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Autore: Marco1989    24/12/2020    2 recensioni
Non conta il tuo passato, non contano i tuoi errori, non conta la vita che hai perso o quella che desideri, perché quando arriverà la tempesta potrai solo sperare di essere pronto ad affrontarla.
Sequel di 'A strange, new world', occorre aver letto la prima storia.
Genere: Avventura, Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Il trio protagonista, Nuovo personaggio, Seamus Finnigan
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4
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- Questa storia fa parte della serie 'A strange, new world'
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Salve di nuovo a tutti i miei lettori. Ho scelto di anticipare di qualche giorno la pubblicazione di questo nuovo capitolo, considerando che per il momento avevo messo soltanto il primo e che, d'altro canto, sono relativamente avanti nella scrittura dei successivi. Indicativamente, quindi, il prossimo sarà inserito il 24 gennaio. Vi chiedo nuovamente, se possibile, di dedicare qualche minuto del vostro tempo a scrivere una recensione, per me valgono quanto un pagamento. Buona lettura!

2: UNA NUOVA FAMIGLIA

Aprii gli occhi di colpo, rizzandomi a sedere come se improvvisamente fossi stato attraversato da una scossa elettrica. Impiegai qualche secondo per rendermi conto di essere davvero sveglio: i postumi del sogno faticavano a lasciare la mia testa. Stordito, mi guardai in giro, e mi sentii stranamente perso: la camera dove mi trovavo era allo stesso tempo familiare ed estranea. La stanza nella quale ricordavo di aver passato gran parte della mia vita era piccolo, anche se accogliente, con un letto singolo incastrato tra due pareti e sormontato da una grande bandiera della mia squadra di calcio preferita, e letteralmente ogni centimetro disponibile occupato da scaffali e armadi, molti dei quali pieni di libri. Quella nella quale mi trovavo, invece, era relativamente grande, con mobili di legno apparentemente fatti a mano, incluso il letto ad una piazza e mezzo sul quale ero sdraiato. Un raggio di sole penetrava dalle persiane verde acqua, abbastanza luminoso da farmi capire che era mattina inoltrata e da permettermi di vedere bene ogni dettaglio. Non potetti fare a meno di sorridere quando, sui ripiani della libreria, vidi tomi con titoli come ‘Animali Fantastici e Dove Trovarli’, ‘Mille Erbe e Funghi Magici’ e ‘Trasfigurazione, livello intermedio”. I normali libri di testo di uno studente di Hogwarts sul punto di iniziare il suo quarto anno di istruzione. Sul comodino a fianco del mio letto, accanto ad una lampada a forma di bottiglia, era appoggiata una bacchetta magica di legno rossiccio. Per il resto, c’erano tutti i segni tipici della stanza di un adolescente: abiti sparsi letteralmente in ogni angolo, a diversi livelli di pulizia e spiegazzatura, oggetti che sembravano mantenersi miracolosamente in bilico in posizioni improbabili e, sopra la scrivania, una inquietante cumulo di libri, pergamene, boccette d’inchiostro, piume e altro materiale scolastico, residuo di un tentativo non particolarmente fruttuoso di svolgere i compiti delle vacanze. Appeso alla parete c’era un poster della squadra di Quidditch dei Finchbury Finchies, pluricampioni degli Stati Uniti, come avevo scoperto, o per meglio dire, ri-scoperto, circa un mese prima.

Questo erano state, in buona sostanza, le quattro settimane estive che avevo passato a Bangor, nel nord del Galles, dopo il mio ritorno da Hogwarts: una lunga serie di scoperte che, in realtà, avevano significato il ritorno delle memorie di Joshua Carter: se per lui sarebbe stato un semplice ritorno a casa, per me aveva significato conoscere un nuovo mondo. E, soprattutto, una nuova famiglia.

Quello di mia madre e mia sorella era un pensiero allegro, che però non durò molto. Mentre mi toglievo il pigiama ed indossavo un paio di jeans e una maglietta, non potetti fare a meno di riflettere su ciò che la misteriosa donna vestita di luce mi aveva detto: certo, aveva chiarito molti misteri, ed aveva risposto a parecchie delle domande che mi ero posto negli ultimi mesi, ma aveva lasciato fin troppi punti oscuri. Per di più, il peso di tutte le cose che mi aveva raccontato era a dir poco schiacciante: una forza superiore, forse di livello divino, non solo mi aveva scelto, ma aveva organizzato il mio ‘trasporto’ in una realtà che, a quanto ne sapevo io, doveva esistere solo in una saga di libri! Già, perché a questo ci ero arrivato da solo senza che la donna me lo confermasse: il mio incidente non era stato casuale, era stato il suo modo per farmi compiere il viaggio. C’era di che farsi venire un mal di testa da primato… di nuovo.

‘Beh, qualsiasi cosa questa entità e la Signora Voce avessero in mente, non è andata come si aspettavano -  pensai con una punta di furia mentre mi legavo una scarpa – Minus è fuggito, io ho sbagliato tutto e la guerra che lei ha previsto arriverà comunque’. In buona sostanza, mi avevano strappato alla mia vita senza ottenere alcun risultato.

Eppure…

Rimasi pensieroso davanti alla porta della mia camera, momentaneamente incapace di aprirla. Nonostante tutto, io ero ancora lì: non ero tornato indietro, non ero scomparso nel nulla. Ero rimasto in quel mondo, e la donna aveva ragione: doveva per forza esserci una ragione. Scoprire quale potesse essere, mi dissi mentre finalmente mi decidevo ad oltrepassare la soglia e a dirigermi verso le scale per scendere al piano di sotto, andava, almeno per il momento, oltre le mie capacità, ma qualcosa, non saprei dire se su indicazione della Signora Voce o del mio istinto, mi diceva che non sarebbe stato sempre così, che avrei capito al momento giusto. Fu quindi con un animo un po’ più sereno che entrai in cucina, e non ebbi problemi a esclamare con allegria: “Buongiorno, mie signore”.

“Giorno si è fatto da un bel po’, Bell’Addormentato” disse con una punta di ironia una voce femminile, proveniente da una donna impegnata ai fornelli, mentre da un lato di un tavolo di quercia vidi una ragazzina farmi una infantile linguaccia, alla quale risposi volentieri.

Mia madre e mia sorella erano state una sorpresa fin dal momento nel quale le avevo incontrate a King’s Cross: nonostante avessi recuperato la stragrande maggioranza dei ricordi di Joshua Carter, per qualche motivo avevo un ricordo molto remoto e vago del loro aspetto, così come di quello di mio padre. Considerando, però, che se presi alla stessa età, Joshua Carter e Matteo Simoncini erano praticamente due gocce d’acqua, mi ero costruito in testa un’immagine che tendeva a coincidere con mia…con la madre di Matteo. In realtà, in quel caso, anche se innegabilmente le due donne si somigliavano, non c’era una vera e propria identità come tra i figli. La madre di Matteo era bassa, rotondetta, con i capelli a caschetto castani ormai strinati di grigio. Katherine Jones aveva a sua volta i capelli castani che le arrivavano a metà collo, ma il grigio era sostituito da striature bionde, era molto magra, e rispetto all’altra donna aveva dieci centimetri di altezza in più e, apparentemente, dieci anni d’età in meno. Gli occhi, però, erano inconfondibili: Matteo aveva ereditato il marrone screziato di verde dalla madre, e lo stesso sembrava aver fatto Joshua. Occhi che, in entrambi i casi, sembravano avere quasi sempre un sorriso per il figlio, anche se era un sorriso variabile, capace di adattarsi alle necessità: poteva essere allegro, come in quel momento, durante un quieto momento familiare, ma anche comprensivo se uno dei due figli aveva bisogno di consiglio o consolazione, oppure poteva diventare inquisitorio, se non predatorio, quando riteneva che avessero fatto qualcosa che non avrebbe approvato.

Immaginarmi Sheila era stato ancora più difficile, perché mi mancava un valido termine di paragone, non avendo Matteo alcuna sorella. La figura che avevo costruito era in qualche modo simile a mia cugina, ma la bambina non ancora undicenne somigliava in maniera molto labile alla Sara che avevo lasciato dall’altra parte: di poco più bassa nonostante i tre anni di differenza, aveva la stessa figura sottile della madre, anche se i riflessi dei suoi capelli, più che al biondo, tendevano al ramato. Anche se qualcosa nei tratti del volto rammentava Joshua, il resto, dalla struttura fisica al modo di muoversi e camminare, ricordavano piuttosto la donna che in quel momento stava versando in una padella l’impasto per i pancakes. Immaginai che io… o forse avrei dovuto dire Joshua… somigliasse maggiormente a quel padre che, dopo l’invio del regalo di Natale, non aveva più dato alcun segno di ricordare di avere due figli in Gran Bretagna. Ebbi un piccolo capogiro, come mi accadeva quasi sempre quando mi trovavo a mettere a confronto le vite di Matteo e Joshua: altro che sdoppiamento di personalità! Nonostante il tempo trascorso, era ancora difficile rapportarmi al fatto di avere i ricordi di due persone differenti in un solo corpo. Ci sono persone che parlano con se stesse in terza persona, ma nel mio caso la situazione a volte rischiava di diventare ridicola!

Cercando di ignorare la sensazione di malessere, mi lasciai cadere sulla sedia di fronte a Sheila, che continuava a divertirsi nel farmi le boccacce come solo una ragazzina che ancora indugia nell’infanzia può fare. Mio malgrado, mi trovai a sorridere: per me, che ero cresciuto con soltanto un fratello più grande, avere una sorellina si stava rivelando molto divertente, benché a volte potesse essere frustrante. Sheila era pestifera come poche persone avessi mai conosciuto, e sapeva essere incredibilmente pungente, in una maniera che solo per un pre-adolescente poteva essere sopportabile. O quasi.

Non potetti fare a meno di leccarmi i baffi quando mia madre mi mise davanti un piatto con una pila di pancakes al miele: se la famiglia aveva lasciato l’America, sembrava che l’America non avesse lasciato la famiglia! Avevo a malapena tagliato il primo boccone, però, quando la voce della donna mi bloccò con una frase che, con qualche piccola modifica, avevo sentito fin troppe volte nella mia vita: “Ti sei deciso finalmente a mettere a posto in quel nido di Doxy che hai il coraggio di chiamare camera?”.

La mia carissima sorellina non risparmiò un ghigno perfettamente visibile, mentre io dovetti trattenermi per evitare, allo stesso tempo, una risata ed uno sbuffo esasperato: si può cambiare anche universo, ma le madri rimarranno sempre uguali!

“Ehm… ho iniziato! – borbottai, sentendomi di nuovo un quattordicenne quanto mai prima di allora – Ho sistemato l’armadio ed i cassetti, ora devo mettere a posto la libreria, la scrivania e… beh… il pavimento. Ma ti prometto che finirò…”.

“Quando mi spunteranno le pinne al posto dei piedi” concluse mia madre con aria sconsolata , dando a mia sorella una ragione per farsi un’altra risata, poi si sedette al tavolo stringendo in mano una grossa tazza di caffè e mi fissò con occhi penetranti: “E con i compiti a che punto stai? Mancano meno di dieci giorni al rientro a scuola, immagino che li avrai praticamente finiti”.

Appunto… se a livello estetico Katherine non era esattamente uguale a mia madre, per atteggiamento e discorsi avrebbero potuto essere gemelle. Dopo la camera da sistemare, i compiti. E purtroppo, mi trovavo ad essere nuovamente in fallo: “Beh…diciamo quasi finiti. Ho completato i temi di Storia della Magia, Difesa Contro le Arti Oscure e Trasfigurazione, gli esercizi di Incantesimi ed Astronomia…”.

“E per quanto riguarda Pozioni ed Erbologia? – chiese mia madre, sorseggiando il caffè e squadrandomi con occhio indagatore. Mia sorella ormai rideva senza ritegno. La fulminai: ‘Aspetta solo un paio di settimane, ragazzina – pensai – poi vedrai cosa significano i compiti di Hogwarts!’. Sheila avrebbe affrontato il suo primo anno alla scuola di lì a pochi giorni.

“Ancora da fare” risposi con semplicità, sapendo che non sarebbe stato sufficiente. Se mia madre era stata chiaramente felice di rivedermi, c’erano stati alcuni punti di contrasto nei primi giorni dopo la fine delle vacanze. Il mio carattere era stato uno dei problemi: a quanto pareva, nonostante ormai mi fossi più o meno messo in pari con i ricordi del mio alter ego, il Joshua Carter che era sceso dall’Hogwarts Express era piuttosto differente da quello che ci era salito dieci mesi prima. I ragazzi a scuola lo avevano conosciuto solo per poco più di due mesi prima del mio ‘viaggio’, quindi non avevano faticato troppo ad accettare che, dopo l’incidente che gli era accaduto sulla scopa, il ragazzo timido ed un po’ schivo giunto dall’America fosse diventato ostinato e permaloso, ben deciso ad avere l’ultima parola su tutto. Per mia madre, invece, era stato decisamente più complicato, ed aveva significato, nella prima settimana dopo il mio ritorno, una lunga serie di litigate da far tremare le pareti, prima che io riuscissi a darmi una calmata e che mia madre arrivasse alla conclusione che il mio nuovo atteggiamento fosse strettamente collegato agli ormoni e alla volontà di ribellione di un ragazzo ormai pienamente entrato nell’adolescenza.

Il secondo problema, almeno altrettanto serio, aveva riguardato la pagella scolastica. In realtà, dal mio punto di vista, i voti erano buoni: avevo ottenuto il massimo a Storia della Magia (praticamente un record per chiunque non si chiamasse Hermione Granger), voti molto alti in Incantesimi, Trasfigurazione e Difesa Contro le Arti Oscure e la sufficienza in tutte le altre materie, perfino in Pozioni, dove avevo seriamente temuto la bocciatura. Questo, però, non sembrava aver soddisfatto pienamente mia madre, soprattutto per quanto riguardava Erbologia: quella materia era il suo lavoro, e a quanto pareva, finché aveva frequentato Ilvernmonry, era stata anche una delle preferite di suo figlio, quindi il mio crollo doveva essersi rivelato, per lei, particolarmente deludente.

“Una piccola domanda per te, Joshua – sibilò in maniera pericolosa mia madre, mentre la carognetta undicenne davanti a me continuava a ridere sotto i baffi – Tu sai chi mi ha spedito un gufo appena due giorni dopo la fine della scuola?”.

Sentendo di stare saltando dentro la bocca di uno squalo, scossi la testa.

“Va bene, una domanda più semplice allora: sai chi è la persona che stimo di più in questo paese, quella che mi ha insegnato l’amore per le piante, che mi ha spinto a scegliere questo lavoro dopo il mio settimo anno?”.

Con l’orribile impressione di avere intuito la risposta, feci un secondo cenno di diniego.

“La risposta è la stessa ad entrambe le domande – il sibilo di mia madre si trasformò in qualcosa di molto simile ad un ringhio – Pomona Sprite, mia insegnante ai tempi di Hogwarts prima e mia ottima amica poi. Mi ha scritto una bella lettera nella quale sottolinea che, dopo un buon inizio d’anno, hai avuto un crollo improvviso quanto incomprensibile nella sua materia. Benché tu ti sia salvato per il rotto della cuffia nell’esame finale, sei andato ad un soffio dalla bocciatura – si passò una mano sulla fronte – Ho rinunciato a capire cosa ti sia successo, considerando che prima adoravi l’Erbologia e rischiavi di addormentarti su qualsiasi libro di Storia, ma che tu abbia avuto una crisi mistica o una commozione celebrale dopo il Bolide che hai preso in testa, la sostanza non cambia: mi rifiuto di credere che mio figlio non sia in grado di prendere un voto decente in Erbologia! E tu cosa fai? Mancano dieci giorni all’inizio della scuola e neanche hai iniziato i compiti! Al tuo ritorno pretendo che ti ci dedichi con tutto l’impegno possibile!”.

Ero talmente preso dalla ramanzina che impiegai qualche secondo per registrare le ultime parole: “Il mio… ritorno? Da dove?”.

Katherine mi fissò con un sopracciglio inarcato: “Che fai, mi prendi in giro?”.

Scossi la testa con sguardo vacuo: “Non ho la minima idea di cosa tu stia parlando, giuro! Devo andare da qualche parte?”.

Uno sbuffo di frustrazione giunse dall’altra parte del tavolo: “Ti sei svegliato dal lato stupido del letto, fratellone?” chiese mia sorella con voce contrariata.

Mi voltai verso di lei: aveva il gomito sul tavolo e la testa appoggiata alla mano. Sembrava allo steso tempo delusa ed arrabbiata: “Non ti ricordi veramente che giorno è? Non ti viene in mente un certo impegno che hai questo pomeriggio, un certo posto dove devi andare? – vedendo che continuavo a non capire, sbuffò nuovamente – Che razza di imbranato! Hai tutte le fortune del mondo e neanche te ne ricordi!”.

Continuavo a non capire: era come se il sogno avesse lasciato una coltre di nebbia sulla mia memoria, e non riuscivo proprio a ricordare, anche se la chiara invidia che in quel momento trasudava da mia sorella stava smuovendo qualcosa. In cerca d’ispirazione, girai distrattamente la testa verso il calendario appeso al muro: era il 21 agosto, e vidi che la data era cerchiata di rosso. Quella del giorno successivo, invece, era seguita da una serie di punti esclamativi. Fu come se una diga fosse improvvisamente crollata all’interno della mia testa, e un sorriso di pura felicità mi spuntò sulle labbra: “LA PARTITA! – urlai – Idiota che sono, non ricordavo che giorno è!”.

Mia madre gettò gli occhi all’indietro, con aria di commiserazione per lo stato della mia mente, mentre mia sorella sbuffò di nuovo, chiaramente contrariata. D’altronde, potevo capirla: era dal Natale precedente che io smaniavo per quell’occasione. La sera successiva, a Dartmoor, si sarebbe tenuta la finale della Coppa del Mondo di Quidditch, con ogni probabilità l’evento sportivo più importante del mondo dei maghi: Irlanda e Bulgaria si sarebbero affrontate davanti a centomila spettatori, e io sarei stato uno di loro! Mio padre, o il padre di Joshua, o comunque volessi chiamarlo, era un Auror americano che aveva divorziato da mia madre l’estate precedente, e che mi aveva mandato, come dono natalizio, un biglietto omaggio per la grande partita. Da quando lo aveva saputo, mia sorella aveva covato un’invidia difficile anche solo da descrivere; avrebbe fatto letteralmente qualsiasi cosa per venire anche lei, ma purtroppo si era rivelato impossibile: a quanto avevo capito dopo il mio ritorno a casa, non eravamo poveri, ma neanche navigavamo nell’oro, e i biglietti per la grande partita costavano una piccola fortuna. Perfino mio padre ne aveva ottenuto uno solo, ed aveva deciso di spedirlo a me.

“Non è giusto – borbottò mia sorella per quella che doveva essere come minimo la dodicesima volta dal mio ritorno dalla scuola – Io adoro il Quidditch anche più di lui, perché non posso andare?”.

“Dai, Sheila, ne abbiamo già parlato – intervenne mia madre, cercando di stemperare una eventuale lite sul nascere – Lo sai come stanno le cose, purtroppo per questa volta non è possibile -  le sorrise con sguardo rassicurante – Tu domani verrai a Londra con la mamma, andremo a Diagon Alley a comprare le cose per la scuola!”.

“Già, grazie mille mammina! – sospirò la ragazzina con tutta l’ironia che fu capace di mettere nella frase – E’ esattamente la stessa cosa, davvero!”.

Mia madre alzò di nuovo gli occhi al cielo e si avvicinò al lavello, borbottando qualcosa sui figli adolescenti. Dal canto mio, iniziai a mangiare cercando di evitare gli sguardi accusatori di mia sorella. In realtà, benché fossi più che felice di poter andare alla partita, sapevo che aveva tutte le ragioni di essere infuriata, lo sarei stato anch’io al suo posto: scegliendo di prediligere un figlio rispetto all’altro, mio padre aveva compiuto un gesto piuttosto insolito per un genitore, ma da quando ero tornato a casa avevo fatto abbastanza chiarezza nella memoria di Joshua Carter da capirne il motivo.

A quanto pareva, era stato Grant Carter a causare il divorzio con Katherine, tradendola ripetutamente con diverse donne, come quel coglione di Nott si era premurato di ricordarmi. Joshua era grande abbastanza per capire quello che stava accadendo, e proprio per questa ragione si era infuriato. Oddio, infuriato era un termine riduttivo: da quanto riuscivo a ricordare, c’era stata una impressionante lite tra padre e figlio, con Grant che cercava inutilmente di giustificarsi e Joshua che gli vomitava addosso tutto l’odio che aveva accumulato dentro di se assimilando un anno di urla in famiglia. Non ero in grado di ricordare esattamente che cosa fosse uscito da quella che ormai era la mia bocca, ma rammentavo il finale: Joshua aveva urlato a suo padre di odiarlo, e che non intendeva vederlo mai più. Dopo quell’occasione Grant non aveva più cercato un contatto con il figlio, non aveva tentato di vederlo e non gli aveva scritto, come non aveva tentato di parlare con Sheila, nonostante lei non provasse per lui lo stesso grado di ostilità. Il biglietto doveva essere stato un disperato tentativo di chiedere scusa a Joshua per l’accaduto. Da parte mia, non sapevo veramente come comportarmi: sentivo di provare ancora una notevole rabbia nei confronti di quell’uomo che non avevo mai visto, anche se non allo stesso livello del mio ‘alter ego’. Avevo accettato il regalo, ma non avevo intenzione, almeno per il momento, di tendere la mano ad un padre che non aveva avuto neppure il coraggio di ammettere i suoi errori e che, in ogni caso, aveva scelto di ignorare quasi interamente i suoi figli per un anno.

“In ogni caso – riprese mia madre, cercando di ignorare il pessimo umore di Sheila – stamattina, mentre tu eri ancora beatamente nel mondo dei sogni, è arrivato un gufo dalla signora Finnegan: ha detto che passerà a prenderti alle tre del pomeriggio. Quindi, per quel momento, vedi di aver finito di sistemare la tua camera e di aver preparato il tuo zaino, o potrei cambiare idea e spedire Sheila al tuo posto!” concluse con una risatina che indignò ulteriormente la ragazzina.

La signora Finnegan era stata la soluzione ad un problema che mi ero posto già a Natale, non appena ricevuto il biglietto: Joshua Carter aveva compiuto quattordici anni solo un mese prima…o meglio, io avevo compiuto quattordici anni un mese prima, per la seconda volta. Di certo non avrei potuto recarmi ad assistere alla partita da solo, per quanto me ne sentissi, logicamente, del tutto in grado. Era una questione non da poco, con un solo biglietto a disposizione, e per quanto sul momento ci avessi pensato, non avevo realmente intenzione di scappare di casa. La soluzione era giunta da Seamus Finnigan, che con Dean Thomas era il mio migliore amico ad Hogwarts, e che era, tra le altre cose, un grande tifoso di Quidditch e un irlandese purosangue. Con la sua nazionale in finale, lui e la madre avevano deciso di assistere alla partita. Si sarebbero recati sul luogo del match con un giorno d’anticipo, passando due notti in tenda, e la signora Finnegan si era dichiarata più che disponibile a portarmi con loro, cosa che aveva tranquillizzato mia madre e spedito me al settimo cielo. Non riuscivo ancora a spiegarmi come avessi fatto a dimenticarmene!

Trangugiai a tutta velocità i pancakes, ignorando gli sguardi di disapprovazione di mia sorella, poi schizzai in piedi e corsi su per le scale. Se avevo imparato una cosa in poco meno di due mesi, era che Katherine, come la madre che avevo lasciato dall’altra parte, scherzava sempre solo fino ad un certo punto, e per sicurezza, sarebbe stato meglio sistemare la camera ben prima delle tre del pomeriggio!

  
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