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Autore: Hoel    23/12/2020    4 recensioni
Nell’agosto del 1511, gli esploratori veneziani intercettano una lettera scritta dal governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours e indirizzata al maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, in cui l’informa di come il Re di Francia Louis XII stia inviando rinforzi per aiutare l’Imperatore Maximilian I. von Habsburg nella sua “impresa di Treviso”, ovvero la conquista dell’ultimo ostinato baluardo veneto che separa la Lega di Cambrai dalla laguna di Venezia. Da ben due anni Treviso resiste irriducibile, così come la Serenissima, ripresasi in fretta dallo shock di Agnadello, ha ben dimostrato il suo fermo proposito di non lasciarsi cancellare tanto facilmente dalle pagine della Storia, rivelandosi un avversario più tenace di quanto prefiguratosi dai Collegati.
Su questo sfondo dell’assedio di Treviso si snoderanno le vicende di un giovane e misconosciuto patrizio veneziano, destinato però a diventare più grande di re e imperatori, di valenti condottieri e del Papa stesso.
[Vietati la riproduzione e il plagio; questa storia è tutelata]
Genere: Guerra, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Rinascimento
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Vi auguro una buona lettura e un Buon Natale!

H.

Aggiornato il 18.10.2021

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Capitolo Ventunesimo

16-17 settembre 1511

 

 

 

 

 

Fra’ Anselmo respirò a pieni polmoni l’aria mattinale, deliziandosi del suo retrogusto fresco d’acqua di ruscello nonché del tepore settembrino catturato dai muri alti e bianchi dell’Abbazia, riflettenti il lilla-lavanda intenso dell’aurora che cedeva gradualmente il posto al pesca-arancione del giorno. Posizionata infatti a sud, l’edificio era protetto dal vento di tramontana e permetteva di conseguenza un microclima temperato e la coltura di quelle piante che, solitamente, crescevano sul Garda o in Centro e Sud Italia: all’avanzante rossastro e giallo acceso delle foglie autunnali dei roveri, querce, gelsi e dei pampini d’uva s’accompagnava sui terrazzamenti il sempreverde degli ulivi, generosi fornitori d’olio per i monaci.

Il benedettino permise al timido sole di scaldargli le ossa, piccolo lusso che si concedeva dopo le Lodi mattutine prima di recarsi in infermeria dai suoi ammalati. Avanzò di qualche passo a contemplare la valle sottostante, là dove sorgeva il villaggio di Nervesa e il suo porticciolo su di una Piave ridotta da lassù a grasso serpente e dove, in lontananza, si potevano ammirare i vaghi monti della Patria del Friuli e la pianura di campi e alberi conducente a Treviso. Un raro e armonioso equilibrio, l’industriosità umana e la selvatichezza indomita della natura, che da anni nutriva e rilassava l’animo di Fra’ Anselmo quando in vena di solitaria contemplazione fuori dal chiostro.

Una piccola oasi d’immota serenità riparatrice dai turbini dei tempi.

Adesso, invece, il piano immediatamente sotto la collina dove sorgeva l’Abbazia era stato trasformato in un accampamento e così anche il villaggio, disertato in massa non appena i suoi abitanti avevano udito dell’accoglienza delle truppe franco-imperiali da parte dei Conti di Collalto e soprattutto dell’Abate. I soldati avevano rigirato alla stregua di calze ogni casa, magazzino, bottega, rimessa pur di trovare qualche provvista o utensili, spingendosi fino alle ville estive dei patrizi veneziani, trovandole però desolatamente vuote. Le barche e zattere inutilizzate per la fuga erano finite bruciate dalle sempre più frequenti incursioni degli stradioti veneziani, rendendo inutilizzabile il porticciolo di Nervesa, almeno nell’immediato, fintanto che il commissario imperiale Jean d’Aubigny Cividal di Belluno non si fosse deciso a spedire per via fluviale i rifornimenti. Tuttavia, il ponte di barche costruito dai Collegati si vedeva benissimo e il monaco studiò colmo di pena in direzione della Patria del Friuli, pregando che Sacile, Oderzo e Pordenone resistessero, a seguito della nuova caduta di Conegliano che pur, magra consolazione, quei disertori dei soldati alemanni avevano trovato già abbandonata e senza vittuarie.

Fra’ Anselmo cacciò fuori un pesante sospiro: anche lui e i suoi fratelli, forse ad espiazione della loro codardia, avevano la propria croce da portare. I pochi soldati tedeschi rimasti si comportavano aggressivi e rapaci più dei lupi d’inverno, venendo in violenta discussione sia coi loro alleati francesi e italiani, sia coi monaci camaldolesi che li ospitavano alla Certosa sia con loro i benedettini, avendo buon gioco l’Abate a negoziare le insistenze di monsignor de La Palice a condividere le proprie scorte con le sue truppe in nome della pace e della concordia.

Quale cibo? Avevano a malapena farina per dar da mangiare ai monaci, novizi, oblati e conversi dell’Abbazia, figurarsi a più di quattromila bocche; tutta l’uva dei loro vigneti era stata confiscata dal maresciallo francese e distribuita ai soldati per farne del mosto e così anche le loro rape e la carne, neanche si fossero trasformati in un mattatoio a cielo aperto. Si lamentavano monsignore e i suoi comandanti della scarsità di cibo, di come non si mangiasse pane da tre giorni e bevessero mosto invece di vino. Hé, cosa s’aspettavano? Il miracolo dei pani e pesci? In infermeria Fra’ Anselmo doveva litigare costantemente coi soldati italiani e francesi, i quali tentavano ad ogni occasione di rubare le razioni destinate ai loro commilitoni ammalati. Scene disgustose, invero, un’umanità alla sbando senza Dio né morale, ecco l’unico beneficio della guerra. I suoi occhi caddero sulle forche improvvisate, penzolanti uniti nella morte disertori francesi e tedeschi e contadini veneti, ognuno colpevole del proprio crimine terreno e solo l’Onnipotente conosceva quale avrebbero esattamente espiato nell’Aldilà.

Il benedettino si segnò tre volte, prendendo coraggio nel Signore che lo aiutasse a superare anche quella giornata; solo rientrando nel suo laboratorio e di sfuggita colse una figuretta biancovestita diretta tutta di corsa verso la stalla.

Quale negozio doveva brigare un novizio lì?

 

 

Hironimo si destò all’improvviso da un sonno inquieto, sudato alla stregua di Cristo nel Getsemani e colto da brividi compagni, la testa dolorante neanche gli avessero stretto un cerchio uncinato alle tempie. L’escoriazione allo zigomo gli pulsava aperta, rossa e gocciolante di umori similmente al taglio sul labbro inferiore, il quale gli tirava per via della secchezza della bocca invidiabile soltanto a quella della gola, manco avesse ingoiato null’altro che polvere per tutta la notte. Aprendo disorientato gli occhi cisposi, per un istante il giovane Miani panicò nel non riuscire più a muovere le dita delle mani, temendo esser rimasto monco; allora si sforzò di calmarsi, di reclinare il collo indolenzito quel tanto per focalizzare quegli arti apparentemente inesistenti: mugugnò di sollievo nel ritrovarsi tutte e dieci le sue amiche, per quanto anchilosate in posizioni vagamente artigliformi.

Il veneziano strinse i denti e, una ad una, s’obbligò malgrado il dolore da spilli d’ago sottopelle a piegare le dita, stringendole forte a pugno e così finché non poté di nuovo muoverle agevolmente. Dopodiché lentamente si pose in ginocchio, poi sollevò piano una gamba per alzarsi in piedi, ignorando le fitte ai muscoli intorpiditi a causa sia dalla contorta posizione in cui s’era addormentato sia delle contusioni provocategli dal Bua al loro ultimo “diverbio.” Maledizione, quel beota l’aveva forse scambiato per una bistecca da frollare?

E a proposito di carne … un grugnito dolorosissimo e imperioso gli attanagliò le viscere, costringendo il giovane ad indietreggiare fino ad appoggiarsi di schiena al muro della stalla, la vista oscurata da macchie nero-giallastre: se all’inizio della sua prigionia aveva sopportato la mancanza di cibo, talvolta rifiutandolo a spregio, adesso tal digiuno forzato incominciava a pesargli, esaurendo poco alla volta il suo corpo le scorte di grasso. Senza contare la disidratazione: tra un imbroglio e l’altro, l’ultimo liquido assunto era stata la zuppa.

I suoi occhi, annebbiati e famelici, si posarono subitaneamente cupidi sulle mammelle della vacca davanti a lui, la quale, manco ne intuisse i torbidi pensieri, si girò guardinga e muggì il suo disappunto. Ora, cogitò Hironimo, gli angoli della bocca umidi e gocciolanti di una saliva di cui neppure s’era accorto, ora il problema consisteva nell’arrivare a quella fonte di latte evitando d’affondare negli escrementi, aumentati d’altezza nel corso della notte. Fortunatamente, le catene gli consentivano d’avvicinarsi senza strattoni all’animale, il quale poi s’era portato convenientemente vicino a lui e così, in punta dei piedi brucianti per via del sangue che ritornava a fluire pel verso giusto, il patrizio si preparò ad improvvisarsi mungitore e saziare fame e sete. Sennonché, abbassandosi cauto per non spaventare la mucca, dietro le mammelle vide inaspettato il viso perplesso di Thomà.

“Cossa feu, patron?”, domandò quegli, trattenendosi dal ridere per l’inusuale spettacolo di un gentiluomo in ginocchio tra paglia ed escrementi per mungere una vacca. Quand’ecco, che il luccichio birbante svanì negli occhi del fantolino, non appena s’accorse della pelle rossa, blu e gialla del veneziano. “Oh, patron! Cossa gh’avelo fato quel tartaro a vu?”, s’informò in un gemito, raggiungendolo immediatamente, la mano bloccata a mezz’aria e indeciso s’accarezzarlo o meno a mo’ di conforto.

“El Bua”, tagliò corto Hironimo, “el me gh’ha un fià spelucato.”

“Gheo vedo”, fischiò Thomà, affatto convinto del “un poco”, a giudicare dalle vivaci ecchimosi sul corpo del patrizio, trasformato a momenti in una tavolozza di pittore.

“Tu non dovevi startene in letto?”

“Mi gero en leto et ghe tornarò.”

“Conciato così?”, indicò il Miani l’abito da novizio del piccino, il quale, guardandoselo e accarezzandolo orgoglioso, gli confidò furbo:

“Per portarve qualchecossa da manzar e bevar, sença farme desquèrzare (scoprire, ndr.) da frati e franzosi!”, e dalla tasca del saio ancora umido di lavanderia tirò fuori in maniera assai teatrale un salame morbido e una piccola borraccia di cuoio, ambedue rubati molto probabilmente uno dalla cambusa dei monaci e l’altra da qualche soldato in infermeria. “Salàdo e mosto per vossioria, la resti servida”, ridacchiò compiaciuto della sua abilità.

In altre circostanze, il giovane patrizio avrebbe rampognato Thomà per quel suo irrefrenabile vizietto di ladro, sennonché la fame l’aveva a tal punto intontito da spingerlo ad allungare avido la mano, facendogli cenno di cedergli il malloppo e pure in fretta. “Bravo, bravissimo! Quest’è parlar da zentilhomo!”, lodò il fantolino, mentre abbandonando ogni pensiero affondava i denti sull’unta carne speziata, senza neppure premurarsi di spelarla dal budello. E gli dispiaceva di farsi vedere così poco galante, divorando a grandi morsi e masticando e deglutendo rumorosamente, ingollando il mosto a grosse sorsate.

Thomà nel frattanto gli s’era accovacciato davanti, fissandolo sorridente e soddisfatto, le guance appoggiate sui pugni. “Xélo bon, an?”, gli chiese e malgrado l’assenza di malizia, quella domanda risvegliò la coscienza d’Hironimo, che tosto lo ghermì per i capelli, tirandoli fino a rinsavirlo da quella sua fame bestiale.

Ingoiato l’ultimo boccone, il Miani si pulì col dorso della mano le labbra, leccando via ogni rimasuglio di carne tra le dita. “Toga qua e magna anca ti, ché te sè picenin e te gh’ha da créssar!” gli cedette la metà ancora intatta del salame, lamentando d’aver purtroppo svuotato la boraccia; tuttavia trovar da bere sarebbe stato più facile per il fantolino, anche in tempi di carestia un sorso d’acqua i monaci non lo negavano.

Le pupille di Thomà si dilatarono predatrici e così pure le nari, vibrando il suo corpo intero d’aspettativa tanto che Hironimo rise mentalmente, associandolo al gatto di casa prima di balzare sul sorcio. “Mmmh-mmmmh, che pretioso!”, commentò il fantolino paciolando a bocca piena e neppure in quel frangente il patrizio ebbe cuore di rimproveralo, intenerito dall’espressione di pura goduria sul volto da convalescente del piccino.

Hironimo lo condusse a sé, abbracciandolo forte e stringendolo al petto, annusando a pieni polmoni l’odore di erbe, sapone, sudore e paglia impregnati sui capelli e la figuretta magrolina di Thomà, il quale, reclinando leggermente il capo, bofonchiò la sua perplessità:

“Patron, cossa gh’aveu?”, non che se ne dolesse, tutt’altro: chissà perché, ma i rari abbracci del castellano gli ricordavano quelli della sua mamma ed egli ammise che non poteva riceverne abbastanza, desiderandone sempre di più.

“Gnente, gnente: magna e tasi”, lo rimbeccò privo di fuoco Hironimo, appoggiando la guancia sulla testolina del ruminante bambino, rivangando la sua memoria le frasi terribili di Mercurio Bua. 

Che mi vuoi dimostrare? Quanto sei nobile e coraggioso pigliandoti a cuore la sorte della vedova e dell’orfanello? Sei un ipocrita e mi disgusti!

Sì, all’inizio forse era stato così: salvando Thomà, l’ultimo rimasto della sua guarnigione, Hironimo aveva sperato di redimersi, di mitigare il suo totale fallimento come castellano e capitano. Adesso invece stava realizzando che di quello gl’importava sempre di meno; d’altronde, quanti insuccessi peggiori del suo avevano commesso condottieri di più vasta esperienza e fama? Finché restava in vita e respirava, Hironimo poteva ancora rimediare a quella sua magra figura, poteva ancora trovare il modo di vendicare il suo onore e farla pagare con tutti gli interessi al nemico – omo morto no’ fa guera [1] e lui era vivo e ben intenzionato a darla.

No.

Lui lottava per la sopravvivenza di Thomà perché era giusto così. I bambini non dovevano pagare per le ambizioni e le malefatte degli adulti, che al contrario dovevano proteggerli e fornir loro un degno esempio di vita da seguire. Al momento il giovane Miani non poteva offrire null’altro in riparazione al torto fatto al piccino, tranne quello di condurlo sano e salvo a Treviso e lì adoprarsi acciocché sopravvivesse a quella guerra, offrendogli l’opportunità di ricostruirsi tutto ciò che gli era stato crudelmente sottratto. Forse poteva usare le sue conoscenze a Venezia per mandarlo a bottega presso qualche maestro d’ascia in uno dei numerosi squeri (neanche avrebbe sofferto la nostalgia delle sue montagne, gli squerarioli provenivano tutti o quasi dalle bande di Thomà) o presso qualche falegname … forse …

Azzarda un’altra miracolosa fuga e ti sgozzo il marmocchio, lavandoti la faccia col suo sangue. Hai inteso? È l’ultimo mio avvertimento!

Hironimo serrò la sua presa sulle spalle esili del fantolino: avrebbe cavato personalmente gli occhi al greco-albanese, se si fosse azzardato anche soltanto a torcergli un capello. Non temeva per sé, non temeva di nulla, poteva benissimo sopportare qualsiasi tormento da parte del Bua, se poteva ergersi a scudo umano tra lui e il bambino.

“Come ti senti?”

“Mejo, patron.”

“La febbre?”

“Nola gh’ho pì”, schioccò Thomà le labbra, finalmente satollo. “Perhò vuj seti tutto on bójo (bollore, ndr.)!”, rimarcò preoccupato.

“Non pensare a me. Invece, fila in letto prima che il frate s’accorga della tua assenza e te ciapi per le orecchie!”, liquidò Hironimo sbrigativamente le ansie del fantolino, sciogliendolo dall’abbraccio e spronandolo a rimettersi in piedi tramite giocose pacche sul sedere.

“Fe’ attention, patron. No ve vojo morto anca vu!”, gli confessò triste il bambino, rassettandosi la cottola del saio.

Il giovane Miani gli sorrise temerario. “Manco se mi sguinzagliassero contro tutti i diavoli dell’inferno, riuscirebbero ad uccidermi! Dèsso pussa via, sennò ti cattura il castigamatti!” , lo spronò ed in un battibaleno Thomà sgusciava da una finestrella della stalla, giusto in tempo prima che la porta s’aprisse. E a giudicare dal rumore ferroso degli speroni, non doveva certo trattarsi del monaco venuto per la mungitura.

Un possente colpo di tosse catarrosa tradì l’identità del nuovo arrivato e Hironimo abbassò le spalle, rilassando la postura. “Mal trovato al chiarore dell’aurora, signor conte di Gambara!”, lo salutò ad alta voce, acciocché lo potesse localizzare dietro i robusti corpi delle mucche.

Il nobile bresciano si bloccò, impietrito, guardandosi sospettoso intorno alla stregua d’un ladro colto sul fatto dal trionfo e incavolato padrone. Non scorgendo alcuno e riconoscendo l’accento dopo aver respirato a fondo per ben tre volte, l’uomo si diresse infine nel là dove intuiva trovarsi il vero mandante di quel saluto. “Sempre orgoglioso, messer Girolamo, anche nella merda”, ricambiò sardonico, evitando in un buffo balletto di lordarsi pure lui fino alle caviglie.

Hironimo gli sorrise vezzoso. “Almeno questa è fisica e si lava via, mica come quella morale vostra!”

Il conte Gianfrancesco di Gambara strinse la bocca in una linea dura, rendendogli il volto pallidissimo doppiamente patito: a confronto, il pur strapazzato patrizio sprizzava di salute da tutti i pori. Le occhiaie profonde e scure cozzavano col rossore liquido degli occhi; la pelle tirata acquistava cadaun momento un crescente livore da cadavere, lucente di sudore freddo del febbricitante cronico. Le gote, ironicamente, brillavano d’un malaticcio rossore ed Hironimo s’allontanò inconsciamente da lui, riconoscendo nel Gambara il viso di chi, oltre a catarro, tra poco avrebbe incominciato a sputar sangue.

“Poche parole”, venne al dunque il conte, conscio del poco tempo a disposizione per conferire col prigioniero, prima che uno degli sgherri del greco-albanese s’accorgesse della sua presenza o venisse a controllare. “Che cosa voleva sapere il Bua da voi?”

“Con quanta gente qui all’Abbazia l’ho tradito.”

“Piaghe di Cristo, vi paiono tempo e luogo adatti a tali scherzi?”, sibilò frustrato il bresciano, il pugno stretto convulsamente. Possibile che non si potesse conversare in maniera civile con quel dannato veneziano?

Invece … “E chi scherza?”, ribatté tagliente Hironimo, aggrottando serio e pragmatico la fronte. “Voi potete giocare allo scettico quanto vi pare, ma ora come ora il Bua sguazza nel sospetto del geloso: non si fida di nessuno e scorge nemici ovunque. Crede che tra noi due ci sia una sorta di diabolica alleanza a suo danno. Teme specialmente di voi, della vostra incostanza”, gli riassunse brevemente la situazione, confidando nella coscienza sporca del conte, giacché soltanto chi aveva qualcosa da nascondere poteva preoccuparsi così tanto dei vaneggiamenti di un condottiero vittima di manie di persecuzione. “Ha ragione?”, insistette il giovane Miani; doveva accettarsi ad ogni costo della posizione del Gambara in quel gran bailamme: amico o nemico o approfittatore geloso del Bua. “E’ vero?”, l’incalzò, malgrado l’eloquente silenzio del bresciano, il quale tradiva una disponibilità nei suoi confronti davvero ghiotta.  

Il conte Gianfrancesco abbassò contrito il capo, per poi levare di nuovo lo sguardo leggermente sfocato dalla malattia, pesando accorto ogni parola onde non compromettersi eccessivamente. “Si parla di rientrare a Milano”, disse infine, provocando una mezza sincope nel giovane, che di fatti sbrodolò genuinamente agitato:

“C-cosa?!”

“Potete ben intuire cosa comporterebbe per voi: la deportazione, forse perfino in Francia se il Re decidesse di togliervi al Bua per aggiungervi alla sua collezione di prigionieri illustri”, seguitò imperterrito il Gambara pur senza alcuna malizia nella sua voce, anzi, delucidandogli in maniera piuttosto distaccata quale destino attendeva Hironimo, avesse La Palice deciso di rinunciare all’impresa di Treviso e di ritirarsi in Lombardia in attesa di un’occasione più propizia.

Lo stomaco del veneziano sobbalzò dolorosamente, montandogli la nausea al punto di rigettare la previa colazione. Teoricamente, Mercurio Bua serviva l’Imperatore e quindi Hironimo era prigioniero dei tedeschi. Tuttavia, grazie alla recente diserzione di quest’ultimi, La Palice poteva benissimo rivendicarlo come suo prigioniero a mo’ di risarcimento dei danni subiti, visto che, alla fine, a pagare la spedizione rimaneva comunque il Re di Francia e non quello dei Romani.

La deportazione! Se fosse finito in Alemagna, ancora qualche possibilità di ritornare a Venezia ce l’aveva, ma in Francia? Ripensò immediatamente al suo amico Piero Contarini a suo padre l’ambasciatore sier Zacharia, già al loro secondo anno da ostaggi; conoscendo la possessività di Louis XII sui suoi prigionieri, il Miani avrebbe fatto prima a rimpatriare in bara che sui suoi piedi.

“Al momento mi è difficile avvertire direttamente i miei contatti a Venezia: avete forse qualcheduno a Treviso che possa fare da tramite?”, continuò in fretta il conte, abbassando significativamente il tono di voce.

Hironimo sbatté confuso le ciglia. “Mio fratello Marco è alla sua custodia”, disse, paventando d’illudersi in false speranze: troppo conveniente per sembrare vera quella partigianeria da parte del Gambara. Dove voleva andare a parare? Che si trattasse di un elaborato piano del Bua per tormentarlo? S’era così, il greco-albanese doveva darsi alla carriera teatrale, ché la sua collera e sospetto non gli erano parsi così recitati …

“Sta bene. Gli farò sapere che siete qui a Nervesa, che siete vivo e in … discrete condizioni.”

“Perché dovrei fidarmi di voi? Come avete tradito la Signoria, potreste tradire anche me!”, vociò infine il patrizio il dubbio, che da sempre l’attanagliava ogniqualvolta si rapportava col nobile bresciano.

“Perché?”, ripeté esitante l’uomo. “Perché potrei essere l’unica speranza che avete per fuggire via da qui”, ammise sottovoce. “Spero di sbagliarmi, ma ho come l’impressione che il Bua non chiederà per voi alcun riscatto. Non vi pare strano? Subito ha riscosso la taglia per i capitani Doglioni e Colle, mentre voi siete suo ostaggio da quasi tre settimane e non una parola dalla Signoria.”

“Può darsi … può darsi che la Signoria mi giudichi morto assieme agli altri soldati di Castelnuovo di Quero”, tentò disperatamente Hironimo di smontare quell’orrida teoria. “Può darsi che il Bua abbia indicato una cifra troppo alta e che pertanto stiano negoziando!”

“Ignoro come esattamente stiano gestendo a Venezia le trattative per il vostro rilascio”, scosse il capo il conte, indietreggiando verso l’uscita della stalla. “Però conosco abbastanza bene Mercurio Bua e non è tipo da tirarsi indietro dinanzi ad un facile guadagno. Quali progetti egli abbia su di voi, da tardare di così tanto la richiesta di riscatto, al momento mi restano oscuri”, concluse sbrigativamente il discorso, uscendo veloce dallo stanzone e abbandonando Hironimo all’angoscia per il suo futuro.

Un ringhio rabbioso riecheggiò tra le mura della stalla.

Cancaro maledetto!  Come sarebbe stato a dire, che non avrebbe richiesto alcun riscatto? Per quale motivo? A quali “progetti” si stava riferendo il Gambara? Ché figurarsi se Hironimo se la beveva quella grossa, grassa balla colossale che lui non sapeva niente! Non aveva mica intenzione quel satanasso di tenerselo stretto a mo’ di scudo umano e garanzia per l’intera durata della guerra? Piuttosto gli strappava a morsi il pomo d’Adamo, piuttosto di tollerare all’infinito una prigionia così umiliante – in catene alla stregua d’un criminale o uno schiavo, sporco, scalzo, a gambe nude, in camicia e affamato. Se soltanto l’avesse liberato dai ceppi e affrontato alla pari da gentiluomo, altro che pugni! Il Miani gli avrebbe aperto la pancia e costretto a mangiarsi le sue merdose budella! Gli avrebbe …

Calma! Calma …

Hironimo prese un profondo respiro, chiudendo gli occhi e imponendosi di raffreddare i propri bollenti umori maligni. La collera non lo portava da nessuna parte, se non a percosse certe. Inutile invocare galanteria nei briganti: sprecata con tal feccia, bisognava sfruttare la furberia del disonesto. Nonostante il suo rango, Hironimo rimaneva comunque un prigioniero e non stava scritto da nessuna parte che Mercurio Bua dovesse restituirlo intero o in buona salute – gli bastava ricordare i racconti laddove si descrivevano le terribili e penose condizioni in cui era rimpatriato il povero sier Zorzi Corner, bisnonno dei suoi cugini alla lontana, dopo sette anni di prigionie e torture a Milano per mano di quel pazzo furioso di Filippo Maria Visconti. 

Doveva apparirgli docile, disperato, distrutto. Così il Bua avrebbe abbassato la guardia e, alla prima occasione, Hironimo sarebbe scappato via con Thomà alla faccia di quel bastardo mascalzone malnato.

 

***

 

 

Francesco Rangoni saliva trasognato la rampa di scaloni che l’avrebbe condotto assieme ai suoi fratelli al secondo piano di Palazzo Ducale, quello riservato alle sale del Collegio e del Senato. Guido e Ludovico avanzavano più composti (sebbene il capofamiglia mostrasse un viso leggermente teso) forse perché già familiari e a loro agio in quell’ambiente così solenne e testimone di tutta la storia veneziana, grazie al miscuglio di stili architettonici e decorativi succedutisi nel corso dei secoli, dal bizantino, al gotico, al classico-rinascimentale. Ovunque un tripudio di marmi, pietra d’Istria, legni pregiati, ori, smalti, affreschi, arazzi, il ragazzo non riusciva a concepire tanta ricchezza concentrata in un sol luogo. Ripensò al loro palazzo a Modena e a San Sismondo a Bologna: accidenti, a confronto gli pareva esser cresciuto in una stamberga! Perfino la loro nuova casa a Ca’ Contarini a San Paternian impallidiva. 

“Adesso capisco perché vogliono tutti spartirsi la Signoria: qui l’aria istessa profuma d’oro!”, sussurrò Francesco a suo fratello Ludovico, che rapido lo zittì, rampognandolo aspro per la sua sventata mancanza di tatto. Fortunatamente, sier Ferigo Contarini, che li accompagnava, era troppo impegnato a discutere con Guido, Agustin da Brignano Gera d’Adda  e Julio Manfron figlio del condottiero Zuam Paulo per accorgersi della piccola scenetta.

Il gruppetto entrò infine nell’imponente Sala del Collegio, illuminato dalle altissime finestre del secondo piano nobile, le cui proporzioni allungate di stile gotico fiorito ricordavano moltissimo quelle che Francesco aveva di sfuggita ammirato nel secondo ordine della Scuola di San Marco. Il giovane modenese si sentì un poco intimorito, stringendosi inconsciamente a Ludovico mentre lisciava nervoso le pieghe invisibili del suo zipone, sentendosi d’un tratto svestito e vulnerabile senza i rigidi e pesanti strati della sua armatura. Guido, dal canto suo, avanzò apparentemente ineffabile verso i Pregadi dalle veste scarlatte, che lì li attendevano coi loro tipici sorrisi di sfinge sui volti attenti e scrutatori.  Che strano, pensava invece sier Ferigo, notando i principali scranni vuoti, mancano Sua Serenità e il Minor Consiglio …

Un cancelliere, comparendogli in punta dei piedi alle spalle, gli sussurrò discretamente qualcosa all’orecchio, invitandolo a seguirlo senza attirare su di sé l’attenzione. Il che non fu difficile, avendo iniziato i Pregadi un discorso preparatorio in attesa della Signoria, il completo interesse degli ospiti concentrato su di loro.  

Fuori dalla sala, in un angolo ascoso, il giovane provveditore si meravigliò di trovare ad attenderlo sier Batista Morexini “da Lisbona”, il quale, ringraziato il segretario, lo istruì di raggiungere il Serenissimo e gli altri consiglieri onde annunciarli l’imminente arrivo del Contarini. La vesta ducale color pavonazzo risaltava il pallore nel viso, tipico di chi da giorni faceva le ore piccole, una stanchezza a malapena mitigata dalla stola di broccato d’oro e il chiaro dello zibellino che s’intravedeva dalle maniche larghe e aperte.

Confortante apprendere come anche i senatori condividessero l’insonnia dei provveditori di campo.

“Non sono degno di cotanto onore, sier consier”, mormorò piano sier Ferigo al consigliere ducale, il quale con nonchalance gli s’era accodato e gli camminava accanto, evitando ambedue di guardarsi in faccia mentre discorrevano. “Da quando in qua un consigliere scorta un semplice provveditore?”

“Consideratevi soltanto un bravo giovine, ch’aiuta un povero vecchio a camminare e che gli tiene un po’ di compagnia mentre prende una boccata d’aria fresca”, ribatté serafico il Morexini. Ad arte era riuscito a coordinare quel fuggevole colloquio privato col Contarini prima di quello ufficiale col Doge e il Minor Consiglio, non appena l’anziano patrizio aveva appreso di come il provveditore avrebbe accompagnato i fratelli Rangoni e gli altri condottieri a Palazzo Ducale. Poco tempo per parole veloci, giacché conscio del loro immediato ritorno a Padova a seduta terminata. D’altronde, neanche il “da Lisbona” poteva intrattenersi troppo a lungo col giovane senza destar sospetti.

“Donca? Cossa comandela la Signoria de mi?”

“An, non vi voglio rovinare mica la sorpresa!”

Vecchio volpone sibillino. “Cosa vogliono i Pregai dal domino Guido Rangon?”, cambiò discorso sier Ferigo, un poco seccato da quell’esprimersi ad enigmi.

“I condottieri sono come le puttane: gran sbaglio affezionarsi a loro!”, ridacchiò cinico il consigliere, spiando di sottecchi il rossore sulle gote dello stoico provveditore. “State di buona voglia, il vostro conte modenese in questo momento è coccolato e lodato dai Pregai, per la sua partecipazione attiva e gagliarda a Marostega e a Castel Francho. Gli staranno di sicuro comunicando, come abbiano intenzione d’assegnargli 75 degli uomini d’arme della compagnia del fu Governatore Generale”, spiegò succinto sier Batista a sier Ferigo la decisione dei Pregadi, ossia di dividere e ridistribuire l’orfana compagnia di Lucio Malvezzi ai comandanti più meritevoli, tra cui appunto il Rangoni e i suoi fratelli, a quest’ultimi spettanti cinquanta soldati da gestire personalmente tra quei settantacinque ereditati dal fu genero del fu Roberto Sanseverino.

“Non m’en cale un fico seco del Rangon e della sua masnada; è che mi scoccerebbe perdere proprio ora un valente condottiero!”, berciò stizzito il patrizio più giovane, fissando ostinato il viavai di gente sul cortile esterno del Palazzo.

Il Morexini sogghignò indulgente.

“Ed io? Da me cosa vogliono i Pregai? La Signoria? Il Principe?”, insistette testardo sier Ferigo, sul serio non comprendendo l’assenza del Doge e dei suoi consiglieri alla seduta: cosa dovevano comunicargli di tanto importante, da trarlo in disparte e ritardare il loro arrivo nella Sala del Collegio? E perché il “da Lisbona” gli stava facendo fare il giro più lungo per raggiungerli?

“Abbiamo ragionato a lungo coi provveditori sier Polo e sier Christofal: quando voi e il conte ritornerete a Padoa, v’unirete ai 1500 cavalleggeri di domino Meleagro da Forlì alla volta di Trevixo per disturbare i Francesi rimasti al di qua della Piave. Senza i Tedeschi a coprir loro le spalle, il campo nemico è divenuto più vulnerabile e può essere che, credendosi in inferiorità numerica, decidano di abbandonare l’impresa.”

Il Contarini strabuzzò gli occhi, disorientato. “1500 cavalleggeri a Trevixo?”

“Sì”, confermò il consigliere ducale. “Già oggi sono partiti 200 stradioti al comando di domino Thodaro Paleologo …”

“Non soltanto per la custodia Trevixo, ma anche per la liberazione di Noal, Citadela, Bassam ed Asolo”, concluse il provveditore degli stradioti, afferrando al volo la strategia camuffata abilmente dietro un semplice spostamento di truppe. “Volete far terra bruciata attorno a La Peliza, isolandolo da ogni possibile soccorso esterno.”

Sier Batista lo fissò di sbieco, compiaciuto dell’acume militare del giovane, rimanendo tuttavia in silenzio.

La Signoria in effetti stava accarezzando il progetto d’isolare ad ovest La Palice, impedendo ogni ricongiungimento delle sue truppe con quelle dei Gonzaga di Bozzolo e Treviso diveniva di conseguenza il trampolino perfetto per un attacco a sorpresa. Contemporaneamente, la Signoria si stava arrovellando sull’elaborazione di un rapido piano di difesa di Sacile, Oderzo, Pordenone, Marano, Portogruaro, Gradisca e Udine: analizzati e commentati i rapporti da parte dei loro podestà, capitani, castellani e nobili locali, si preparava a ricevere a breve gli oratori delle città friulane per accogliere eventuali richieste ed istruirli sul da farsi. Si lavorava a ritmo frenetico, serrato, l’ultima seduta terminata quasi alle ore 8 di notte (le due, ndr.)

Naturale, quindi, che sier Batista agli occhi del Contarini apparisse così stanco e provato: tali strapazzi i giovani li reggevano meglio e la primavera da tempo aveva abbandonato il corpo del patrizio. Si poteva ben affermare come il consigliere ducale vivesse ormai a Palazzo, alternando alle sedute brevi visite a Ca’ Morexini giusto per cambiarsi di camicia e dormicchiare qualche oretta o alle stue per levarsi l’umido dalle ossa, talvolta in compagnia dei nipoti e del primogenito Carlo, l’unico dei suoi figli, dopo la partenza di Piero alla volta di Cipro per raggiungere il suo fratellastro Andrea ad Aleppo presso il Sofì [2], con cui sier Batista riuscisse a rapportarsi serenamente e ad intavolare una conversazione civile.

“Non capisco”, esclamò infine sier Ferigo, fermandosi improvvisamente. “Ciò che mi state riferendo sono cose, che potrei benissimo apprendere da una qualsiasi seduta dei Pregai o della Signoria. Perché dunque volete conferire meco da solo?” Fin dall’inizio aveva giudicato bizzarro che un consigliere ducale si scomodasse per lui, accompagnandolo di persona dai suoi colleghi e il Doge quando un qualsiasi cancelliere poteva bastare. Anche la scelta della strada, la più lunga. Ora, il Contarini non sarà stato pratico dei giochi di politica però quelli della guerra sì; di conseguenza riconosceva bene la tattica di chi stava temporeggiando.  

Il Morexini si voltò enfaticamente verso di lui, guardandolo per la prima volta dritto negli occhi. “A Nervesa”, sussurrò grave, “il mio nezzo è prigioniero del capitano Mercurio Bua ed io lo voglio libero, qui, a Veniexia!”  

“La sua famiglia non ha che da pagare la taglia! O la Signoria accordare uno scambio!”, replicò spiccio sier Ferigo, calcolando mentalmente il tempo di cattura dell’amico suo Marco Contarini. I riscatti purtroppo non si risolvevano mai tanto velocemente, affari penosissimi, curiosa quindi l’ansietà del consigliere per la sorte del nipote.

“Il Bua non ha avanzato alcuna richiesta, né di riscatto né di uno scambio tra … prigionieri.”

Questa neppure il provveditore se l’aspettava. “Cossa? Chome mai?”, inquisì confuso e un pelino incuriosito da tal comportamento stravagante; in tempi di guerra, ogni singolo ducato diveniva motivo d’accese discussioni. Infatti, quando non impegnato a combattere, il Contarini doveva baccagliare continuamente contro i comandanti stradioti per questioni di paga.

“Il Bua ha intenzione di scambiare il mio nezzo con la sua mojer madona Catharina, però né lei né la Signoria vogliono venirgli incontro. Di conseguenza, traete voi le ovvie conclusioni”, condensò sier Batista quanto appreso sia dal cavaliere Dimitri Spandolin oratore improvvisato presso Caterina Boccali Bua, sia dalla Signoria medesima, la quale confidava di poter liberare ugualmente suo nipote senza bruciarsi la carta della moglie del condottiero greco-albanese.

“Ma che vantajo ghalelo da tegnirlo senpre seco, s’el no polelo scambiar?”

“Co’ el Bua gh’ha tolto na decision, xé quea. La mojer o nissun. Pertanto non posso escludere la possibilità che il mio nezzo rimanga suo prigioniero per l’intera durata della guerra, se il Griego non si stufa prima, ammazzandolo. E questo, se Missier Domeneddio no me tuol el zervelo, non permetterò ch’accada”, ribadì determinato sier Batista: per amor della sua sorellastra Leonora e sul cadavere di suo cognato Anzolo, aveva giurato che finché il Padreterno gli avesse concesso salute e mezzi, si sarebbe preso cura dei suoi nipoti orfani, proteggendoli da ogni male. Già aveva ottenuto con successo il rilascio di Lucha l’anno addietro; non avrebbe fallito certamente con Hironimo, affatto intimidito dalla testardaggine del capitano di ventura.

La Signoria aveva d’altronde espresso la sua irremovibile sentenza: giammai Mercurio Bua avrebbe riottenuto indietro sua moglie e se lui non s’accontentava dei soldi, hé, incominciasse a considerarsi vedovo seppur marito.

“La Signoria mi vuole inviare a Trevixo, ma voi? Cossa voleu de mi?”, andò dritto al punto sier Ferigo, comprendendo ora il piano di fondo.

“Al Montelo i nostri stradioti e contadini fedeli già stanno danneggiando i francesi in imboscate, bruciando ogni burchio e zattera. Se vi riesce, sfruttando il marasma da loro creato, vi chiedo di liberare il mio nezzo.”

“Un’impresa non da poco”, commentò pragmatico il Contarini, delineando mentalmente un’ipotetica disposizione del campo e del modus operandi del nemico: sicuramente, un prigioniero così importante il Bua doveva tenerselo molto stretto, onde impedirgli la fuga o un tentativo di liberazione in agguati e scorribande notturne. “Tuttavia Momolo è mio amico e lontano parente e non lascerò nulla d’intentato, acciocché non venga deportato né in Francia né in Alemagna”, dichiarò infine la sua disponibilità e il “da Lisbona” emise un lungo sospiro di sollievo, non accorgendosi di non aver respirato per qualche istante.

“Appunto poiché quest’impresa si presenta complessa, che la Signoria vuole affidarvela. Grazie rapporti di sier Zuam Paulo si è elaborato un piano non malvagio ai danni del nemico, il quale però ha da rimanere segreto fino alla sua approvazione”, l’avvertì sier Batista, indicandogli attraverso un ampio gesto del braccio di precederlo e d’entrare nella sala, dove il Serenissimo e il Minor Consiglio l’attendevano.

Si trattò di un colloquio brevissimo, anche per non imbarazzare troppo i Pregadi e gli ospiti della loro assenza, i quali, se già prima si sentivano onorati dai calorosi elogi da parte dei senatori, credettero d’avvampare di gioia nel venir ricevuti dal Doge in persona.

A seduta terminata, sul burchio diretto a Padova, sier Ferigo rimuginava in silenzio ambedue i discorsi tenuti quella mattina, sia col Morexini che con la Signoria. Sordo agli entusiasti commenti di Ludovico e Francesco per i complimenti e gli uomini d’arme ricevuti, mitigati dalle più pratiche osservazioni di Guido, il giovane provveditore pianificava il modo di pigliare due piccioni con una fava, di soddisfare la richiesta del consigliere ducale e della Signoria. Sier Zuam Paulo Gradenigo non avrebbe avuto nulla da obiettare, se gli avesse domandando il permesso di tendere qualche imboscata ai francesi. L’unico problema rimaneva comunque la responsabilità ch’egli aveva verso i suoi stradioti: non poteva certo sacrificarli in un’operazione avventata e senza profitto, nossignore. L’Abbazia di Nervesa sier Ferigo se la ricordava, in cima ad una collina, una fortezza quasi, molto difficile da espugnare senza essere avvistati. Pertanto, finché il Bua vi rimaneva arroccato dentro, gli sarebbe stato impossibile liberare Hironimo.

Allo stesso tempo, il condottiero non poteva rimanersene rintanato lì per sempre, prima o poi doveva uscire da Nervesa, o per attaccare Treviso o per ritornarsene a Milano.

Ed era esattamente lì che il Contarini l’avrebbe aspettato.

 

***

 

 

“Aux armes! Aux armes! Arme! Arme!”

Hironimo scattò seduto dal suo giaciglio di paglia e ruvida ma calda pelle di vacca, il cuore in gola e guardandosi esagitato attorno a lui, sebbene invano: nulla si muoveva nella buia stalla, cozzando col cacofonico pandemonio di urla e nitriti di cavalli proveniente da fuori e il cui eco aveva persino innervosito le solitamente placide mucche.

Cosa stava succedendo? Un incendio? Un attacco?

Di riflesso il giovane patrizio si rialzò, pompandogli il sangue esultante nelle vene. Sì! I francesi stavano gridando dalla paura, qualcuno doveva aver disturbato il loro dannato sonno intrufolandosi nell’accampamento e creando scompiglio! Se non proprio dato battaglia notturna!

Il Miani non perse tempo e subito appoggiò il piede contro la parete, tirando e strattonando nella speranza di spezzare la catena e al contempo torcendo e graffiando i polsi per sfilarsi le manette. Doveva innanzitutto liberarsi; poi correre in infermeria e pigliarsi Thomà -  non fosse mai scambiato per un paggio francese; dopodiché si sarebbe portato ben fuori dal combattimento, in attesa di farsi riconoscere in un secondo tempo, non finisse lui infilzato per sbaglio.

“Porc’eva, porc’eva, porc’eva, porco juda, porco juda, porco juda, maladeto, smovate! …”

O l’umidità o la cattiva manutenzione, in ogni modo il chiodo, che teneva fisso il cerchio in cui la sua catena era stata stretta, pian pianino prese a sfilarsi dal suo buco. Ancora qualche strattone e finalmente sarebbe stato …

La porta della stalla si spalancò violentemente, illuminata dall’ansioso svolazzare di torce.

… fregato.

Hironimo si morse la lingua per non imprecare fino ad abbattere l’Abbazia a suon di sacramenti, non appena udì la voce di Mercurio Bua: “Eccoti qua, meno male che sei già bello sveglio, mi sarebbe seccato doverti dare il bacino del buongiorno!”

Contravvenendo al suo piano, Hironimo strillò frustrato: “E chi te l’ha chiesto! Piuttosto, cos’è sta cagnara qui fuori?”

Il greco-albanese non gli rispose, concentrato spazientito ad aprire il lucchetto della catena stretta attorno al cerchio. “Quando saremo nella mia cella in foresteria, ti dirò tutto”, tagliò corto, issandoselo sulle spalle e istruendo Zilio Madalo e Leka Busicchio di coprirli mentre avanzavano nella sicurezza dell’Abbazia.

A testa ingiù, il patrizio osservava confuso l’intenso e sconclusionato viavai di soldati mezzi svestiti e con le armi in pugno, i quali occupavano disordinatamente i punti strategici del complesso abbaziale. Quelli al portone d’ingresso principale tentavano a gran fatica di trattenere altra gente altrettanto semidiscinta, che a spintoni, pugni e morsi e randellate di pietre in testa si facevano prepotentemente strada oltre o dentro di esso, creando un ingorgo di corpi spintonati in direzioni diverse e contrarie. Alcuni, vestiti alla tedesca, si rotolavano coi francesi ed Hironimo catturò il luccichio dei loro pugnali e i rantoli dei feriti.

“Les Allemands! I Tedeschi c’assassinano! Ils nous vont tuer! Aux armes! Aux armes!”

“Les Vénitiens!”

“Les Allemands!”

Ma che … ?

“Dentro! Dentro l’Abbazia! Chiudete il portone, dentro!”

Il veneziano, facendo leva sulle spalle del Bua, prese a picchiettargli la schiena onde catturare la sua attenzione, sovvenendosi di Thomà, solo in infermeria e difeso da soldati moribondi e qualche monaco.

“Dopo!”, gli ringhiò dietro Mercurio, intanto ch’estraeva la sua spada per farsi largo tra un gruppetto talmente compatto da non riconoscersi a vicenda, se amici o nemici. “L’allarme! Date l’allarme! Qualcuno con un po’ di coglioni salga su quel cazzo di campanile e suoni quella fottuta campana! Date l’allarme, perdio, razza di femmine incapaci!”

Il selciato prese lievemente a tremare, seguito dal rumore di legno sfondato: i cavalli degli stradioti e saccomanni, spaventati da quel baccano infernale, erano fuggiti dalle loro stalle sforzando una via di fuga.

“I cavalli! Riportateli dentro! Chi se ne frega dei prigionieri, lasciateli scappare! I cavalli, maledizione, quelli vi crocifiggo uno ad uno come San Pietro se me li perdete!”, sbraitò il greco-albanese, respingendo l’ultimo avversario con un poderoso calcio per però finir a sua volta spintonato dentro la basilica, inciampando all’indietro in un’inversa proskynesis greca, mentre Zilio e Leka sbarravano sbuffando il pesante portone, finalmente al sicuro.

“Avanti, in piedi!”, intimò Mercurio ad un inebetito Hironimo ch’era finito come lui per terra sul duro e gelido pavimento, sbattendoci però la fronte come i penitenti del Venerdì Santo. “Cammina!”, lo issò in piedi e lo spinse in avanti, peccato che il giovane vedesse doppio e pure gli venisse da vomitare. “Agios Georgios, sei più delicato delle tette di una monaca!” [3], sbuffò snervato il capitano stradiota, per poi spalancare gli occhi timoroso e tapparsi la bocca, conscio d’aver proferito un’oscenità nella casa del Signore. Si segnò in fretta, appuntandosi di far più tardi penitenza. Oh beh, non che far da balia a quella piattola del suo prigioniero già non lo fosse …

“Il bambino …”, sbiascicò Hironimo, lo sguardo torbido non dissimile a quello d’un ubriaco, aggrappandosi ciondolante al collo del corsaletto del Bua. “Voglio … il mio … il mio bambino …” Un rivoletto di sangue gli divideva in due la faccia, congiungendosi al mento.

Maledizione. “Più tardi te lo porto. Giuro! Adesso però devi camminare e raggiungere la foresteria!”

“No …”, s’oppose ostinato il patrizio, dimostrando una pellaccia assai dura se pur da parzialmente concusso riusciva a tarmarlo con ugual tenacia di quand’era cosciente. “Lo voglio … lo voglio … lo devo proteggere … io devo …” e i suoi occhi rotearono all’indietro, costringendo il condottiero ad afferrarlo al volo, prima che il pavimento terminasse l’opera, rincretinendolo completamente. Invano scosse il giovane, schiaffeggiandolo delicato o aprendogli le palpebre: diavoli d’inferno, era proprio svenuto e Dio lo scampasse dal non risvegliarsi più! Altrimenti Caterina …

“Zilio, vola in infermeria per il marmocchio e uccidi chiunque te l’impedisca! Ci penseranno dopo i monaci ad assolverti”, ordinò l’uomo al suo sottoposto mentre correva in direzione del chiostro dall’uscita laterale sulla destra, sotto la navata con l’affresco della Creazione. “E magari qualche unguento, già che sei lì!”

“Da quando in qua pigliate ordini da quel veneziano?”, s’impuntò lo stradiota, affatto contento d’abbandonare il suo capitano con soltanto Leka a protezione.

Mercurio gli lanciò un’occhiata assassina. “Da quando in qua sei così spavaldo?”, l’avvertì tra le righe e Zilio guizzò via più rapido di una lepre.

“Dio del Cielo, che gli avete fatto?”

Il condottiero digrignò i denti: e ti voleva il destino che non incontrasse il Gambara in ogni luogo!

“Niente, è caduto e fra poco gli spunterà un bel bernoccolo in fronte”, riassunse in fretta Mercurio la faccenda, tallonato da Leka e il conte Gianfrancesco verso la foresteria, il conte che reggeva apprensivo il capo ciondolante del prigioniero svenuto. “La Palice, invece?”

“Già fuori; il signor Giulio e il signor Galeazzo credo siano con lui”, fece concitatamente rapporto il nobile bresciano. “Ma che diamine è successo esattamente? Alcuni incolpano i tedeschi, altri i marciani, altri addirittura i monaci - non si capisce più niente!”, si sfogò, aprendo la porta a Mercurio che scivolò dentro la sua cella senza neppure degnarlo di una risposta, sbattendogli invece la porta in faccia e chiudendosi dentro.

Tossicchiando imbarazzato, Leka s’autoproclamò suo portavoce, anche per mitigare la cafonaggine fuori luogo del collega: “Ne sappiamo quanto voi, signor conte. In fede nostra, stavamo dormendo quando all’improvviso questo schiamazzo infernale c’ha buttati giù dal letto! Forse domani mattina riusciremo a capire meglio cosa può averlo scatenato …”

Il conte Gianfrancesco annuì rapidamente. “Rechiamoci dal maresciallo, vediamo d’essergli d’aiuto.”

“Eccellente idea, così potrò anche controllare se i miei uomini sono riusciti a recuperare i nostri cavalli …” e se n’andarono correndo verso l’uscita della foresteria.

Da dietro la porta Mercurio staccò l’orecchio dal legno, avendo infatti origliato ogni singola parola proferita dai due militari. Non che s’aspettasse una scioccante ammissione di colpevolezza o complicità, nondimeno sperava in una qualche parolina rivelatrice da parte del Gambara, di solito così guardingo nei suoi confronti.

Per quanto si sforzasse, non riusciva a fidarsi di quell’uomo, per niente.

Un flebile gemito distrasse il greco-albanese dalle sue elucubrazioni, conducendolo al letto, là dove aveva gettato di peso il suo prigioniero ora riverso scomposto sul materasso, le catene ancora avvolgenti il suo corpo in una grottesca parodia del mito d’Andromeda e Perseo; peccato che il Miani non fosse una principessa etiope e il Bua un baldo eroe greco.

Infatti gli versò in faccia la brocca d’acqua.

Appoggiandola sul grezzo tavolino, il condottiero rimase in paziente attesa, già pregustandosi la sfilza d’improperi di cui sicuramente l’annaspante veneziano l’avrebbe subissato. Ne rimase deluso: quest’ultimo infatti si limitò a sbattere infastidito le ciglia, provando la sua mano ad asciugarsi il viso in maniera piuttosto scoordinata, ottenendo l’unico risultato di disegnarsi arzigogolate strisce scure sul viso grazie all’impasto d’acqua, sangue, polvere e fango.

“Embé? Ti sei ripreso?”, s’informò cauto Mercurio, incrociando le braccia al petto e sedendosi sul bordo del materasso. “Mi riconosci?”, aggiunse in un secondo momento, accorgendosi dello sguardo smarrito dell’altro. 

Le iridi nerissime d’Hironimo seguitarono a vagare senza meta, fluttuando in una preoccupante semi-incoscienza. Al che il greco-albanese gli diede uno schiaffo e lo pigliò per la mascella, costringendolo a guardarlo. “Mi riconosci?”, ripeté perentorio e scandendo ciascuna sillaba. “Chiudi gli occhi se capisci.”

Il veneziano arcuò il sopracciglio. “Guarda che posso parlare”, gracchiò spassionatamente in un buffo borbottio a causa della stretta alla bocca.

Mercurio ritornò a respirare tranquillo, avendo temuto per il peggio e ringraziando la costituzione robusta del giovanotto. “Adesso ascoltami bene”, gli spiegò pacatamente, conscio tuttavia della botta presa e non sottovalutandone gli effetti collaterali, “per stanotte ti tolgo di dosso queste catene, però tu non azzardare niente di strano, altrimenti le adopero per strangolare te e il marmocchio. Intesi?”

“Ho inteso”, convenne docilmente il patrizio, usando la manica della camicia per ripulirsi la fronte dal sangue. 

“Ancora conservo le cavigliere e il collare con la palla di cannone. Finché rimaniamo qui, vorrei limitarmi soltanto alle manette: dalla mia cella per certo non puoi scappare. Disobbedisci e tornerai legato alla stregua d’un salame. Capito?”

“Non lo farò più”, gli promise il giovane con voce flebile e stanca, appoggiando la testa dolorante sul cuscino e socchiudendo gli occhi, molestato perfino dalla flebile luce della bugia.  “Grazie”, soggiunse dopo una piccola pausa, massaggiandosi i polsi liberi e graffiati dal morso del ferro.

Il Bua deglutì male e fallì per poco di strozzarsi, sbattendo incredulo le ciglia. Aveva udito bene? Quell’altezzoso, linguacciuto, testardo, pestifero, bastian-contrario d’un Hironimo Miani lo ringraziava e si comportava mite e remissivo peggio d’una pulzella all’altare?

Quanto forte aveva battuto la testa? Abbastanza, constatò il capitano, notando il crescente bozzolo giallastro incominciare a protendere dalla fronte rossastra. Colpa sua, avrebbe dovuto porre maggior attenzione: in fin dei conti, pur di fibra robusta, il veneziano non si trovava nella sua forma fisica migliore, naturale che adesso il suo corpo sopportasse meno gli strapazzi. Se continuava così, rischiava di lasciarci le penne prima che lui potesse persuadere la Serenissima Signoria a restituirgli sua moglie …

“Il mio bambino.”

“Uh?”

“Me l’hai giurato”, gli ricordò delicatamente Hironimo, sebbene le sue iridi nerissime tradissero una granitica tenacia. “M’hai giurato di riportarmelo.”

Mercurio, palesemente a disagio, s’alzò in piedi onde porre una debita e sicura distanza tra loro due: alle sferzanti battute e provocazioni del Miani sapeva benissimo come comportarsi, ma dinanzi a tutta quella caparbia dolcezza proprio no. Pregò trattarsi di un malessere momentaneo, destinato a passargli dopo una notte di buon riposo in un letto decente.

“Per favore … il mio puttino …”

“Smettila di farmi quegli occhi dolci: cosa speri d’ottenere?”, optò il Bua per la solita strategia, quella dello scherno. “Certo, se tu fossi una bella fanciulla avremmo anche potuto discuterne contrattando, ma considerato il tuo sesso, dubito tu abbia un granché da offrirmi in cambio!”

Massaggiandosi il bernoccolo, Hironimo non si scompose semmai allargò il sorriso. “Se sono ancora in vita, significa che io al contrario ho qualcosa da offrirti in cambio. Altrimenti, m’avresti ucciso e gettato nella Piave. O sbaglio?”

Ridacchiando sommessamente, Mercurio si sporse beffardo verso di lui, appoggiando le mani all’estremità del letto e così intrappolandolo in una gabbia di carne. “Ti giudichi di così alto valore?”, lo sfidò, grato di ritrovare un po’ di spirito nel  suo prigioniero: adesso lo riconosceva e meno male, stava rinsavendo! “Peccato di superbia, sier Hironimo”, gli soffiò sul viso umido.

Il patrizio reclinò all’indietro il capo, guardandolo sibillino dritto negli occhi. “Se non valgo nulla”, si nettò le labbra con la punta della lingua, “perché non mi riconsegni alla mia gente?”

Un insistente tambureggiare alla porta interruppe la replica del greco-albanese che, sbuffando, abbassò irritato il capo. “Che volete?”

“Sono io, capitano, Zilio”. Apertogli, il suo luogotenente si presentò sulla soglia in rispettosa attesa con Thomà penzoloni sottobraccio. “V’ho portato il moccioso e l’unguento. Tuttavia”, s’affrettò ad aggiungere assai apprensivo, “il monaco, cioè Fra’ Anselmo, vi sconsiglia di tenervelo presso: è ancora convalescente e sembrerebbe la febbre essergli risalita, sebbene in forma più leggera …”

In effetti, il fantolino possedeva un certo rossore da febbricitante, fortunatamente però lo sguardo appariva più lucido e presente rispetto alla crisi dei giorni passati. “Hai sentito?”, si rivolse Mercurio ad Hironimo, che per miracolo afferrò al volo il vasetto d’unguento lanciatogli dal condottiero. “Ordini di Fra’ Anselmo: la pulce qui per il momento non può stare. Non appena guarirà, te lo riprendi. Su”, esortò invece Thomà, appoggiato nel frattanto per terra, “vai a dare la buonanotte al tuo signor padre …”

Il bambino non se lo fece ripetere, scattando rapidissimo tra le braccia aperte del veneziano e il capitano di ventura avvertì una spiacevole stretta al cuore, oscillando tra il rimpianto e l’invidia: così correva la sua Marietta verso di lui, quando lui rientrava all’accampamento dalle sue perlustrazioni, contenta la pargoletta di riabbracciarlo vivo e in salute e d’arrampicarsi sul possente corpo del padre. Un groppone in gola gli si formò quando Hironimo pose la mano sopra la testolina del bambino prima a mo’ di benedizione, per poi levarla e fingere di sputare sopra la zazzera bionda, un piccolo incantesimo greco per scacciar via i demòni: Caterina lo eseguiva sempre al momento di coricare la loro bimba, similmente a sua madre quando lui e suo fratello Teodoro si svegliavano la notte preda degli incubi.  

A queste cose lui avrebbe dovuto assistere, non ricordare. Sua moglie e sua figlia vivevano, eppure per lui alla stregua di fantasmi.

“Capitano …?”

“Com’è la situazione là fuori?”, impedì Mercurio al suo sottoposto d’inquisire oltre, assumendo un’espressione di dura e distaccata professionalità. A che pro lagnarsi? Le lacrime non gli avrebbero restituito la sua Cate.

“La Palice ha riportato egregiamente l’ordine nel campo. Onde evitare di esser colti di nuovo di sorpresa, ha sensibilmente rafforzato i turni di guardia. Ha inoltre emanato una grida, nella quale si prevede l’impiccagione per ogni disertore o sobillatore.”

Non un granché come provvedimento, ma sempre meglio di niente. “I danni?”

“Difficile determinarli  con chiarezza in questo momento: troppa confusione, non riuscivamo a distinguerci tra di noi, figurarsi i nemici. Certamente molti dei nostri prigionieri sia all’Abbazia che al campo di sotto sono riusciti a fuggire: da una parte meglio – meno bocche da sfamare; dall’altra … addio riscatto! Quanto ai nostri cavalli, mancano soltanto quelli dei nostri compagni mandati in ricognizione dal maresciallo.”

“Efharistò para poli! Agios Georgios sia ringraziato, ogni tanto una buona notizia!”, si segnò tre volte il condottiero, baciando la medaglietta recante l’effige del suo santo protettore. “Quanti dei nostri ha inviato in perlustrazione?”

“All’incirca quaranta.”

“Tanti”, commentò Mercurio, grattandosi il mento. “Come mai?”

“Gradenigo deve aver scoperto che siamo qui accampati a Nervesa e ha mandato i suoi di stradioti ad infastidirci. Così, come se non ci bastassero i contadini del Montello, dobbiamo guardarci le spalle pure dai nostri compaesani!”

“Meglio la morte della pietà d’un Paleologo!”, sputò quasi Mercurio il nome dell’odiata famiglia rivale, la medesima contro la quale suo padre Pietro Bua Spata s’era scontrato in svariate occasioni durante la Rivolta di Morea. “Uhm … non ha senso … non capisco …”, scosse poi il capo, massaggiandosi frustrato le tempie. “I soldati urlavano: I Tedeschi c’assassinano! Io stesso li ho visti attaccare, le armi in pugno … corpo d’un diavolo, uno di questi ha perfino provato a sfilettarmi … Eppure! Eppure mentre i nostri alleati tentavano di sgozzarci nel sonno, qui si gridava contemporaneamente Ai Veneziani! … ”

Zilio fece spallucce, non sapendone più del suo capitano. “Ad ogni modo, il maresciallo vi prega di raggiungerlo domani per discutere sulle prossime strategie d’adottare.”

“Riferiscigli che non mancherò.”

“Buonanotte, capitano.”

Mercurio grugnì poco convinto. “Ah, tranquillo che non chiuderò occhio fino all’alba, non dopo quanto accaduto! Inoltre, come puoi ben vedere, ho già il letto occupato!” e indicò col pollice i due prigionieri, intenti in una fitta conversazione.

Al che il luogotenente arrossì, abbassando il capo vergognoso. “Mi dispiace, capitano, per prima. Non intendevo mancarvi di rispetto. È che non vi voglio sapere in pericolo, specie dopo Treviso …”

“Lo so e per questo non me la sono presa”, lo rassicurò benevolo il Bua e gli appoggiò da camerata la mano sulla sua spalla, sorridendogli sincero e orgoglioso. “Di te mi fido ciecamente, Zilio, non vorrei altra zagaglia accanto a me in guerra.”

Madalo s’impettì assai commosso, abbozzando ad un timido sorrisino ebete. “Capitano …”, soffiò impacciato, voltando la faccia verso il buio del corridoio prima che gli occhi gli s’inumidissero di lacrime di gioia: dopo sedici anni trascorsi a combattere fianco a fianco per mezza Italia, tale devozione la giudicava naturale e logica e ciononostante gli recava sempre piacere sentirsi così apprezzato dal suo comandante, da lui ammirato sin dal giorno in cui da Cattaro era approdato a Venezia per unirsi alla compagnia diretta a Fornovo. “L’onore è mio!”, sbrodolò goffamente.

“Puoi ritirarti, ci aggiorneremo domani dopo l’incontro col maresciallo La Palice”, tossicchiò Mercurio, realizzando con suo sommo disagio l’eccessiva dose di sentimentalismo alleggiante nell’aria. Tra lui, Zilio e il veneziano, di questo passo si sarebbero ritrovati in un battibaleno a filare la lana, spettegolando sugli amori delle vicine di casa. “Bene, messere, hai finito di sbaciucchiarti il pidocchio?”, apostrofò smielato il suo prigioniero che, terminato di schioccare due baci sulle gote del fantolino, glielo cedette arrendevole.

“Zò, pórtate ben cum Fra’ Anselmo”, l’ammonì dolcemente Hironimo a voce alta e Thomà, pur non capendo il motivo dietro la declamazione pubblica di quel consiglio,  sbiascicò comunque un timido sì, zampettando via furtivo dal Bua finché Zilio non lo risollevò da terra, riconducendolo di peso in infermeria alle solerti cure di Fra’ Anselmo.

“Gli vuoi davvero bene”, commentò malizioso Mercurio, assicurandosi di chiudere bene la porta e pure appoggiandovi contro una sedia reclinata. Rinfoderò la scimitarra abbandonata di fretta sul tavolo, levandosi l’elmo e passandosi una mano tra i capelli scompigliati.

“Come ogni padre ama suo figlio”, replicò soave Hironimo, applicandosi l’unguento sul gonfiore alla fronte e la stanza si riempì d’un fresco odore pungente, affatto sgradevole. “Scommetto che anche tu ami tua figlia”, gli ritorse contro l’osservazione e con tal candore, che se il greco-albanese non lo conoscesse, ci sarebbe pure cascato. “Maria, giusto?”

“Come lo sai?”, s’irrigidì immediatamente il capitano sulla difensiva.

Hironimo gli sorrise indulgente. “Non esistono segreti a Venezia”, gli confidò magnanimo, per poi sciogliersi in un’ambigua risata. “Mia cognata è greca e la mia famiglia è in affari da anni col protogero di San Biagio a Castello, là dove vivono la maggior parte dei Greci emigrati. Suppongo tu abbia avuto modo di conoscere il cavaliere Dimitri da Costantinopoli? È nostro parente, il padre della mia cognata”, lo tranquillizzò conciliante, pur non resistendo alla tentazione di lanciarli una rapida stilettata.

“Mi sono noti gli Spandounes … o Spandolin, come si fanno chiamare adesso. So che il cavaliere Dimitri è tributario del Signor Turco e conosco anche il cavaliere Matteo Spandolin da Loidoriki, grande condottiero al soldo della vostra Signoria e maritato ad una Cantacuzena, di famiglia regale. Mio padre aveva dei traffici con Loukas Spandounes, ricco commerciante di Tessalonica. Ancora mi ricordo della sua tomba ad Hagios Demetrios: splendida e imponente, di marmo, costruita e trasportata direttamente da Venezia ”, si rilassò Mercurio, constatata la conoscenza di sua figlia (e per associazione di sua moglie) solo tramite terzi. “Quanto alla tua previa domanda: sì, amo la mia Marietta e mai mi verrà imputata la colpa del contrario”, ammise l’uomo, sedendosi sulla fine del letto e appoggiando la schiena contro il muro. Subito Hironimo si scostò, portando le ginocchia sotto il mento, facendogli spazio. “Chi è la madre dello scricciolo?”, inquisì di punto in bianco. Non che gli importasse conoscere gli altarini del suo prigioniero, però rimanere svegli e in silenzio per il resto della notte si prospettava un’impresa assai noiosa.

“Non la conosci: una giovincella di Marostica”, mentì abilmente Hironimo, ripensando a Lena, la quale neanche a farlo apposto era bionda come Thomà. Tenendola ben presente davanti agli occhi avrebbe reso più convincente la bugia.

“E che ci facevi lì?”

“Mio fratello era podestà ed io l’ho accompagnato.”

Mercurio calcolò rapido l’età tra il moccioso e il patrizio. “E tua madre cos’ha commentato, quando sei tornato col fagotto?”

“Come nutro quattro bocche, posso nutrirne cinque.”

“Allora, perché il marmocchio parla con una calata quasi cadorina?”

“Sua madre proveniva da quelle bande.”

“E viveva a Marostica?”, piegò scettico il Bua la bocca.

Il giovane Miani lo fissò beffardamente pietoso. “Dietro Marostica s’ergono le prealpi vicentine, le quali da Lavarone fino al territorio dei Sette Comuni portano al principato di Trento o nei nostri domini di Folgaria e Rovereto attraverso le Piccole Dolomiti … Pensavo l’Imperatore t’avesse spiegato la geografia di base del territorio veneziano, quando t’ha comandato d’invaderci …”, gli spiegò cinguettando, mieloso. “Pensavo”, infierì, “che tu ti ricordassi dello Stato che t’ha accolto da orfano …”

Il greco-albanese avvicinò il viso al suo, squadrandolo bellicoso. “Non dimentico niente, io”, ribadì, sfidandolo a contraddirlo.

“Dove ti trovavi quando nacque la tua bimba?”, saltò di palo in frasca Hironimo, confondendolo. Appoggiò mollemente la schiena sul cuscino, mangiucchiandosi incurante una pellicina molesta, come se il velato avvertimento del condottiero non l’avesse scalfito.

Mercurio esitò parecchio prima di rispondere, valutando cosa dire e se ne valesse la pena. Non voleva dar troppa confidenza al veneziano, il quale tuttavia possedeva l’inspiegabile dono d’incuriosirlo al punto da trasformarsi in un inquisitore domenicano. “Nel Regno di Napoli”, rispose infine, “o quel che ne restava, visto che se lo contendevano Francia e Spagna come i cani con l’osso!” A Garigliano s’era quasi cagato addosso dalla paura di lasciare sole e indifese la figlia e la mo -…

Il Bua aggrottò la fronte, colto all’improvviso da un dubbio.

Adesso che ci ripensava a distanza d’anni e più oggettivamente, fu proprio dopo la nascita di Maria che la sua Cate aveva incominciato a remargli contro ad ogni occasione, ben ante l’improvvisa morte del suocero Nicolò Boccali, in una sfilza d’infiniti litigi in cui lei gli gridava dietro come l’accampamento non fosse il luogo per crescere una bambina, costringendola ad una vita nomade, in tenda, peggio d’un tartaro, tra la peggior feccia umana. Voleva ritornare dai genitori malgrado le insistenze del marito.

“Prima però servivi il Moro, giusto?”, lo costrinse Hironimo a ripiombare nel presente.

“Corretto”, confermò laconico il condottiero.

Il giovane patrizio si sporse verso di lui, due dita sotto il mento. “Perché hai deciso di combattere per il sovrano che t’ha sconfitto, umiliato, privato del tuo protettore e che ti ha costretto a sette settimane di prigionia nella fortezza di Castellar, nel marchesato di Saluzzo?”

Colpito e affondato, a Mercurio non rimase che incassare il colpo, non avendo affatto previsto quella domanda così scottante ed introdotta a tradimento, partendo da argomenti ad essa non pertinenti. “Perché?”, ripeté aggressivo, stringendo le labbra in una linea dura.

“Sì, perché non sei tornato dalla Signoria?”, non gli permise di respirare Hironimo, incalzandolo inclemente. “Il tuo dovere verso Ludovico Sforza l’avevi compiuto, perché servire il suo nemico?”

“Le mie decisioni non ti concernono”, si rifiutò il Bua di cedere, avvertendo il familiare pizzicore alle mani, ogniqualvolta il suo prigioniero apriva la bocca. Forse non s’atteggiava più da impavido e arrogante, però non era addolcendo il tono che gli rendeva meno mordace lo strale con cui si dilettava a ferirlo. Maledetto, voleva inculcargli i sensi di colpa, ora?

“Di sicuro, però, esse concernevano tua moglie …”

Un sonoro ceffone zittì Hironimo, riaprendogli la ferita sul labbro inferiore.

“Ciò che ho fatto non devo certo giustificarlo ad uno come te!”, l’afferrò il greco-albanese per il colletto della camicia. “Né mi garba il tono troppo confidenziale quando parli di mia moglie!”, sibilò minaccioso e lo spinse di malagrazia sul materasso, mollando la presa.

“Hai ragione, perdonami. Non parlerò più”, mormorò contrito il giovane Miani, leccando via il sangue dal taglio. S’accoccolò remissivo in posizione fetale sul fianco meno illividito, le palpebre d’un tratto pesanti e l’intero suo dolorante corpo voglioso di perdersi nella morbidezza di un letto finalmente da cristiani. “Buona ronda”, gli augurò sbadigliando a bocca larga; dopodiché, impastatolo e stringendo sornione il cuscino, s’addormentò di colpo, genuinamente sfinito dalla fame e i sussulti dei recenti avvenimenti.

“Eh? Senti, non mi farai mica l’offes- …”, s’interruppe bruscamente il Bua, rendendosi conto di come l’altro ormai ronchisasse serafico e incurante del mondo esterno, le spalle che s’abbassavano e s’alzavano regolari. Appariva talmente abbandonato al suo sonno, da competere con un morto e di fatti il respiro usciva flebilissimo dalle labbra secche, a malapena dischiuse. I capelli disordinati e impicciati si spandevano scomposti nel cuscino e le ciglia d’ugual colore cozzavano contro il pallore malsano del viso.

Mercurio schioccò annoiato le dita, tamburellandole sul ginocchio: ecco dunque che la sua principale distrazione e compagnia se la ronfava alla grossa, disertandolo all’ennesima notte solitaria. L’aveva chetato e invece di godere del suo trionfo si rammaricava d’aver perduto nuovamente la pazienza. E per cosa poi? Non aveva mica la coscienza sporca, lui! Le sue condotte le aveva guadagnate onestamente, così come i suoi titoli e gradi, ognora in prima fila a combattere e l’ultimo ad arretrare. Non aveva alcun debito nei confronti della Serenissima, nossignore, casomai l’incontrario, checché ne dicesse l’ex-castellano, quella peste di sua suocera e sua moglie. Sua moglie … Quel birbo malnato parlava di lei manco fossero amici di lunga data, decifrandone i pensieri meglio di quanto lui, suo marito, avesse potuto fare malgrado i lunghi anni di matrimonio … E se? Un anno da sola, senza uomini in casa … No, no Mercurio, no,  futili sospetti i tuoi! La sua Cate non apparteneva a quella risma di donne e a Venezia, lo riconosceva, nessuno badava mai agli affari propri e tutti sapevano di tutto.

Il condottiero si sistemò meglio contro il muro, piegando su una gamba sul letto. Spiò di sottecchi le prime sporgenze ossute da sotto una camicia ogni giorno sempre più larga. Basta tergiversare, indipendentemente dall’esito del consiglio di guerra tenuto l’indomani da La Palice, la sua decisione era presa.

Alla prima occasione avrebbe inviato un oratore alla Signoria, domandole chiaro e tondo lo scambio tra sua moglie Caterina Boccali Bua e il patrizio veneziano Hironimo Miani.

Maria invece sarebbe rimasta per il momento da sua nonna a Venezia, in attesa di vincere la guerra e di portarla con sé nel suo feudo di Soave: l’accampamento non era posto per bambini e su quel punto Mercurio Bua dovette riconoscere il suo sbaglio, rimpiangendo di non aver ascoltato attentamente  la giusta obiezione di sua moglie quando ne aveva avuto l’occasione.

 

***

 

 

Nelle poche ore di sonno concessegli a seguito dell’attacco notturno, Jacques de Chabannes de La Palice era arrivato alla conclusione d’aver indugiato a sufficienza nel monastero di Nervesa, in attesa che l’Imperatore rispondesse alle sue insistenti sollecitazioni di scendere in campo. Poi, vista vana l’attesa, e affatto desideroso di finire ucciso in trappola a guisa di un sorcio, aveva deciso di convocare i capitani francesi per un consiglio di guerra durante il quale aveva intenzione d’annunciarli la sua decisone di rimettere al Re di Francia il suo progetto di rimpatriare in Lombardia. Se Louis XII voleva che La Palice restasse, sarebbe restato; altrimenti, non avrebbe esitato a raggiungere il Duca di Foix-Nemours a Milano.

“Ho inviato una lettera a Notre Sire le Roi, in modo da informarlo dell’intollerabile situazione: l’autunno e la cattiva stagione sono pressoché alle porte; non abbiamo sufficienti cibo e munizioni; i nostri stessi alleati ci disertano e tentano di derubarci nel sonno. Vi pare accettabile ch’io debba ordinare ai nostri uomini di dormire coll’elmo in testa più per paura de les Allemands, che dei Vénitiens?”

Un diffuso mormorio di assenso si levò nella stanza. Le facce tirate e stanchissime per via del sonno interrotto e mai propriamente recuperato, i comandanti francesi avevano trascorso la mattina a riorganizzare il campo, ricostruendo laddove necessario e seppellendo i morti, i quali s’aggiungevano al numero giù cospicuo di quelli deceduti per febbri, fame e il Gran Morbo.

“Perché ieri notte siamo finiti a difenderci sia d’alemanni che da marciani?”, vociò infine Galeazzo Pallavicino il dubbio, ch’aveva roso ogni suo collega per il resto delle poche ore precedenti l’alba.

“Dio non voglia che quei debosciati d’Allemands abbiano a nostra insaputa cangiato bandiera”, ipotizzò monseigneur du Molard, incrociando al petto le braccia. “Questo spiegherebbe: uno, il silenzio assai incomprensibile dell’Empereur nonché la sua reticenza ad unirsi alle nostre truppe; due, quel loro vigliacco oltrepassare la Piave alla volta del Frioul. Più che una diserzione potrebbe corrispondere ad un rinculo per poi massacrarci con comodo più tardi. Magari s’erano previamente accordati con Venise: il nostro annientamento per la Patrie du Frioul.”

“No, impossibile”, smontò la sua tesi Teodoro Trivulzio, memore dell’atteggiamento presente e passato dell’Habsburg nei confronti della Repubblica. “La Sua Sacra Maestà Massimiliano odia troppo la Serenissima per abbassare le braghe in maniera così plateale e codarda, e la Signoria stessa preferirebbe bruciare personalmente ogni singola città friulana fino all’ultimo sparuto ammasso di casupole, piuttosto di cedere anche solo un fil d’erba all’altrettanto disprezzato Re dei Romani.”

“Senza contare che il Cesare Augusto non tradirebbe mai la fiducia del suo alleato più forte”, aggiunse il conte Gianfrancesco di Gambara, portandosi un fazzoletto alla bocca e tossendoci vigorosamente. Scusatosi, proseguì: “Sua Grazia il Re Ludovico, in caso di voltafaccia, di sicuro coglierebbe quest’occasione propizia per invadere i territori dell’Imperatore e questi lo sa e non azzarderebbe tale futile guerra per un magro guadagno quale la Patria del Friuli, non quando grazie all’aiuto del Re Cristianissimo ha la possibilità d’annettere all’Impero anche il Veneto.”

“Il Re dei Romani è un uomo d’onore, lo chiamano L’Ultimo Cavaliere per qualcosa, no?”, concluse Giulio Sanseverino. “Ha giurato di scendere a Treviso e così farà.”

Né La Palice né i monsignori du Molard e de Boissy si commossero dinanzi a tale appassionata difesa dell’Habsburg, seguitando nelle loro espressioni scocciate e diffidenti. Anzi, il capitano dei guasconi du Molard pure commentò assai sprezzante:

“Mon cher Saint-Séverin, parlate assai bene di chi v’ha assassinato il padre! Je suis vraiment étonné, mi stupite!”

“Mio padre, il conte Roberto Sanseverino d’Aragona, è caduto onorevolmente in guerra!”

“E la Sua Sacra Maestà ne celebra la morte nei suoi trionfi!”, sogghignò pieno di sufficienza il capitano francese, ridendo più forte al tentativo di schiaffeggiarlo da parte del Sanseverino, prontamente trattenuto da Galeazzo Pallavicino.

“Monseigneurs, vi prego di calmarvi, non ci troviamo in una bettola. Avete ragione, Saint-Séverin, l’Empereur sarà pure un uomo d’onore; nondimeno, i tanto onorati tedeschi ci assalgono alle spalle per cibo e munizioni, disertandoci al primo vento contrario”, ribatté severo il maresciallo francese, placando gli animi e ammonendo ambedue i contendenti con lo sguardo. “Sfortuna ha poi voluto, che proprio ieri notte i Vénitiens abbiano deciso d’assalirci, quando les Allemands alla stregua di ladri sgattaiolavano nel nostro accampamento, unendo le forze in un’accidentale ma infernale alleanza! I comandanti tedeschi tacciono davanti a tale insubordinazione e non prendono alcun provvedimento; sicché, ai nostri occhi, sono altrettanto codardi e traditori quanto i loro soldati, masnade cui bisogna affidarsi il meno possibile.”

Leka Busicchio scivolò dentro la stanza in punta dei piedi, avvicinandosi di soppiatto presso Mercurio Bua e sussurrandogli celere qualcosa all’orecchio, la quale sortì l’effetto di togliergli ogni rossore dalle guance.

“Brutte notizie, capitano?”, inquisì La Palice, non essendogli sfuggita quella scenetta. “Se non v’incomoda condividerle …”

Il greco-albanese arcuò il sopracciglio, affatto contento di quel paternalismo da tutore. “Dico soltanto, che mentre ci troviamo qui a discutere allegramente alla stregua di comari al focolare, i Veneziani ci hanno sottratto Castelfranco e i suoi rifornimenti”, esordì rapido e conciso, guardando in faccia ciascuno degli altri comandanti in modo che i concetti ben si fissassero nelle loro dure teste.

“Dico soltanto, che m’è appena giunta la nuova che trenta dei miei soldati inviati ieri in perlustrazione adesso si trovano a Treviso prigionieri” e adesso accusò tacitamente La Palice per aver disposto sì sconsideratamente dei suoi uomini, senza consultarlo, mandandoli allo sbaraglio dritto nelle fauci del nemico. “Dico soltanto, che siamo in trappola, circondati dagli stradioti dei Paleologi e dai contadini veneti. È soltanto questione di giorni, prima che Gradenigo organizzi un assalto mirato contro di noi e l’Abbazia, per quanto in posizione strategica, non è una fortezza. Quello di ieri notte era uno studio del territorio, come il serpente prende le misure prima di stritolare e ingoiare la sua preda”, e il condottiero fece una pausa d’effetto, bevendo compiaciuto l’ansia e agitazione creatasi tra i suoi colleghi, specie alla menzione della trappola, timore che da tempo nutrivano ma mai avevano osato definire a voce alta.

“Al che, due opzioni restano al lupo quando stretto in un cerchio di morte: o soccombere sotto le lance dei cacciatori, oppure sbranando aprirsi una via di fuga. D’ora in avanti, maresciallo, suggerirei di scortare i miei uomini e i vostri saccomanni con la cavalleria pesante, acciocché si possano difendere in caso d’agguato. Quanto ai contadini rintanati nel Montello, scoviamo loro e avremo di che rifornirci di biave e farina. Inoltre, suggerisco d’elargire una tal lezione a quei bifolchi ribelli, da farli ben capire chi sia il loro nuovo padrone!”

La Palice annuì soddisfatto, intimamente grato d’aver sempre al suo fianco quell’irriducibile capitano di ventura, sempre ottimista e intraprendente pur dinanzi a situazioni disgraziate. “In attesa della risposta di Notre Sire le Roi, manderemo un ambasciatore a Trévise chiedendo la resa incondizionata della città. In questo modo capiranno, che devono escogitare stratagemmi di ben altra natura per intimorirci e che nulla ci persuaderà a rinunciare all’impresa di conquistare la città”, terminò il suo discorso il maresciallo, congedando i capitani che ritornarono alle loro postazioni in attesa d’aggiornamenti. All’ultimo però trattenne il Bua, facendogli cenno di rimanere. “Come intendete esattamente liberarvi dei contadini?”

“I Conti di Collalto”, rispose sbrigativo Mercurio. “Sono nostri alleati, giusto? Che lo dimostrino descrivendoci zolla per zolla questo territorio, ogni fossa, ogni caverna, ogni antro che quei cenciosi possono usare come nascondiglio.”

“Proporrete ai Conti di consegnarci la loro stessa gente? Non la giudico una mossa onorevole.”

“Quando mai c’è gloria nelle guerre tra partigiani? Anche se nemici e divisi da ideali opposti, sempre di sangue civile e fraterno ci si macchia e questo i Collalto lo sapevano, quando si sono schierati dalla parte della Lega. ”

 

***

 

Nelle stinche di Treviso ferveva un viavai da formicaio, tra smistamenti dei nuovi prigionieri catturati la notte precedente; scambi di cella per impedire che s’accordassero sulle risposte in vista degli interrogatori; evacuazione dei posti lasciati liberi da coloro che nel frattanto avevano reso l’anima ed infine bonari ammonimenti dei carcerieri ai criminali locali, che dileggiavano strafottenti al limite dell’aggressione fisica i prigionieri franco-imperiali, degni emuli del cattivo ladrone. La processione di barelle trasportanti i cadaveri dei soldati era divenuta un rituale giornaliero, per la gioia dei becchini che s’erano visti aumentare la paga e tanto alacremente lavoravano, gettando calce viva sui corpi riversi in anonime fosse comuni, da non badare ai segni rossi sul collo di alcuni morti.

Ciascuna di queste operazioni era sorvegliata dall’occhio vigile del capitano delle prigioni, il quale in particolar modo stava attendendo l’esito dell’esame di paron Fortunato su di un pericoloso ribelle, Corneto da Cividal di Belluno, noto per essere “cossa medema” col commissario imperiale Jean d’Aubigny: dei villani di Castelnuovo lo avevano sorpreso e catturato mentre conduceva assieme a due suoi compari tre zattere trasportanti legname per costruire ponti, tavole che gli stessi s’erano premurati di sequestrare e nascondere a loro uso personale. Dopodiché, i contadini avevano condotto i tre traditori a Treviso. Il provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo, ordinato di perquisirli, aveva trovato addosso al bellunese una lettera da La Palice, nella quale lo sollecitava a portar vittuarie per il campo, aggiungendo assai drammaticamente come si morisse di fame se non fosse stato per il soccorso di certe genti della bassa friulana. Insoddisfatti dalle vaghe risposte di Corneto sui contenuti della missiva, lo si era messo alla tortura onde carpirgli ulteriori informazioni e dettagli sulla sua missione, sul campo francese e sul governatore tedesco.

Il capitano aggrottò la fronte all’ennesimo urlo, mentre gli altri prigionieri nelle loro celle si stringevano tra di loro, temendo analoga sorte: invero paron Fortunato, il boia, si stava sbizzarrendo nella sua creatività. Il che significava soltanto una cosa, pensò amareggiato l’uomo: quel ribelle non avrebbe cantato tanto in fretta.

“Paron Fortunato!”

“Comandeu?”

“Pì forte cum i scasi di corda (tratti di corda, ndr.), no ghemo tuto el dì!”

“Servo vuostro, sior capitan!”

Contemporaneamente, a Palazzo, il podestà sier Andrea Donado “dalle Rose” e il provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo discutevano sul procedimento dei lavori alle mura assieme ai capitani Renzo di Ceri, Vitello Vitelli, Troilo Orsini e gli altri comandanti e patrizi veneziani. Altri argomenti sui quali ragionavano: l’imminente arrivo di Meleagro da Forlì coi 1500 cavalleggeri e del provveditore degli stradioti sier Ferigo Contarini; le ultime disposizioni della Signoria; i rifornimenti e pagamenti dei soldati; le missive ricevute dai provveditori di Padova sier Polo Capello e sier Christofal Moro e infine il rapporto di Alfonso del Mutolo e Costantino Paleologo, tornati assieme a molti prigionieri liberati dall’ultima vittoriosa sortita notturna. La vasta sala del Palazzo sembrava invasa dai tarli a causa del perenne e concitato scricchiolio delle penne degli scrivani, impegnati a scrivere punto per punto ogni lettera indirizzata ad altri podestà, capitani, provveditori, castellani o alla Signoria. Il tavolo stesso di sier Gradenigo era seppellito da carte e cartine, più non si scorgeva il legno sottostante.

“Se non v’incomoda, domino Thodaro”, si rivolse il provveditore al capitano greco Teodoro Paleologo, che da poco li aveva raggiunti a Palazzo, “per via della mancanza di alloggiamenti in città, la vostra compagnia di 200 stradioti verrà sistemata appena fuori Porta Santi Quaranta, nell’omonimo monastero, davanti al Tiveron, il quale è a sua volta protetto dal Sile e quindi da nessun lato vi potranno attaccare, anche se fuori le mura.”

“Da lì mi sarà più facile muovere i miei uomini in perlustrazioni e irruzioni nel campo nemico”, convenne il condottiero. “Mi sta bene come posto.”

“Ovviamente, in caso d’assedio, verrete immediatamente trasferiti in città. Non posso però garantire a ciascuno dei vostri una stanza …”

“Non vi preoccupate: noialtri oramai siamo abituati a far quasi tutto in groppa a cavallo, dormire e mangiare in primis”, scherzò Paleologo, contagiando gli altri capitani lì presenti in un risata liberatoria per sdrammatizzare l’aria tesa degli ultimi giorni.

“Monsignore de la Palisse ci ha inviato una lettera molto insolente”, aggiornò poi sier Zuam Paulo gli astanti, sorridendo feroce. “Anzi neppure a noi, bensì al popolo di Treviso che descrive oppresso e infelice sotto il giogo di Venezia, offrendogli giustamente la libertà sottomettendosi a quello imperiale. Sostiene che se porterà morte e distruzione nella Marca, sarà per colpa nostra che orgogliosamente rifiutiamo di arrenderci, consegnandoci alla volontà del Re dei Romani, e non del popolo indifeso che null’altro desidera se non esser dominato da un sovrano straniero. Loda la magnanimità dell’Imperatore il quale tanto s’è preso a cuore la sorte dei Trevigiani, che impiegherà ogni mezzo bellico per raggiungere questo suo scopo, bruciando, saccheggiando e massacrando a destra e a manca, ma risparmierà i beni e la vita del povero oppresso popolo trevigiano soltanto quando noi ci saremo piegati, rinsavendo a più miti consigli”, parafrasò l’uomo in un sarcastico riassunto la missiva del maresciallo francese, fissandola schifato sulla sua scrivania, manco l’avessero spalmata d’escrementi.

“A me par de scoltar mea mojer co’ la brusa el rosto (arrosto, ndr.), disendome che no xé ela che nol save cusinar, ma jo che la gh’ho fata ràbiar”, commentò sottovoce Marco Miani al suo compagno di ronda, sier Alvixe da Canal, il quale soffocò a malapena un grugnito divertito.  

“E’ una mia impressione o questi contenuti mi suonano famigliari?”, chiese Vitello Vitelli, soffocando un colpo di tosse all’interno dell’avambraccio.

“Sì, ha praticamente scopiazzato la lettera dell’Imperatore, quella dello scorso agosto ai cittadini di Venezia. I francesi non hanno fama di gente originale”, gli confermò Renzo di Ceri. “Quella che invece mi piacerebbe leggere, è la missiva inviata al Re di Francia.”

Il suo parente Orsini annuì. “La Palisse sta temporeggiando: questa richiesta di resa incondizionata è una presa per i fondelli, anche perché sa benissimo dove gli ficcherebbero i Trevigiani la magnanimità dell’Imperatore.”

“Nondimeno, dimostra che non l’abbiamo a sufficienza scoraggiato”, puntualizzò sier Lunardo Zustignan. “I Tedeschi hanno attraversato la Piave e si stanno dirigendo verso la Patria del Friuli, là dove i sentimenti verso la Signoria sono assai più ambigui che nella Marca. Non possiamo escludere che trovino supporto tra i nobili feudatari strumieri, fornendoli quest’ultimi cibo e munizioni, se non proprio aprendo loro le porte delle città friulane!”

“Pensavo che domino Antonio Savorgnan avesse sterminato quei ratti filo-imperiali!”, esclamò perplesso Costantino Paleologo, gli echi della rivolta del “Crudel Zobia Grassa” giunti ad ogni orecchio della Terraferma.

“Gli stronzi, kyrie Konstantinos, galleggiano sempre”, gli spiegò lapidario in greco Marco Miani e il Paleologo non poté non trovarsi d’accordo, associando tale massima alle sue esperienze di vita. “Sier provedador Zuam Paulo”, proseguì il patrizio, “se posso condividere una mia opinione. La Peliza sta procrastinando un attacco che lui non vorrebbe scagliare, ma che dall’alto vogliono a tutti i costi. Lo vuole l’Imperatore, perché della conquista di Trevixo ne ha fatto una questione personale e non riterrà vendicato il suo “onore” finché non avrà raso al suolo la città e massacrato la sua gente. Lo vuole il Re Ludovico, perché tramite il saccheggio spera di risarcirsi di ogni ducato spento per Maximiano, ducati che non rivedrà mai restituiti dal suo alleato. La Peliza al contrario non vorrebbe, ma per gli interessi dei suoi padroni verrà qui a Trevixo, ergo ogni sua dichiarazione d’imminente rimpatrio in Lombardia va scartato senza tanti indugi.

“In secondo luogo, a mio parere, i Tedeschi hanno invaso la Patria del Friuli, certo, ma non per scappare o svernare in attesa degli ordini dall’Imperatore bensì per prendere quanto necessario all’assedio e poi ritornare indietro meglio forniti di com’erano all’inizio, ricongiungendosi coi Francesi. La fazione filo-imperiale degli strumieri nella Patria è tutt’altro che scomparsa, non scordiamoci che il destituito Patriarcato d’Aquileia sempre è stato sotto l’influenza tedesca, chiamando nobili dalla Carnia e dall’Austria per meglio amministrare quelle sue terre. Fossi in voi, io non confiderei in un’accanita resistenza all’invasione del Friuli, specialmente adesso che i casi di peste sono aumentati e la gente fiaccata dalla Zobia Grassa.

“Avete letto come perfino domino Antonio Savorgnan abbia abbandonato Sazil. Adesso io non voglio contestare l’intensa fiducia che la Signoria ripone in lui, tuttavia non mi pare questo l’atteggiamento di chi è disposto a difendere ad ogni costo le sue roccaforti e città.”

“Sospettate in un suo probabile voltafaccia?”, domandò incredulo sier Andrea Donado, lanciando un’occhiata ansiosa al provveditore e al resto dei patrizi veneziani lì presenti. “Ma … ma domino Savorgnan e il suo casato da più d’un secolo sono stati nostri alleati, i capi storici della fazione zambarlana per di più!”

“Sempre un nobile di Terraferma rimane”, spezzò sier Alvixe da Canal una lancia in favore di Marco. “Ed i loro interessi non hanno mai coinciso coi nostri, s’è visto in quest’ultimi due anni come i vari conti di terra si siano inchinati servili a Francia e Impero, loro che tanto si proclamavano boni marcheschi!”

“Domino Antonio ha abbandonato Sacile poiché a corto di uomini e artiglieria”, ricordò Renzi di Ceri al Miani, “non molto cavalleresco, vero, però la prudenza non è una colpa né una prova di tradimento. Ritirandosi ad Udine avrà più possibilità di difendere la Patria. Alla fine, parliamo di città di confine, di poco valore strategico se comparate ad Udine.”

“Evidentemente, il Savorgnan voleva anche evitare la triste fine di vostro fratello”, aggiunse Troilo Orsini, provocando un bellicoso digrigno di denti nel veneziano.

“Mio fratello ha compiuto il suo dovere e senza i vostri sofismi da mercenari”, berciò quegli astioso, gli occhi nerissimi saettanti di tal collera che l’Orsini inconsciamente indietreggiò di qualche passo, memore della zuffa del Miani col Batagin Bataja e della testa di quest’ultimo sbattuta sul piatto. “Sono orgoglioso di lui, di come s’è comportato. Avesse abbandonato Castelnuovo di Quero o peggio, avesse offerto la sua dedizione all’Imperatore, tradendo la sua famiglia e la Signoria, Dio m’è testimone che con queste mani l’avrei ucciso!” e il tono di voce implacabile e l’espressione tremenda sul viso accigliato rivelarono tanta verità nelle sue parole, da ammutolire i presenti.

Calmatosi e riprendendo fiato, Marco contro-argomentò pieno di focosa determinatezza  l’affermazione di Renzo Orsini: “Capitano, non fraintendetemi, mi trovate d’accordissimo con voi e comprendo bene il ragionamento tattico del Savorgnan. Ciononostante vi rammento, che è lunga e perigliosa la strada da Sacile fino ad Udine, soprattutto quando i Conti di Porcia, Polcenigo e Spilimbergo chiaramente appoggiano l’Imperatore e potrebbero sbarrargli il cammino durante la ritirata, colpendolo sul fianco. E v’assicuro che un uomo messo alle strette è capace di rinnegare qualsiasi cosa, dall’onore alla fede, pur di salvarsi la vita!”

“Cosa proponete, sier Marco?”, lo sollecitò dunque sier Lunardo Zustignan, decisamente persuaso dalle argomentazioni del concittadino.

“Avevo sei anni quando il Duca d’Austria invase i nostri confini, puntando alla conquista di Feltre. Di quegli eventi serbo ricordi confusi tranne uno, ossia quando mio padre sier Anzolo Miani, consultandosi con domino Guido de’ Rossi, gli disse: Dobbiamo sempre pensare allo scenario peggiore mentre pianifichiamo, per non lasciarci cogliere impreparati dal nemico. Qual è il nostro scenario peggiore? La caduta della Patria del Friuli, il tradimento del Savorgnan e dei nobili locali, il ricongiungimento delle truppe francesi e tedesche, la diffusione della peste. Se vogliamo organizzare una degna difesa di Treviso, dobbiamo farlo tenendo a mente tutte queste possibilità.”

Sier Zuam Paulo Gradenigo s’alzò dalla sedia, appoggiando i pugni sul tavolo. “Avete ragione sier Marco”, concordò, raggruppando le carte e sistemandole ordinatamente su di un lato, pronte per essere raccolte nei loro quaderni e fascicoli o distribuite ai corrieri. “La Signoria è fiduciosa a riguardo ma io no: la Patria del Friuli è condannata, un moribondo in attesa dell’estrema unzione. Avete udito i capitoli: Treviso si comporterà come se già fosse sotto assedio, Nervesa non dista poi così lontana da noi. Continueremo con le incursioni notturne per fiaccare lo spirito del nemico, per impedirgli di spiare la costruzione delle nostre mura e per liberare quanti più dei loro prigionieri”, e scoccò un’occhiata significativa a Marco.

“La Palisse non attaccherà prima d’aver ricevuto una risposta dal Re di Francia e soprattutto d’essersi ricongiunto con le truppe imperiali”, ragionò a voce alta Vitello Vitelli, “questo ci comprerà due o tre settimane di tempo per preparaci, se i timori di messer Marco dovessero rivelarsi fondati e la Patria del Friuli non dovesse opporre resistenza agli imperiali.”

“Per allora avremo completato per certo i lavori alle mura”, concluse ottimista Troilo Orsini.

“Troppo tempo, troppo tardi”, lo contraddisse invece sier Zuam Paulo. “Dobbiamo darli un’accelerata”, e rivolgendosi al podestà sier Andrea Donado: “Con vostra buona licenza, vorrei emanare una grida nella quale ogni abitante di Trevixo, uomo o donna, che possa tenere una vanga in mano e spingere una carriola o trasportare una barella venga a lavorare alle mura. Ovviamente, questo provvedimento includerà anche noialtri. Entro due al massimo tre giorni, Trevixo avrà le sue cinta murarie terminate e pronte ad affrontare l’assalto nemico.”

“Ma è impossibile!”, esclamò scettico Renzo di Ceri.

“Appunto!”, reiterò Gradenigo, sogghignando malevolo. “Perché questi sono gli esatti pensieri dei Collegati: poiché giudicano impossibile quest’impresa, noi la compiremo! Poiché giudicano impossibile che la Francia e l’Impero possano perdere contro una città politicamente insignificante come Treviso, noi li sconfiggeremo, umiliandoli e spedendoli piangenti dalle loro madri! Poiché grazie alle titubanze del La Peliza e all’avidità dei Tedeschi, noi possediamo sufficiente tempo e mezzi non solo per costruire la miglior città-fortezza alla moderna d’Italia, ma anche per poter predisporre a nostro piacimento il terreno su cui combatteranno. Le dinamiche della battaglia le sceglieremo noi e faremo ballare questi barbari alla nostra musica!”

“Ci vorranno turni di giorno e di notte, senza sosta né riposo. Se non c’ammazzano i Collegati, c’ammazzerà la fatica.”

“Ci riposeremo in saecula saeculorum nell’Aldilà, capitano Lorenzo Orsini degli Anguillara.”

Il nobile laziale scosse il capo, eppure gli angoli della bocca s’erano piegato all’insù in un sorrisetto complice.

“Sior Provedador, zelenza”, si presentò all’improvviso il capitano delle prigioni, recante un pezzo di carta prontamente ceduto al patrizio, “la confexion dil rebello, el qual ghemo tormentà fin desso.”

Gradenigo lesse a voce alta il resoconto dell’interrogatorio: “El citadin Corneto da Cividal no confessa gnente, salvo che portava le zatre, per comandamento di el governador todesco, fino a Narvesa per voler far ponte per passar la Piave. – Tutto qui?”

“Non accenna minimamente alla lettera di La Palisse né alle condizioni del campo francese”, schioccò la lingua deluso Renzi di Ceri.

“Né tantomeno chi nella bassa friulana e nella Marca sta foraggiando i franco-imperiali”, precisò Vitello Vitelli, che poi era proprio quella l’informazione per la quale avevano torturato per ore il ribelle bellunese.

“Insistemo, sior provedador?”, si propose solerte il capitano delle prigioni.

Sier Zuam Paulo Gradenigo negò in un nervoso svolazzo della mano. Invece, si portò accanto ad uno scrivano, domandandogli se avesse terminato la lettera destinata alla Signoria. Incuriositi da quel tono complice e quell’aria di mistero, subiti i presenti lo spronarono a condividerne i contenuti.

Il provveditore li accontentò, svelandoli l’arcano: “Si tratta dei resoconti di quanto visto e udito dai nostri prigionieri scappati dal campo nemico. Questo punto specialmente è importante, ascoltate bene: Rebelli trevisani che sono guide de’ nemici: Bortholamio Sforza; Hironimo de Martegnago dito Barbon; Sydro e Franceschin da Martegnago, sòo fradeli; Domenego di Inselmi, el conte Carlo di San Bonifazio, veronese, grandissimo rebello, el qual perhò è sta morto in campo.

“Ville di là di la Piave, che danno vituarie a li inimici: Voladina; Quia; Quieto; San Stefano; Val de Marin; Vidor; Barboza; Fontino et La Piove de Soligo.

“Noterete che sì, questo ribelle bellunese ha coraggiosamente affrontato la tortura e sfidato il dolore pur di non venderci i suoi complici, peccato l’abbia fatto per niente ché nulla sfugge all’Occhio Destro della Signoria. Ricordate bene i nomi, specie voi capitani degli stradioti: una pingue ricompensa aspetta chi riuscirà a catturare questa feccia ghibellina. Quanto alle città ribelli, ad assedio terminato esse saranno le prime a venir mondate nel sangue dal loro peccato.”

“Morire per mano nostra o per mano dei franco-imperiali … Vi pare una scelta proponibile?”, mormorò amaro Troilo Orsini.

“Morire da traditori o da nostri partigiani, ecco la loro scelta”, lo corresse sier Lunardo Zustignan.  “Che ne facciamo del bellunese?”, s’informò.

Gradenigo chiuse la lettera destinata alla Signoria, imprimendo il suo sigillo sulla cera bollente. “Processatelo e poi impiccatelo. E che il suo corpo sia ben visibile a tutta Trevixo, acciocché si sappia qui come nella Marca quale destino attende chi tradisce la Serenissima Signoria.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Il termine “partigiano” esisteva anche all’epoca, sebbene oramai sia più comunemente associato alla Seconda Guerra Mondiale e non indicava necessariamente chi in gruppi armati resisteva all’invasione nemica, piuttosto gli agguerriti sostenitori di una determinata fazione. Nel caso della nostra storia, i filo-imperiali (e per associazione, francesi) e filo-veneziani.

Al povero de La Palice non gliene va mai bene una, per adesso, ed effettivamente se non fosse stato per l’inesauribile spirito d’iniziativa di Mercurio Bua, credo che sul serio se ne sarebbe ritornato a Milano, alla faccia dell’Orléans e di Massimiliano! XD Con tutto rispetto, aveva appresso un branco o d’ammalati o d’incapaci o d’approfittatori vigliacchi. Altro che armata franco-imperiale, piuttosto di Brancaleone!

Il Nostro come sempre sballottato di qua e di là, a capriccio del Bua, non riesce mai ad aver un attimo di tregua!

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

[1] Uomo morto non fa guerra = versione veneziana del “Mortui non mordent” (I morti non mordono) di Plutarco e pronunciata a seguito della cattura di Francesco Novello da Carrara, il quale appunto venne condannato a morte assieme ai suoi eredi maschi con la lapidaria sentenza “omo morto no' fa guerra”, onde sottolineare la decisione di Venezia di finirla una volta per tutte coi rivali Carraresi per il dominio sul Veneto.

[2] Sofì = così si chiamava all’epoca lo Shah di Persia.  

[3] più delicato delle tette di una monaca = modo deliziosamente veneziano per indicare una persona di fisico e salute fiacca, cagionevole. Sarebbe interessante capire il ragionamento dietro …



  
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