figlio, mentre Arthur parlava con Remus riguardo alla questione della licantropia. A destarmi da quella trance furono le parole di Molly. Borbottava ad alta voce, sottolineando il fatto che suo figlio stava per sposarsi.
Maledetta me e la mia impulsività, cominciai ad urlare che io avrei sposato lo stesso Bill, che quelleferite erano il segno del suo coraggio e che non mi importava un fico secco se pensavano che io non lo avrei sposato per il suo aspetto non più perfetto. Sì, lo ammetto, forse esagerai un pochino. Poi, teatralmente, spostai con foga mia suocera e le presi - non proprio delicatamente - l’unguento per continuare ciò che aveva iniziato. Aggiungendo - peccando di presunzione, lo so - che io ero abbastanza bella per entrambi. Poi Molly parlò di qualche stupido diadema di una tale zia Muriel, e ci ritrovammo abbracciate a piangere. Da quell’episodio, i loro atteggiamenti nei miei confronti cambiarono.
  
15 Luglio 1997

Per una lunghissima ed interminabile settimana ero rimasta accanto al letto di William, creando una sorta di infermeria a Villa Conchiglia perché non volevo che si risvegliasse tra le mura asettiche della Scuola. Rimasi accanto a lui per giorni, fino a quando il lieve tremore sotto le sue palpebre pallide segnò il lento risveglio. Madama Chips mi aveva dato quell’unguento dal colore verdognolo e dall’odore nauseabondo, che andava spalmato ogni tre ore su ogni singola lacerazione che sfigurava il volto e il corpo del mio futuro marito. Fenrir Greyback aveva ferito quasi mortalmente Bill, ma Remus - e tutti gli altri - mi avevano rassicurata che non si sarebbe mai trasformato in lupo mannaro, in quanto l’attacco si era verificato a plenilunio finito. Tuttavia nessuno si sbilanciava su cosa sarebbe successo le notti di luna piena, stando a quanto diceva Lupin probabilmente Bill avrebbe presentato soltanto alcune peculiarità dei licantropi.
I primi giorni furono davvero duri, Bill era bombardato di antidolorifici e di pozioni, ma riusciva a stare in piedi soltanto poche ore al giorno. Inoltre era costantemente tormentato da un mal di testa che, a volte, lo costringeva a rigettare.
«Rimandiamo il matrimonio», gli avevo detto un pomeriggio, mentre spalmavo la medicina sui tagli.
Bill mi aveva afferrata per un polso, guardandomi negli occhi e scuotendo il capo. «No. Voglio sposarti. Ora. E non intendo rimandare ancora, voglio che tu sia mia moglie».
Non mi era restato che posargli un bacio tra le labbra spaccate, «io e tua madre organizzeremo le ultime cose, ma tu preparati a stare in piedi… Altrimenti con chi farò il primo ballo?». Aveva sorriso, gemendo di dolore per lo sforzo.
 
 
5 Agosto 1997

Ci eravamo sposati da quattro giorni, ma l’attacco dei Mangiamorte al nostro matrimonio aveva spento qualsiasi idea di viaggio di nozze. In più la luna piena era vicina, e sicuramente ci sarebbero stati molti più effetti collaterali di una semplice predilezione della carne al sangue.
Avevamo approfittato di quei momenti per sistemare Villa Conchiglia, una graziosa casa davanti al mare della Cornovaglia. Il regalo di nozze di Arthur e Molly, e non potei che essere grata ai miei suoceri per averci donato quell’angolo di pace. Finora non ne avevamo avuto modo, tra morso e tutto il resto.
«Stasera ci sarà la luna piena», la voce di Bill mi arrivò all’orecchio come un flebile sussurro. Era seduto sul bovindo della sala, la tenda scostata per guardare fuori dalla finestra, acciambellata tra le sue gambe c’era Brioche che sembrava non avere alcun timore di lui.
«Non essere agitato, andrà tutto bene», gli dissi raggiungendolo per abbracciarlo. Allacciai le braccia al suo collo, e lui posò un delicato bacio sopra alla fede nuziale.
«Direi che questa sera sarà il caso di mangiare una bella bistecca appena scottata», aggiunse cercando di stemperare l’atmosfera. Lo baciai sulla guancia e mi diressi in cucina, pronta per preparargli ciò che aveva chiesto.
Per tutto il tempo cercai di non fargli capire quanto fossi agitata, ma più si avvicinava la notte e più il battito del mio cuore accelerava. Bill era andato a bere un goccio di amaro in salotto, come era solito fare dopo cena, mentre io mi occupai di sistemare la cucina.
«So che sei spaventata», la voce di mio marito mi fece sobbalzare.
«Non è vero», risposi ma, senza che me ne rendessi conto, mi ritrovai con la mano stretta intorno alla bacchetta. «Scusami», farfugliai imbarazzata.
«Amore mio», disse lui raggiungendomi ad un palmo dal viso. Mi prese il volto tra le mani, catturando la bocca in un bacio che non potei negargli. «Ho paura anche io, e sento la tua… Percepisco il battito del tuo cuore, ma vedrai che andrà tutto bene», mi sussurrò a fior di labbra.
«Dovrei essere io a consolare te, non il contrario», gli sorrisi abbracciandolo, «andiamo a dormire». Bill ammiccò ed io arrossii, nonostante tutto mi sentivo ancora in imbarazzo quando alludeva al sesso. Lasciai che mi conducesse nella nostra camera da letto e non opposi la benché minima resistenza mentre mi spogliò senza troppe cerimonie. Non c’era dolcezza in quei gesti, solo l’impellenza di avermi. Le unghie di Bill graffiarono la mia schiena, le sue dita s’aggrovigliarono tra i miei capelli e le sue labbra lasciarono segni purpurei che spiccavano in maniera evidente sulla mia pelle diafana. Ma poco mi importava, guardai fuori dalla finestra e vidi la luna piena fare capolino tra le nuvole. Sospirai, e lasciai che la distanza tra i nostri corpi venne azzerata. Esplodemmo insieme di un piacere violento e impetuoso, e lo accarezzai finché non si addormentò esausto tra le mie braccia. Non avevamo mai fatto sesso in quel modo, quasi animalesco. Con quelle preoccupazioni, scivolai tra le braccia di Morfeo.
Quando aprii gli occhi, la parte del letto di Bill era vuota. Scostai il lenzuolo e, ancora nuda, indossai la leggera vestaglia di raso color pervinca e scesi al piano di sotto. «William», sussurrai, non appena lo vidi di nuovo seduto a gambe incrociate nel bovindo. Senza preavviso, Bill si avventò contro di me. Tirò uno schiaffo, colpendomi in pieno volto. Cercai di divincolarmi, «fermati! Sono io, Fleur», continuai a dire mentre tentavo di staccare le mani di mio marito dalle mie spalle esili. Mi maledissi per non aver preso la bacchetta, soprattutto quando Bill mi scaraventò a terra, sedendosi a cavalcioni sopra di me. Lottai, colpendolo dove potevo. Provai anche a sollevare le ginocchia come avevo visto fare a Viktor Krum una volta, ma Bill era troppo forte. Mi prese per i polsi e mi bloccò a terra. Cosa diamine potevo fare per lui? Non era in sé e aveva lo sguardo perso nel vuoto, ed io ero terrorizzata. «William!», dissi con veemenza, «ti ricordi il giorno in cui sono arrivata alla Gringott? Ti sono piombata tra capo e collo e, senza neanche darti il tempo di abituarti alla mia presenza, ti hanno dato il compito di aiutarmi con l’inglese», cominciai, smettendo totalmente di dimenarmi sotto di lui. Gli parlai della nostra storia, del nostro matrimonio, fino a che sentii il suo respiro tornare regolare. Lo guardai negli occhi senza abbandonarli mai, fino a quando tornarono del colore del mare in cui ero annegata la prima volta in cui lo avevo visto ad Hogwarts.
«Per Godric! Cosa ho combinato!?», domandò spaesato, sollevandomi come un asticello.
«Niente, tesoro», gli dissi baciandolo e prendendolo per mano, «è solo la luna piena».
  
26 Novembre 1997

La luna era vicina al plenilunio, non potevo di certo biasimare mio marito che faceva il conto delle fasi lunari giorno dopo giorno. Quando la Gibbosa crescente era ormai al culmine, il suo carattere cambiava. Si chiudeva spesso in cantina, cercando di evitare qualsiasi contatto umano. Aveva paura di avere una nuova crisi, anche se in realtà era successo solo tre volte. Dopo la prima, in cui mi aveva colta totalmente impreparata, le altre due mi ero armata di bacchetta e di una pozione fatta arrivare direttamente dalla Francia. Senza batter ciglio, con una freddezza che non credevo di possedere, avevo legato Bill e l’avevo bloccato ad un tronco nella pineta dietro casa nostra. «Lo faccio per te», gli dicevo mentre lo obbligavo a bere quell’intruglio nauseabondo. Ero rimasta a vegliare su di lui fino a che non si era addormentato e, la mattina dopo, tutto era tornato com’era prima. Nessuno sapeva di questi episodi, avevamo deciso di affrontarli e risolverli da soli.
Qualche notte sentivo il suo respiro diventare sempre più affannoso, fingevo di dormire e lo seguivo con lo sguardo per vedere cosa facesse. Si infilava una vecchia tuta babbana – probabilmente un regalo da parte di Arthur, con la sua fissa verso i non maghi – e se ne andava sulla spiaggia. La finestra della nostra camera da letto si affacciava proprio sul mare, così potevo vegliare su di lui senza invadere la sua privacy.
Anche quella notte lo sentii scivolare fuori dalle coperte e, prima di uscire dalla stanza, mi accarezzò i capelli fino a scostarmi una ciocca dagli occhi. Dovevo davvero essere una brava attrice, se lui non si era mai accorto che in realtà non dormivo, pronta e vigile a qualsiasi sua mossa. Lo sentii scendere la scala, il rumore ovattato dei piedi come un’eco. Chiuse la porta delicatamente e io mi costrinsi ad uscire dal tepore del piumone, lasciando in camera soltanto Brioche che continuò il suo sonno indisturbata. Indossai il maglione lilla che mi aveva regalato Molly sopra al pigiama e scesi in cucina. Preparai la tisana con malva, camomilla e passiflora e, con due tazze fumanti in mano, mi avviai per raggiungere mio marito.
La pungente aria invernale sferzò il mio viso, facendo volare i miei capelli in tutte le direzioni. Osservai Bill, seduto su uno scoglio e con i piedi in acqua. Aveva i capelli che gli ricadevano sulla fronte, gli occhi chiusi quasi a bearsi del vento freddo. L’unico rumore in quel silenzio surreale era quello delle onde che, delicate, si infrangevano ritmicamente sul bagnasciuga e sui piedi di Bill.
«Non volevo svegliarti», mormorò lui rompendo il silenzio.
«Non volevo dormire», ribattei passandogli la tazza e sedendomi vicino a lui. Mi tolsi le scarpe, imitando il suo gesto e trattenendo il fiato quando l’acqua gelida lambì i miei piedi. Rimanemmo in silenzio a guardare il riflesso sul mare della luna quasi piena.
«Per fortuna non è successo in quel momento», disse bevendo un sorso della tisana.
Non avevo bisogno di chiedergli nulla, sapevo perfettamente quale fosse la sua preoccupazione. «Sarei rimasta ugualmente», lo rassicurai.
«Non te lo avrei permesso», disse deciso.
Lo guardai accigliata, «come se le tue parole potessero fermarmi», e mi sfuggì una risata.
«Ti avrei condannata ad una vita difficile. Fianco a fianco ad un lupo mannaro. Una vita a metà», cominciò lui guardando ostinatamente davanti a sé.
«Non me ne sarei andata, William. Neanche se tu fossi stato un lupo mannaro, te lo posso giurare su tutte le Veela. E comunque stiamo parlando di una cosa che non è successa, puoi stare tranquillo», gli dissi poggiando la testa sulla sua spalla, inebriandomi del suo profumo di salsedine e ginepro.
«Ti avrei lasciata libera, libera di trovare un uomo che ti avrebbe resa felice. Libera dal fardello della licantropia», continuò imperterrito.
«Ta gueule**, per piacere», dissi stizzita, «io ti amo. E il mio amore è decisamente più forte di qualunque maledizione». Bill si voltò verso di me, cancellando la distanza tra noi per baciarmi delicatamente e passionalmente, una sorta di incantesimo che solo lui riusciva a creare. «Guarda Tonks e Remus, si sono sposati questa estate. Lei è rimasta, nonostante tutto», continuai.
«È diverso. Remus convive con la sua condizione da molto tempo, per me… Per noi», si corresse dopo l’occhiataccia che gli rivolsi, «sarebbe stato tutto più complicato».
«Ti ricordi cosa mi dicesti quando non riuscivo proprio ad imparare l’inglese?», domandai di punto in bianco.
«Passo dopo passo arriverai ovunque», sussurrò Bill più a sé stesso che a me.
Annuii, prendendogli la mano fino ad intrecciare le nostre dita. «Quei passi li voglio fare con te, Bill. Uno dopo l’altro. Zoppicherò, a volte arrancherò, altre correrò. Ma sempre e comunque con te». Con la mano libera mi attirò a sé, cercando la mia bocca e catturandola in un bacio al sapore di verità e amore.
 
 
8 Dicembre 1999

«Tesoro, riposati pure. Alla cena ci penso io».
La voce profonda e rassicurante di Bill mi fece sentire meno in colpa mentre mi adagiavo come una balenottera sul divano. I miei movimenti non erano più fluidi, colpa del pancione alla ventesima settimana di gravidanza. Accarezzai il mio ventre pieno, beandomi dei piccoli ed impercettibili movimenti della bambina che portavo in grembo. Allungai le gambe gonfie ed appellai il plaid dalla trama a treccia per coprirmi. Quel giorno avevamo addobbato casa per il Natale, il nostro primo vero Natale – felice e sereno - a dire il vero. Quello dell’anno del nostro matrimonio, decisamente, non era stato un vero e proprio Natale: eravamo tutti impegnati nella Seconda Guerra Magica e ci era piombato tra capo e collo Ronald, scappato dalla missione che stava affrontando con Hermione e Harry. Nel 1998 non riuscimmo a festeggiare a casa nostra, ma cosa c’era in fondo da festeggiare quando William e la sua famiglia avevano dovuto dire addio a Fred? Ci limitammo a passare tutte le vacanze alla Tana, cercando di non far sentire in colpa Harry Potter per tutte le morti che pesavano sulla sua schiena come un fardello del quale, tuttavia, si sarebbe fatto carico fino alla fine dei suoi giorni. Poi, a fine agosto, la scoperta che saremmo diventati genitori ci aveva dato una nuova prospettiva, e così quell’anno non avevamo badato a spese per rendere quel Natale meraviglioso.
Il crepitio del fuoco era l’unico rumore udibile nel salotto, Bill stava armeggiando in cucina e così avevo tutto il tempo necessario per riposarmi dalla fatica.
«Fleur, la cena è pronta!», la voce di Bill mi fece svegliare dal dormiveglia in cui ero caduta. Se mi chiedessero quali sono le cose strane accadute durante la gravidanza, non esiterei a rispondere: la sonnolenza e l’affaticamento. Ad ogni modo, con sforzo, mi alzai. «Ti serve una mano?», mi domandò, facendo capolino dall’arco della cucina.
Lo guardai con gli occhi ricolmi di amore, non avevo smesso di pensare a lui da quel giorno ad Hogwarts. E non avevo smesso di amarlo nemmeno per un istante, neanche quando tutti davano per scontato che me ne sarei andata. «Millenovecentonovantatre», gli accarezzai il volto raggiungendolo davanti ai fornelli, percorrendo quella cicatrice che ora era semplicemente il simbolo del nostro amore.
«Ti sbagli amore mio, siamo nel 1999», mi corresse William scuotendo la testa con un'espressione incredula, «ti senti bene?».
«Ma oui, imbècile», scoppiai a ridere, facendo ondeggiare i meravigliosi capelli biondi, «sono trascorsi millenovecentonovantatre giorni da quando ci siamo incontrati la prima volta».
«Non può essere trascorso così tanto tempo da quando sei arrivata alla Gringott», obiettò.
«Non parlavo della Gringott», gli allacciai le braccia dietro il collo, stringendolo per quanto il pancione me lo consentisse, «mi hai stregato molto prima». William aggrottò le sopracciglia, continuando a non capire. «Davvero non te lo ricordi?». Mi sporsi appena, sussurrandogli piano all'orecchio, «io non ho dimenticato».
«Certo, il Torneo! Ma se ci siamo a malapena guardati», mi posò un bacio sul naso, sorridendomi con dolcezza.
«A volte è più che sufficiente», lo baciai a sorpresa come al nostro primo strambo appuntamento al Serraglio Stregato, inspirando il suo profumo, «millenovecentonovantatre giorni, ed ogni giorno mi innamoro di te».
 
*"Oh cazzo!", colloquiale francese
**”Stai zitto, taci”, colloquiale francese

 
Ciao a tutti!
Scrivere questa fan fiction è stato particolarmente impegnativo,
e non solo per il lavoro che fortunatamente ho ripreso a pieno ritmo (più o meno),
ma perché scegliere questa coppia si è rivelato un compito arduo.
Sono stupendi, ma la loro complessità mi ha messo di fronte a delle scelte da fare...
Per questo contest si chiedeva un missing moment,
ma ho deciso di raccontare un po' quelle che per me sono state le tappe più significative
per la loro storia d'amore.
Detto ciò, ringrazio parsefeni per avermi dato l'opportunità di provare ad uscire dalla mia comfort zone!
E volevo anche fare un in bocca al lupo a lei essendo il suo primo contest indetto!
Chris
 
 
   
 
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