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Autore: AnnabethJackson    19/12/2020    0 recensioni
[VMIN - molti accenni SOPE]
Seoul, estate.
Taehyung, rampollo di buona famiglia, deve consegnare un progetto di fotografia per uno stupido corso a cui lo ha iscritto la madre. Si trova sulla banchina della metropolitana, la macchina fotografica in mano. Basta uno scatto e si trova a guardare gli occhi vivi di un ragazzo, impressi nella fotografia.
Occhi che parlano e che significano tutto per lui.
Ma quando alza lo sguardo per cercarlo, quel ragazzo è sparito.
Sei anni dopo la vita di Jimin si trova in una fossa. Un turbine di eventi l'hanno scosso nel giro di pochi anni, gettandolo in un vortice nero senza fine fatto di sensi di colpa e odio verso sé stesso. Malgrado fuori paia spensierato, forze non ne ha più.
Quando un ragazzo lo ferma, il suo unico pensiero è che è in ritardo per il lavoro. Il ragazzo gli restituisce il libro che ha dimenticato sulla metropolitana e poi si ferma a fissarlo.
Guarda Jimin come se possedesse la chiave dei suoi pensieri più intimi, come se lo conoscesse. Eppure, Jimin è sicuro di non averlo mai visto prima.
E poi, nello stesso modo in cui è comparso, quel ragazzo se ne va, senza dire una parola.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jeon Jeongguk/ Jungkook, Kim Taehyung/ V, Min Yoongi/ Suga, Park Jimin
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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6.Déjà vu

 

Jimin stava studiando sdraiato sul suo letto, le gambe per aria e il libro sopra la testa, sorretto dalle braccia distese. Era in quella posizione ormai da decine di minuti e cominciava ad aver male ai bicipiti, ma le occasioni di studiare – e soprattutto di trovare la giusta concentrazione – erano talmente poche che non avrebbe mai osato interrompere il fantastico lavoro che stava facendo il suo cervello.
Non che fosse chissà quanto portato per lo studio. In realtà, quando ancora andava a scuola, odiava essere costretto a rimanere su dei libri perché qualcuno glielo imponeva. Tuttavia, da quando non aveva più quella possibilità, il suo approccio verso lo studio era cambiato.
Era riuscito finalmente a comprendere il valore del sapere e, soprattutto, della libera opportunità di imparare che, molti, davano ormai per scontata. Avendo potuto interfacciarsi con entrambi gli schieramenti, riusciva a comprendere la frustrazione provata dagli studenti – grandi o piccoli che fossero – ma si era reso davvero conto di cosa volesse dire essere libero di apprendere senza altri doveri a cui pensare solo quando ormai era troppo tardi.
Nessuno lo aveva costretto. Nessuno lo aveva precluso dall’occasione di frequentare l’università.
Nessuno a parte la vita stessa e gli scherzi del destino.
Perché crescere voleva dire anche quello: rendersi conto che i bisogni primari, come mangiare, pagare le bollette, potersi curare, acquisivano la priorità su qualsiasi altra cosa, persino l’istruzione.
Girò l’ultima pagina che il suo cervello aveva memorizzato e sospirò.
E poi il mondo divenne all’improvviso scuro e sentì un forte dolore al naso.
«Ahi!»
Si sarebbe anche lasciato sfuggire un’imprecazione in piena regola se non fosse stato per l’ulteriore attacco che subì: qualcosa di duro e morbido allo stesso tempo colpì nuovamente la sua testa e Jimin non poté far altro che lamentarsi un’altra volta.
«Ma che diav-»
«Su, forza, alza il culo da quel letto e cambiati.»
La voce che giunse alle sue orecchie prima ancora che riuscisse a riacquistare la vista era senza dubbio quella di Jungkook. Il suo caro, dolce, delicatissimo – e presto morto – amico Jungkook.
Con il braccio rimasto incastrato sotto il libro, si liberò di tutto quel peso e subito i suoi occhi andarono a posarsi sulla figura dinnanzi al suo letto, poco oltre la soglia della camera. Jungkook lo stava fissando con uno sguardo d’attesa, le braccia incrociate e l’espressione seria.
Il cervello di Jimin registrò brevemente il suo abbigliamento – che già poteva essere indice delle non buone intenzioni – ovvero una camicia maculata su sfondo rosso mattone, la cui ultima asola era rimasta lasciata libera dal rispettivo bottone, e dei pantaloni neri attillati. Da qualche parte doveva esserci anche una giacca perché con il freddo che faceva in quei giorni nessuno sano di mente – nemmeno Jungkook, che pazzo lo era assai – sarebbe andato in giro vestito solo con un misero tessuto di cotone a coprirlo.
«Che intenzioni hai?» domandò, continuando a massaggiarsi il dorso del naso. Gli faceva davvero molto male, tanto che temeva gli si fosse arrossato e vi fosse rimasto il segno dell’angolo della copertina del tomo di anatomia.
«Tu. Io. Una festa. Ora,» rispose a monosillabi Jungkook, indicando con l’indice della mano destra qualcosa sul letto di Jimin.
Abbassando lo sguardo, quel qualcosa si rivelarono essere un ammasso di vestiti a lui sospettosamente familiari. Riconobbe una camicia azzurra che non indossava da anni, e un paio di jeans scuri il cui passato aveva molti tratti in comune con l’altro capo d’abbigliamento. C’era un motivo per cui erano rimasti volontariamente dimenticati nel suo armadio.
«Una festa? Ancora? Non ci sei andato anche ieri sera?» continuò a domandare, più per prendere tempo che per vero interesse.
Poco ma sicuro, quella sera non sarebbe uscito. Il motivo ufficiale era che doveva studiare – anche se ormai poteva dire addio alla sua concentrazione – quello ufficioso…
«Io comunque non vado da nessuna parte. Ho da fare,» rispose. «Non hai un fidanzato che può accompagnarti? Dovrebbe essere uno dei suoi compiti!»
Non sapeva nemmeno lui cosa stesse dicendo. Probabilmente le prime cose che passavano per il suo cervello, completamente insensate. Ma il panico di uscire di casa per qualcosa di non programmato, andare in un posto sicuramente affollato di gente che si divertiva, urlava, parlava, beveva, ballava, viveva… non poteva.
E poi doveva studiare.
«Seokjin deve lavorare e lo sai anche tu,» rispose Jungkook alzando le spalle, poi gli puntò addosso lo stesso indice che aveva usato per indicare i vestiti.
Il gesto doveva essere minaccioso, ma ai suoi occhi, erano rare le volte in cui Jungkook riusciva a incutergli timore. Un po’ perché lo conosceva da una vita – e quindi tutte le sfaccettature del carattere gli erano famigliari come se fossero state le proprie – un po’ perché con quel visino tondo e gli occhi grandi, l’unica cosa che sicuramente riusciva a incutere nelle persone era tenerezza.
«Smettila di lamentarti e vestiti, altrimenti…»
Ora, Jungkook poteva pure passare per la persona più innocente e meno pericolosa dell’intero pianeta, ma era molto bravo con le minacce, in particolare con quelle indirizzate a Jimin. Aveva una insospettabile abilità nel pensare a punizioni e rivendicazioni.
E Jimin lo sapeva molto bene.
Assottigliò lo sguardo, ancora mezzo sdraiato sul proprio letto. Ormai era una questione di chi avrebbe distolto prima gli occhi dall’altro.
«Non oseresti mai,» mormorò Jimin mentre, senza accorgersene, tirava a sé le proprie gambe con estrema lentezza, quasi a volersi rannicchiare su sé stesso per proteggersi.
«Lo sai che lo farei…» e accompagnò quelle ultime parole con un passo lento in avanti, piccolo ma ben visibile.
Calò un silenzio carico di attesa, in cui la gara di sguardi toccò alte vette di patos e la distanza si ridusse in modo che tra i due vi fosse solo un metro d’aria libera, e mentre Jungkook avanzava, Jimin si ritirava sempre più finché le sue cosce non furono attaccate al petto.
Poi il primo scattò e Jimin fece appena in tempo a raggomitolarsi in posizione fetale che Jungkook gli era già addosso. Prese a fargli il solletico fin dove le sue mani avevano libero accesso, scatenando nel suo corpo piccoli sussulti e provocando dalla sua bocca involontarie risatine e suppliche. Poche persone sapevano di quel suo punto debole – anche se, dopotutto, non frequentava molta gente.
Il supplizio finì non molto in fretta quando Jungkook, ritenendo di averlo punito abbastanza da modellare il suo volere al proprio, si sedette sul bordo del letto, culminando la sua opera di convincimento con una sonora e sorda pacca sul fondoschiena di Jimin.
Girato di spalle, in posizione fetale e con il respiro affannoso, la vittima sussultò e lanciò l’ennesimo lamento, questa volta infondendoci anche del finto oltraggio nella cadenza di voce. Quello di picchiettarsi a vicenda il sedere era un loro gesto abituale che non aveva nessun intento malizioso se non quello di mostrare affetto reciproco.
Strano modo, concordavano anche loro.
Jimin sentì una mano posarsi con delicatezza sulla sua spalla esposta e stringerla brevemente.
Era solo un piccolo gesto, ma conteneva un enorme significato, e lui lo sapeva bene.
Jungkook era lì, e ci sarebbe sempre stato.
Solo un groppo alla gola lo costrinse a bloccare i ricordi che stavano sorgendo nella sua mente e a focalizzarsi solo sul presente. Perché quella era la stessa posizione e lo stesso gesto che si erano ripetuti più volte da quella sera di sei anni prima.
«Su, forza, alzati e cambiati» disse dopo un po’ il suo amico spostandosi dal materasso e recuperando i vestiti, finiti da qualche parte in fondo alle coperte insieme al libro, per lanciarglieli addosso.
Jimin attese un istante per essere sicuro di avere le proprie emozioni sotto controllo, chiuse bene in una scatola ermetica da qualche parte nella sua testa, e poi rivestì i panni dell’amico seccato da quella trovata improvvisa.
Fingere. La sua vita era diventata una finzione.
Sbuffò sonoramente – con più enfasi di quanta fosse necessaria – e si alzò dal letto, lanciando poi un’occhiata a Jungkook, sedutosi ora sulla sua scrivania con Erri tra le braccia. Entrambi rimasero impassibili a quelle vibrazioni negative, persi nel loro mondo fatto di grattini e sonore fusa.
«Prima o poi mi dimetterò da questo incarico di chaperon, per di più non retribuito, che non ho mai accettato di ricoprire e allora rimpiangerai di non avermi trattato meglio,» borbottò Jimin a voce abbastanza alta da farsi udire dal diretto interessato il quale lo ignorò bellamente e, anzi, alzò Erri tra le braccia in modo che fosse all’altezza del suo volto e disse con una vocina:
«Il tuo padrone è molto simpatico, vero Erri? Gli piace molto lamentarsi. Sotto sotto però mi vuole tano tanto tanto bene e farebbe di tutto per rendermi felice.»
E, purtroppo per Jimin, aveva fottutamente ragione.
 

[…]

 
«Che ha?»
«Nulla, lascialo perdere. Gli piace interpretare il ruolo dell’offeso. Gli passerà.»
«Io non sto interpretando nessun ruolo se non quello della persona tradita dal proprio migliore amico! Perdonami se ho pensato di potermi fidare di te.»
Dallo specchietto laterale destro della macchina, Jimin riuscì a vedere il diretto interessato alzare gli occhi al cielo ironicamente e poi sorridere con soddisfazione. Jungkook si stava divertendo a sue spese, e ancora non erano arrivati alla festa.
La serata poteva solo che peggiorare.
Tutto era iniziato quando i due erano usciti di casa – in seguito alle raccomandazioni di nonna Mae di divertirsi e di fare tutto quello che avrebbe fatto anche lei – bardati nei rispettivi cappotti e Jimin si era diretto verso la fermata più vicina della metropolitana.
Jungkook, ancora fermo sull’uscio di casa, gli aveva chiesto dove stesse andando e Jimin si era fermato, completamente spaesato, domandandosi se avesse capito bene o meno.
Non aveva però potuto chiedere delucidazioni perché una macchina nera familiare, che aveva visto tempi decisamente migliori, si era fermata davanti a loro sul limitare della careggiata, e dal finestrino del conducente Jimin aveva intravisto la figura di Seokjin.
Gli era bastato un battito di ciglia per collegare i punti e fare due più due.
E per lanciare l’ennesima occhiata assassina a Jungkook, il quale aveva semplicemente fatto finta di nulla. Anzi, lo aveva preso per un braccio, costringendolo in pratica ad entrare in macchina dopo aver aperto la portiera posteriore. Era poi salito a fianco del fidanzato e, per scrupolo, aveva persino bloccato la chiusura delle portiere.
Talmente basito, Jimin non aveva proferito parola. Non aveva nemmeno ricambiato il saluto gentile di Seokjin: semplicemente si era appoggiato al finestrino in modo scomposto e aveva incrociato le braccia al petto, in una chiarissima posa di rifiuto verso il resto del mondo – anzi, verso Jungkook e basta.
«Che gli hai fatto?» domandò Seokjin, lanciando una breve occhiata incuriosita al fidanzato.
Prima che il diretto interessato potesse parlare, Jimin intervenne per esporre la propria versione – che sicuramente era quella giusta.
«Mi ha costretto a venire a questa festa dicendo che tu non ci saresti stato. Mi ha mentito spudoratamente.» Calcò volontariamente e con una certa enfasi su qualche parola, in modo che tutti cogliessero i punti cruciali del discorso. Non che ce ne fosse davvero bisogno.
Dallo specchietto retrovisore, Jimin vide quello che pensava essere il suo unico alleato prima fare una faccia seria e poi scoppiare a ridere, coprendosi la bocca con una mano, anche se l’effetto finale non cambiò: era ufficiale, nessuno poteva capire quanto si sentisse profondamente offeso…
Va bene, in realtà non era così tanto vilipeso, ma riteneva suo pieno diritto quello di lamentarsi per un simile colpo basso. Perché, se avesse saputo prima della presenza di Seokjin, sicuramente si sarebbe rifiutato di uscire di casa.
E Jungkook lo sapeva molto bene.
Quest’ultimo, dopo aver lanciato un sorriso d’intesa con il fidanzato, si girò sul sedile per guardare Jimin.
«E dai, vedrai che ti divertirai!» disse con sicurezza. «Hai fatto storie anche per la mostra d’arte, ma mi pare di ricordare che ti sia fatto grosse risate quella sera.»
Sì, aveva riso molto, molto più di quanto gli fosse capitato negli ultimi tempi. Ma nella sua mente era impressa bene come fosse poi finita quella serata…
Delle urla. Le lenzuola madide di sudore. Il fiato corto. Il buio.
Scosse la testa. Sarebbe bastato poco, un piccolo passo per essere risucchiato nuovamente in quel buco nero senza fine, e non poteva permetterselo, non ora.
«Di chi hai detto che è la festa?» domandò nel tentativo di occupare la mente da altro e distrarsi.
«Non l’ho detto,» rispose Jungkook alzando le spalle. E non aggiunse altro.
Jimin allora spostò un’altra volta lo sguardo sullo specchietto retrovisore, sperando di trovare finalmente un appoggio. Ma, come avrebbe dovuto immaginare, Seokjin si strinse nelle spalle con fare impotente, sebbene stesse sorridendo divertito.
«Non guardare me, ne so molto meno di te.»
Jimin vide Jungkook appoggiare la mano sinistra su quella destra di Seokjin, posata sul cambio manuale, e stringerla, quasi come se fosse il sigillo d’accordo tra il patteggiante e il diavolo. Chi di loro fosse chi, era un mistero.
Quei due erano fatti della stessa pasta. Maledetto era stato il giorno in cui si erano incontrati.
Jimin scosse il capo e tornò a guardare fuori dal finestrino, ma non abbastanza in fretta da non vedere il bacio che Seokjin mandò per aria al fidanzato.
E probabilmente avrebbe dovuto sorbirsi molto altro diabete in quello spazio ristretto che era l’abitacolo – cosa che capitava ed era capitata fin troppo spesso in passato – se poco dopo il navigatore impostato sul cellulare del conducente non avesse segnalato loro di essere giunti a destinazione.
Jimin si sporse in avanti tra i due sedili, sporgendosi in modo che il suo volto fosse alla stessa altezza di quello dei suoi amici. Tutti e tre guardarono fuori dal paraurti in silenzio.
Ciò che si parò davanti a loro avrebbe avuto bisogno di tante parole per essere descritto. Parole che, al momento, sfuggivano alla loro bocca. Perché quell’enorme casa – anche se definirla casa era decisamente riduttivo – assomigliava molto al genere di struttura che solitamente figurava nelle pubblicità di gente felice e soprattutto ricca. Ricca sfondata, per amor della precisione.
Tutt’attorno, il perimetro era delineato da un’alta siepe verde rigoglioso dietro cui, probabilmente, sorgeva anche un cancello dagli spuntoni taglienti. Da qualche parte dovevano anche esserci un numero inqualificabile di telecamere e, con altrettanta probabilità, anche cani da guardia ben addestrati.
Eppure, pensò Jimin, erano molto lontani dal quartiere di Gangnam.
«Siamo nel posto giusto?»
Fu Jimin a porre la domanda, ma quelle parole potevano essere state pronunciate da uno qualunque di loro tre perché condividevano il medesimo attonimento.
Seokjin prese in mano il proprio cellulare e toccò un paio di volte sullo schermo. Alla fine, senza dire nulla, annuì.
Il primo a riscuotersi fu Jungkook, che tutto sommato sembrava essere il meno sorpreso. Dopo essersi sistemato il cappotto e la sciarpa, uscì dalla macchina, esortandoli a fare lo stesso.
All’entrata di quel piccolo paradiso non trovarono nessuno ad attenderli, ma anzi, i cancelli erano stati lasciati appositamente aperti in modo che, chiunque, potesse varcarli senza problemi. Jimin pensò che tutto ciò fosse molto strano: se quella fosse stato casa sua, sicuramente si sarebbe assicurato di piazzare come minimo due gentleman all’entrata, meglio ancora se due energumeni.
«Questa è la casa che mi meriterei,» mormorò Seokjin alla sua destra con profonda venerazione.
I tre si erano fermati sul breve vialetto sterrato che conduceva alla porta d’entrata, a pochi metri dalla fonte principale della luce accecante che illuminava tutto l’ambiente esterno.
Quella casa era fatta principalmente di vetro, vetro che andava a costituire le grandi finestre disposte lungo tutto il perimetro. Queste però erano state studiate in modo che, da fuori, fosse praticamente impossibile vedere cosa stesse succedendo all’interno. Probabilmente si trattava di qualche materiale super tecnologico utilizzato anche per i vetri oscurati delle macchine.
Dove diavolo li aveva portati Jungkook? Era per caso la dimora di qualche spacciatore arricchitosi negli anni sfruttando persone meno abbienti e fortunate? Jungkook era entrato nel giro della droga e lui non se ne era nemmeno accorto?
Jimin si rendeva conto che le idee che affollavano la sua testa fossero del tutto insensate e prive di fondamento, ma a mano a mano che si addentravano, la sua confusione aumentava.
Avevano finalmente trovato il coraggio di arrivare fino all’uscio, quando la porta si aprì, prima ancora che avessero avuto l’occasione di suonare il campanello – o qualsiasi dispositivo tecnologico si pigiasse per annunciarsi in quella casa.
«Kookieee!»
La voce entusiasta arrivò prima ancora della figura. Ma quando vide Hoseok avanzare verso di loro, tutta la sua confusione scomparve.
Vennero letteralmente travolti da un vortice colorato: Jimin non ebbe nemmeno il tempo di capire cosa stesse succedendo che si ritrovò bloccato tra due braccia sottili, ma forti, stretto a tal punto che quasi gli mancava il respiro. E con la stessa velocità con cui si era trovato travolto, si ritrovò libero di metabolizzare la situazione.
In quel momento, infatti, l’entusiasmo di Hoseok aveva preso di mira Seokjin il quale, se possibile, si ritrovò ancora più spiazzato di Jimin. A quanto ne sapeva, i due neanche si conoscevano.
«Sono felice che ce l’abbiate fatta! Avevo pensato di affiggere qualche cartello di indicazione nel quartiere, ma per qualche motivo l’amministrazione comunale me lo ha impedito,» disse Hoseok con faccia perplessa. Il suo volto però tornò subito ad illuminarsi, puntando lo sguardo su Seokjin il quale lo stava guardando attonito. «Tu devi essere il ragazzo di Kookie! È un vero piacere conoscerti, davvero. Mi stai già simpatico!»
Jimin osservò prima Jungkook e poi l’altro amico: il primo era palesemente imbarazzato, tant’è che le guance si erano tinte di un leggero rossore, mentre il secondo aveva il corpo rigido e un’espressione confusa.
Jimin sorrise vagamente divertito. Adorava sempre di più quell’Hoseok.
Tutt’a un tratto si sentì un rumore inconfondibile provenire da una stanza a destra del largo corridoio d’entrata. Se le orecchie non gli mentivano, quello doveva essere il suono di un vaso rottosi in mille pezzi. Simultaneamente vide Hoseok sbiancare e voltarsi allarmato in quella direzione.
«Oh, merda. Ti prego Dio, fa che non sia il vaso di nonna. I miei mi ammazzano!» esclamò rivolto più a sé stesso che a qualcuno dei presenti. L’ultima parola venne inghiottita dalle urla che seguirono il rumore, mentre lui si allontanava quasi correndo.
I tre rimasero di nuovo soli.
Beh, non proprio soli: se prima il rumore della musica era stato attutito dalle mura – sicuramente insonorizzate – ora sembrava riempire tutto l’interno, ma non era assordate come poteva esserlo in una discoteca. Era più una melodia new age che sarebbe stata perfetta per la reunion di vecchi esponenti dell’era hippie nella California degli anni ottanta.
Jungkook si mosse un po’ impacciato sui suoi piedi prima di lanciare un’occhiata ai suoi chaperon.
«Non guardarci così,» borbottò Jimin, socchiudendo le palpebre. Conosceva molto bene quell’espressione sul viso dell’amico. «Sei tu che sei voluto venire qui. A proposito, ora potremmo sapere cosa ci facciamo qua?»
Era chiaro che loro non centrassero nulla con quell’ambiente. La mostra d’arte poteva ancora passare in quanto intrattenimento d’uso comune, ma una festa a casa di un multimilionario – per di più assai eccentrico – era tutt’altra storia.
Jimin fissò lo sguardo in quello di Jungkook. Non passò molto che questo si arrendesse, sbuffando e alzando gli occhi al cielo.
«Ok, va bene. L’altro giorno ho chiamato casualmente Hoseok per sincerarmi che stesse bene,» iniziò gesticolando con le mani. «Sempre casualmente mi ha informato e invitato alla sua festa. Questa festa. E io ho accettato perché ho pensato che, probabilmente, ci sarebbe stato anche SUGA. Visto che, insomma, a quanto pare, mi è parso di capire che sono amici…»
Jimin non amava il caso. Anzi, lo odiava. Di solito gli portava solo mali che non aveva chiesto. Per cui gli fu naturale sospettare che nel piano di Jungkook molto fosse intenzionale e nulla invece lasciato alla fortuna.
«Jungkook…»
«Sì, ok, va bene! Ho chiesto espressamente se ci sarebbe stato il suo amico e Hoseok mi ha risposto di sì. Che dovevo fare, rifiutare l’invito? Sai quanto può essere insistente quel ragazzo?» domandò allargando le braccia e con gli occhi spalancati. Per chi non lo conosceva bene, in quel momento poteva passare per il ritratto dell’innocenza.
Jimin scosse la testa sconsolato, anche se dentro di sé il suo stomaco aveva appena fatto un piccolo balzo inspiegabile. O meglio, non assimilabile al collegamento fatto dalle sue sinapsi che stava cercando di ignorare. Ma era troppo tardi e il pensiero aveva già messo radici.
Se Hoseok era amico di SUGA ed era presente a quella festa, allora c’era un’altra probabilità di incontrare anche…
«Sbaglio o quelli sono…?»
A parlare era stato Seokjin che stava fissando con la fronte aggrottata la parete della prima stanza a destra, proprio dove era sparito il padrone di casa poco prima. Sul muro era stata attaccata una gigantografia di quello che, senza ombra di dubbio, era l’ormai famoso “Falli-ng”.
Guardandosi attorno, Jimin si accorse che quasi tutte le superfici visibili dalla quella posizione presentavano il medesimo cartonato in diverse scale di grandezza. Alcuni erano semplicemente la fotocopia del quadro, altri invece riportavano anche una scritta nera a una grandezza tale che persino un cieco avrebbe potuto distinguerne i caratteri.
«Sì,» rispose immediatamente Jungkook con un sorrisino divertito. Scambiò uno sguardo con Jimin, prima di voltarsi verso il fidanzato per approfondire la spiegazione: «Pare che Hoseok sia riuscito a vendere il suo primo quadro. Quel quadro. Ha organizzato questa festa proprio per festeggiare,» disse indicando con un dito il primo cartellone a portata di mano.
Seokjin continuò a fissare l’opera d’arte prima confuso e poi pensieroso. A quanto pareva, quella sera era destinato a passare da uno stato di confusione all’altro.
«Forza, andiamo a prendere da bere,» disse alla fine il ragazzo arrendendosi, prendendo per mano Jungkook e per un braccio Jimin.
Quello che si trovarono davanti appena varcata la soglia della sala li costrinse a fermarsi per l’ennesima volta in piena contemplazione.
La sala – o l’atrio? In case come quella, le varie stanze assumevano funzioni e appellativi quasi fantascientifici – era un enorme openspace delimitato da ampie finestre, le stesse che si vedevano dall’esterno. Il colore predominante era il bianco, ma in una tonalità tale da non far troppo male agli occhi, forse anche grazie alle calde luci gialle provenienti dai tre enormi lampadari di cristallo che pendevano dal soffitto.
L’insieme era un miscuglio di stili moderni e classici, grazie anche all’arredamento essenziale dei grandi divani e dei pochi mobili dispersi per lo più vicino alle pareti interne.
Quella stanza probabilmente aveva la sola funzione di accogliere gli ospiti e permettere loro di rilassarsi godendosi della visuale esterna, che di giorno doveva essere suggestiva. Quella sera, invece, era stata trasformata nel cuore pulsante della festa, grazie alle casse di musica posizionate in punti strategici della stanza e alle sedute di pelle che permettevano alla gente di socializzare.
«Sì, questa dovrebbe essere proprio la mia casa,» mormorò Seokjin con una nota di venerazione nella voce.
Gli altri due annuirono senza distogliere lo sguardo.
«Se questa è la premessa, mi aspetto come minimo che venga servito il miglior soju della Corea,» disse ancora Seokjin, prima di addentrarsi nella sala, puntando direttamente verso la porta posta dalla parte opposta, da cui svariate persone uscivano tenendo in mano bicchieri e bottiglie di vetro.
I tre ragazzi trovarono in fretta la fonte delle bevande, posta su un tavolo ben bandito in quella che doveva essere la seconda sala di benvenuto degli ospiti. Mentre i suoi due amici si servivano da bere, non poté evitare di domandarsi quanto grande fosse quella casa.
«Jimin vuo-»
Il resto della frase venne perso nel silenzio che seguì le parole di Jungkook, e Jimin, guardando il suo sguardo puntato, venne assalito da un improvviso deja-vù. Questa volta però sospettava la fonte di quello stupore e, voltandosi di spalle – non senza che il suo stomaco di contorcesse nell’ennesima morsa – confermò i suoi sospetti.
La scena era molto simile a quella risvegliata dalla sua memoria, ma vi era una piccola differenza. Anzi, una differenza enorme a misura d’uomo.
Nella prima sala, vicino alla vetrata che conduceva al giardino esterno, posta proprio a fianco del grande camino acceso, c’era lui.
Taehyung.
Jimin lo riconobbe nell’istante stesso in cui i suoi occhi si posarono su di lui, malgrado quello fosse voltato parzialmente.
Il ragazzo era il terzo membro di un triangolo formato da altre due persone – una delle quali doveva essere SUGA. E proprio mentre li guardava, al loro fianco comparve anche Hoseok, per creare un quadrato quasi perfetto.
Con la coda dell’occhio, Jimin vide Jungkook alzare il braccio destro e scuoterlo freneticamente per attirare l’attenzione dell’ultimo arrivato, il cui sguardo, per fortuna dell’amico, era rivolto proprio nella loro direzione. Hoseok rispose al saluto e con la stessa mano indicò loro di avvicinarsi.
Per Jimin fu inevitabile seguire l’amico – e il fidanzato al seguito – come fu anche inevitabile incrociare lo sguardo di Taehyung quando questo si voltò incuriosito, ma non sorpreso. Più casuale, ma ugualmente inevitabile, fu ritrovarsi al suo fianco.
«Oh, bene, vedo che vi siete serviti da bere! Spero che abbiate assaggiato il soju, l’ho fatto arrivare direttamente dal miglior produttore del paese,» disse Hoseok con un largo sorriso. Poi si guardò attorno, accorgendosi solo in quell’istante dell’insieme di persone per lo più estranee le une alle altre che erano andate a comporre un grande cerchio. «Oh, giusto. Permettete che vi presenti i miei amici! Questi sono Yoongi, Taetae, e Namnam,» e mentre parlava, indicava con un dito i rispettivi proprietari di quei nomi.
Taetae.
Jimin si lasciò scappare un piccolo sorriso sentendo quell’appellativo, cosa che non sfuggì al diretto interessato che alzò un sopracciglio.
«Ehi, ma io ti conosco!» esclamò SUGA, al secolo Yoongi, puntando un dito verso Jungkook che, dal canto suo, all’improvviso esitò. Si morse il labbro inferiore e chinò un poco il capo, quasi fosse in imbarazzo.
«Ah, sì?» domandò interessato Hoseok, passando con lo sguardo tra i suoi due amici. Il tono della sua voce indicava una vivida curiosità, così come suggerivano gli occhi spalancati e il capo inclinato.
«Sì, ci siamo incontrati alla tua mostra. Jungkook è un… fan di SUGA.» A rispondere non furono i diretti interessati, bensì Taehyung che, per qualche motivo, sembrava sinceramente divertito da quel fatto. Ma, a quanto pareva, era l’unico a pensarla a quel modo.
Jimin vide il proprietario di casa rilassare impercettibilmente le spalle e aprirsi in quell’espressione che ormai aveva imparato a riconoscere essere associata alla felicità. L’umore quotidiano di quel ragazzo doveva trovare fonte direttamente dal sole perché quando il suo volto si illuminava – e per quello che aveva visto lui, si illuminava spesso – sembrava proprio risplendere di luce propria.
«Oh… OH!» esclamò. Poi allungò un braccio per circondare le spalle di SUGA e tirarselo vicino. «Sono felice che ci sia qualcuno che legge i suoi fantastici lavori! Sai, Kookie, dovresti leggere l’ultima poesia che ha scritto. Ho pianto per un sacco di tempo.»
Jungkook sembrò destarsi dall’improvviso stato imbarazzato in cui era caduto. Spostò la sua attenzione su Hoseok, pendendo letteralmente dalle sue labbra.
Colui che invece sembrava voler scavare una fossa direttamente nel parquet di legno sotto i suoi piedi era Yoongi, il quale abbassò lo sguardo a terra e si strinse il più possibile nelle spalle, quasi a volersi raggomitolare.
Per un istante calò un silenzio che tutti avvertirono in modo differente, ma passò molto in fretta quando Seokjin pose ad Hoseok delle domande di carattere architettonico sulla casa, di cui era rimasto colpito.
La conversazione a quel punto spiccò il volo e Jimin scoprì che Taehyung e Yoongi erano gemelli – e questo spiegava quella familiarità che aveva avvertito tra i due e anche perché, dopo la mostra, fossero andati via insieme – mentre Namjoon era loro cugino. Parlarono di svariate cose, per lo più di cosa facesse ognuno nella vita, di temi d’attualità e molto della raccolta di poesie di SUGA – mentre quest’ultimo fece di tutto per distogliere l’attenzione da sé stesso. Per qualche motivo Hoseok sembrava voler tornare ripetutamente su quel punto e più in generale su molti aspetti che riguardavano il ragazzo.
Per tutto il tempo Jimin cercò di prestare attenzione alla conversazione, rimanendo comunque in secondo piano a meno che non gli si rivolgesse direttamente una domanda, un po’ perché non era molto a suo agio con gli sconosciuti – mentre in passato sarebbe stato l’anima di quel cerchio – e un po’ perché si sentiva osservato.
Anzi, no, non si sentiva.
Sapeva di essere costantemente osservato, un po’ come aveva fatto lui la sera della mostra, ma a ruoli invertiti. L’unica differenza fu che, a un certo punto, Jimin riuscì a trovare il coraggio per ricambiare lo sguardo, spinto dalla curiosità e dalla tentazione di scoprire quale versione di Taehyung era presente lì quella sera.
Quando i loro occhi si incrociarono la seconda volta, Jimin confermò i suoi sospetti.
L’altro lo stava guardando con un’espressione imperscrutabile all’apparenza, mentre aveva girato il suo corpo in modo da poterlo osservare indisturbato senza che qualcuno si accorgesse dell’intento.
Quella volta, però, la distanza tra di loro era molto più ridotta, quasi alla pari della settimana prima al parco. Jimin riusciva a vedere le sue iridi scure, anche grazie alla luce che illuminava ogni angolo della sala.
A un certo punto, Taehyung sollevò gli angoli delle labbra e mosse il capo, quasi a volergli domandare a cosa stesse pensando. Per Jimin fu inevitabile rispondere al sorriso con uno a sua volta.
Quel ragazzo rimaneva un fottuto mistero ai suoi occhi, ma quella sera pareva dopotutto avvicinarsi molto alla versione con cui aveva conversato al parco. Anche se non gli aveva ancora parlato. Taehyung non gli rivolse mai la parola direttamente, nemmeno quando era intervenuto nella conversazione per domandare a Jungkook come si conoscessero.
Le chiacchiere continuarono finché Hoseok non fu costretto nuovamente ad intervenire in seguito all’ennesimo rumore di vetreria frantumata da qualche parte nella casa. Jimin non sapeva che genere di persone fossero state invitate a quella festa, ma qualcuno tra i presenti doveva avere seri problemi con gli oggetti fragili d’arredamento.
La lista di invitati avrebbe dovuto essere rivista.
Dopo che Hoseok se ne fu andato, Yoongi attirò l’attenzione di Taehyung tirandolo per una manica, in quanto sia lui che Jimin erano ancora persi nel loro mondo, con solo una parte della loro cognizione proiettata a quello che succedeva attorno a loro.
Jimin non comprese gli sguardi e le poche parole che i due gemelli si scambiarono, ma subito dopo Yoongi guardò i presenti con le labbra arricciate e borbottò un saluto, girandosi per andarsene.
Taehyung fece un cenno con la mano, senza però più guardare Jimin, e poi seguì il fratello e il cugino fuori dalla sala.
Jimin rimase lì in piedi a guardarlo allontanarsi per l’ennesima volta, pensando che quella sera sembrava essere solo uno strano remake degli ultimi eventi della sua vita.
Sperava solo che altri episodi meno recenti non fossero inclusi nel copione.
 

[…]

 
Il corridoio era buio, ma riusciva a vedere un’infinità di porte ordinate su entrambe le pareti a distanza regolare. Sembrava quasi di essere su un ripiano di un hotel di lusso, con la sola differenza che da lontano giungeva il rumore della musica e che non aveva idea di dove andare.
Mosse qualche passo incerto, avanzando di qualche metro, poi appoggiò la mano sulla maniglia della seconda porta alla sua destra e l’abbassò.
Scelta sbagliata.
Sbagliatissima.
«Prima o poi dovremo parlarne, non potrai scappare per sempre.»
«Io non sto scappando.»
«Ah, no? Quindi se io ora mi avvicinassi e pronunciassi la parola ba-»
Silenzio.


 





Note del testo:

1 – Il gu Gangnam è uno dei distretti della città di Seoul. È una zona conosciuta per la grande ricchezza concentrata e l’alto livello di benessere dei suoi abitanti (molto simile a Beverly Hills). È diventata molto famosa a livello mondiale nel 2012 quando venne pubblicata la canzone Gangnam style di Spy.
2 – Il soju è un distillato tipico della Corea, ottenuto dal riso, orzo o frumento, o ancora dalla tapioca o patata, con una gradazione alcolica variabile dal 14% al 45%.


 

 UN COMMENTO ARZIGOGOLATO PER LO SCRITTORE E' UN DONO GRATO  
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