Cap. 10
-Jason Duvrè e Nonna Jo
Aaron
camminava nervoso nel salotto di casa propria, erano trascorsi
già diversi
giorni da quando Jason era stato dimesso dallʼospedale e lui ancora non
aveva
avuto modo di parlarci da solo. Girò per la stanza
osservando i mobili che
erano appartenuti a sua nonna. Solo il divano in pelle bianca era
nuovo, così
come il televisore a schermo piatto che era stato appeso sopra il
camino.
Quando
bussarono alla porta si riscosse per la sorpresa, quasi da rovesciare
la
lampada del tavolino sul parquet di acero.
Rimise
lʼoggetto a posto e si diresse alla porta dʼingresso che
aprì senza chiedere
chi fosse: di solito a Maple Town non cʼerano forestieri, anche se gli
eventi
degli ultimi giorni suggerivano il contrario.
Aaron
si passò una mano fra i capelli ricci, gesto che faceva
sempre quando era
agitato. Di fronte a lui cʼera Mark, il suo migliore amico,
con una
cassetta di birre in mano, fresche di frigo.
«Posso
entrare, straniero?» chiese lʼaltro facendosi comunque strada
in casa del
meccanico.
«Sì,
certo scusa, fai come fossi a casa tua» rispose il ragazzone
biondo, ma il suo
tono era incerto.
Mark
si guardò intorno come a cercare una conferma dei suoi
sospetti. «Sei solo?»
chiese dopo aver appoggiato le birre sul tavolino basso di fronte al
televisore.
Aaron non gli rispose e per prendere tempo andò in cucina
per recuperare un
cavatappi.
«Vivo
da solo, non ti ricordi?» disse Aaron dalla cucina.
«Questo
non significa che tu debba essere solo sempre, lo sai vero?»
rispose enigmatico
Mark.
Dopo
aver preso il cavatappi e aver stappato due bottiglie ne porse una al
ragazzo
di fronte a lui e si mise a sedere sul divano allungando le gambe sulla
sceslong.
«Ti
ho cercato in officina, ma il tuo apprendista mi ha detto che oggi non
sei
andato al lavoro.»
«Ho
altre cose per la testa» rispose secco.
«Senti,
ci conosciamo fin da quando andavamo alla scuola dellʼinfanzia e penso
anche
prima, ma non ne ho ricordo...» iniziò col dire
lʼamico «ho aspettato per molto
tempo che tu ti confidassi con me, ma ormai ho rinunciato e
quindi...»
«Quindi?»
disse Aaron visibilmente scocciato appoggiando la birra sul tavolino e
muovendosi nervoso verso la finestra.
«È
inutile che ci giriamo intorno, tu sei preoccupato per quel
giornalista, Jason
Duvrè, se non mi sbaglio. Tutti in città sanno
che lo hanno trovato tramortito
in casa tua.»
Aaron sospirò abbassando le spalle come sconfitto, il suo
segreto non era più
tale e sembrava quasi che un macigno gli si fosse spostato dal petto,
forse
confidarsi con Mark poteva essere la soluzione ai suoi problemi.
Trovare
Jason disteso a terra in casa sua era stato un colpo terribile e sapere
così su
due piedi che era stato licenziato e che gli aveva mentito era stato
ancora più
scioccante. La sera precedente allʼaggressione, dopo il ritrovamento
del luogo
della targa, lui e Jason si erano chiariti. Avevano passato la notte
insieme e
si erano promessi di dirsi sempre la verità, ma
così non era stato: lui gli
aveva mentito e Aaron non aveva avuto modo di parlarci nuovamente.
Infatti il
compagno, una volta dimesso dallʼospedale, era andato chissà
dove insieme a sua
nonna Jo.
«Aaron»
lo richiamò al presente Mark avvicinandosi e mettendogli una
mano sulla spalla,
«non devi affrontare tutto da solo, okay? Lo so a volte, sono
un poʼ rozzo e mi
comporto da stupido, ma veramente non ha importanza... Dai non farmelo
dire. Tu
credi sul serio che possa cambiare qualcosa il fatto che tu preferisca
un
ragazzo a una ragazza?»
La
mano dellʼamico era ancora sopra la sua spalla e lʼunica sua reazione
fu quella
di appoggiare la testa contro il vetro della finestra che dava sulla
veranda e
sul giardino del retro della casa. La sua fidata moto era parcheggiata
sotto il
pergolato in attesa che si raffreddasse il motore dopo lʼuscita che
aveva fatto
poco prima.
«Tu
non capisci Mark, nessuno potrebbe capire, io non sono come voi
ragazzi!»
«E
ci credi così stupidi da non compreso quello che sei?
Nessuno ti ha fatto
pressione, Aaron. Non sei attratto dalle donne e allora? Persino mia
cugina
Kora si è rassegnata al fatto che tu non la consideri in
quel senso.»
Aron
si voltò di scatto e fissò gli occhi azzurri in
quelli nocciola dellʼamico.
«Davvero sei convinto che non avrebbe fatto differenza? Ma se
al liceo ci
sfottevamo per cose molto più stupide.»
«Adesso
non siamo più al liceo, siamo adulti: ognuno ha la propria
vita e può farne ciò
che vuole. Io la penso così.»
«I
ragazzi, lʼaltra sera al bar, quando Jason è entrato lʼhanno
sfottuto solo per
il suo modo di porsi, e nemmeno sapevano se fosse realmente gay! Io non
voglio
tutto questo per me, per noi.»
«Senti,
sai che a volte esagerano, soprattutto se bevono e poi nessuno
può giudicare
gli altri. Tu sei la persona più forte che conosco, un
combattente: hai perso i
genitori da piccolo e sei sopravvissuto al generale,
quindi credo
che tu abbia tutto il diritto di essere felice!»
Aaron non sapeva se piangere, ridere oppure dare qualche capocciata
contro il
vetro della finestra. Il generale, era così che tutti i suoi
amici chiamavano
nonno Alan, anche se in realtà aveva avuto solo il grado di
capitano.
«Non
devi dare dimostrazioni eclatanti a nessuno in paese, oppure andare a
un gay
pride, devi solamente vivere la tua vita. E se ti fa bene stare con
questo
Jason, allora fallo. Lui e sua nonna sono alloggiati alla locanda di
Kora, lo
sai?»
***
La
Locanda di Kora Jones si trovava appena fuori dalla cittadina di Mapple
Town,
immersa nel verde in una delle più antiche piantagioni di
acero della Contea.
Le famiglie di Kora e Mark erano da sempre produttori di sciroppo
dʼacero e la
tradizione familiare adesso era portata avanti dai suoi genitori e da
quelli di
Mark, mentre lei e la cugina Lottie avevano ristrutturato i vecchi
locali di
stoccaggio dello sciroppo e ci avevano creato una Locanda in cui gli
ospiti
potevano partecipare alla produzione e alla raccolta del pregiato succo
se avessero
voluto.
Kora
era di turno alla reception quando sentì il rumore della
moto di Aaron: lo
conosceva molto bene, quel suono per tanti anni aveva stuzzicato la sua
fantasia. Per molto tempo aveva sperato di poter viaggiare su quel
mezzo
insieme al suo proprietario. Però Aaron, benché
fosse gentile e molto
disponibile con tutti in paese, non faceva salire nessuno sulla sua
moto. Il
ragazzo entrò nella Locanda con il casco in mano, dopo aver
parcheggiato la
fidata Indy proprio di fronte allʼingresso. Se poteva non la
perdeva mai
di vista, come se quella moto forse un pezzo della famiglia del ragazzo
ed era
normale dal momento che lui una famiglia non ce lʼaveva più.
«Ciao
Kora, scusa il disturbo» iniziò col dire il biondo
in evidente imbarazzo, dopo
essere entrato allʼinterno del locale.
«Dimmi
Aaron, è successo qualcosa? Cosa ci fai da queste
parti?» chiese la ragazza con
tono curioso.
«Beh,
io... in realtà vorrei sapere... non so se tu me lo vuoi
dire...» farfugliò
passandosi una mano tra i capelli riccioluti sempre più
nervoso.
«Kora,
tesoro, sai mica se è rientrato mio nipote Jason?»
disse la voce ancora
energica di Josephine Duvrè scendendo le scale che portavano
alle camere del
primo piano.
Aaron
colto di sorpresa nel sentire il nome del compagno si voltò
di scatto, sbattendo
il casco contro il bancone della reception.
«Signora
Duvrè» disse con un filo di voce.
«Kora,
chi è questo bel giovanotto che conosce il mio
nome?» chiese con tono furbo la
donna, ben sapendo chi si trovava di fronte. Suo nipote Jason, dopo
essere stato
dimesso dallʼospedale della contea, aveva vuotato il sacco e le aveva
raccontato le sue vicissitudini dʼamore.
Lei
aveva provato più e più volte in quei giorni a
convincerlo ad andare da Aaron e
raccontargli tutta la verità. Cʼerano già troppe
bugie che erano state dette in
quella città e forse era lʼora di cominciare a dire le cose
come stavano. Jason
non era stato licenziato dal giornale per via del della sua inchiesta
sugli
appalti illeciti di Portal, bensì perché non
aveva voluto cedere alle avance del
suo diretto superiore che, oltre ad avergli fatto perdere il lavoro,
avendo
paura che il ragazzo lo denunciasse, lo aveva colpito e mandato in
ospedale.
Josephine voleva che Jason raccontasse tutto al suo ragazzo.
Sì, perché lei era
sicura che poteva considerarlo ancora tale. Inoltre quel ragazzone
biondo che
si trovava di fronte a lei era veramente un bel partito, come si diceva
ai suoi
tempi.
Aveva
convinto però Jason a sporgere denuncia contro lʼaggressore,
sia per quello che
aveva fatto lì a Maple Town sia per quello che gli aveva
fatto a Portland.
Inoltre i coniugi Smith, Candice e Tom, lʼavevano visto ancora in giro
e quindi
era stato facile ripercorrere le sue tracce e trovare testimonianze che
lo
collocassero in città al momento dellʼaggressione di suo
nipote.
Jason
comunque era cocciuto come ogni Duvrè che si rispetti e
siccome aveva mentito
ad Aaron sulla questione del licenziamento e sul vero motivo
perché era
successo, non voleva parlare con lui e dirgli la verità.
Josephine
sorrideva al pensiero di quanto fosse sciocco quello che stavano
facendo, erano
due somari, però adesso sembrava che uno dei due avesse
messo del sale in
zucca.
«Salve,
signora Josephine, io sono Aaron» disse infine il ragazzo.
Kora, che stava
osservando la scena molto interessata, capì ben presto che
forse era il momento
di andare a controllare se le camere fossero a posto.
Quando
furono soli la donna disse: «È andato in
città per delle questioni urgenti, ma
tornerà presto».
Aaron
annuì.
«Se
ti va puoi aspettarlo con me sotto il portico. Prendiamo un
tè, visto che è
proprio lʼora giusta.»
Aaron
seguì in maniera impacciata la vecchietta fino a sotto il
porticato di edera
della locanda, dove erano sistemati alcuni tavolini con delle
poltroncine e sedie,
offrendosi di aiutarla ad accomodarsi. Il pomeriggio era tiepido e un
vento
leggero scuoteva le foglie delle piante di acero presenti nella
piantagione.
«Sai,
ti immaginavo esattamente così!» disse tutto a un
tratto nonna Jo. Aaron non
seppe cosa rispondere, appoggiò solo il casco su una delle
sedie libere e si
lasciò cadere sopra unʼaltra in modo pesante.
«Conoscevo
tuo nonno, il generale, era un tipo molto... inquadrato, sì,
lo definirei così.
Meno male che conobbe tua nonna che mise un poʼ di pepe nella sua vita.
Dopo la
disgrazia avvenuta in guerra lui, però, la voleva
lasciare... ma tua nonna era
una donna tosta e aveva fatto un giuramento, soprattutto era innamorata
persa
di quel burbero di Alan» disse al ragazzo Josephine, come se
ricordasse bene quei
tempi ormai lontani.
«Lei
sa di noi?» chiese quindi a bruciapelo Aaron non resistendo
più.
«Oh
certo che sì, caro mio. Io so tutto di mio nipote, per me
è come un secondo
figlio, sono stata io a consigliargli di venire qui a parlare con te,
ma lui è
cocciuto peggio di suo nonno e certe volte credo che sia anche un poʼ
sciocco... Lʼho convinto a venire qui con la scusa del ritrovamento
della
targa...»
«Ma
la targa è stata ritrovata veramente, e prima che Jason
venisse in città» disse
Aaron. La questione di quella fantomatica targa non gli era mai passata
dalla
mente. Eppure doveva entrarci qualcosa il fatto che Jason sapesse dove
poteva
essere stata rinvenuta, anche se sua nonna era arrivata, da Miami per
giunta,
solo dopo lʼaggressione del nipote, avvisata da Patty. Stava per
aggiungere
qualcosa quando a un tratto sentì una voce ben conosciuta
chiedere: «Nonna, sei
qui?», e vide Jason fermarsi al limitare del pergolato,
osservando sua nonna
seduta di fronte al suo ragazzo.
«Cookie!»
«Sunflower,
io...» iniziò col dire Aaron alzandosi.
«Ragazzi,
vado a prepararmi per la cena, spero proprio tu voglia rimanere con
noi, Aaron.
Nel caso avviso Kora che saremo uno in più al nostro
tavolo.»
«Nonna,
non credo proprio...»
«Grazie
Signora Duvrè, accetto volentieri» rispose il
biondo alzandosi per accompagnare
la nonna di Jason fino alla porta e poi tornare a sedere.
«Ma
Aaron, non è necessario, io...» si lamento Jason,
ancora timoroso del fatto che
il compagno non si fosse ancora dichiarato.
«Preferisci
accomodarti o resti lì in piedi? Ti vorrei parlare prima di
andare a cena con
tua nonna.»
Jason
sospirò ma fece come gli aveva chiesto il ragazzo
accomodandosi di fronte a
lui.
«Non
hai paura che qualcuno lo possa scoprire?»
«Naaaa,
le persone che contano lo sanno, in realtà solo Mark che lo
ha sempre saputo,
il resto si fotta!» esclamò Aaron, prendendo di
scatto le mani del moretto, che
erano nervosamente appoggiate sul tavolino.
Jason
a quellʼaffermazione sgranò gli occhi e cercò di
svicolare le mani dal calore
di quelle di Aaron.
«Sanflower,
mi dici cosa ti spaventa? Non è questo che hai sempre
voluto?» gli chiese
allora il biondo cercando il contatto visivo col compagno che nel
frattempo
aveva abbassato lo sguardo nervoso.
«Sì,
certo... È che tu non sai tutta la verità...
Io... Quello che mi ha aggredito
in casa tua era il mio ex capodirettore. Beh, ci flirtavo un
poʼ in
redazione, ma non sono mai andato oltre; lo sai mi piace essere al
centro
dellʼattenzione...» disse Jason tutto dʼun fiato.
«Quando noi ci siamo lasciati
ha pensato che fosse il momento giusto per provarci sul serio, ma io
gli ho
detto di no e lui ha insistito fisicamente. Lʼho bloccato in malo modo
e gli ho
detto che erano molestie e che lʼavrei detto allʼeditore e lui il
giorno dopo
mi ha fatto licenziare. Poi nonna mi ha convinto a venire qui con la
scusa del
ritrovamento della targa e credo che lui si sia spaventato pensando che
ti
volessi dire tutto e mi ha aggredito a casa tua.»
Il
meccanico lo guardava sbalordito senza proferire parola, troppe
informazioni.
«Scusa
se non ti ho detto subito la verità, io... Mi vergognavo e
avevo paura del tuo
giudizio. Poi noi non ci parlavamo... Io, Cookie...»
A
quel punto Aaron si alzò e si inginocchiò di
fronte a Jason che ormai aveva le
lacrime agli occhi. «Ehi, tesoro, non importa. Non ho
intenzione di perderti,
okay? Solo non mentirmi di nuovo. Io ti amo e non ho più
paura, tutto si
risolve. Se persino una targa perduta quasi un secolo fa è
stata ritrovata, il
resto cosa vuoi che sia.»