Salve di nuovo a tutti i miei lettori. Ho scelto di anticipare di qualche giorno la pubblicazione di questo nuovo capitolo, considerando che per il momento avevo messo soltanto il primo e che, d'altro canto, sono relativamente avanti nella scrittura dei successivi. Indicativamente, quindi, il prossimo sarà inserito il 24 gennaio. Vi chiedo nuovamente, se possibile, di dedicare qualche minuto del vostro tempo a scrivere una recensione, per me valgono quanto un pagamento. Buona lettura!
2: UNA NUOVA FAMIGLIA
Aprii gli occhi di colpo, rizzandomi
a sedere come se
improvvisamente fossi stato attraversato da una scossa elettrica.
Impiegai
qualche secondo per rendermi conto di essere davvero sveglio: i postumi
del
sogno faticavano a lasciare la mia testa. Stordito, mi guardai in giro,
e mi
sentii stranamente perso: la camera dove mi trovavo era allo stesso
tempo
familiare ed estranea. La stanza nella quale ricordavo di aver passato
gran
parte della mia vita era piccolo, anche se accogliente, con un letto
singolo
incastrato tra due pareti e sormontato da una grande bandiera della mia
squadra
di calcio preferita, e letteralmente ogni centimetro disponibile
occupato da
scaffali e armadi, molti dei quali pieni di libri. Quella nella quale
mi
trovavo, invece, era relativamente grande, con mobili di legno
apparentemente
fatti a mano, incluso il letto ad una piazza e mezzo sul quale ero
sdraiato. Un
raggio di sole penetrava dalle persiane verde acqua, abbastanza
luminoso da
farmi capire che era mattina inoltrata e da permettermi di vedere bene
ogni
dettaglio. Non potetti fare a meno di sorridere quando, sui ripiani
della
libreria, vidi tomi con titoli come ‘Animali
Fantastici e Dove Trovarli’,
‘Mille Erbe e Funghi Magici’ e
‘Trasfigurazione, livello intermedio”.
I normali libri di testo di uno studente di Hogwarts sul punto di
iniziare il
suo quarto anno di istruzione. Sul comodino a fianco del mio letto,
accanto ad
una lampada a forma di bottiglia, era appoggiata una bacchetta magica
di legno
rossiccio. Per il resto, c’erano tutti i segni tipici della
stanza di un
adolescente: abiti sparsi letteralmente in ogni angolo, a diversi
livelli di
pulizia e spiegazzatura, oggetti che sembravano mantenersi
miracolosamente in
bilico in posizioni improbabili e, sopra la scrivania, una inquietante
cumulo
di libri, pergamene, boccette d’inchiostro, piume e altro
materiale scolastico,
residuo di un tentativo non particolarmente fruttuoso di svolgere i
compiti
delle vacanze. Appeso alla parete c’era un poster della
squadra di Quidditch
dei Finchbury Finchies, pluricampioni degli Stati Uniti, come avevo
scoperto, o
per meglio dire, ri-scoperto, circa un mese prima.
Questo erano state, in buona
sostanza, le quattro settimane
estive che avevo passato a Bangor, nel nord del Galles, dopo il mio
ritorno da
Hogwarts: una lunga serie di scoperte che, in realtà,
avevano significato il
ritorno delle memorie di Joshua Carter: se per lui sarebbe stato un
semplice
ritorno a casa, per me aveva significato conoscere un nuovo mondo. E,
soprattutto, una nuova famiglia.
Quello di mia madre e mia sorella era
un pensiero allegro,
che però non durò molto. Mentre mi toglievo il
pigiama ed indossavo un paio di
jeans e una maglietta, non potetti fare a meno di riflettere su
ciò che la
misteriosa donna vestita di luce mi aveva detto: certo, aveva chiarito
molti
misteri, ed aveva risposto a parecchie delle domande che mi ero posto
negli
ultimi mesi, ma aveva lasciato fin troppi punti oscuri. Per di
più, il peso di
tutte le cose che mi aveva raccontato era a dir poco schiacciante: una
forza
superiore, forse di livello divino, non solo mi aveva scelto, ma aveva
organizzato il mio ‘trasporto’ in una
realtà che, a quanto ne sapevo io, doveva
esistere solo in una saga di libri! Già, perché a
questo ci ero arrivato da
solo senza che la donna me lo confermasse: il mio incidente non era
stato
casuale, era stato il suo modo per farmi compiere il viaggio.
C’era di che
farsi venire un mal di testa da primato… di nuovo.
‘Beh, qualsiasi cosa questa
entità e la Signora Voce avessero
in mente, non è andata come si aspettavano - pensai con una punta di
furia mentre mi legavo
una scarpa – Minus è fuggito, io ho sbagliato
tutto e la guerra che lei ha
previsto arriverà comunque’. In buona sostanza, mi
avevano strappato alla mia
vita senza ottenere alcun risultato.
Eppure…
Rimasi pensieroso davanti alla porta
della mia camera,
momentaneamente incapace di aprirla. Nonostante tutto, io ero ancora
lì: non
ero tornato indietro, non ero scomparso nel nulla. Ero rimasto in quel
mondo, e
la donna aveva ragione: doveva per forza esserci una ragione. Scoprire
quale
potesse essere, mi dissi mentre finalmente mi decidevo ad oltrepassare
la
soglia e a dirigermi verso le scale per scendere al piano di sotto,
andava,
almeno per il momento, oltre le mie capacità, ma qualcosa,
non saprei dire se
su indicazione della Signora Voce o del mio istinto, mi diceva che non
sarebbe
stato sempre così, che avrei capito al momento giusto. Fu
quindi con un animo
un po’ più sereno che entrai in cucina, e non ebbi
problemi a esclamare con
allegria: “Buongiorno, mie signore”.
“Giorno si è
fatto da un bel po’, Bell’Addormentato”
disse
con una punta di ironia una voce femminile, proveniente da una donna
impegnata
ai fornelli, mentre da un lato di un tavolo di quercia vidi una
ragazzina farmi
una infantile linguaccia, alla quale risposi volentieri.
Mia madre e mia sorella erano state
una sorpresa fin dal
momento nel quale le avevo incontrate a King’s Cross:
nonostante avessi
recuperato la stragrande maggioranza dei ricordi di Joshua Carter, per
qualche
motivo avevo un ricordo molto remoto e vago del loro aspetto,
così come di
quello di mio padre. Considerando, però, che se presi alla
stessa età, Joshua
Carter e Matteo Simoncini erano praticamente due gocce
d’acqua, mi ero
costruito in testa un’immagine che tendeva a coincidere con
mia…con la madre di
Matteo. In realtà, in quel caso, anche se innegabilmente le
due donne si
somigliavano, non c’era una vera e propria
identità come tra i figli. La madre
di Matteo era bassa, rotondetta, con i capelli a caschetto castani
ormai
strinati di grigio. Katherine Jones aveva a sua volta i capelli castani
che le
arrivavano a metà collo, ma il grigio era sostituito da
striature bionde, era
molto magra, e rispetto all’altra donna aveva dieci
centimetri di altezza in
più e, apparentemente, dieci anni d’età
in meno. Gli occhi, però, erano
inconfondibili: Matteo aveva ereditato il marrone screziato di verde
dalla
madre, e lo stesso sembrava aver fatto Joshua. Occhi che, in entrambi i
casi,
sembravano avere quasi sempre un sorriso per il figlio, anche se era un
sorriso
variabile, capace di adattarsi alle necessità: poteva essere
allegro, come in
quel momento, durante un quieto momento familiare, ma anche comprensivo
se uno
dei due figli aveva bisogno di consiglio o consolazione, oppure poteva
diventare inquisitorio, se non predatorio, quando riteneva che avessero
fatto
qualcosa che non avrebbe approvato.
Immaginarmi Sheila era stato ancora
più difficile, perché mi
mancava un valido termine di paragone, non avendo Matteo alcuna
sorella. La
figura che avevo costruito era in qualche modo simile a mia cugina, ma
la bambina
non ancora undicenne somigliava in maniera molto labile alla Sara che
avevo lasciato
dall’altra parte: di poco più bassa nonostante i
tre anni di differenza, aveva
la stessa figura sottile della madre, anche se i riflessi dei suoi
capelli, più
che al biondo, tendevano al ramato. Anche se qualcosa nei tratti del
volto
rammentava Joshua, il resto, dalla struttura fisica al modo di muoversi
e
camminare, ricordavano piuttosto la donna che in quel momento stava
versando in
una padella l’impasto per i pancakes. Immaginai che
io… o forse avrei dovuto
dire Joshua… somigliasse maggiormente a quel padre che, dopo
l’invio del regalo
di Natale, non aveva più dato alcun segno di ricordare di
avere due figli in
Gran Bretagna. Ebbi un piccolo capogiro, come mi accadeva quasi sempre
quando
mi trovavo a mettere a confronto le vite di Matteo e Joshua: altro che
sdoppiamento di personalità! Nonostante il tempo trascorso,
era ancora
difficile rapportarmi al fatto di avere i ricordi di due persone
differenti in
un solo corpo. Ci sono persone che parlano con se stesse in terza
persona, ma
nel mio caso la situazione a volte rischiava di diventare ridicola!
Cercando di ignorare la sensazione di
malessere, mi lasciai
cadere sulla sedia di fronte a Sheila, che continuava a divertirsi nel
farmi le
boccacce come solo una ragazzina che ancora indugia
nell’infanzia può fare. Mio
malgrado, mi trovai a sorridere: per me, che ero cresciuto con soltanto
un
fratello più grande, avere una sorellina si stava rivelando
molto divertente,
benché a volte potesse essere frustrante. Sheila era
pestifera come poche
persone avessi mai conosciuto, e sapeva essere incredibilmente
pungente, in una
maniera che solo per un pre-adolescente poteva essere sopportabile. O
quasi.
Non potetti fare a meno di leccarmi i
baffi quando mia madre
mi mise davanti un piatto con una pila di pancakes al miele: se la
famiglia
aveva lasciato l’America, sembrava che l’America
non avesse lasciato la
famiglia! Avevo a malapena tagliato il primo boccone, però,
quando la voce della
donna mi bloccò con una frase che, con qualche piccola
modifica, avevo sentito
fin troppe volte nella mia vita: “Ti sei deciso finalmente a
mettere a posto in
quel nido di Doxy che hai il coraggio di chiamare camera?”.
La mia carissima sorellina non
risparmiò un ghigno
perfettamente visibile, mentre io dovetti trattenermi per evitare, allo
stesso
tempo, una risata ed uno sbuffo esasperato: si può cambiare
anche universo, ma
le madri rimarranno sempre uguali!
“Ehm… ho
iniziato! – borbottai, sentendomi di nuovo un
quattordicenne quanto mai prima di allora – Ho sistemato
l’armadio ed i
cassetti, ora devo mettere a posto la libreria, la scrivania
e… beh… il
pavimento. Ma ti prometto che finirò…”.
“Quando mi spunteranno le
pinne al posto dei piedi” concluse
mia madre con aria sconsolata , dando a mia sorella una ragione per
farsi
un’altra risata, poi si sedette al tavolo stringendo in mano
una grossa tazza
di caffè e mi fissò con occhi penetranti:
“E con i compiti a che punto stai?
Mancano meno di dieci giorni al rientro a scuola, immagino che li avrai
praticamente finiti”.
Appunto… se a livello
estetico Katherine non era esattamente
uguale a mia madre, per atteggiamento e discorsi avrebbero potuto
essere
gemelle. Dopo la camera da sistemare, i compiti. E purtroppo, mi
trovavo ad
essere nuovamente in fallo: “Beh…diciamo quasi
finiti. Ho completato i
temi di Storia della Magia, Difesa Contro le Arti Oscure e
Trasfigurazione, gli
esercizi di Incantesimi ed Astronomia…”.
“E per quanto riguarda
Pozioni ed Erbologia? – chiese mia
madre, sorseggiando il caffè e squadrandomi con occhio
indagatore. Mia sorella
ormai rideva senza ritegno. La fulminai: ‘Aspetta solo un
paio di settimane,
ragazzina – pensai – poi vedrai cosa significano i
compiti di Hogwarts!’.
Sheila avrebbe affrontato il suo primo anno alla scuola di
lì a pochi giorni.
“Ancora da fare”
risposi con semplicità, sapendo che non
sarebbe stato sufficiente. Se mia madre era stata chiaramente felice di
rivedermi, c’erano stati alcuni punti di contrasto nei primi
giorni dopo la
fine delle vacanze. Il mio carattere era stato uno dei problemi: a
quanto
pareva, nonostante ormai mi fossi più o meno messo in pari
con i ricordi del
mio alter ego, il Joshua Carter che era sceso dall’Hogwarts
Express era
piuttosto differente da quello che ci era salito dieci mesi prima. I
ragazzi a
scuola lo avevano conosciuto solo per poco più di due mesi
prima del mio
‘viaggio’, quindi non avevano faticato troppo ad
accettare che, dopo
l’incidente che gli era accaduto sulla scopa, il ragazzo
timido ed un po’
schivo giunto dall’America fosse diventato ostinato e
permaloso, ben deciso ad
avere l’ultima parola su tutto. Per mia madre, invece, era
stato decisamente
più complicato, ed aveva significato, nella prima settimana
dopo il mio
ritorno, una lunga serie di litigate da far tremare le pareti, prima
che io
riuscissi a darmi una calmata e che mia madre arrivasse alla
conclusione che il
mio nuovo atteggiamento fosse strettamente collegato agli ormoni e alla
volontà
di ribellione di un ragazzo ormai pienamente entrato
nell’adolescenza.
Il secondo problema, almeno
altrettanto serio, aveva
riguardato la pagella scolastica. In realtà, dal mio punto
di vista, i voti erano
buoni: avevo ottenuto il massimo a Storia della Magia (praticamente un
record
per chiunque non si chiamasse Hermione Granger), voti molto alti in
Incantesimi, Trasfigurazione e Difesa Contro le Arti Oscure e la
sufficienza in
tutte le altre materie, perfino in Pozioni, dove avevo seriamente
temuto la
bocciatura. Questo, però, non sembrava aver soddisfatto
pienamente mia madre,
soprattutto per quanto riguardava Erbologia: quella materia era il suo
lavoro,
e a quanto pareva, finché aveva frequentato Ilvernmonry, era
stata anche una
delle preferite di suo figlio, quindi il mio crollo doveva essersi
rivelato,
per lei, particolarmente deludente.
“Una piccola domanda per
te, Joshua – sibilò in maniera
pericolosa mia madre, mentre la carognetta undicenne davanti a me
continuava a
ridere sotto i baffi – Tu sai chi mi ha spedito un gufo
appena due giorni dopo
la fine della scuola?”.
Sentendo di stare saltando dentro la
bocca di uno squalo, scossi
la testa.
“Va bene, una domanda
più semplice allora: sai chi è la
persona che stimo di più in questo paese, quella che mi ha
insegnato l’amore
per le piante, che mi ha spinto a scegliere questo lavoro dopo il mio
settimo
anno?”.
Con l’orribile impressione
di avere intuito la risposta,
feci un secondo cenno di diniego.
“La risposta è
la stessa ad entrambe le domande – il sibilo
di mia madre si trasformò in qualcosa di molto simile ad un
ringhio – Pomona
Sprite, mia insegnante ai tempi di Hogwarts prima e mia ottima amica
poi. Mi ha
scritto una bella lettera nella quale sottolinea che, dopo un buon
inizio
d’anno, hai avuto un crollo improvviso quanto incomprensibile
nella sua
materia. Benché tu ti sia salvato per il rotto della cuffia
nell’esame finale,
sei andato ad un soffio dalla bocciatura – si
passò una mano sulla fronte – Ho
rinunciato a capire cosa ti sia successo, considerando che prima
adoravi
l’Erbologia e rischiavi di addormentarti su qualsiasi libro
di Storia, ma che
tu abbia avuto una crisi mistica o una commozione celebrale dopo il
Bolide che
hai preso in testa, la sostanza non cambia: mi rifiuto di credere che
mio
figlio non sia in grado di prendere un voto decente in Erbologia! E tu
cosa
fai? Mancano dieci giorni all’inizio della scuola e neanche
hai iniziato i
compiti! Al tuo ritorno pretendo che ti ci dedichi con tutto
l’impegno
possibile!”.
Ero talmente preso dalla ramanzina
che impiegai qualche
secondo per registrare le ultime parole: “Il mio…
ritorno? Da dove?”.
Katherine mi fissò con un
sopracciglio inarcato: “Che fai,
mi prendi in giro?”.
Scossi la testa con sguardo vacuo:
“Non ho la minima idea di
cosa tu stia parlando, giuro! Devo andare da qualche parte?”.
Uno sbuffo di frustrazione giunse
dall’altra parte del
tavolo: “Ti sei svegliato dal lato stupido del letto,
fratellone?” chiese mia
sorella con voce contrariata.
Mi voltai verso di lei: aveva il
gomito sul tavolo e la
testa appoggiata alla mano. Sembrava allo steso tempo delusa ed
arrabbiata:
“Non ti ricordi veramente che giorno è? Non ti
viene in mente un certo impegno
che hai questo pomeriggio, un certo posto dove devi andare? –
vedendo che
continuavo a non capire, sbuffò nuovamente – Che
razza di imbranato! Hai tutte
le fortune del mondo e neanche te ne ricordi!”.
Continuavo a non capire: era come se
il sogno avesse
lasciato una coltre di nebbia sulla mia memoria, e non riuscivo proprio
a
ricordare, anche se la chiara invidia che in quel momento trasudava da
mia
sorella stava smuovendo qualcosa. In cerca d’ispirazione,
girai distrattamente la
testa verso il calendario appeso al muro: era il 21 agosto, e vidi che
la data
era cerchiata di rosso. Quella del giorno successivo, invece, era
seguita da
una serie di punti esclamativi. Fu come se una diga fosse
improvvisamente
crollata all’interno della mia testa, e un sorriso di pura
felicità mi spuntò
sulle labbra: “LA PARTITA! – urlai –
Idiota che sono, non ricordavo che giorno è!”.
Mia madre gettò gli occhi
all’indietro, con aria di
commiserazione per lo stato della mia mente, mentre mia sorella
sbuffò di
nuovo, chiaramente contrariata. D’altronde, potevo capirla:
era dal Natale
precedente che io smaniavo per quell’occasione. La sera
successiva, a Dartmoor,
si sarebbe tenuta la finale della Coppa del Mondo di Quidditch, con
ogni
probabilità l’evento sportivo più
importante del mondo dei maghi: Irlanda e
Bulgaria si sarebbero affrontate davanti a centomila spettatori, e io
sarei
stato uno di loro! Mio padre, o il padre di Joshua, o comunque volessi
chiamarlo, era un Auror americano che aveva divorziato da mia madre
l’estate
precedente, e che mi aveva mandato, come dono natalizio, un biglietto
omaggio
per la grande partita. Da quando lo aveva saputo, mia sorella aveva
covato
un’invidia difficile anche solo da descrivere; avrebbe fatto
letteralmente
qualsiasi cosa per venire anche lei, ma purtroppo si era rivelato
impossibile:
a quanto avevo capito dopo il mio ritorno a casa, non eravamo poveri,
ma
neanche navigavamo nell’oro, e i biglietti per la grande
partita costavano una
piccola fortuna. Perfino mio padre ne aveva ottenuto uno solo, ed aveva
deciso
di spedirlo a me.
“Non è giusto
– borbottò mia sorella per quella che doveva
essere come minimo la dodicesima volta dal mio ritorno dalla scuola
– Io adoro
il Quidditch anche più di lui, perché non posso
andare?”.
“Dai, Sheila, ne abbiamo
già parlato – intervenne mia madre,
cercando di stemperare una eventuale lite sul nascere – Lo
sai come stanno le
cose, purtroppo per questa volta non è possibile - le sorrise con sguardo
rassicurante – Tu
domani verrai a Londra con la mamma, andremo a Diagon Alley a comprare
le cose
per la scuola!”.
“Già, grazie
mille mammina! – sospirò la ragazzina con tutta
l’ironia che fu capace di mettere nella frase –
E’ esattamente la stessa cosa,
davvero!”.
Mia madre alzò di nuovo
gli occhi al cielo e si avvicinò al
lavello, borbottando qualcosa sui figli adolescenti. Dal canto mio,
iniziai a
mangiare cercando di evitare gli sguardi accusatori di mia sorella. In
realtà,
benché fossi più che felice di poter andare alla
partita, sapevo che aveva
tutte le ragioni di essere infuriata, lo sarei stato anch’io
al suo posto:
scegliendo di prediligere un figlio rispetto all’altro, mio
padre aveva
compiuto un gesto piuttosto insolito per un genitore, ma da quando ero
tornato
a casa avevo fatto abbastanza chiarezza nella memoria di Joshua Carter
da capirne
il motivo.
A quanto pareva, era stato Grant
Carter a causare il divorzio
con Katherine, tradendola ripetutamente con diverse donne, come quel
coglione
di Nott si era premurato di ricordarmi. Joshua era grande abbastanza
per capire
quello che stava accadendo, e proprio per questa ragione si era
infuriato.
Oddio, infuriato era un termine riduttivo: da quanto riuscivo a
ricordare,
c’era stata una impressionante lite tra padre e figlio, con
Grant che cercava
inutilmente di giustificarsi e Joshua che gli vomitava addosso tutto
l’odio che
aveva accumulato dentro di se assimilando un anno di urla in famiglia.
Non ero
in grado di ricordare esattamente che cosa fosse uscito da quella che
ormai era
la mia bocca, ma rammentavo il finale: Joshua aveva urlato a suo padre
di
odiarlo, e che non intendeva vederlo mai più. Dopo
quell’occasione Grant non
aveva più cercato un contatto con il figlio, non aveva
tentato di vederlo e non
gli aveva scritto, come non aveva tentato di parlare con Sheila,
nonostante lei
non provasse per lui lo stesso grado di ostilità. Il
biglietto doveva essere
stato un disperato tentativo di chiedere scusa a Joshua per
l’accaduto. Da
parte mia, non sapevo veramente come comportarmi: sentivo di provare
ancora una
notevole rabbia nei confronti di quell’uomo che non avevo mai
visto, anche se
non allo stesso livello del mio ‘alter ego’. Avevo
accettato il regalo, ma non
avevo intenzione, almeno per il momento, di tendere la mano ad un padre
che non
aveva avuto neppure il coraggio di ammettere i suoi errori e che, in
ogni caso,
aveva scelto di ignorare quasi interamente i suoi figli per un anno.
“In ogni caso –
riprese mia madre, cercando di ignorare il
pessimo umore di Sheila – stamattina, mentre tu eri ancora
beatamente nel mondo
dei sogni, è arrivato un gufo dalla signora Finnegan: ha
detto che passerà a
prenderti alle tre del pomeriggio. Quindi, per quel momento, vedi di
aver
finito di sistemare la tua camera e di aver preparato il tuo zaino, o
potrei
cambiare idea e spedire Sheila al tuo posto!” concluse con
una risatina che
indignò ulteriormente la ragazzina.
La signora Finnegan era stata la
soluzione ad un problema
che mi ero posto già a Natale, non appena ricevuto il
biglietto: Joshua Carter aveva
compiuto quattordici anni solo un mese prima…o meglio, io
avevo compiuto
quattordici anni un mese prima, per la seconda volta. Di certo non
avrei potuto
recarmi ad assistere alla partita da solo, per quanto me ne sentissi,
logicamente, del tutto in grado. Era una questione non da poco, con un
solo
biglietto a disposizione, e per quanto sul momento ci avessi pensato,
non avevo
realmente intenzione di scappare di casa. La soluzione era giunta da
Seamus
Finnigan, che con Dean Thomas era il mio migliore amico ad Hogwarts, e
che era,
tra le altre cose, un grande tifoso di Quidditch e un irlandese
purosangue. Con
la sua nazionale in finale, lui e la madre avevano deciso di assistere
alla
partita. Si sarebbero recati sul luogo del match con un giorno
d’anticipo,
passando due notti in tenda, e la signora Finnegan si era dichiarata
più che
disponibile a portarmi con loro, cosa che aveva tranquillizzato mia
madre e
spedito me al settimo cielo. Non riuscivo ancora a spiegarmi come
avessi fatto
a dimenticarmene!
Trangugiai a tutta
velocità i pancakes, ignorando gli
sguardi di disapprovazione di mia sorella, poi schizzai in piedi e
corsi su per
le scale. Se avevo imparato una cosa in poco meno di due mesi, era che
Katherine, come la madre che avevo lasciato dall’altra parte,
scherzava sempre
solo fino ad un certo punto, e per sicurezza, sarebbe stato meglio
sistemare la
camera ben prima delle tre del pomeriggio!