1. All'ombra delle tapparelle
Era una notte buia e tempestosa… è così che cominciano certe storie, no? E invece no, non era né notte, né tanto meno buio o tempestoso. Anzi, era un caldo e assolato pomeriggio di fine Agosto, di quelli che ti fanno sudare ogni singola goccia d’acqua corporea. Io, fiero guerriero nell’eterna lotta tra l’uomo e il caldo, sedevo immobile nella traiettoria del ventilatore. Qualsiasi sforzo che non fosse strettamente necessario avrebbe potuto costarmi la vita e io mi attenevo alla regola aurea che ogni romano impara fin dalla più tenera infanzia: ad Agosto non si esce di casa. Dunque ero lì, sulla soglia della disidratazione, quando all’improvviso lo spernacchiare del cellulare mi disse che mi era arrivato un messaggio. Era Chiara, la mia ragazza, lapidaria: Dobbiamo parlare.
Di solito, questa frase è in grado di scatenare il tumulto dell’ansia e del più elementare spirito di sopravvivenza dell’uomo moderno, generando un’iniezione di adrenalina capace di svegliare l’ultimo e il più pigro dei neuroni. E invece i miei rimasero lì, apatici, con il ronzio del ventilatore a fare da colonna sonora. Solo ad un secondo messaggio presi in considerazione l’idea di prenderla sul serio. Diceva che sarebbe passata di lì a un’ora. Ad onor del vero, motivo della mia insofferenza non erano solo il caldo e il fatto che fosse Agosto e io stessi a Roma, intrappolato in un monolocale sulla Prenestina, invece che in qualche esotica località a vivere avventure fantastiche. No, era che con Chiara le cose avevano preso una piega che con il senno di poi definirei patetica. Una storia che si reggeva con lo sputo. Ci eravamo conosciuti in piazzetta a San Lorenzo in un calda serata di Giugno, di quelle belle, però, quelle in cui le note di una pizzica ti riconciliano con il mondo. Era stato cinque anni prima ed entrambi portavamo colorati abiti fricchettoni. Cinque anni dopo Chiara indossava solo vestiti equo-solidale e io esprimevo il massimo della mia trasgressività mettendo i calzini spaiati quando la lavatrice ne faceva sparire i rispettivi compagni.
Scusate se è poco.
Le belle illusioni di cambiare il mondo attraverso la gioia di vivere e rincorrere i propri sogni fino all’ultimo, avevano ceduto il posto ad un razionale spirito di sopravvivenza, ormai consapevole più che mai che la vita vera è fatta di calzini desaparecidos e di scadenze che ti vengono incontro come un frecciarossa lanciato sulla Milano-Bologna. Ero nostalgico, più che delle pizziche e delle bevute con gli amici, del candido ottimismo e dell’illusione che le cose sarebbero sempre rimaste belle com’erano. E invece no. Le cose non ne avevano colpa, loro erano fluite come fanno sempre e pian piano avevano assunto un andamento regolare, fatto di sveglie alle otto, di giornate di lavoro più o meno intenso, di frigoriferi semivuoti e di birre calde. Non è colpa di nessuno, succede perché è naturale che avvenga. Chiara faceva parte di questo lento processo almeno quanto il resto, solo che non se n’era accorta e continuava ad essere quella di cinque anni prima.
Neanche ricordo le parole con cui mi lasciò.
Quell’asfissiante ora di fine Agosto era passata come se non fosse mai esistita e le successive mi lasciarono niente più che la netta sensazione che dovessi in qualche modo sentirmi frastornato, scosso, lacerato dalla forza dei sentimenti. In verità, non provavo nulla di tutto ciò. Chiara mi aveva lasciato in tronco, con poche spiegazioni sul suo bisogno di vivere e fare nuove esperienze, e io mi sentivo come quando si arriva alla fine di un libro bello ma troppo lungo. Mi dispiaceva, certo, ma il dispiacere per quell’amore finito era stato spalmato nei mesi precedenti in cui, un po’ alla volta, si era fatta largo la consapevolezza che le cose erano ormai al punto di non ritorno. Il dolore era stato consumato da un pezzo, restava solo da prenderne atto.
La mattina dopo, all’alba mi svegliai di soprassalto. Le prime luci del mattino tingevano di sfumature pastello le pareti sciatte del mio monolocale e io realizzai, in un momento di lucida consapevolezza, che era il momento di rimettere in ordine le carte nel mio cervello.
Era il momento perfetto per un viaggio.