Vi auguro
una buona lettura e un Buon Natale!
H.
Aggiornato
il 18.10.2021
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Capitolo
Ventunesimo
16-17
settembre 1511
Fra’
Anselmo respirò a pieni polmoni l’aria mattinale,
deliziandosi del suo retrogusto fresco d’acqua di ruscello
nonché del tepore
settembrino catturato dai muri alti e bianchi dell’Abbazia,
riflettenti il
lilla-lavanda intenso dell’aurora che cedeva gradualmente il
posto al
pesca-arancione del giorno. Posizionata infatti a sud,
l’edificio era protetto
dal vento di tramontana e permetteva di conseguenza un microclima
temperato e la
coltura di quelle piante che, solitamente, crescevano sul Garda o in
Centro e
Sud Italia: all’avanzante rossastro e giallo acceso delle
foglie autunnali dei
roveri, querce, gelsi e dei pampini d’uva
s’accompagnava sui terrazzamenti il
sempreverde degli ulivi, generosi fornitori d’olio per i
monaci.
Il
benedettino permise al timido sole di scaldargli le ossa,
piccolo lusso che si concedeva dopo le Lodi mattutine prima di recarsi
in
infermeria dai suoi ammalati. Avanzò di qualche passo a
contemplare la valle
sottostante, là dove sorgeva il villaggio di Nervesa e il
suo porticciolo su di
una Piave ridotta da lassù a grasso serpente e dove, in
lontananza, si potevano
ammirare i vaghi monti della Patria del Friuli e la pianura di campi e
alberi
conducente a Treviso. Un raro e armonioso equilibrio,
l’industriosità umana e
la selvatichezza indomita della natura, che da anni nutriva e rilassava
l’animo
di Fra’ Anselmo quando in vena di solitaria contemplazione
fuori dal chiostro.
Una
piccola oasi d’immota serenità riparatrice dai
turbini dei
tempi.
Adesso,
invece, il piano immediatamente sotto la collina dove
sorgeva l’Abbazia era stato trasformato in un accampamento e
così anche il
villaggio, disertato in massa non appena i suoi abitanti avevano udito
dell’accoglienza delle truppe franco-imperiali da parte dei
Conti di Collalto e
soprattutto dell’Abate. I soldati avevano rigirato alla
stregua di calze ogni
casa, magazzino, bottega, rimessa pur di trovare qualche provvista o
utensili,
spingendosi fino alle ville estive dei patrizi veneziani, trovandole
però
desolatamente vuote. Le barche e zattere inutilizzate per la fuga erano
finite
bruciate dalle sempre più frequenti incursioni degli
stradioti veneziani,
rendendo inutilizzabile il porticciolo di Nervesa, almeno
nell’immediato,
fintanto che il commissario imperiale Jean d’Aubigny
Cividal di Belluno non si fosse deciso a spedire per via fluviale i
rifornimenti. Tuttavia, il ponte di barche costruito dai Collegati si
vedeva
benissimo e il monaco studiò colmo di pena in direzione
della Patria del
Friuli, pregando che Sacile, Oderzo e Pordenone resistessero, a seguito
della
nuova caduta di Conegliano che pur, magra consolazione, quei disertori
dei
soldati alemanni avevano trovato già abbandonata e senza
vittuarie.
Fra’
Anselmo cacciò fuori un pesante sospiro: anche lui e i suoi
fratelli,
forse ad espiazione della loro codardia, avevano la propria croce da
portare. I
pochi soldati tedeschi rimasti si comportavano aggressivi e rapaci
più dei lupi
d’inverno, venendo in violenta discussione sia coi loro
alleati francesi e
italiani, sia coi monaci camaldolesi che li ospitavano alla Certosa sia
con
loro i benedettini, avendo buon gioco l’Abate a negoziare le
insistenze di
monsignor de La Palice a condividere le proprie scorte con le sue
truppe in
nome della pace e della concordia.
Quale
cibo? Avevano a malapena farina per dar da mangiare ai
monaci, novizi, oblati e conversi dell’Abbazia, figurarsi a
più di quattromila
bocche; tutta l’uva dei loro vigneti era stata confiscata dal
maresciallo
francese e distribuita ai soldati per farne del mosto e così
anche le loro rape
e la carne, neanche si fossero trasformati in un mattatoio a cielo
aperto. Si
lamentavano monsignore e i suoi comandanti della scarsità di
cibo, di come non
si mangiasse pane da tre giorni e bevessero mosto invece di vino.
Hé, cosa
s’aspettavano? Il miracolo dei pani e pesci? In infermeria
Fra’ Anselmo doveva
litigare costantemente coi soldati italiani e francesi, i quali
tentavano ad
ogni occasione di rubare le razioni destinate ai loro commilitoni
ammalati. Scene
disgustose, invero, un’umanità alla sbando senza
Dio né morale, ecco l’unico
beneficio della guerra. I suoi occhi caddero sulle forche improvvisate,
penzolanti uniti nella morte disertori francesi e tedeschi e contadini
veneti,
ognuno colpevole del proprio crimine terreno e solo
l’Onnipotente conosceva
quale avrebbero esattamente espiato nell’Aldilà.
Il
benedettino si segnò tre volte, prendendo coraggio nel
Signore
che lo aiutasse a superare anche quella giornata; solo rientrando nel
suo
laboratorio e di sfuggita colse una figuretta biancovestita diretta
tutta di
corsa verso la stalla.
Quale
negozio doveva brigare un novizio lì?
Hironimo
si destò all’improvviso da un sonno inquieto,
sudato alla
stregua di Cristo nel Getsemani e colto da brividi compagni, la testa
dolorante
neanche gli avessero stretto un cerchio uncinato alle tempie.
L’escoriazione
allo zigomo gli pulsava aperta, rossa e gocciolante di umori similmente
al
taglio sul labbro inferiore, il quale gli tirava per via della
secchezza della
bocca invidiabile soltanto a quella della gola, manco avesse ingoiato
null’altro che polvere per tutta la notte. Aprendo
disorientato gli occhi
cisposi, per un istante il giovane Miani panicò nel non
riuscire più a muovere
le dita delle mani, temendo esser rimasto monco; allora si
sforzò di calmarsi,
di reclinare il collo indolenzito quel tanto per focalizzare quegli
arti
apparentemente inesistenti: mugugnò di sollievo nel
ritrovarsi tutte e dieci le
sue amiche, per quanto anchilosate in posizioni vagamente artigliformi.
Il
veneziano strinse i denti e, una ad una, s’obbligò
malgrado il
dolore da spilli d’ago sottopelle a piegare le dita,
stringendole forte a pugno
e così finché non poté di nuovo
muoverle agevolmente. Dopodiché lentamente si
pose in ginocchio, poi sollevò piano una gamba per alzarsi
in piedi, ignorando
le fitte ai muscoli intorpiditi a causa sia dalla contorta posizione in
cui
s’era addormentato sia delle contusioni provocategli dal Bua
al loro ultimo
“diverbio.” Maledizione, quel beota
l’aveva forse scambiato per una bistecca da
frollare?
E a
proposito di carne … un grugnito dolorosissimo e imperioso
gli
attanagliò le viscere, costringendo il giovane ad
indietreggiare fino ad
appoggiarsi di schiena al muro della stalla, la vista oscurata da
macchie
nero-giallastre: se all’inizio della sua prigionia aveva
sopportato la mancanza
di cibo, talvolta rifiutandolo a spregio, adesso tal digiuno forzato
incominciava a pesargli, esaurendo poco alla volta il suo corpo le
scorte di
grasso. Senza contare la disidratazione: tra un imbroglio e
l’altro, l’ultimo
liquido assunto era stata la zuppa.
I suoi
occhi, annebbiati e famelici, si posarono subitaneamente
cupidi sulle mammelle della vacca davanti a lui, la quale, manco ne
intuisse i
torbidi pensieri, si girò guardinga e muggì il
suo disappunto. Ora, cogitò
Hironimo, gli angoli della bocca umidi e gocciolanti di una saliva di
cui
neppure s’era accorto, ora il problema consisteva
nell’arrivare a quella fonte
di latte evitando d’affondare negli escrementi, aumentati
d’altezza nel corso
della notte. Fortunatamente, le catene gli consentivano
d’avvicinarsi senza
strattoni all’animale, il quale poi s’era portato
convenientemente vicino a lui
e così, in punta dei piedi brucianti per via del sangue che
ritornava a fluire pel
verso giusto, il patrizio si preparò ad improvvisarsi
mungitore e saziare fame
e sete. Sennonché, abbassandosi cauto per non spaventare la
mucca, dietro le
mammelle vide inaspettato il viso perplesso di Thomà.
“Cossa
feu, patron?”, domandò quegli, trattenendosi dal
ridere per
l’inusuale spettacolo di un gentiluomo in ginocchio tra
paglia ed escrementi
per mungere una vacca. Quand’ecco, che il luccichio birbante
svanì negli occhi
del fantolino, non appena s’accorse della pelle rossa, blu e
gialla del
veneziano. “Oh, patron! Cossa gh’avelo fato quel
tartaro a vu?”, s’informò in
un gemito, raggiungendolo immediatamente, la mano bloccata a
mezz’aria e indeciso
s’accarezzarlo o meno a mo’ di conforto.
“El
Bua”, tagliò corto Hironimo, “el me
gh’ha un fià spelucato.”
“Gheo
vedo”, fischiò Thomà, affatto convinto
del “un poco”, a
giudicare dalle vivaci ecchimosi sul corpo del patrizio, trasformato a
momenti
in una tavolozza di pittore.
“Tu
non dovevi startene in letto?”
“Mi
gero en leto et ghe tornarò.”
“Conciato
così?”, indicò il Miani
l’abito da novizio del piccino,
il quale, guardandoselo e accarezzandolo orgoglioso, gli
confidò furbo:
“Per
portarve qualchecossa da manzar e bevar, sença farme
desquèrzare (scoprire, ndr.) da frati e
franzosi!”, e dalla tasca del saio ancora
umido di lavanderia tirò fuori in maniera assai teatrale un
salame morbido e
una piccola borraccia di cuoio, ambedue rubati molto probabilmente uno
dalla
cambusa dei monaci e l’altra da qualche soldato in
infermeria. “Salàdo e mosto
per vossioria, la resti servida”, ridacchiò
compiaciuto della sua abilità.
In altre
circostanze, il giovane patrizio avrebbe rampognato Thomà
per quel suo irrefrenabile vizietto di ladro, sennonché la
fame l’aveva a tal
punto intontito da spingerlo ad allungare avido la mano, facendogli
cenno di
cedergli il malloppo e pure in fretta. “Bravo, bravissimo!
Quest’è parlar da
zentilhomo!”, lodò il fantolino, mentre
abbandonando ogni pensiero affondava i
denti sull’unta carne speziata, senza neppure premurarsi di
spelarla dal budello.
E gli dispiaceva di farsi vedere così poco galante,
divorando a grandi morsi e
masticando e deglutendo rumorosamente, ingollando il mosto a grosse
sorsate.
Thomà
nel frattanto gli s’era accovacciato davanti, fissandolo
sorridente e soddisfatto, le guance appoggiate sui pugni.
“Xélo bon, an?”, gli
chiese e malgrado l’assenza di malizia, quella domanda
risvegliò la coscienza
d’Hironimo, che tosto lo ghermì per i capelli,
tirandoli fino a rinsavirlo da
quella sua fame bestiale.
Ingoiato
l’ultimo boccone, il Miani si pulì col dorso della
mano
le labbra, leccando via ogni rimasuglio di carne tra le dita.
“Toga qua e magna
anca ti, ché te sè picenin e te gh’ha
da créssar!” gli cedette la metà ancora
intatta del salame, lamentando d’aver purtroppo svuotato la
boraccia; tuttavia
trovar da bere sarebbe stato più facile per il fantolino,
anche in tempi di
carestia un sorso d’acqua i monaci non lo negavano.
Le
pupille di Thomà si dilatarono predatrici e così
pure le nari,
vibrando il suo corpo intero d’aspettativa tanto che Hironimo
rise mentalmente,
associandolo al gatto di casa prima di balzare sul sorcio.
“Mmmh-mmmmh, che
pretioso!”, commentò il fantolino paciolando a
bocca piena e neppure in quel
frangente il patrizio ebbe cuore di rimproveralo, intenerito
dall’espressione
di pura goduria sul volto da convalescente del piccino.
Hironimo
lo condusse a sé, abbracciandolo forte e stringendolo al
petto, annusando a pieni polmoni l’odore di erbe, sapone,
sudore e paglia
impregnati sui capelli e la figuretta magrolina di Thomà, il
quale, reclinando
leggermente il capo, bofonchiò la sua perplessità:
“Patron,
cossa gh’aveu?”, non che se ne dolesse,
tutt’altro:
chissà perché, ma i rari abbracci del castellano
gli ricordavano quelli della
sua mamma ed egli ammise che non poteva riceverne abbastanza,
desiderandone
sempre di più.
“Gnente,
gnente: magna e tasi”, lo rimbeccò privo di fuoco
Hironimo, appoggiando la guancia sulla testolina del ruminante bambino,
rivangando la sua memoria le frasi terribili di Mercurio Bua.
Che mi
vuoi dimostrare? Quanto sei nobile e coraggioso pigliandoti a cuore la
sorte
della vedova e dell’orfanello? Sei un ipocrita e mi disgusti!
Sì,
all’inizio forse era stato così: salvando
Thomà, l’ultimo
rimasto della sua guarnigione, Hironimo aveva sperato di redimersi, di
mitigare
il suo totale fallimento come castellano e capitano. Adesso invece
stava
realizzando che di quello gl’importava sempre di meno;
d’altronde, quanti
insuccessi peggiori del suo avevano commesso condottieri di
più vasta esperienza
e fama? Finché restava in vita e respirava, Hironimo poteva
ancora rimediare a
quella sua magra figura, poteva ancora trovare il modo di vendicare il
suo
onore e farla pagare con tutti gli interessi al nemico – omo morto no’ fa guera [1] e
lui era vivo e ben intenzionato a
darla.
No.
Lui
lottava per la sopravvivenza di Thomà perché era
giusto così. I
bambini non dovevano pagare per le ambizioni e le malefatte degli
adulti, che
al contrario dovevano proteggerli e fornir loro un degno esempio di
vita da
seguire. Al momento il giovane Miani non poteva offrire
null’altro in
riparazione al torto fatto al piccino, tranne quello di condurlo sano e
salvo a
Treviso e lì adoprarsi acciocché sopravvivesse a
quella guerra, offrendogli
l’opportunità di ricostruirsi tutto ciò
che gli era stato crudelmente
sottratto. Forse poteva usare le sue conoscenze a Venezia per mandarlo
a
bottega presso qualche maestro d’ascia in uno dei numerosi
squeri (neanche
avrebbe sofferto la nostalgia delle sue montagne, gli squerarioli
provenivano
tutti o quasi dalle bande di Thomà) o presso qualche
falegname … forse …
Azzarda
un’altra miracolosa fuga e ti sgozzo il marmocchio, lavandoti
la faccia col suo
sangue. Hai inteso? È l’ultimo mio avvertimento!
Hironimo
serrò la sua presa sulle spalle esili del fantolino:
avrebbe cavato personalmente gli occhi al greco-albanese, se si fosse
azzardato
anche soltanto a torcergli un capello. Non temeva per sé,
non temeva di nulla,
poteva benissimo sopportare qualsiasi tormento da parte del Bua, se
poteva
ergersi a scudo umano tra lui e il bambino.
“Come
ti senti?”
“Mejo,
patron.”
“La
febbre?”
“Nola
gh’ho pì”, schioccò
Thomà le labbra, finalmente satollo.
“Perhò
vuj seti tutto on bójo (bollore, ndr.)!”,
rimarcò preoccupato.
“Non
pensare a me. Invece, fila in letto prima che il frate
s’accorga della tua assenza e te ciapi per le
orecchie!”, liquidò Hironimo
sbrigativamente le ansie del fantolino, sciogliendolo
dall’abbraccio e
spronandolo a rimettersi in piedi tramite giocose pacche sul sedere.
“Fe’
attention, patron. No ve vojo morto anca vu!”, gli
confessò
triste il bambino, rassettandosi la cottola del saio.
Il
giovane Miani gli sorrise temerario. “Manco se mi
sguinzagliassero contro tutti i diavoli dell’inferno,
riuscirebbero ad
uccidermi! Dèsso pussa via, sennò ti cattura il
castigamatti!” , lo spronò ed
in un battibaleno Thomà sgusciava da una finestrella della
stalla, giusto in
tempo prima che la porta s’aprisse. E a giudicare dal rumore
ferroso degli
speroni, non doveva certo trattarsi del monaco venuto per la mungitura.
Un
possente colpo di tosse catarrosa tradì
l’identità del nuovo
arrivato e Hironimo abbassò le spalle, rilassando la
postura. “Mal trovato al
chiarore dell’aurora, signor conte di Gambara!”, lo
salutò ad alta voce,
acciocché lo potesse localizzare dietro i robusti corpi
delle mucche.
Il nobile
bresciano si bloccò, impietrito, guardandosi sospettoso
intorno alla stregua d’un ladro colto sul fatto dal trionfo e
incavolato
padrone. Non scorgendo alcuno e riconoscendo l’accento dopo
aver respirato a
fondo per ben tre volte, l’uomo si diresse infine nel
là dove intuiva trovarsi
il vero mandante di quel saluto. “Sempre orgoglioso, messer
Girolamo, anche
nella merda”, ricambiò sardonico, evitando in un
buffo balletto di lordarsi pure
lui fino alle caviglie.
Hironimo
gli sorrise vezzoso. “Almeno questa è fisica e si
lava
via, mica come quella morale vostra!”
Il conte
Gianfrancesco di Gambara strinse la bocca in una linea
dura, rendendogli il volto pallidissimo doppiamente patito: a
confronto, il pur
strapazzato patrizio sprizzava di salute da tutti i pori. Le occhiaie
profonde
e scure cozzavano col rossore liquido degli occhi; la pelle tirata
acquistava
cadaun momento un crescente livore da cadavere, lucente di sudore
freddo del
febbricitante cronico. Le gote, ironicamente, brillavano d’un
malaticcio
rossore ed Hironimo s’allontanò inconsciamente da
lui, riconoscendo nel Gambara
il viso di chi, oltre a catarro, tra poco avrebbe incominciato a sputar
sangue.
“Poche
parole”, venne al dunque il conte, conscio del poco tempo a
disposizione per conferire col prigioniero, prima che uno degli sgherri
del
greco-albanese s’accorgesse della sua presenza o venisse a
controllare. “Che
cosa voleva sapere il Bua da voi?”
“Con
quanta gente qui all’Abbazia l’ho
tradito.”
“Piaghe
di Cristo, vi paiono tempo e luogo adatti a tali scherzi?”,
sibilò frustrato il bresciano, il pugno stretto
convulsamente. Possibile che
non si potesse conversare in maniera civile con quel dannato veneziano?
Invece
… “E chi scherza?”, ribatté
tagliente Hironimo, aggrottando
serio e pragmatico la fronte. “Voi potete giocare allo
scettico quanto vi pare,
ma ora come ora il Bua sguazza nel sospetto del geloso: non si fida di
nessuno
e scorge nemici ovunque. Crede che tra noi due ci sia una sorta di
diabolica
alleanza a suo danno. Teme specialmente di voi, della vostra
incostanza”, gli
riassunse brevemente la situazione, confidando nella coscienza sporca
del
conte, giacché soltanto chi aveva qualcosa da nascondere
poteva preoccuparsi
così tanto dei vaneggiamenti di un condottiero vittima di
manie di
persecuzione. “Ha ragione?”, insistette il giovane
Miani; doveva accettarsi ad
ogni costo della posizione del Gambara in quel gran bailamme: amico o
nemico o
approfittatore geloso del Bua. “E’
vero?”, l’incalzò, malgrado
l’eloquente
silenzio del bresciano, il quale tradiva una disponibilità
nei suoi confronti
davvero ghiotta.
Il conte
Gianfrancesco abbassò contrito il capo, per poi levare di
nuovo lo sguardo leggermente sfocato dalla malattia, pesando accorto
ogni
parola onde non compromettersi eccessivamente. “Si parla di
rientrare a
Milano”, disse infine, provocando una mezza sincope nel
giovane, che di fatti
sbrodolò genuinamente agitato:
“C-cosa?!”
“Potete
ben intuire cosa comporterebbe per voi: la deportazione,
forse perfino in Francia se il Re decidesse di togliervi al Bua per
aggiungervi
alla sua collezione di prigionieri illustri”,
seguitò imperterrito il Gambara
pur senza alcuna malizia nella sua voce, anzi, delucidandogli in
maniera
piuttosto distaccata quale destino attendeva Hironimo, avesse La Palice
deciso
di rinunciare all’impresa di Treviso e di ritirarsi in
Lombardia in attesa di
un’occasione più propizia.
Lo
stomaco del veneziano sobbalzò dolorosamente, montandogli la
nausea al punto di rigettare la previa colazione. Teoricamente,
Mercurio Bua
serviva l’Imperatore e quindi Hironimo era prigioniero dei
tedeschi. Tuttavia,
grazie alla recente diserzione di quest’ultimi, La Palice
poteva benissimo
rivendicarlo come suo prigioniero a mo’ di risarcimento dei
danni subiti, visto
che, alla fine, a pagare la spedizione rimaneva comunque il Re di
Francia e non
quello dei Romani.
La
deportazione! Se fosse finito in Alemagna, ancora qualche
possibilità di ritornare a Venezia ce l’aveva, ma
in Francia? Ripensò
immediatamente al suo amico Piero Contarini a suo padre
l’ambasciatore sier
Zacharia, già al loro secondo anno da ostaggi; conoscendo la
possessività di
Louis XII sui suoi prigionieri, il Miani avrebbe fatto prima a
rimpatriare in
bara che sui suoi piedi.
“Al
momento mi è difficile avvertire direttamente i miei
contatti
a Venezia: avete forse qualcheduno a Treviso che possa fare da
tramite?”,
continuò in fretta il conte, abbassando significativamente
il tono di voce.
Hironimo
sbatté confuso le ciglia. “Mio fratello Marco
è alla sua
custodia”, disse, paventando d’illudersi in false
speranze: troppo conveniente
per sembrare vera quella partigianeria da parte del Gambara. Dove
voleva andare
a parare? Che si trattasse di un elaborato piano del Bua per
tormentarlo? S’era
così, il greco-albanese doveva darsi alla carriera teatrale,
ché la sua collera
e sospetto non gli erano parsi così recitati …
“Sta
bene. Gli farò sapere che siete qui a Nervesa, che siete
vivo
e in … discrete condizioni.”
“Perché
dovrei fidarmi di voi? Come avete tradito la Signoria,
potreste tradire anche me!”, vociò infine il
patrizio il dubbio, che da sempre
l’attanagliava ogniqualvolta si rapportava col nobile
bresciano.
“Perché?”,
ripeté esitante l’uomo.
“Perché potrei essere l’unica
speranza che avete per fuggire via da qui”, ammise sottovoce.
“Spero di
sbagliarmi, ma ho come l’impressione che il Bua non
chiederà per voi alcun
riscatto. Non vi pare strano? Subito ha riscosso la taglia per i
capitani
Doglioni e Colle, mentre voi siete suo ostaggio da quasi tre settimane
e non
una parola dalla Signoria.”
“Può
darsi … può darsi che la Signoria mi giudichi
morto assieme
agli altri soldati di Castelnuovo di Quero”, tentò
disperatamente Hironimo di
smontare quell’orrida teoria. “Può darsi
che il Bua abbia indicato una cifra
troppo alta e che pertanto stiano negoziando!”
“Ignoro
come esattamente stiano gestendo a Venezia le trattative
per il vostro rilascio”, scosse il capo il conte,
indietreggiando verso
l’uscita della stalla. “Però conosco
abbastanza bene Mercurio Bua e non è tipo
da tirarsi indietro dinanzi ad un facile guadagno. Quali progetti egli
abbia su
di voi, da tardare di così tanto la richiesta di riscatto,
al momento mi
restano oscuri”, concluse sbrigativamente il discorso,
uscendo veloce dallo
stanzone e abbandonando Hironimo all’angoscia per il suo
futuro.
Un
ringhio rabbioso riecheggiò tra le mura della stalla.
Cancaro
maledetto! Come
sarebbe stato a dire, che non avrebbe richiesto alcun riscatto? Per
quale
motivo? A quali “progetti” si stava riferendo il
Gambara? Ché figurarsi se
Hironimo se la beveva quella grossa, grassa balla colossale che lui non
sapeva
niente! Non aveva mica intenzione quel satanasso di tenerselo stretto a
mo’ di
scudo umano e garanzia per l’intera durata della guerra?
Piuttosto gli
strappava a morsi il pomo d’Adamo, piuttosto di tollerare
all’infinito una
prigionia così umiliante – in catene alla stregua
d’un criminale o uno schiavo,
sporco, scalzo, a gambe nude, in camicia e affamato. Se soltanto
l’avesse
liberato dai ceppi e affrontato alla pari da gentiluomo, altro che
pugni! Il
Miani gli avrebbe aperto la pancia e costretto a mangiarsi le sue
merdose
budella! Gli avrebbe …
Calma!
Calma …
Hironimo
prese un profondo respiro, chiudendo gli occhi e
imponendosi di raffreddare i propri bollenti umori maligni. La collera
non lo
portava da nessuna parte, se non a percosse certe. Inutile invocare
galanteria
nei briganti: sprecata con tal feccia, bisognava sfruttare la furberia
del
disonesto. Nonostante il suo rango, Hironimo rimaneva comunque un
prigioniero e
non stava scritto da nessuna parte che Mercurio Bua dovesse restituirlo
intero
o in buona salute – gli bastava ricordare i racconti laddove
si descrivevano le
terribili e penose condizioni in cui era rimpatriato il povero sier
Zorzi
Corner, bisnonno dei suoi cugini alla lontana, dopo sette anni di
prigionie e
torture a Milano per mano di quel pazzo furioso di Filippo Maria
Visconti.
Doveva
apparirgli docile, disperato, distrutto. Così il Bua
avrebbe abbassato la guardia e, alla prima occasione, Hironimo sarebbe
scappato
via con Thomà alla faccia di quel bastardo mascalzone
malnato.
***
Francesco
Rangoni saliva trasognato la rampa di scaloni che
l’avrebbe condotto assieme ai suoi fratelli al secondo piano
di Palazzo Ducale,
quello riservato alle sale del Collegio e del Senato. Guido e Ludovico
avanzavano più composti (sebbene il capofamiglia mostrasse
un viso leggermente
teso) forse perché già familiari e a loro agio in
quell’ambiente così solenne e
testimone di tutta la storia veneziana, grazie al miscuglio di stili
architettonici e decorativi succedutisi nel corso dei secoli, dal
bizantino, al
gotico, al classico-rinascimentale. Ovunque un tripudio di marmi,
pietra
d’Istria, legni pregiati, ori, smalti, affreschi, arazzi, il
ragazzo non
riusciva a concepire tanta ricchezza concentrata in un sol luogo.
Ripensò al
loro palazzo a Modena e a San Sismondo a Bologna: accidenti, a
confronto gli
pareva esser cresciuto in una stamberga! Perfino la loro nuova casa a
Ca’
Contarini a San Paternian impallidiva.
“Adesso
capisco perché vogliono tutti spartirsi la Signoria: qui
l’aria istessa profuma d’oro!”,
sussurrò Francesco a suo fratello Ludovico, che
rapido lo zittì, rampognandolo aspro per la sua sventata
mancanza di tatto.
Fortunatamente, sier Ferigo Contarini, che li accompagnava, era troppo
impegnato
a discutere con Guido, Agustin da Brignano Gera d’Adda e Julio Manfron figlio del
condottiero Zuam
Paulo per accorgersi della piccola scenetta.
Il
gruppetto entrò infine nell’imponente Sala del
Collegio,
illuminato dalle altissime finestre del secondo piano nobile, le cui
proporzioni allungate di stile gotico fiorito ricordavano moltissimo
quelle che
Francesco aveva di sfuggita ammirato nel secondo ordine della Scuola di
San
Marco. Il giovane modenese si sentì un poco intimorito,
stringendosi inconsciamente
a Ludovico mentre lisciava nervoso le pieghe invisibili del suo zipone,
sentendosi d’un tratto svestito e vulnerabile senza i rigidi
e pesanti strati
della sua armatura. Guido, dal canto suo, avanzò
apparentemente ineffabile
verso i Pregadi dalle veste scarlatte, che lì li attendevano
coi loro tipici
sorrisi di sfinge sui volti attenti e scrutatori. Che
strano, pensava invece sier Ferigo, notando i principali
scranni vuoti, mancano Sua
Serenità e il Minor Consiglio …
Un
cancelliere, comparendogli in punta dei piedi alle spalle, gli
sussurrò discretamente qualcosa all’orecchio,
invitandolo a seguirlo senza
attirare su di sé l’attenzione. Il che non fu
difficile, avendo iniziato i
Pregadi un discorso preparatorio in attesa della Signoria, il completo
interesse degli ospiti concentrato su di loro.
Fuori
dalla sala, in un angolo ascoso, il giovane provveditore si
meravigliò di trovare ad attenderlo sier Batista Morexini
“da Lisbona”, il
quale, ringraziato il segretario, lo istruì di raggiungere
il Serenissimo e gli
altri consiglieri onde annunciarli l’imminente arrivo del
Contarini. La vesta
ducale color pavonazzo risaltava il pallore nel viso, tipico di chi da
giorni
faceva le ore piccole, una stanchezza a malapena mitigata dalla stola
di
broccato d’oro e il chiaro dello zibellino che
s’intravedeva dalle maniche
larghe e aperte.
Confortante
apprendere come anche i senatori condividessero
l’insonnia dei provveditori di campo.
“Non
sono degno di cotanto onore, sier consier”,
mormorò piano sier
Ferigo al consigliere ducale, il quale con nonchalance gli
s’era accodato e gli
camminava accanto, evitando ambedue di guardarsi in faccia mentre
discorrevano.
“Da quando in qua un consigliere scorta un semplice
provveditore?”
“Consideratevi
soltanto un bravo giovine, ch’aiuta un povero
vecchio a camminare e che gli tiene un po’ di compagnia
mentre prende una
boccata d’aria fresca”, ribatté serafico
il Morexini. Ad arte era riuscito a
coordinare quel fuggevole colloquio privato col Contarini prima di
quello
ufficiale col Doge e il Minor Consiglio, non appena l’anziano
patrizio aveva
appreso di come il provveditore avrebbe accompagnato i fratelli Rangoni
e gli altri
condottieri a Palazzo Ducale. Poco tempo per parole veloci,
giacché conscio del
loro immediato ritorno a Padova a seduta terminata.
D’altronde, neanche il “da
Lisbona” poteva intrattenersi troppo a lungo col giovane
senza destar sospetti.
“Donca?
Cossa comandela la Signoria de mi?”
“An,
non vi voglio rovinare mica la sorpresa!”
Vecchio
volpone sibillino. “Cosa vogliono i Pregai dal domino Guido
Rangon?”, cambiò discorso sier Ferigo, un poco
seccato da quell’esprimersi ad
enigmi.
“I
condottieri sono come le puttane: gran sbaglio affezionarsi a
loro!”, ridacchiò cinico il consigliere, spiando
di sottecchi il rossore sulle
gote dello stoico provveditore. “State di buona voglia, il
vostro conte
modenese in questo momento è coccolato e lodato dai Pregai,
per la sua
partecipazione attiva e gagliarda a Marostega e a Castel Francho. Gli
staranno
di sicuro comunicando, come abbiano intenzione d’assegnargli
75 degli uomini
d’arme della compagnia del fu Governatore
Generale”, spiegò succinto sier
Batista a sier Ferigo la decisione dei Pregadi, ossia di dividere e
ridistribuire l’orfana compagnia di Lucio Malvezzi ai
comandanti più
meritevoli, tra cui appunto il Rangoni e i suoi fratelli, a
quest’ultimi
spettanti cinquanta soldati da gestire personalmente tra quei
settantacinque
ereditati dal fu genero del fu Roberto Sanseverino.
“Non
m’en cale un fico seco del Rangon e della sua masnada;
è che
mi scoccerebbe perdere proprio ora un valente condottiero!”,
berciò stizzito il
patrizio più giovane, fissando ostinato il viavai di gente
sul cortile esterno
del Palazzo.
Il
Morexini sogghignò indulgente.
“Ed
io? Da me cosa vogliono i Pregai? La Signoria? Il Principe?”,
insistette testardo sier Ferigo, sul serio non comprendendo
l’assenza del Doge
e dei suoi consiglieri alla seduta: cosa dovevano comunicargli di tanto
importante, da trarlo in disparte e ritardare il loro arrivo nella Sala
del
Collegio? E perché il “da Lisbona” gli
stava facendo fare il giro più lungo per
raggiungerli?
“Abbiamo
ragionato a lungo coi provveditori sier Polo e sier
Christofal: quando voi e il conte ritornerete a Padoa,
v’unirete ai 1500
cavalleggeri di domino Meleagro da Forlì alla volta di
Trevixo per disturbare i
Francesi rimasti al di qua della Piave. Senza i Tedeschi a coprir loro
le
spalle, il campo nemico è divenuto più
vulnerabile e può essere che, credendosi
in inferiorità numerica, decidano di abbandonare
l’impresa.”
Il
Contarini strabuzzò gli occhi, disorientato. “1500
cavalleggeri
a Trevixo?”
“Sì”,
confermò il consigliere ducale. “Già
oggi sono partiti 200
stradioti al comando di domino Thodaro Paleologo …”
“Non
soltanto per la custodia Trevixo, ma anche per la liberazione
di Noal, Citadela, Bassam ed Asolo”, concluse il provveditore
degli stradioti,
afferrando al volo la strategia camuffata abilmente dietro un semplice
spostamento di truppe. “Volete far terra bruciata attorno a
La Peliza,
isolandolo da ogni possibile soccorso esterno.”
Sier
Batista lo fissò di sbieco, compiaciuto dell’acume
militare
del giovane, rimanendo tuttavia in silenzio.
La
Signoria in effetti stava accarezzando il progetto d’isolare
ad
ovest La Palice, impedendo ogni ricongiungimento delle sue truppe con
quelle
dei Gonzaga di Bozzolo e Treviso diveniva di conseguenza il trampolino
perfetto
per un attacco a sorpresa. Contemporaneamente, la Signoria si stava
arrovellando sull’elaborazione di un rapido piano di difesa
di Sacile, Oderzo,
Pordenone, Marano, Portogruaro, Gradisca e Udine: analizzati e
commentati i
rapporti da parte dei loro podestà, capitani, castellani e
nobili locali, si
preparava a ricevere a breve gli oratori delle città
friulane per accogliere
eventuali richieste ed istruirli sul da farsi. Si lavorava a ritmo
frenetico,
serrato, l’ultima seduta terminata quasi alle ore 8 di notte
(le due, ndr.)
Naturale,
quindi, che sier Batista agli occhi del Contarini
apparisse così stanco e provato: tali strapazzi i giovani li
reggevano meglio e
la primavera da tempo aveva abbandonato il corpo del patrizio. Si
poteva ben
affermare come il consigliere ducale vivesse ormai a Palazzo,
alternando alle
sedute brevi visite a Ca’ Morexini giusto per cambiarsi di
camicia e
dormicchiare qualche oretta o alle stue per levarsi l’umido
dalle ossa,
talvolta in compagnia dei nipoti e del primogenito Carlo,
l’unico dei suoi figli,
dopo la partenza di Piero alla volta di Cipro per raggiungere il suo
fratellastro Andrea ad Aleppo presso il Sofì [2], con cui
sier Batista
riuscisse a rapportarsi serenamente e ad intavolare una conversazione
civile.
“Non
capisco”, esclamò infine sier Ferigo, fermandosi
improvvisamente. “Ciò che mi state riferendo sono
cose, che potrei benissimo
apprendere da una qualsiasi seduta dei Pregai o della Signoria.
Perché dunque
volete conferire meco da solo?” Fin dall’inizio
aveva giudicato bizzarro che un
consigliere ducale si scomodasse per lui, accompagnandolo di persona
dai suoi
colleghi e il Doge quando un qualsiasi cancelliere poteva bastare.
Anche la
scelta della strada, la più lunga. Ora, il Contarini non
sarà stato pratico dei
giochi di politica però quelli della guerra sì;
di conseguenza riconosceva bene
la tattica di chi stava temporeggiando.
Il
Morexini si voltò enfaticamente verso di lui, guardandolo
per
la prima volta dritto negli occhi. “A Nervesa”,
sussurrò grave, “il mio nezzo è
prigioniero del capitano Mercurio Bua ed io lo voglio libero, qui, a
Veniexia!”
“La
sua famiglia non ha che da pagare la taglia! O la Signoria
accordare uno scambio!”, replicò spiccio sier
Ferigo, calcolando mentalmente il
tempo di cattura dell’amico suo Marco
Contarini. I riscatti
purtroppo non si risolvevano mai tanto velocemente, affari penosissimi,
curiosa
quindi l’ansietà del consigliere per la sorte del
nipote.
“Il
Bua non ha avanzato alcuna richiesta, né di riscatto
né di uno
scambio tra … prigionieri.”
Questa
neppure il provveditore se l’aspettava. “Cossa?
Chome mai?”,
inquisì confuso e un pelino incuriosito da tal comportamento
stravagante; in
tempi di guerra, ogni singolo ducato diveniva motivo d’accese
discussioni.
Infatti, quando non impegnato a combattere, il Contarini doveva
baccagliare
continuamente contro i comandanti stradioti per questioni di paga.
“Il
Bua ha intenzione di scambiare il mio nezzo con la sua mojer
madona Catharina, però né lei né la
Signoria vogliono venirgli incontro. Di
conseguenza, traete voi le ovvie conclusioni”,
condensò sier Batista quanto
appreso sia dal cavaliere Dimitri Spandolin oratore improvvisato presso
Caterina Boccali Bua, sia dalla Signoria medesima, la quale confidava
di poter
liberare ugualmente suo nipote senza bruciarsi la carta della moglie
del
condottiero greco-albanese.
“Ma
che vantajo ghalelo da tegnirlo senpre seco, s’el no polelo
scambiar?”
“Co’
el Bua gh’ha tolto na decision, xé quea. La mojer
o nissun. Pertanto
non posso escludere la possibilità che il mio nezzo rimanga
suo prigioniero per
l’intera durata della guerra, se il Griego non si stufa
prima, ammazzandolo. E
questo, se Missier Domeneddio no me tuol el zervelo, non
permetterò ch’accada”,
ribadì determinato sier Batista: per amor della sua
sorellastra Leonora e sul
cadavere di suo cognato Anzolo, aveva giurato che finché il
Padreterno gli
avesse concesso salute e mezzi, si sarebbe preso cura dei suoi nipoti
orfani,
proteggendoli da ogni male. Già aveva ottenuto con successo
il rilascio di Lucha
l’anno addietro; non avrebbe fallito certamente con Hironimo,
affatto
intimidito dalla testardaggine del capitano di ventura.
La
Signoria aveva d’altronde espresso la sua irremovibile
sentenza: giammai Mercurio Bua avrebbe riottenuto indietro sua moglie e
se lui non
s’accontentava dei soldi, hé, incominciasse a
considerarsi vedovo seppur
marito.
“La
Signoria mi vuole inviare a Trevixo, ma voi? Cossa voleu de
mi?”, andò dritto al punto sier Ferigo,
comprendendo ora il piano di fondo.
“Al
Montelo i nostri stradioti e contadini fedeli già stanno
danneggiando i francesi in imboscate, bruciando ogni burchio e zattera.
Se vi
riesce, sfruttando il marasma da loro creato, vi chiedo di liberare il
mio
nezzo.”
“Un’impresa
non da poco”, commentò pragmatico il Contarini,
delineando
mentalmente un’ipotetica disposizione del campo e del modus
operandi del
nemico: sicuramente, un prigioniero così importante il Bua
doveva tenerselo
molto stretto, onde impedirgli la fuga o un tentativo di liberazione in
agguati
e scorribande notturne. “Tuttavia Momolo è mio amico e lontano parente e non
lascerò nulla
d’intentato, acciocché non venga deportato
né in Francia né in Alemagna”,
dichiarò infine la sua disponibilità e il
“da Lisbona” emise un lungo sospiro
di sollievo, non accorgendosi di non aver respirato per qualche istante.
“Appunto
poiché quest’impresa si presenta complessa, che la
Signoria vuole affidarvela. Grazie rapporti di sier Zuam Paulo si
è elaborato
un piano non malvagio ai danni del nemico, il quale però ha
da rimanere segreto
fino alla sua approvazione”, l’avvertì
sier Batista, indicandogli attraverso un
ampio gesto del braccio di precederlo e d’entrare nella sala,
dove il
Serenissimo e il Minor Consiglio l’attendevano.
Si
trattò di un colloquio brevissimo, anche per non imbarazzare
troppo i Pregadi e gli ospiti della loro assenza, i quali, se
già prima si
sentivano onorati dai calorosi elogi da parte dei senatori, credettero
d’avvampare di gioia nel venir ricevuti dal Doge in persona.
A seduta
terminata, sul burchio diretto a Padova, sier Ferigo
rimuginava in silenzio ambedue i discorsi tenuti quella mattina, sia
col
Morexini che con la Signoria. Sordo agli entusiasti commenti di
Ludovico e
Francesco per i complimenti e gli uomini d’arme ricevuti,
mitigati dalle più
pratiche osservazioni di Guido, il giovane provveditore pianificava il
modo di
pigliare due piccioni con una fava, di soddisfare la richiesta del
consigliere
ducale e della Signoria. Sier Zuam Paulo Gradenigo non avrebbe avuto
nulla da
obiettare, se gli avesse domandando il permesso di tendere qualche
imboscata ai
francesi. L’unico problema rimaneva comunque la
responsabilità ch’egli aveva
verso i suoi stradioti: non poteva certo sacrificarli in
un’operazione
avventata e senza profitto, nossignore. L’Abbazia di Nervesa
sier Ferigo se la
ricordava, in cima ad una collina, una fortezza quasi, molto difficile
da
espugnare senza essere avvistati. Pertanto, finché il Bua vi
rimaneva arroccato
dentro, gli sarebbe stato impossibile liberare Hironimo.
Allo
stesso tempo, il condottiero non poteva rimanersene rintanato
lì per sempre, prima o poi doveva uscire da Nervesa, o per
attaccare Treviso o
per ritornarsene a Milano.
Ed era
esattamente lì che il Contarini l’avrebbe
aspettato.
***
“Aux
armes! Aux armes! Arme! Arme!”
Hironimo
scattò seduto dal suo giaciglio di paglia e ruvida ma
calda pelle di vacca, il cuore in gola e guardandosi esagitato attorno
a lui,
sebbene invano: nulla si muoveva nella buia stalla, cozzando col
cacofonico
pandemonio di urla e nitriti di cavalli proveniente da fuori e il cui
eco aveva
persino innervosito le solitamente placide mucche.
Cosa
stava succedendo? Un incendio? Un attacco?
Di
riflesso il giovane patrizio si rialzò, pompandogli il
sangue
esultante nelle vene. Sì! I francesi stavano gridando dalla
paura, qualcuno
doveva aver disturbato il loro dannato sonno intrufolandosi
nell’accampamento e
creando scompiglio! Se non proprio dato battaglia notturna!
Il Miani
non perse tempo e subito appoggiò il piede contro la
parete, tirando e strattonando nella speranza di spezzare la catena e
al
contempo torcendo e graffiando i polsi per sfilarsi le manette. Doveva
innanzitutto liberarsi; poi correre in infermeria e pigliarsi
Thomà - non
fosse mai scambiato per un paggio
francese; dopodiché si sarebbe portato ben fuori dal
combattimento, in attesa
di farsi riconoscere in un secondo tempo, non finisse lui
infilzato per sbaglio.
“Porc’eva,
porc’eva, porc’eva, porco juda, porco juda, porco
juda,
maladeto, smovate! …”
O
l’umidità o la cattiva manutenzione, in ogni modo
il chiodo, che
teneva fisso il cerchio in cui la sua catena era stata stretta, pian
pianino
prese a sfilarsi dal suo buco. Ancora qualche strattone e finalmente
sarebbe
stato …
La porta
della stalla si spalancò violentemente, illuminata
dall’ansioso
svolazzare di torce.
…
fregato.
Hironimo
si morse la lingua per non imprecare fino ad abbattere
l’Abbazia a suon di sacramenti, non appena udì la
voce di Mercurio Bua: “Eccoti
qua, meno male che sei già bello sveglio, mi sarebbe seccato
doverti dare il
bacino del buongiorno!”
Contravvenendo
al suo piano, Hironimo strillò frustrato: “E chi
te
l’ha chiesto! Piuttosto, cos’è sta
cagnara qui fuori?”
Il
greco-albanese non gli rispose, concentrato spazientito ad
aprire il lucchetto della catena stretta attorno al cerchio.
“Quando saremo
nella mia cella in foresteria, ti dirò tutto”,
tagliò corto, issandoselo sulle
spalle e istruendo Zilio Madalo e Leka Busicchio di coprirli mentre
avanzavano
nella sicurezza dell’Abbazia.
A testa
ingiù, il patrizio osservava confuso l’intenso e
sconclusionato viavai di soldati mezzi svestiti e con le armi in pugno,
i quali
occupavano disordinatamente i punti strategici del complesso abbaziale.
Quelli
al portone d’ingresso principale tentavano a gran fatica di
trattenere altra
gente altrettanto semidiscinta, che a spintoni, pugni e morsi e
randellate di
pietre in testa si facevano prepotentemente strada oltre o dentro di
esso,
creando un ingorgo di corpi spintonati in direzioni diverse e
contrarie. Alcuni,
vestiti alla tedesca, si rotolavano coi francesi ed Hironimo
catturò il
luccichio dei loro pugnali e i rantoli dei feriti.
“Les
Allemands! I
Tedeschi c’assassinano! Ils nous vont tuer! Aux armes! Aux
armes!”
“Les
Vénitiens!”
“Les
Allemands!”
Ma
che … ?
“Dentro!
Dentro l’Abbazia! Chiudete il portone, dentro!”
Il
veneziano, facendo leva sulle spalle del Bua, prese a
picchiettargli la schiena onde catturare la sua attenzione,
sovvenendosi di
Thomà, solo in infermeria e difeso da soldati moribondi e
qualche monaco.
“Dopo!”,
gli ringhiò dietro Mercurio, intanto ch’estraeva
la sua
spada per farsi largo tra un gruppetto talmente compatto da non
riconoscersi a
vicenda, se amici o nemici. “L’allarme! Date
l’allarme! Qualcuno con un po’ di
coglioni salga su quel cazzo di campanile e suoni quella fottuta
campana! Date
l’allarme, perdio, razza di femmine incapaci!”
Il
selciato prese lievemente a tremare, seguito dal rumore di
legno sfondato: i cavalli degli stradioti e saccomanni, spaventati da
quel
baccano infernale, erano fuggiti dalle loro stalle sforzando una via di
fuga.
“I
cavalli! Riportateli dentro! Chi se ne frega dei prigionieri,
lasciateli scappare! I cavalli, maledizione, quelli vi crocifiggo uno
ad uno
come San Pietro se me li perdete!”, sbraitò il
greco-albanese, respingendo
l’ultimo avversario con un poderoso calcio per
però finir a sua volta
spintonato dentro la basilica, inciampando all’indietro in
un’inversa proskynesis
greca, mentre Zilio e Leka sbarravano sbuffando il pesante portone,
finalmente
al sicuro.
“Avanti,
in piedi!”, intimò Mercurio ad un inebetito
Hironimo
ch’era finito come lui per terra sul duro e gelido pavimento,
sbattendoci però la
fronte come i penitenti del Venerdì Santo.
“Cammina!”, lo issò in piedi e lo
spinse in avanti, peccato che il giovane vedesse doppio e pure gli
venisse da
vomitare. “Agios Georgios, sei più delicato delle
tette di una monaca!” [3],
sbuffò snervato il capitano stradiota, per poi spalancare
gli occhi timoroso e
tapparsi la bocca, conscio d’aver proferito
un’oscenità nella casa del Signore.
Si segnò in fretta, appuntandosi di far più tardi
penitenza. Oh beh, non che
far da balia a quella piattola del suo prigioniero già non
lo fosse …
“Il
bambino …”, sbiascicò Hironimo, lo
sguardo torbido non
dissimile a quello d’un ubriaco, aggrappandosi ciondolante al
collo del
corsaletto del Bua. “Voglio … il mio …
il mio bambino …” Un rivoletto di sangue
gli divideva in due la faccia, congiungendosi al mento.
Maledizione.
“Più tardi te lo porto. Giuro! Adesso
però devi
camminare e raggiungere la foresteria!”
“No
…”, s’oppose ostinato il patrizio,
dimostrando una pellaccia
assai dura se pur da parzialmente concusso riusciva a tarmarlo con
ugual
tenacia di quand’era cosciente. “Lo voglio
… lo voglio … lo devo proteggere …
io devo …” e i suoi occhi rotearono
all’indietro, costringendo il condottiero
ad afferrarlo al volo, prima che il pavimento terminasse
l’opera,
rincretinendolo completamente. Invano scosse il giovane,
schiaffeggiandolo
delicato o aprendogli le palpebre: diavoli d’inferno, era
proprio svenuto e Dio
lo scampasse dal non risvegliarsi più! Altrimenti Caterina
…
“Zilio,
vola in infermeria per il marmocchio e uccidi chiunque te
l’impedisca! Ci penseranno dopo i monaci ad
assolverti”, ordinò l’uomo al suo
sottoposto mentre correva in direzione del chiostro
dall’uscita laterale sulla
destra, sotto la navata con l’affresco della Creazione.
“E magari qualche
unguento, già che sei lì!”
“Da
quando in qua pigliate ordini da quel veneziano?”,
s’impuntò
lo stradiota, affatto contento d’abbandonare il suo capitano
con soltanto Leka
a protezione.
Mercurio
gli lanciò un’occhiata assassina. “Da
quando in qua sei
così spavaldo?”, l’avvertì
tra le righe e Zilio guizzò via più rapido di una
lepre.
“Dio
del Cielo, che gli avete fatto?”
Il
condottiero digrignò i denti: e ti voleva il destino che non
incontrasse il Gambara in ogni luogo!
“Niente,
è caduto e fra poco gli spunterà un bel
bernoccolo in
fronte”, riassunse in fretta Mercurio la faccenda, tallonato
da Leka e il conte
Gianfrancesco verso la foresteria, il conte che reggeva apprensivo il
capo
ciondolante del prigioniero svenuto. “La Palice,
invece?”
“Già
fuori; il signor Giulio e il signor Galeazzo credo siano con
lui”, fece concitatamente rapporto il nobile bresciano.
“Ma che diamine è
successo esattamente? Alcuni incolpano i tedeschi, altri i marciani,
altri
addirittura i monaci - non si capisce più
niente!”, si sfogò, aprendo la porta
a Mercurio che scivolò dentro la sua cella senza neppure
degnarlo di una
risposta, sbattendogli invece la porta in faccia e chiudendosi dentro.
Tossicchiando
imbarazzato, Leka s’autoproclamò suo portavoce,
anche per mitigare la cafonaggine fuori luogo del collega:
“Ne sappiamo quanto
voi, signor conte. In fede nostra, stavamo dormendo quando
all’improvviso questo
schiamazzo infernale c’ha buttati giù dal letto!
Forse domani mattina
riusciremo a capire meglio cosa può averlo scatenato
…”
Il conte
Gianfrancesco annuì rapidamente. “Rechiamoci dal
maresciallo, vediamo d’essergli d’aiuto.”
“Eccellente
idea, così potrò anche controllare se i miei
uomini
sono riusciti a recuperare i nostri cavalli …” e
se n’andarono correndo verso
l’uscita della foresteria.
Da dietro
la porta Mercurio staccò l’orecchio dal legno,
avendo
infatti origliato ogni singola parola proferita dai due militari. Non
che
s’aspettasse una scioccante ammissione di colpevolezza o
complicità, nondimeno
sperava in una qualche parolina rivelatrice da parte del Gambara, di
solito
così guardingo nei suoi confronti.
Per
quanto si sforzasse, non riusciva a fidarsi di quell’uomo,
per
niente.
Un
flebile gemito distrasse il greco-albanese dalle sue
elucubrazioni, conducendolo al letto, là dove aveva gettato
di peso il suo
prigioniero ora riverso scomposto sul materasso, le catene ancora
avvolgenti il
suo corpo in una grottesca parodia del mito d’Andromeda e
Perseo; peccato che
il Miani non fosse una principessa etiope e il Bua un baldo eroe greco.
Infatti
gli versò in faccia la brocca d’acqua.
Appoggiandola
sul grezzo tavolino, il condottiero rimase in
paziente attesa, già pregustandosi la sfilza
d’improperi di cui sicuramente l’annaspante
veneziano l’avrebbe subissato. Ne rimase deluso:
quest’ultimo infatti si limitò
a sbattere infastidito le ciglia, provando la sua mano ad asciugarsi il
viso in
maniera piuttosto scoordinata, ottenendo l’unico risultato di
disegnarsi
arzigogolate strisce scure sul viso grazie all’impasto
d’acqua, sangue, polvere
e fango.
“Embé?
Ti sei ripreso?”, s’informò cauto
Mercurio, incrociando le
braccia al petto e sedendosi sul bordo del materasso. “Mi
riconosci?”, aggiunse
in un secondo momento, accorgendosi dello sguardo smarrito
dell’altro.
Le iridi
nerissime d’Hironimo seguitarono a vagare senza meta,
fluttuando in una preoccupante semi-incoscienza. Al che il
greco-albanese gli
diede uno schiaffo e lo pigliò per la mascella,
costringendolo a guardarlo. “Mi
riconosci?”, ripeté perentorio e scandendo
ciascuna sillaba. “Chiudi gli occhi
se capisci.”
Il
veneziano arcuò il sopracciglio. “Guarda che posso
parlare”,
gracchiò spassionatamente in un buffo borbottio a causa
della stretta alla
bocca.
Mercurio
ritornò a respirare tranquillo, avendo temuto per il
peggio e ringraziando la costituzione robusta del giovanotto.
“Adesso ascoltami
bene”, gli spiegò pacatamente, conscio tuttavia
della botta presa e non
sottovalutandone gli effetti collaterali, “per stanotte ti
tolgo di dosso
queste catene, però tu non azzardare niente di strano,
altrimenti le adopero
per strangolare te e il marmocchio. Intesi?”
“Ho
inteso”, convenne docilmente il patrizio, usando la manica
della camicia per ripulirsi la fronte dal sangue.
“Ancora
conservo le cavigliere e il collare con la palla di
cannone. Finché rimaniamo qui, vorrei limitarmi soltanto
alle manette: dalla mia
cella per certo non puoi scappare. Disobbedisci e tornerai legato alla
stregua
d’un salame. Capito?”
“Non
lo farò più”, gli promise il giovane
con voce flebile e
stanca, appoggiando la testa dolorante sul cuscino e socchiudendo gli
occhi,
molestato perfino dalla flebile luce della bugia. “Grazie”,
soggiunse dopo una piccola pausa,
massaggiandosi i polsi liberi e graffiati dal morso del ferro.
Il Bua
deglutì male e fallì per poco di strozzarsi,
sbattendo
incredulo le ciglia. Aveva udito bene? Quell’altezzoso,
linguacciuto, testardo,
pestifero, bastian-contrario d’un Hironimo Miani lo
ringraziava e si comportava
mite e remissivo peggio d’una pulzella all’altare?
Quanto
forte aveva battuto la testa? Abbastanza, constatò il
capitano, notando il crescente bozzolo giallastro incominciare a
protendere dalla
fronte rossastra. Colpa sua, avrebbe dovuto porre maggior attenzione:
in fin
dei conti, pur di fibra robusta, il veneziano non si trovava nella sua
forma
fisica migliore, naturale che adesso il suo corpo sopportasse meno gli
strapazzi. Se continuava così, rischiava di lasciarci le
penne prima che lui
potesse persuadere la Serenissima Signoria a restituirgli sua moglie
…
“Il
mio bambino.”
“Uh?”
“Me
l’hai giurato”, gli ricordò
delicatamente Hironimo, sebbene le
sue iridi nerissime tradissero una granitica tenacia.
“M’hai giurato di
riportarmelo.”
Mercurio,
palesemente a disagio, s’alzò in piedi onde porre
una
debita e sicura distanza tra loro due: alle sferzanti battute e
provocazioni
del Miani sapeva benissimo come comportarsi, ma dinanzi a tutta quella
caparbia
dolcezza proprio no. Pregò trattarsi di un malessere
momentaneo, destinato a
passargli dopo una notte di buon riposo in un letto decente.
“Per
favore … il mio puttino …”
“Smettila
di farmi quegli occhi dolci: cosa speri
d’ottenere?”,
optò il Bua per la solita strategia, quella dello scherno.
“Certo, se tu fossi
una bella fanciulla avremmo anche potuto discuterne contrattando, ma
considerato il tuo sesso, dubito tu abbia un granché da
offrirmi in cambio!”
Massaggiandosi
il bernoccolo, Hironimo non si scompose semmai
allargò il sorriso. “Se sono ancora in vita,
significa che io al contrario ho
qualcosa da offrirti in cambio. Altrimenti, m’avresti ucciso
e gettato nella Piave.
O sbaglio?”
Ridacchiando
sommessamente, Mercurio si sporse beffardo verso di lui,
appoggiando le mani all’estremità del letto e
così intrappolandolo in una
gabbia di carne. “Ti giudichi di così alto
valore?”, lo sfidò, grato di
ritrovare un po’ di spirito nel suo
prigioniero: adesso lo riconosceva e meno male, stava rinsavendo!
“Peccato di
superbia, sier Hironimo”, gli soffiò sul viso
umido.
Il
patrizio reclinò all’indietro il capo, guardandolo
sibillino dritto
negli occhi. “Se non valgo nulla”, si
nettò le labbra con la punta della
lingua, “perché non mi riconsegni alla mia
gente?”
Un
insistente tambureggiare alla porta interruppe la replica del
greco-albanese che, sbuffando, abbassò irritato il capo.
“Che volete?”
“Sono
io, capitano, Zilio”. Apertogli, il suo luogotenente si
presentò sulla soglia in rispettosa attesa con
Thomà penzoloni sottobraccio.
“V’ho portato il moccioso e l’unguento.
Tuttavia”, s’affrettò ad aggiungere
assai apprensivo, “il monaco, cioè Fra’
Anselmo, vi sconsiglia di tenervelo
presso: è ancora convalescente e sembrerebbe la febbre
essergli risalita,
sebbene in forma più leggera …”
In
effetti, il fantolino possedeva un certo rossore da febbricitante,
fortunatamente però lo sguardo appariva più
lucido e presente rispetto alla
crisi dei giorni passati. “Hai sentito?”, si
rivolse Mercurio ad Hironimo, che
per miracolo afferrò al volo il vasetto d’unguento
lanciatogli dal condottiero.
“Ordini di Fra’ Anselmo: la pulce qui per il
momento non può stare. Non appena
guarirà, te lo riprendi. Su”, esortò
invece Thomà, appoggiato nel frattanto per
terra, “vai a dare la buonanotte al tuo signor padre
…”
Il
bambino non se lo fece ripetere, scattando rapidissimo tra le
braccia aperte del veneziano e il capitano di ventura
avvertì una spiacevole
stretta al cuore, oscillando tra il rimpianto e l’invidia:
così correva la sua
Marietta verso di lui, quando lui rientrava all’accampamento
dalle sue perlustrazioni,
contenta la pargoletta di riabbracciarlo vivo e in salute e
d’arrampicarsi sul
possente corpo del padre. Un groppone in gola gli si formò
quando Hironimo pose
la mano sopra la testolina del bambino prima a mo’ di
benedizione, per poi
levarla e fingere di sputare sopra la zazzera bionda, un piccolo
incantesimo greco
per scacciar via i demòni: Caterina lo eseguiva sempre al
momento di coricare
la loro bimba, similmente a sua madre quando lui e suo fratello Teodoro
si
svegliavano la notte preda degli incubi.
A queste
cose lui avrebbe dovuto assistere, non ricordare. Sua
moglie e sua figlia vivevano, eppure per lui alla stregua di fantasmi.
“Capitano
…?”
“Com’è
la situazione là fuori?”, impedì
Mercurio al suo sottoposto
d’inquisire oltre, assumendo un’espressione di dura
e distaccata
professionalità. A che pro lagnarsi? Le lacrime non gli
avrebbero restituito la
sua Cate.
“La
Palice ha riportato egregiamente l’ordine nel campo. Onde
evitare di esser colti di nuovo di sorpresa, ha sensibilmente
rafforzato i
turni di guardia. Ha inoltre emanato una grida, nella quale si prevede
l’impiccagione per ogni disertore o sobillatore.”
Non un
granché come provvedimento, ma sempre meglio di niente.
“I
danni?”
“Difficile
determinarli con
chiarezza in questo momento: troppa confusione, non riuscivamo a
distinguerci
tra di noi, figurarsi i nemici. Certamente molti dei nostri prigionieri
sia
all’Abbazia che al campo di sotto sono riusciti a fuggire: da
una parte meglio
– meno bocche da sfamare; dall’altra …
addio riscatto! Quanto ai nostri
cavalli, mancano soltanto quelli dei nostri compagni mandati in
ricognizione
dal maresciallo.”
“Efharistò
para poli! Agios Georgios sia ringraziato, ogni tanto
una buona notizia!”, si segnò tre volte il
condottiero, baciando la medaglietta
recante l’effige del suo santo protettore. “Quanti
dei nostri ha inviato in
perlustrazione?”
“All’incirca
quaranta.”
“Tanti”,
commentò Mercurio, grattandosi il mento. “Come
mai?”
“Gradenigo
deve aver scoperto che siamo qui accampati a Nervesa e
ha mandato i suoi di stradioti ad
infastidirci. Così, come se non ci bastassero i contadini
del Montello,
dobbiamo guardarci le spalle pure dai nostri compaesani!”
“Meglio
la morte della pietà d’un Paleologo!”,
sputò quasi
Mercurio il nome dell’odiata famiglia rivale, la medesima
contro la quale suo
padre Pietro Bua Spata s’era scontrato in svariate occasioni
durante la Rivolta
di Morea. “Uhm … non ha senso … non
capisco …”, scosse poi il capo, massaggiandosi
frustrato le tempie. “I soldati urlavano: I
Tedeschi c’assassinano! Io stesso li ho visti
attaccare, le armi in pugno …
corpo d’un diavolo, uno di questi ha perfino provato a
sfilettarmi … Eppure!
Eppure mentre i nostri alleati tentavano di sgozzarci nel sonno, qui si
gridava
contemporaneamente Ai Veneziani!
… ”
Zilio
fece spallucce, non sapendone più del suo capitano.
“Ad ogni
modo, il maresciallo vi prega di raggiungerlo domani per discutere
sulle
prossime strategie d’adottare.”
“Riferiscigli
che non mancherò.”
“Buonanotte,
capitano.”
Mercurio
grugnì poco convinto. “Ah, tranquillo che non
chiuderò
occhio fino all’alba, non dopo quanto accaduto! Inoltre, come
puoi ben vedere,
ho già il letto occupato!” e indicò col
pollice i due prigionieri, intenti in
una fitta conversazione.
Al che il
luogotenente arrossì, abbassando il capo vergognoso.
“Mi
dispiace, capitano, per prima. Non intendevo mancarvi di rispetto.
È che non vi
voglio sapere in pericolo, specie dopo Treviso …”
“Lo
so e per questo non me la sono presa”, lo
rassicurò benevolo
il Bua e gli appoggiò da camerata la mano sulla sua spalla,
sorridendogli sincero
e orgoglioso. “Di te mi fido ciecamente, Zilio, non vorrei
altra zagaglia
accanto a me in guerra.”
Madalo
s’impettì assai commosso, abbozzando ad un timido
sorrisino
ebete. “Capitano …”, soffiò
impacciato, voltando la faccia verso il buio del
corridoio prima che gli occhi gli s’inumidissero di lacrime
di gioia: dopo sedici
anni trascorsi a combattere fianco a fianco per mezza Italia, tale
devozione la
giudicava naturale e logica e ciononostante gli recava sempre piacere
sentirsi
così apprezzato dal suo comandante, da lui ammirato sin dal
giorno in cui da
Cattaro era approdato a Venezia per unirsi alla compagnia diretta a
Fornovo.
“L’onore è mio!”,
sbrodolò goffamente.
“Puoi
ritirarti, ci aggiorneremo domani dopo l’incontro col
maresciallo La Palice”, tossicchiò Mercurio,
realizzando con suo sommo disagio
l’eccessiva dose di sentimentalismo alleggiante
nell’aria. Tra lui, Zilio e il
veneziano, di questo passo si sarebbero ritrovati in un battibaleno a
filare la
lana, spettegolando sugli amori delle vicine di casa. “Bene,
messere, hai
finito di sbaciucchiarti il pidocchio?”, apostrofò
smielato il suo prigioniero
che, terminato di schioccare due baci sulle gote del fantolino, glielo
cedette
arrendevole.
“Zò,
pórtate ben cum Fra’ Anselmo”,
l’ammonì dolcemente Hironimo a
voce alta e Thomà, pur non capendo il motivo dietro la
declamazione pubblica di
quel consiglio, sbiascicò
comunque un
timido sì, zampettando via furtivo dal Bua finché
Zilio non lo risollevò da
terra, riconducendolo di peso in infermeria alle solerti cure di
Fra’ Anselmo.
“Gli
vuoi davvero bene”, commentò malizioso Mercurio,
assicurandosi di chiudere bene la porta e pure appoggiandovi contro una
sedia
reclinata. Rinfoderò la scimitarra abbandonata di fretta sul
tavolo, levandosi
l’elmo e passandosi una mano tra i capelli scompigliati.
“Come
ogni padre ama suo figlio”, replicò soave
Hironimo, applicandosi
l’unguento sul gonfiore alla fronte e la stanza si
riempì d’un fresco odore
pungente, affatto sgradevole. “Scommetto che anche tu ami tua
figlia”, gli
ritorse contro l’osservazione e con tal candore, che se il
greco-albanese non
lo conoscesse, ci sarebbe pure cascato. “Maria,
giusto?”
“Come
lo sai?”, s’irrigidì immediatamente il
capitano sulla
difensiva.
Hironimo
gli sorrise indulgente. “Non esistono segreti a
Venezia”,
gli confidò magnanimo, per poi sciogliersi in
un’ambigua risata. “Mia cognata è
greca e la mia famiglia è in affari da anni col protogero di
San Biagio a
Castello, là dove vivono la maggior parte dei Greci
emigrati. Suppongo tu abbia
avuto modo di conoscere il cavaliere Dimitri da Costantinopoli?
È nostro
parente, il padre della mia cognata”, lo
tranquillizzò conciliante, pur non
resistendo alla tentazione di lanciarli una rapida stilettata.
“Mi
sono noti gli Spandounes … o Spandolin, come si fanno
chiamare
adesso. So che il cavaliere Dimitri è tributario del Signor
Turco e conosco
anche il cavaliere Matteo Spandolin da Loidoriki, grande condottiero al
soldo
della vostra Signoria e maritato ad una Cantacuzena, di famiglia
regale. Mio
padre aveva dei traffici con Loukas Spandounes, ricco commerciante di
Tessalonica. Ancora mi ricordo della sua tomba ad Hagios Demetrios:
splendida e
imponente, di marmo, costruita e trasportata direttamente da Venezia
”, si
rilassò Mercurio, constatata la conoscenza di sua figlia (e
per associazione di
sua moglie) solo tramite terzi. “Quanto alla tua previa
domanda: sì, amo la mia
Marietta e mai mi verrà imputata la colpa del
contrario”, ammise l’uomo, sedendosi
sulla fine del letto e appoggiando la schiena contro il muro. Subito
Hironimo
si scostò, portando le ginocchia sotto il mento, facendogli
spazio. “Chi è la
madre dello scricciolo?”, inquisì di punto in
bianco. Non che gli importasse
conoscere gli altarini del suo prigioniero, però rimanere
svegli e in silenzio
per il resto della notte si prospettava un’impresa assai
noiosa.
“Non
la conosci: una giovincella di Marostica”, mentì
abilmente
Hironimo, ripensando a Lena, la quale neanche a farlo apposto era
bionda come
Thomà. Tenendola ben presente davanti agli occhi avrebbe
reso più convincente
la bugia.
“E
che ci facevi lì?”
“Mio
fratello era podestà ed io l’ho
accompagnato.”
Mercurio
calcolò rapido l’età tra il moccioso e
il patrizio. “E
tua madre cos’ha commentato, quando sei tornato col
fagotto?”
“Come
nutro quattro bocche, posso nutrirne cinque.”
“Allora,
perché il marmocchio parla con una calata quasi
cadorina?”
“Sua
madre proveniva da quelle bande.”
“E
viveva a Marostica?”, piegò scettico il Bua la
bocca.
Il
giovane Miani lo fissò beffardamente pietoso.
“Dietro Marostica
s’ergono le prealpi vicentine, le quali da Lavarone fino al
territorio dei
Sette Comuni portano al principato di Trento o nei nostri domini di
Folgaria e
Rovereto attraverso le Piccole Dolomiti … Pensavo
l’Imperatore t’avesse
spiegato la geografia di base del territorio veneziano, quando
t’ha comandato
d’invaderci …”, gli spiegò
cinguettando, mieloso. “Pensavo”,
infierì, “che tu
ti ricordassi dello Stato che t’ha accolto da orfano
…”
Il
greco-albanese avvicinò il viso al suo, squadrandolo
bellicoso.
“Non dimentico niente, io”, ribadì,
sfidandolo a contraddirlo.
“Dove
ti trovavi quando nacque la tua bimba?”, saltò di
palo in
frasca Hironimo, confondendolo. Appoggiò mollemente la
schiena sul cuscino,
mangiucchiandosi incurante una pellicina molesta, come se il velato
avvertimento del condottiero non l’avesse scalfito.
Mercurio
esitò parecchio prima di rispondere, valutando cosa dire
e se ne valesse la pena. Non voleva dar troppa confidenza al veneziano,
il
quale tuttavia possedeva l’inspiegabile dono
d’incuriosirlo al punto da
trasformarsi in un inquisitore domenicano. “Nel Regno di
Napoli”, rispose infine,
“o quel che ne restava, visto che se lo contendevano Francia
e Spagna come i
cani con l’osso!” A Garigliano s’era
quasi cagato addosso dalla paura di
lasciare sole e indifese la figlia e la mo -…
Il Bua
aggrottò la fronte, colto all’improvviso da un
dubbio.
Adesso
che ci ripensava a distanza d’anni e più
oggettivamente, fu
proprio dopo la nascita di Maria che la sua Cate aveva incominciato a
remargli
contro ad ogni occasione, ben ante l’improvvisa morte del
suocero Nicolò
Boccali, in una sfilza d’infiniti litigi in cui lei gli
gridava dietro come
l’accampamento non fosse il luogo per crescere una bambina,
costringendola ad
una vita nomade, in tenda, peggio d’un tartaro, tra la
peggior feccia umana.
Voleva ritornare dai genitori malgrado le insistenze del marito.
“Prima
però servivi il Moro, giusto?”, lo costrinse
Hironimo a
ripiombare nel presente.
“Corretto”,
confermò laconico il condottiero.
Il
giovane patrizio si sporse verso di lui, due dita sotto il
mento. “Perché hai deciso di combattere per il
sovrano che t’ha sconfitto,
umiliato, privato del tuo protettore e che ti ha costretto a sette
settimane di
prigionia nella fortezza di Castellar, nel marchesato di
Saluzzo?”
Colpito e
affondato, a Mercurio non rimase che incassare il colpo,
non avendo affatto previsto quella domanda così scottante ed
introdotta a
tradimento, partendo da argomenti ad essa non pertinenti.
“Perché?”, ripeté
aggressivo, stringendo le labbra in una linea dura.
“Sì,
perché non sei tornato dalla Signoria?”, non gli
permise di
respirare Hironimo, incalzandolo inclemente. “Il tuo dovere
verso Ludovico
Sforza l’avevi compiuto, perché servire il suo
nemico?”
“Le
mie decisioni non ti concernono”, si rifiutò il
Bua di cedere,
avvertendo il familiare pizzicore alle mani, ogniqualvolta il suo
prigioniero
apriva la bocca. Forse non s’atteggiava più da
impavido e arrogante, però non
era addolcendo il tono che gli rendeva meno mordace lo strale con cui
si
dilettava a ferirlo. Maledetto, voleva inculcargli i sensi di colpa,
ora?
“Di
sicuro, però, esse concernevano tua moglie
…”
Un sonoro
ceffone zittì Hironimo, riaprendogli la ferita sul
labbro inferiore.
“Ciò
che ho fatto non devo certo giustificarlo ad uno come te!”,
l’afferrò il greco-albanese per il colletto della
camicia. “Né mi garba il tono
troppo confidenziale quando parli di mia moglie!”,
sibilò minaccioso e lo
spinse di malagrazia sul materasso, mollando la presa.
“Hai
ragione, perdonami. Non parlerò più”,
mormorò contrito il
giovane Miani, leccando via il sangue dal taglio.
S’accoccolò remissivo in
posizione fetale sul fianco meno illividito, le palpebre d’un
tratto pesanti e
l’intero suo dolorante corpo voglioso di perdersi nella
morbidezza di un letto
finalmente da cristiani. “Buona ronda”, gli
augurò sbadigliando a bocca larga;
dopodiché, impastatolo e stringendo sornione il cuscino,
s’addormentò di colpo,
genuinamente sfinito dalla fame e i sussulti dei recenti avvenimenti.
“Eh?
Senti, non mi farai mica l’offes- …”,
s’interruppe
bruscamente il Bua, rendendosi conto di come l’altro ormai
ronchisasse serafico
e incurante del mondo esterno, le spalle che s’abbassavano e
s’alzavano
regolari. Appariva talmente abbandonato al suo sonno, da competere con
un morto
e di fatti il respiro usciva flebilissimo dalle labbra secche, a
malapena
dischiuse. I capelli disordinati e impicciati si spandevano scomposti
nel
cuscino e le ciglia d’ugual colore cozzavano contro il
pallore malsano del
viso.
Mercurio
schioccò annoiato le dita, tamburellandole sul ginocchio:
ecco dunque che la sua principale distrazione e compagnia se la ronfava
alla
grossa, disertandolo all’ennesima notte solitaria.
L’aveva chetato e invece di
godere del suo trionfo si rammaricava d’aver perduto
nuovamente la pazienza. E
per cosa poi? Non aveva mica la coscienza sporca, lui! Le sue condotte
le aveva
guadagnate onestamente, così come i suoi titoli e gradi,
ognora in prima fila a
combattere e l’ultimo ad arretrare. Non aveva alcun debito
nei confronti della
Serenissima, nossignore, casomai l’incontrario,
checché ne dicesse l’ex-castellano,
quella peste di sua suocera e sua moglie. Sua moglie … Quel
birbo malnato
parlava di lei manco fossero amici di lunga data, decifrandone i
pensieri
meglio di quanto lui, suo marito, avesse potuto fare malgrado i lunghi
anni di
matrimonio … E se? Un anno da sola, senza uomini in casa
… No, no Mercurio,
no, futili sospetti
i tuoi! La sua Cate
non apparteneva a quella risma di donne e a Venezia, lo riconosceva,
nessuno badava
mai agli affari propri e tutti sapevano di tutto.
Il
condottiero si sistemò meglio contro il muro, piegando su
una
gamba sul letto. Spiò di sottecchi le prime sporgenze ossute
da sotto una
camicia ogni giorno sempre più larga. Basta tergiversare,
indipendentemente
dall’esito del consiglio di guerra tenuto
l’indomani da La Palice, la sua
decisione era presa.
Alla
prima occasione avrebbe inviato un oratore alla Signoria,
domandole chiaro e tondo lo scambio tra sua moglie Caterina Boccali Bua
e il
patrizio veneziano Hironimo Miani.
Maria
invece sarebbe rimasta per il momento da sua nonna a
Venezia, in attesa di vincere la guerra e di portarla con sé
nel suo feudo di
Soave: l’accampamento non era posto per bambini e su quel
punto Mercurio Bua
dovette riconoscere il suo sbaglio, rimpiangendo di non aver ascoltato
attentamente la
giusta obiezione di sua
moglie quando ne aveva avuto l’occasione.
***
Nelle
poche ore di sonno concessegli a seguito dell’attacco
notturno, Jacques de Chabannes de La Palice era arrivato alla
conclusione
d’aver indugiato a sufficienza nel monastero di Nervesa, in
attesa che
l’Imperatore rispondesse alle sue insistenti sollecitazioni
di scendere in
campo. Poi, vista vana l’attesa, e affatto desideroso di
finire ucciso in
trappola a guisa di un sorcio, aveva deciso di convocare i capitani
francesi
per un consiglio di guerra durante il quale aveva intenzione
d’annunciarli la
sua decisone di rimettere al Re di Francia il suo progetto di
rimpatriare in
Lombardia. Se Louis XII voleva che La Palice restasse, sarebbe restato;
altrimenti, non avrebbe esitato a raggiungere il Duca di Foix-Nemours a
Milano.
“Ho
inviato una lettera a Notre Sire le Roi, in modo da informarlo
dell’intollerabile situazione: l’autunno e la
cattiva stagione sono pressoché alle
porte; non abbiamo sufficienti cibo e munizioni; i nostri stessi
alleati ci
disertano e tentano di derubarci nel sonno. Vi pare accettabile
ch’io debba
ordinare ai nostri uomini di dormire coll’elmo in testa
più per paura de les Allemands,
che dei Vénitiens?”
Un
diffuso mormorio di assenso si levò nella stanza. Le facce
tirate e stanchissime per via del sonno interrotto e mai propriamente
recuperato, i comandanti francesi avevano trascorso la mattina a
riorganizzare
il campo, ricostruendo laddove necessario e seppellendo i morti, i
quali
s’aggiungevano al numero giù cospicuo di quelli
deceduti per febbri, fame e il
Gran Morbo.
“Perché
ieri notte siamo finiti a difenderci sia d’alemanni che da
marciani?”, vociò infine Galeazzo Pallavicino il
dubbio, ch’aveva roso ogni suo
collega per il resto delle poche ore precedenti l’alba.
“Dio
non voglia che quei debosciati d’Allemands abbiano a nostra
insaputa cangiato bandiera”, ipotizzò monseigneur
du Molard, incrociando al
petto le braccia. “Questo spiegherebbe: uno, il silenzio
assai incomprensibile
dell’Empereur nonché la sua reticenza ad unirsi
alle nostre truppe; due, quel
loro vigliacco oltrepassare la Piave alla volta del Frioul.
Più che una
diserzione potrebbe corrispondere ad un rinculo per poi massacrarci con
comodo
più tardi. Magari s’erano previamente accordati
con Venise: il nostro annientamento per la Patrie du
Frioul.”
“No,
impossibile”, smontò la sua tesi Teodoro
Trivulzio, memore
dell’atteggiamento presente e passato dell’Habsburg
nei confronti della
Repubblica. “La Sua Sacra Maestà Massimiliano odia
troppo la Serenissima per
abbassare le braghe in maniera così plateale e codarda, e la
Signoria stessa
preferirebbe bruciare personalmente ogni singola città
friulana fino all’ultimo
sparuto ammasso di casupole, piuttosto di cedere anche solo un fil
d’erba
all’altrettanto disprezzato Re dei Romani.”
“Senza
contare che il Cesare Augusto non tradirebbe mai la fiducia
del suo alleato più forte”, aggiunse il conte
Gianfrancesco di Gambara,
portandosi un fazzoletto alla bocca e tossendoci vigorosamente.
Scusatosi,
proseguì: “Sua Grazia il Re Ludovico, in caso di
voltafaccia, di sicuro
coglierebbe quest’occasione propizia per invadere i territori
dell’Imperatore e
questi lo sa e non azzarderebbe tale futile guerra per un magro
guadagno quale
la Patria del Friuli, non quando grazie all’aiuto del Re
Cristianissimo ha la
possibilità d’annettere all’Impero anche
il Veneto.”
“Il
Re dei Romani è un uomo d’onore, lo chiamano L’Ultimo Cavaliere per
qualcosa, no?”,
concluse Giulio Sanseverino. “Ha giurato di scendere a
Treviso e così farà.”
Né
La Palice né i monsignori du Molard e de Boissy si
commossero dinanzi
a tale appassionata difesa dell’Habsburg, seguitando nelle
loro espressioni
scocciate e diffidenti. Anzi, il capitano dei guasconi du Molard pure
commentò
assai sprezzante:
“Mon
cher Saint-Séverin, parlate assai bene di chi v’ha
assassinato il padre! Je
suis vraiment étonné,
mi
stupite!”
“Mio
padre, il conte Roberto Sanseverino d’Aragona, è
caduto
onorevolmente in guerra!”
“E
la Sua Sacra Maestà ne celebra la morte nei suoi
trionfi!”,
sogghignò pieno di sufficienza il capitano francese, ridendo
più forte al
tentativo di schiaffeggiarlo da parte del Sanseverino, prontamente
trattenuto
da Galeazzo Pallavicino.
“Monseigneurs,
vi prego di calmarvi, non ci troviamo in una
bettola. Avete ragione, Saint-Séverin, l’Empereur
sarà pure un uomo d’onore;
nondimeno, i tanto onorati tedeschi
ci assalgono alle spalle per cibo e munizioni, disertandoci al primo
vento
contrario”, ribatté severo il maresciallo
francese, placando gli animi e
ammonendo ambedue i contendenti con lo sguardo. “Sfortuna ha
poi voluto, che proprio
ieri notte i Vénitiens abbiano
deciso d’assalirci, quando les Allemands alla stregua di
ladri sgattaiolavano
nel nostro accampamento, unendo le forze in un’accidentale ma
infernale
alleanza! I comandanti tedeschi tacciono davanti a tale
insubordinazione e non
prendono alcun provvedimento; sicché, ai nostri occhi, sono
altrettanto codardi
e traditori quanto i loro soldati, masnade cui bisogna affidarsi il
meno
possibile.”
Leka
Busicchio scivolò dentro la stanza in punta dei piedi,
avvicinandosi di soppiatto presso Mercurio Bua e sussurrandogli celere
qualcosa
all’orecchio, la quale sortì l’effetto
di togliergli ogni rossore dalle guance.
“Brutte
notizie, capitano?”, inquisì La Palice, non
essendogli
sfuggita quella scenetta. “Se non v’incomoda
condividerle …”
Il
greco-albanese arcuò il sopracciglio, affatto contento di
quel
paternalismo da tutore. “Dico soltanto, che mentre ci
troviamo qui a discutere
allegramente alla stregua di comari al focolare, i Veneziani ci hanno
sottratto
Castelfranco e i suoi rifornimenti”, esordì rapido
e conciso, guardando in
faccia ciascuno degli altri comandanti in modo che i concetti ben si
fissassero
nelle loro dure teste.
“Dico
soltanto, che m’è appena giunta la nuova che
trenta dei miei
soldati inviati ieri in perlustrazione adesso si trovano a Treviso
prigionieri”
e adesso accusò tacitamente La Palice per aver disposto
sì sconsideratamente
dei suoi uomini, senza consultarlo, mandandoli allo sbaraglio dritto
nelle
fauci del nemico. “Dico soltanto, che siamo in trappola,
circondati dagli
stradioti dei Paleologi e dai contadini veneti. È soltanto
questione di giorni,
prima che Gradenigo organizzi un assalto mirato contro di noi e
l’Abbazia, per
quanto in posizione strategica, non è una fortezza. Quello
di ieri notte era
uno studio del territorio, come il serpente prende le misure prima di
stritolare e ingoiare la sua preda”, e il condottiero fece
una pausa d’effetto,
bevendo compiaciuto l’ansia e agitazione creatasi tra i suoi
colleghi, specie
alla menzione della trappola, timore che da tempo nutrivano ma mai
avevano
osato definire a voce alta.
“Al
che, due opzioni restano al lupo quando stretto in un cerchio
di morte: o soccombere sotto le lance dei cacciatori, oppure sbranando
aprirsi
una via di fuga. D’ora in avanti, maresciallo, suggerirei di
scortare i miei
uomini e i vostri saccomanni con la cavalleria pesante,
acciocché si possano
difendere in caso d’agguato. Quanto ai contadini rintanati
nel Montello,
scoviamo loro e avremo di che rifornirci di biave e farina. Inoltre,
suggerisco
d’elargire una tal lezione a quei bifolchi ribelli, da farli
ben capire chi sia
il loro nuovo padrone!”
La Palice
annuì soddisfatto, intimamente grato d’aver sempre
al
suo fianco quell’irriducibile capitano di ventura, sempre
ottimista e intraprendente
pur dinanzi a situazioni disgraziate. “In attesa della
risposta di Notre Sire
le Roi, manderemo un ambasciatore a Trévise chiedendo la
resa incondizionata
della città. In questo modo capiranno, che devono escogitare
stratagemmi di ben
altra natura per intimorirci e che nulla ci persuaderà a
rinunciare all’impresa
di conquistare la città”, terminò il
suo discorso il maresciallo, congedando i
capitani che ritornarono alle loro postazioni in attesa
d’aggiornamenti.
All’ultimo però trattenne il Bua, facendogli cenno
di rimanere. “Come intendete
esattamente liberarvi dei contadini?”
“I
Conti di Collalto”, rispose sbrigativo Mercurio.
“Sono nostri
alleati, giusto? Che lo dimostrino descrivendoci zolla per zolla questo
territorio, ogni fossa, ogni caverna, ogni antro che quei cenciosi
possono
usare come nascondiglio.”
“Proporrete
ai Conti di consegnarci la loro stessa gente? Non la
giudico una mossa onorevole.”
“Quando
mai c’è gloria nelle guerre tra partigiani? Anche
se
nemici e divisi da ideali opposti, sempre di sangue civile e fraterno
ci si
macchia e questo i Collalto lo sapevano, quando si sono schierati dalla
parte
della Lega. ”
***
Nelle
stinche di Treviso ferveva un viavai da formicaio, tra
smistamenti dei nuovi prigionieri catturati la notte precedente; scambi
di cella
per impedire che s’accordassero sulle risposte in vista degli
interrogatori;
evacuazione dei posti lasciati liberi da coloro che nel frattanto
avevano reso
l’anima ed infine bonari ammonimenti dei carcerieri ai
criminali locali, che dileggiavano
strafottenti al limite dell’aggressione fisica i prigionieri
franco-imperiali,
degni emuli del cattivo ladrone. La processione di barelle trasportanti
i cadaveri
dei soldati era divenuta un rituale giornaliero, per la gioia dei
becchini che
s’erano visti aumentare la paga e tanto alacremente
lavoravano, gettando calce
viva sui corpi riversi in anonime fosse comuni, da non badare ai segni
rossi
sul collo di alcuni morti.
Ciascuna
di queste operazioni era sorvegliata dall’occhio vigile
del capitano delle prigioni, il quale in particolar modo stava
attendendo
l’esito dell’esame
di paron Fortunato
su di un pericoloso ribelle, Corneto da Cividal di Belluno, noto per
essere
“cossa medema” col commissario imperiale Jean d’Aubigny: dei villani di
Castelnuovo lo avevano sorpreso e catturato mentre conduceva assieme a
due suoi
compari tre zattere trasportanti legname per costruire ponti, tavole
che gli
stessi s’erano premurati di sequestrare e nascondere a loro
uso personale.
Dopodiché, i contadini avevano condotto i tre traditori a
Treviso. Il
provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo, ordinato di perquisirli, aveva
trovato
addosso al bellunese una lettera da La Palice, nella quale lo
sollecitava a
portar vittuarie per il campo, aggiungendo assai drammaticamente come
si
morisse di fame se non fosse stato per il soccorso di certe genti della
bassa
friulana. Insoddisfatti dalle vaghe risposte di Corneto sui contenuti
della
missiva, lo si era messo alla tortura onde carpirgli ulteriori
informazioni e
dettagli sulla sua missione, sul campo francese e sul governatore
tedesco.
Il
capitano aggrottò la fronte all’ennesimo urlo,
mentre gli altri
prigionieri nelle loro celle si stringevano tra di loro, temendo
analoga sorte:
invero paron Fortunato, il boia, si stava sbizzarrendo nella sua
creatività. Il
che significava soltanto una cosa, pensò amareggiato
l’uomo: quel ribelle non
avrebbe cantato tanto in fretta.
“Paron
Fortunato!”
“Comandeu?”
“Pì
forte cum i scasi di corda (tratti di corda, ndr.), no ghemo
tuto el dì!”
“Servo
vuostro, sior capitan!”
Contemporaneamente,
a Palazzo, il podestà sier Andrea Donado “dalle
Rose” e il provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo discutevano
sul procedimento
dei lavori alle mura assieme ai capitani Renzo di Ceri, Vitello
Vitelli, Troilo
Orsini e gli altri comandanti e patrizi veneziani. Altri argomenti sui
quali
ragionavano: l’imminente arrivo di Meleagro da
Forlì coi 1500 cavalleggeri e del
provveditore degli stradioti sier Ferigo Contarini; le ultime
disposizioni
della Signoria; i rifornimenti e pagamenti dei soldati; le missive
ricevute dai
provveditori di Padova sier Polo Capello e sier Christofal Moro e
infine il
rapporto di Alfonso del Mutolo e Costantino Paleologo, tornati assieme
a molti
prigionieri liberati dall’ultima vittoriosa sortita notturna.
La vasta sala del
Palazzo sembrava invasa dai tarli a causa del perenne e concitato
scricchiolio
delle penne degli scrivani, impegnati a scrivere punto per punto ogni
lettera
indirizzata ad altri podestà, capitani, provveditori,
castellani o alla
Signoria. Il tavolo stesso di sier Gradenigo era seppellito da carte e
cartine,
più non si scorgeva il legno sottostante.
“Se
non v’incomoda, domino Thodaro”, si rivolse il
provveditore al
capitano greco Teodoro Paleologo, che da poco li aveva raggiunti a
Palazzo,
“per via della mancanza di alloggiamenti in città,
la vostra compagnia di 200
stradioti verrà sistemata appena fuori Porta Santi Quaranta,
nell’omonimo
monastero, davanti al Tiveron, il quale è a sua volta
protetto dal Sile e
quindi da nessun lato vi potranno attaccare, anche se fuori le
mura.”
“Da
lì mi sarà più facile muovere i miei
uomini in perlustrazioni
e irruzioni nel campo nemico”, convenne il condottiero.
“Mi sta bene come
posto.”
“Ovviamente,
in caso d’assedio, verrete immediatamente trasferiti
in città. Non posso però garantire a ciascuno dei
vostri una stanza …”
“Non
vi preoccupate: noialtri oramai siamo abituati a far quasi
tutto in groppa a cavallo, dormire e mangiare in primis”,
scherzò Paleologo,
contagiando gli altri capitani lì presenti in un risata
liberatoria per
sdrammatizzare l’aria tesa degli ultimi giorni.
“Monsignore
de la Palisse ci ha inviato una lettera molto
insolente”, aggiornò poi sier Zuam Paulo gli
astanti, sorridendo feroce. “Anzi
neppure a noi, bensì al popolo di
Treviso che descrive oppresso e infelice sotto il giogo di Venezia,
offrendogli
giustamente la libertà sottomettendosi a quello imperiale.
Sostiene che se
porterà morte e distruzione nella Marca, sarà per
colpa nostra che
orgogliosamente rifiutiamo di arrenderci, consegnandoci alla
volontà del Re dei
Romani, e non del popolo indifeso che null’altro desidera se
non esser dominato
da un sovrano straniero. Loda la magnanimità
dell’Imperatore il quale tanto s’è
preso a cuore la sorte dei Trevigiani, che impiegherà ogni
mezzo bellico per
raggiungere questo suo scopo, bruciando, saccheggiando e massacrando a
destra e
a manca, ma risparmierà i beni e la vita del povero oppresso
popolo trevigiano
soltanto quando noi ci saremo piegati, rinsavendo a più miti
consigli”,
parafrasò l’uomo in un sarcastico riassunto la
missiva del maresciallo
francese, fissandola schifato sulla sua scrivania, manco
l’avessero spalmata
d’escrementi.
“A
me par de scoltar mea mojer co’ la brusa el rosto (arrosto,
ndr.), disendome che no xé ela che nol save cusinar, ma jo
che la gh’ho fata
ràbiar”, commentò sottovoce Marco Miani
al suo compagno di ronda, sier Alvixe
da Canal, il quale soffocò a malapena un grugnito divertito.
“E’
una mia impressione o questi contenuti mi suonano
famigliari?”, chiese Vitello Vitelli, soffocando un colpo di
tosse all’interno
dell’avambraccio.
“Sì,
ha praticamente scopiazzato la lettera dell’Imperatore,
quella dello scorso agosto ai cittadini di Venezia. I francesi non
hanno fama
di gente originale”, gli confermò Renzo di Ceri.
“Quella che invece mi
piacerebbe leggere, è la missiva inviata al Re di
Francia.”
Il suo
parente Orsini annuì. “La Palisse sta
temporeggiando:
questa richiesta di resa incondizionata è una presa per i
fondelli, anche
perché sa benissimo dove gli ficcherebbero i Trevigiani la
magnanimità dell’Imperatore.”
“Nondimeno,
dimostra che non l’abbiamo a sufficienza
scoraggiato”,
puntualizzò sier Lunardo Zustignan. “I Tedeschi
hanno attraversato la Piave e
si stanno dirigendo verso la Patria del Friuli, là dove i
sentimenti verso la
Signoria sono assai più ambigui che nella Marca. Non
possiamo escludere che
trovino supporto tra i nobili feudatari strumieri, fornendoli
quest’ultimi cibo
e munizioni, se non proprio aprendo loro le porte delle
città friulane!”
“Pensavo
che domino Antonio Savorgnan avesse sterminato quei ratti
filo-imperiali!”, esclamò perplesso Costantino
Paleologo, gli echi della
rivolta del “Crudel Zobia Grassa” giunti ad ogni
orecchio della Terraferma.
“Gli
stronzi, kyrie Konstantinos, galleggiano sempre”, gli
spiegò
lapidario in greco Marco Miani e il Paleologo non poté non
trovarsi d’accordo,
associando tale massima alle sue esperienze di vita. “Sier
provedador Zuam
Paulo”, proseguì il patrizio, “se posso
condividere una mia opinione. La Peliza
sta procrastinando un attacco che lui non vorrebbe scagliare, ma che
dall’alto
vogliono a tutti i costi. Lo vuole l’Imperatore,
perché della conquista di
Trevixo ne ha fatto una questione personale e non riterrà
vendicato il suo
“onore” finché non avrà raso
al suolo la città e massacrato la sua gente. Lo
vuole il Re Ludovico, perché tramite il saccheggio spera di
risarcirsi di ogni
ducato spento per Maximiano, ducati che non rivedrà mai
restituiti dal suo
alleato. La Peliza al contrario non vorrebbe, ma per gli interessi dei
suoi
padroni verrà qui a Trevixo, ergo ogni sua dichiarazione
d’imminente rimpatrio
in Lombardia va scartato senza tanti indugi.
“In
secondo luogo, a mio parere, i Tedeschi hanno invaso la Patria
del Friuli, certo, ma non per scappare o svernare in attesa degli
ordini
dall’Imperatore bensì per prendere quanto
necessario all’assedio e poi
ritornare indietro meglio forniti di com’erano
all’inizio, ricongiungendosi coi
Francesi. La fazione filo-imperiale degli strumieri nella Patria
è tutt’altro
che scomparsa, non scordiamoci che il destituito Patriarcato
d’Aquileia sempre
è stato sotto l’influenza tedesca, chiamando
nobili dalla Carnia e dall’Austria
per meglio amministrare quelle sue terre. Fossi in voi, io non
confiderei in
un’accanita resistenza all’invasione del Friuli,
specialmente adesso che i casi
di peste sono aumentati e la gente fiaccata dalla Zobia Grassa.
“Avete
letto come perfino domino Antonio Savorgnan abbia
abbandonato Sazil. Adesso io non voglio contestare l’intensa
fiducia che la
Signoria ripone in lui, tuttavia non mi pare questo
l’atteggiamento di chi è
disposto a difendere ad ogni costo le sue roccaforti e
città.”
“Sospettate
in un suo probabile voltafaccia?”, domandò
incredulo
sier Andrea Donado, lanciando un’occhiata ansiosa al
provveditore e al resto
dei patrizi veneziani lì presenti. “Ma
… ma domino Savorgnan e il suo casato da
più d’un secolo sono stati nostri alleati, i capi
storici della fazione
zambarlana per di più!”
“Sempre
un nobile di Terraferma rimane”, spezzò sier
Alvixe da
Canal una lancia in favore di Marco. “Ed i loro interessi non
hanno mai
coinciso coi nostri, s’è visto in
quest’ultimi due anni come i vari conti di
terra si siano inchinati servili a Francia e Impero, loro che tanto si
proclamavano boni marcheschi!”
“Domino
Antonio ha abbandonato Sacile poiché a corto di uomini e
artiglieria”, ricordò Renzi di Ceri al Miani,
“non molto cavalleresco, vero,
però la prudenza non è una colpa né
una prova di tradimento. Ritirandosi ad
Udine avrà più possibilità di
difendere la Patria. Alla fine, parliamo di città
di confine, di poco valore strategico se comparate ad Udine.”
“Evidentemente,
il Savorgnan voleva anche evitare la triste fine
di vostro fratello”, aggiunse Troilo Orsini, provocando un
bellicoso digrigno
di denti nel veneziano.
“Mio
fratello ha compiuto il suo dovere e senza i vostri sofismi
da mercenari”, berciò quegli astioso, gli occhi
nerissimi saettanti di tal
collera che l’Orsini inconsciamente indietreggiò
di qualche passo, memore della
zuffa del Miani col Batagin Bataja e della testa di
quest’ultimo sbattuta sul
piatto. “Sono orgoglioso di lui, di come
s’è comportato. Avesse abbandonato
Castelnuovo di Quero o peggio, avesse offerto la sua dedizione
all’Imperatore,
tradendo la sua famiglia e la Signoria, Dio m’è
testimone che con queste mani
l’avrei ucciso!” e il tono di voce implacabile e
l’espressione tremenda sul
viso accigliato rivelarono tanta verità nelle sue parole, da
ammutolire i
presenti.
Calmatosi
e riprendendo fiato, Marco contro-argomentò pieno di
focosa determinatezza l’affermazione
di
Renzo Orsini: “Capitano, non fraintendetemi, mi trovate
d’accordissimo con voi
e comprendo bene il ragionamento tattico del Savorgnan. Ciononostante
vi
rammento, che è lunga e perigliosa la strada da Sacile fino
ad Udine,
soprattutto quando i Conti di Porcia, Polcenigo e Spilimbergo
chiaramente
appoggiano l’Imperatore e potrebbero sbarrargli il cammino
durante la ritirata,
colpendolo sul fianco. E v’assicuro che un uomo messo alle
strette è capace di
rinnegare qualsiasi cosa, dall’onore alla fede, pur di
salvarsi la vita!”
“Cosa
proponete, sier Marco?”, lo sollecitò dunque sier
Lunardo
Zustignan, decisamente persuaso dalle argomentazioni del concittadino.
“Avevo
sei anni quando il Duca d’Austria invase i nostri confini,
puntando alla conquista di Feltre. Di quegli eventi serbo ricordi
confusi
tranne uno, ossia quando mio padre sier Anzolo Miani, consultandosi con
domino
Guido de’ Rossi, gli disse: Dobbiamo
sempre pensare allo scenario peggiore mentre pianifichiamo, per non
lasciarci
cogliere impreparati dal nemico. Qual è il nostro
scenario peggiore? La
caduta della Patria del Friuli, il tradimento del Savorgnan e dei
nobili
locali, il ricongiungimento delle truppe francesi e tedesche, la
diffusione
della peste. Se vogliamo organizzare una degna difesa di Treviso,
dobbiamo
farlo tenendo a mente tutte queste possibilità.”
Sier Zuam
Paulo Gradenigo s’alzò dalla sedia, appoggiando i
pugni
sul tavolo. “Avete ragione sier Marco”,
concordò, raggruppando le carte e
sistemandole ordinatamente su di un lato, pronte per essere raccolte
nei loro
quaderni e fascicoli o distribuite ai corrieri. “La Signoria
è fiduciosa a
riguardo ma io no: la Patria del Friuli è condannata, un
moribondo in attesa
dell’estrema unzione. Avete udito i capitoli: Treviso si
comporterà come se già
fosse sotto assedio, Nervesa non dista poi così lontana da
noi. Continueremo
con le incursioni notturne per fiaccare lo spirito del nemico, per
impedirgli
di spiare la costruzione delle nostre mura e per liberare quanti
più dei loro
prigionieri”, e scoccò un’occhiata
significativa a Marco.
“La
Palisse non attaccherà prima d’aver ricevuto una
risposta dal
Re di Francia e soprattutto d’essersi ricongiunto con le
truppe imperiali”,
ragionò a voce alta Vitello Vitelli, “questo ci
comprerà due o tre settimane di
tempo per preparaci, se i timori di messer Marco dovessero rivelarsi
fondati e
la Patria del Friuli non dovesse opporre resistenza agli
imperiali.”
“Per
allora avremo completato per certo i lavori alle mura”,
concluse ottimista Troilo Orsini.
“Troppo
tempo, troppo tardi”, lo contraddisse invece sier Zuam
Paulo. “Dobbiamo darli un’accelerata”, e
rivolgendosi al podestà sier Andrea
Donado: “Con vostra buona licenza, vorrei emanare una grida
nella quale ogni
abitante di Trevixo, uomo o donna, che possa tenere una vanga in mano e
spingere una carriola o trasportare una barella venga a lavorare alle
mura.
Ovviamente, questo provvedimento includerà anche noialtri.
Entro due al massimo
tre giorni, Trevixo avrà
le sue cinta
murarie terminate e pronte ad affrontare l’assalto
nemico.”
“Ma
è impossibile!”, esclamò scettico Renzo
di Ceri.
“Appunto!”,
reiterò Gradenigo, sogghignando malevolo.
“Perché
questi sono gli esatti pensieri dei Collegati: poiché
giudicano impossibile
quest’impresa, noi la compiremo! Poiché giudicano
impossibile che la Francia e
l’Impero possano perdere contro una città
politicamente insignificante come
Treviso, noi li sconfiggeremo, umiliandoli e spedendoli piangenti dalle
loro
madri! Poiché grazie alle titubanze del La Peliza e
all’avidità dei Tedeschi, noi
possediamo sufficiente tempo e mezzi non solo per costruire la miglior
città-fortezza alla moderna d’Italia, ma anche per
poter predisporre a nostro
piacimento il terreno su cui combatteranno. Le dinamiche della
battaglia le
sceglieremo noi e faremo ballare questi barbari alla nostra
musica!”
“Ci
vorranno turni di giorno e di notte, senza sosta né riposo.
Se
non c’ammazzano i Collegati, c’ammazzerà
la fatica.”
“Ci
riposeremo in saecula saeculorum nell’Aldilà,
capitano Lorenzo
Orsini degli Anguillara.”
Il nobile
laziale scosse il capo, eppure gli angoli della bocca
s’erano piegato all’insù in un
sorrisetto complice.
“Sior
Provedador, zelenza”, si presentò
all’improvviso il capitano
delle prigioni, recante un pezzo di carta prontamente ceduto al
patrizio, “la
confexion dil rebello, el qual ghemo tormentà fin
desso.”
Gradenigo
lesse a voce alta il
resoconto dell’interrogatorio: “El
citadin Corneto da Cividal no confessa gnente, salvo che portava le
zatre, per
comandamento di el governador todesco, fino a Narvesa per voler far
ponte per
passar la Piave. –
Tutto qui?”
“Non
accenna minimamente alla lettera di La Palisse né alle
condizioni
del campo francese”, schioccò la lingua deluso
Renzi di Ceri.
“Né
tantomeno chi nella bassa friulana e nella Marca sta
foraggiando i franco-imperiali”, precisò Vitello
Vitelli, che poi era proprio
quella l’informazione per la quale avevano torturato per ore
il ribelle
bellunese.
“Insistemo,
sior provedador?”, si propose solerte il capitano
delle prigioni.
Sier Zuam
Paulo Gradenigo negò in un nervoso svolazzo della mano.
Invece, si portò accanto ad uno scrivano, domandandogli se
avesse terminato la
lettera destinata alla Signoria. Incuriositi da quel tono complice e
quell’aria
di mistero, subiti i presenti lo spronarono a condividerne i contenuti.
Il
provveditore li accontentò, svelandoli l’arcano:
“Si tratta dei
resoconti di quanto visto e udito dai nostri prigionieri scappati dal
campo
nemico. Questo punto specialmente è importante, ascoltate
bene: Rebelli trevisani che sono guide
de’ nemici:
Bortholamio Sforza; Hironimo de
Martegnago dito Barbon; Sydro e Franceschin da Martegnago,
sòo fradeli; Domenego
di Inselmi, el conte Carlo di San Bonifazio, veronese, grandissimo
rebello, el
qual perhò è sta morto in campo.
“Ville di
là di la Piave, che danno vituarie a li inimici: Voladina;
Quia; Quieto; San
Stefano; Val de Marin; Vidor; Barboza; Fontino et La Piove de Soligo.
“Noterete
che sì, questo ribelle bellunese ha coraggiosamente
affrontato la tortura e sfidato il dolore pur di non venderci i suoi
complici,
peccato l’abbia fatto per niente ché nulla sfugge
all’Occhio Destro della
Signoria. Ricordate bene i nomi, specie voi capitani degli stradioti:
una
pingue ricompensa aspetta chi riuscirà a catturare questa
feccia ghibellina.
Quanto alle città ribelli, ad assedio terminato esse saranno
le prime a venir
mondate nel sangue dal loro peccato.”
“Morire
per mano nostra o per mano dei franco-imperiali … Vi pare
una scelta proponibile?”, mormorò amaro Troilo
Orsini.
“Morire
da traditori o da nostri partigiani, ecco la loro scelta”,
lo corresse sier Lunardo Zustignan.
“Che
ne facciamo del bellunese?”, s’informò.
Gradenigo
chiuse la lettera destinata alla Signoria, imprimendo il
suo sigillo sulla cera bollente. “Processatelo e poi
impiccatelo. E che il suo
corpo sia ben visibile a tutta Trevixo, acciocché si sappia
qui come nella
Marca quale destino attende chi tradisce la Serenissima
Signoria.”
Continua
…
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Il
termine “partigiano” esisteva anche
all’epoca, sebbene oramai
sia più comunemente associato alla Seconda Guerra Mondiale e
non indicava
necessariamente chi in gruppi armati resisteva all’invasione
nemica, piuttosto
gli agguerriti sostenitori di una determinata fazione. Nel caso della
nostra
storia, i filo-imperiali (e per associazione, francesi) e
filo-veneziani.
Al povero
de La Palice non gliene va mai bene una, per adesso, ed
effettivamente se non fosse stato per l’inesauribile spirito
d’iniziativa di
Mercurio Bua, credo che sul serio se ne sarebbe ritornato a Milano,
alla faccia
dell’Orléans e di Massimiliano! XD Con tutto
rispetto, aveva appresso un branco
o d’ammalati o d’incapaci o
d’approfittatori vigliacchi. Altro che armata
franco-imperiale, piuttosto di Brancaleone!
Il Nostro
come sempre sballottato di qua e di là, a capriccio del
Bua, non riesce mai ad aver un attimo di tregua!
Spero che
questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!
Un
po’ di noticine:
[1] Uomo morto non fa
guerra = versione veneziana del “Mortui non
mordent” (I morti non mordono)
di Plutarco e pronunciata a seguito della cattura di Francesco Novello
da
Carrara, il quale appunto venne condannato a morte assieme ai suoi
eredi maschi
con la lapidaria sentenza “omo morto no' fa
guerra”, onde sottolineare la
decisione di Venezia di finirla una volta per tutte coi rivali
Carraresi per il
dominio sul Veneto.
[2] Sofì = così si
chiamava all’epoca lo Shah di Persia.
[3] più delicato delle
tette di una monaca = modo deliziosamente veneziano per
indicare una
persona di fisico e salute fiacca, cagionevole. Sarebbe interessante
capire il
ragionamento dietro …