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Autore: Slytherin_Divergent    28/12/2020    1 recensioni
Kenjirou non ha mai visto un essere umano. È convinto del fatto che siano creature mostruose e senza scupoli, pronte a sacrificare tutto per dei pezzi di carta e di metallo.
Eita non ha mai visto una sirena. È sempre stato affascinato dalle leggende e ha passato tutta la vita a sognare di volerne incontrare una.
Kenjirou si rende conto del fatto che la sua vita cambia radicalmente quando viene catturato dagli umani durante una tempesta. Mentre si trova sulla nave dove viene tenuto prigioniero non riesce a pensare ad altro che al fatto che sta per morire. Eita, invece, disperso durante la tempesta, non vede l'ora di potergli parlare.
Genere: Angst, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eita Semi, Kenjiro Shirabu, Shiratorizawa
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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«Smettila di correre, Shirabu!» Shunki raggiunse Kenjirou con il fiatone e si appoggiò ad una parete rocciosa per riprendere fiato. «Che ti prende?»
«Già, che ti prende, Kenjioru?» Yuuji affiancò l'amico con un sorriso, agitando in cerchio la lunga coda gialla e nera. Kenjirou lanciò un'occhiata alle pinne scure e si ritrovò a pensare che con quell'accozzaglia di colori sembrava un'ape, un'ape iperattiva e fastidiosa.
«Nulla.» sbottò infine, superando i due amici e tornando a nuotare velocemente verso la barriera corallina.
Era passato un anno da quando Kenjirou era stato catturato dagli umani e poi liberato. Da quel momento non era più salito in superficie e si era mantenuto sui fondali marini come se nuotare anche un po' più su lo avrebbe ucciso. Aveva paura che potesse succedere di nuovo, aveva paura di poter morire perché c'era mancato davvero poco e sicuramente se non fosse stato per Eita sarebbe morto sicuramente. Eita... Kenjirou strinse le labbra. Nella sua testa sentiva ancora risuonare le sue grida e nel suo petto sentiva ancora il sonoro crack del suo cuore spezzato.
Non aveva ben realizzato cosa fosse successo quando era caduto in mare perché il suo ultimo pensiero era stato "sono qui. Sono in mare. Sono libero". Era schizzato via come mai aveva nuotato in tutta la sua vita e nel giro di una settimana aveva raggiunto finalmente casa sua. Ai suoi genitori aveva mentito: di certo se gli avesse detto che gli umani lo avevano catturato lo avrebbe recluso nella grotta a vita, o quantomeno per qualche secolo. Invece aveva raccontato loro di esser andato in esplorazione e poi era partito perché aveva rischiato di morire giovane e si era reso conto del fatto che se voleva fare tutto quello che voleva fare allora doveva muoversi, perché il destino è crudele e non si può evitare.
Aveva raccontato tutto per filo e per segno sia a Yuuji che a Shunki, ma loro non gli avevano riso in faccia come si sarebbe aspettato e avevano ascoltare il suo racconto in silenzio. Mentre parlava loro, Kenjirou si rendeva sempre più conto di quanto quella storia potesse sembrare irreale e si domandò se non avesse appena vissuto uno di quei drammi d'amore di cui sentiva sempre nelle fiabe. Se così fosse stato, allora avrebbe potuto dire di aver rotto il ritmo perché innamorarsi non era stato bello come avevano raccontato – o almeno, lo era stato per le prime cinque ore – ma era stata la cosa più triste e dolorosa che avesse mai provato.
Non si era accorto di essersi innamorato da solo, in realtà. Aveva ragionato veramente su tutto ciò che era successo solamente dopo essersi messo al riparo dagli esseri umani e le loro armi ed era crollato. Si era coperto gli occhi con le mani ed era scoppiato a piangere per qualche strano motivo, mentre pensava al fatto che Eita sarebbe morto e lui non poteva far nulla per impedirlo. Era stato Yuuji a far chiarezza sulla sensazione di spossatezza e distruzione con cui era tornato Kenjirou e quando gli aveva rivelato che lui si era preso una cotta colossale per un umano per poco a Shirabu non era preso un colpo, ma lo aveva accettato, così come aveva accettato il fatto che quello stesso umano fosse morto, ma non si sentiva in colpa per essere riuscito a sopravvivere. Era felice di essere ancora vivo e si era giurato di portarsi dietro il ricordo di Semi per il resto dei suoi giorni, di conservarlo nella sua memoria come qualcosa di prezioso, ma ora, a distanza di un anno, proprio non riusciva a figurarsi il suo viso, per quanto ci provasse. Ricordava i suoi occhi pieni di stelle, le labbra dolci, ricordava i capelli biondi che poi divenivano scuri, le mani dalla presa forte sui suoi fianchi, ma non il suo viso ed era in quei momenti che si pentiva di non averlo osservato di più, ma di aver sempre fatto di tutto per ignorarlo.
«Shirabu, smettila di correre!» Shunki affiancò nuovamente il castano e gli appoggiò una mano sulla spalla. «Si può sapere che succede? È da quando sei tornato che sei strano e lo so che sicuramente quella tu esperienza con gli umani ti ha turbato, ma è passato un anno e siamo a chissà quanti chilometri sotto il mare! Qui non ci sono umani.»
Kenjirou si fermò e si appoggiò con la schiena ad una roccia, tirando un profondo respiro. Shunki aveva ragione. Lì non c'erano umani. Non potevano esserci. Tirò un secondo respiro ma l'aria faticò ad arrivare. Provò ancora, ma non cambiò nulla.
«Ke... Kenjirou?» Yuuji si avvicinò preoccupato. «Che ti succede? Che hai?»
«I-io... N-non lo so...» mormorò il castano, boccheggiando leggermente in cerca dell'aria che gli era stata sottratta. «N-non respiro...!»
Shunki gli diede due pacche dietro la schiena. «Su, calmati. Sarà un attacco di panico. Ultimamente ne hai molti.»
«I-io...» Shirabu scivolò seduto alla base dello scoglio e si portò le mani alla gola, come per allontanare una corda invisibile che gli stava togliendo il fiato e fu in quel momento che se ne accorse. Sfiorò le branchie ai lati del collo e quasi non le sentì. L'attacco di panico lo ebbe in quel momento, mentre le sentiva chiudersi sotto le sue dita. Lentamente, come un piccolo barlume che si accendeva in una tempesta e che pian piano si faceva sempre più forte, il ricordo di Tooru Oikawa che gli versava il vino in testa si piazzò prepotente nella sua mente. Ricordava il sapore amaro di quel vino e ricordava anche di aver vomitato fino allo stremo delle sue forze. Non era possibile che anche solo una goccia di quella bevanda gli fosse rimasta in corpo... Non era possibile.
«No...» un singhiozzo strozzato richiamò l'attenzione dei suoi amici. «No! No!»
Shunki e Yuuji si guardarono confusi e senza saper cosa fare mentre Kenjirou si tastava annaspando i punti dove ormai delle branchie non erano rimaste che una piccola serie di protuberanze. Doveva essere il vino, non c'era altra spiegazione. Ora si spiegavano tutte le volte improvvise in cui l'aria gli era mancata, le fitte alla coda, la vista leggermente sfocata che da quando era stato liberato erano diventati mali sempre più frequenti. Quel vino... era tutta colpa del vino.
«L-le... L-le branchie...» annaspò Shirabu e questa volta quando tentò di respirare lo fece con il naso. L'acqua gli invase i polmoni con prepotenza e lui strabuzzò gli occhi, aprendo in automatico la bocca per respirare. Sentì gli occhi riempirsi di lacrime mentre prendevano a bruciare. «I... Il vino...»
Assieme alle sue parole grosse bolle d'aria lasciarono la sua bocca e fu in quel momento che Yuuji e Shunki realizzarono la situazione. Yuuji lo scosse per le spalle. «Hai bevuto del vino?!»
Non attese risposta che afferrò Kenjirou per un braccio e lo strattonò verso l'alto, nuotando in fretta verso la superficie. «Kenjirou, nuota!»
Ma Kenjirou non lo sentì. Non sentì le sue grida preoccupate e non sentì nemmeno la coda dividersi in due, le squame cadere e creare dietro di loro una lunga scia violacea. Non si accorse di quando Yuuji riemerse in superficie e lo scosse più volte per le spalle nel tentativo di svegliarlo, perché l'assenza di ossigeno gli aveva dato alla testa e Shirabu riprese conoscenza solamente il giorno dopo.
Si svegliò steso alla luce del sole di tarda mattinata mentre il mare lo immergeva fino alla vita e il busto era accasciato sulla sabbia che gli formicolava la pelle. Alzò la testa frastornato e si stropicciò un occhio, poi un colpo di tosse lo scosse e sputò gli ultimi rimasugli di acqua di mare che aveva ingurgitato e che Yuuji non era riuscito a cacciar fuori facendo pressione sul suo petto.
Fu nel tirarsi a sedere che percepì il cambiamento. Abbassò lo sguardo con gli occhi sgranati e quasi non svenne alla vista delle gambe perché sì, lui, Kenjirou Shirabu, ora aveva due gambe. Si tirò a sedere ed espose i due arti sconosciuti alla luce del sole. Passò tremando una mano sulla pelle nuova, fece scorrere le dita sul polpaccio e tirò due peletti, sobbalzando quando sentì dolore. Si osservò i piedi e agitò lentamente le dita, poi ruotò le caviglie e rabbrividì.
La parte peggiore, si rese conto, arrivò quando portò lo sguardo sul bacino perché sì, lui ora aveva un bacino e non poté far a meno di pensare che fosse estremamente strano. Guardò per qualche secondo confuso il... Non seppe nemmeno come definire quel coso che si ritrovava in mezzo alle gambe, se non con qualche parola poco buona. Avvicinò due dita e lo sfiorò, sobbalzando vistosamente quando una forte sensazione di solletico si propagò nel punto di contatto. Si rese conto che quella parte sconosciuta di corpo era, purtroppo, molto più sensibile. Raccolse tutta la sua compostezza e si impose che, semmai avesse trovato un umano abbastanza intelligente, allora avrebbe chiesto informazioni a lui.
Si alzò – stupendosi del fatto di riuscir a stare perfettamente in piedi e in equilibrio – e si spazzolò via la sabbia dal corpo nudo, guardandosi intorno. Adocchiò per caso il vestito che pendeva da una staccionata e in un barlume di coscienza si ricordò che gli umani giravano con addosso quei pezzi di stoffa. Idioti, si ritrovò a pensare, come se dovessero nascondere chissà che, ma afferrò ugualmente il vestito. Chiamarlo abito sarebbe stato un eufemismo: quel pezzo di stoffa bianco gli arrivava poco sopra il ginocchio, aveva due strette spalline e sembrava che gli avessero tranciato le maniche con un coltello, mentre in vita era arricciato e i lembi ricadevano sui suoi fianchi con leggerezza, lasciandogli addosso una sensazione di freschezza.
Kenjirou non voleva veramente inoltrarsi in quelle campagne che si trovavano oltre le rocce e la staccionata vicino la stalla, ma aveva terribilmente fame e non c'era traccia di Yuuji e Shunki, quindi affondò i piedi nella terra e incominciò a camminare.
Shirabu non avrebbe mai immaginato che il corpo umano avesse così poca resistenza. Non aveva percorso nemmeno dieci chilometri a passo di marcia che il sole era già tramontato e lui era ancora disperso nelle campagne. Normalmente dieci chilometri non sarebbero stati nulla per la sua coda ma ora si ritrovava accasciato contro un albero e senza fiato, lo stomaco in subbuglio che brontolava e le gambe a pezzi. Forse, si disse, era anche il fatto che quegli arti fossero nuovi per lui. 
Rimase accasciato a terra per parecchi minuti e poi si alzò, deciso a continuare o quanto meno a trovare un posto dove dormire. Fosse stato sott'acqua, sicuramente si sarebbe accampato dove capitava, ma a restar lì fuori ebbe una brutta sensazione e non voleva rischiare. Sospirò di sollievo quando vide una grossa costruzione, di certo opera degli umani. Dall'interno proveniva della luce che illuminava l'oscurità. Si avvicinò alla porta e bussò più volte ma nessuno aprì, quindi Kenjirou provò a fare il giro del posto e a bussare ad una finestra. A quel punto la porta si aprì e il castano era pronto a sorridere anche cordialmente per salutare l'umano in quel posto, ma il sangue gli si gelò quando si ritrovò un fucile puntato alla testa.
Si aggrappò al muro per non cadere e punto gli occhi pieni di terrore in quelli freddi della persona di fonte a lui, che sbottò: «Ti do tre secondi per sparire dalla mia proprietà, moccioso d'uno schiavo!»
Kenjirou non se lo fece ripetere due volte e si lanciò verso il boschetto vicino all'abitazione mentre lo sconosciuto sparava ai suoi piedi. Continuò a correre anche quando non sentì più gli spari, mosso dall'adrenalina, e si ritrovò più volte a rotolare a terra con le gambe che cedevano dalla stanchezza. All'ennesima caduta rimase accasciato a terra e scoppiò silenziosamente a piangere, rannicchiandosi su se stesso. Perché quell'uomo lo aveva aggredito? Lui non aveva fatto nulla di male. E poi come lo aveva chiamato? Schiavo? Perché lo aveva chiamato così?
Kenjirou non si accorse del carro che si era fermato dietro di lui – non si era nemmeno accorto di trovarsi su una strada. L'uomo alla guida si avvicinò e appoggiò una mano sulla sua spalla, scuotendolo. «Ragazzo, sei vivo?» domandò con tono gentile.
Kenjirou socchiuse le palpebre e guardò lo sconosciuto con la coda dell'occhio. Per un attimo temette che potesse saltargli addosso e aggredirlo anche lui, ma quando lo prese delicatamente per le spalle e lo fece sedere sul sedile del guidatore del carro si convinse del fatto che non voleva fargli del male e si lasciò aiutare.
Mentre percorrevano velocemente la strada e sorpassavano le campagne per addentrarsi man mano in un centro abitato Kenjirou si guardava intorno con stupore. Gli umani erano riusciti a colonizzare veramente tutto. Lui non aveva mai visto una città prima d'ora, ma ne aveva spesso sentito parlare e di certo non se la sarebbe mai immaginata così grande e piena di vita com'era quella. Lui e l'uomo lasciarono il carro in un posto isolato e poi entrarono in paese. Percorsero le vie illuminare e piene di vita dove, alla luce delle lanterne, le persone passeggiavano e facevano gli ultimi acquisti della giornata alle bancarelle della città.
Entrarono all'interno di un locale e l'uomo saluto con una mano la signora dietro il bancone prima di sedersi ad un tavolo rotondo e troppo piccolo per la sua corporatura massiccia. Ora che poteva osservarlo meglio  Shirabu si rese conto che doveva avere sulla cinquantina per gli standard umani e portava degli arruffati capelli rossi, un grosso paio di baffi arricciati e un pomposo completo i cui bordi dorati sbrilluccicavano. La donna dietro bancone gli piantò davanti una grossa birra – a Kenjirou più che una bevanda sembrò pipì di topo – e guardò il ragazzo.
«Per il ragazzino?» domandò rivolta al rosso. L'uomo sogghignò divertito.
«Porta un po' di latte. Aggiungi il tuo ingrediente segreto, Carmen. Vedrai che gli piacerà.» e la donna se ne andrò. Lo sconosciuto si allungò verso Kenjirou. «Allora, che ci facevi in mezzo alla strada? Come ti chiami?»
Shirabu deglutì. Ora che lo osservava meglio negli occhi però nei suoi notava anche un'aura maligna ma si costrinse ad ignorarla. «Kenjirou Shirabu. E... mi ero perso.» mentì.
«Da dove vieni, Kenjirou?» l'uomo sorseggiò la birra dal suo boccale, senza però staccare gli occhi dal ragazzo. Il castano fu interiormente preso dal panico. Cosa poteva mai inventarsi in una situazione del genere?
Sparò il nome dell'unico insediamento umano che conosceva. «Inghilterra.»
Il tizio strabuzzò gli occhi. «E che ci fai qui nelle colonie di Boston? L'Inghilterra è lontana.»
Boston? Dov'era Boston? Quanto poteva essere lontana l'Inghilterra?
«Mio... Mio padre era della marina inglese. Sono venuto qui con lui ma la nostra nave è stata affondata e io sono naufragato.» rispose, il sapore amaro delle menzogne che gli invadeva la bocca. Davanti a lui fu appoggiato il bicchiere colmo di latte. «Grazie.»
«Quindi sei disperso. La tua famiglia ti starà cercando.» borbottò lo sconosciuto. Kenjirou si portò il bicchiere sotto al naso e lo annusò. Il latte aveva un odore forte e dolce. Bevve e il sapore intenso del liquido bianco gli fece rizzare i peli sulle braccia. Era buono, dannatamente buono, e lui era dannatamente affamato. Scolò il bicchiere in un sorso e lo appoggiò sul tavolo con gli occhi sgrananti. Ora stava decisamente meglio.
«Non ho una famiglia. Sono tutti morti.» rispose e fu nell'esatto istante in cui finì di pronunciare quelle parole che la testa prese a vorticargli pericolosamente. Si appoggiò con le braccia al tavolo e scrollò più volte la testa che si faceva ogni momento più pesante. L'uomo lo guardò con un ghigno che si allargava sul suo volto e gli prese il viso con una mano mentre Shirabu lottava contro la stanchezza che lo aveva improvvisamente assalito. Che l'ingrediente segreto di cui aveva parlato l'uomo fosse qualcosa di stordente? Sapeva di non doversi fidare, ma rifletterci ora era così faticoso... Lui era così stanco... Voleva solo chiudere gli occhi, magari per qualche minuto e basta.
«Un bel faccino inglese come te, con un bel vestitino da bambolina... Mi sarei aspettato quantomeno che fossi chissà chi di importante con un nome straniero come il tuo, ma un orfano dell'altro mondo non rischia di certo di essere rintracciato.» si avvicinò all'orecchio del castano che sent' le braccia farsi pesanti e le accasciò lungo i fianchi. «Non preoccuparti, mi prenderò cura del tuo corpicino esile e perfetto.»
E proprio mentre lo sconosciuto – il maniaco, pensò Kenjirou in un ultimo barlume di ragione – si alzava per afferrarlo saldamente per i fianchi, Shirabu cadde con la faccia sul tavolo e si addormentò.
Durante i due giorni successivi ricordava vagamente di aver ripreso conoscenza per due o tre volte e si era ritrovato con le braccia e le gambe legate. Lo sconosciuto era sempre nella sua stessa stanza e gli faceva alzare la testa non appena sentiva che Kenjirou stava riprendendo coscienza e lo costringeva a bere ancora quella strana sostanza che lo stordiva, quindi il castano si risvegliò definitivamente solamente il terzo girono.
Non si rese subito conto della situazione in cui si trovava. Per lunghi minuti l'unica cosa che percepì mentre la sua mente si destava furono grossi e potenti scossoni. Poi, quando finalmente riuscì ad aprire gli occhi, si rese conto di essere dentro ad un carro, ammucchiato assieme ad una serie di altre persone. Ci mise qualche secondo di troppo a rendersi conto del fatto che era legato. I polsi erano stretti tra loro con due manette di ferro e legati con una catena alle caviglie, nella stessa situazione. Attorno al suo collo era stato messo un collare di ferro e la sua bocca era imbavagliata.
Si tirò a sedere ma se ne pentì quasi subito. Se non fosse stato per il bavaglio avrebbe gridato di dolore mentre una forte fitta partiva dalla base della schiena e gli scuoteva con forza la colonna vertebrale. Si rannicchiò tremando contro alla parete, spaventato. Cosa gli aveva fatto quell'uomo? Cosa gli avrebbe fatto?
Sapeva di non doversi fidare. Quello era un umano, conosceva le dicerie sugli umani, i racconti! Aveva vissuto la loro violenza e la loro cattiveria sulla pelle quando ancora era una sirena, allora perché aveva lasciato che quello sconosciuto lo drogasse? A sentir le fitte alla colonna vertebrale fu abbastanza sicuro del fatto che avesse anche abusato del suo corpo. Rabbrividì al solo pensiero e si sentì improvvisamente sporco – e non perché era effettivamente sporco, ma sporco nell'anima.
Il carro si fermò con uno scossone più forte degli altri e pochi minuti dopo le porte vennero aperte. Lui e tutti gli altri ragazzi – e ragazze – vennero trascinati fuori. Erano tutti legati tra loro tramite le catene di ferro e ad ognuno venne tolto il bavaglio quando scesero. Camminare, per Kenjirou, si rivelò l'impresa più difficile che avesse mai affrontato. Gli tremavano le gambe e le fitte alla schiena erano tanto dolorose da strappargli smorfie di pura agonia.
Fortunatamente, si fermarono poco dopo e Shirabu rabbrividì nel vedersi lì, in piedi su un palchetto, legato come fosse un oggetto e presentato come merce davanti ad una folla che squadrava lui e tutti gli altri come nel scegliere il prodotto più conveniente e affidabile. Improvvisamente si rese conto del fatto che aveva sempre sottovalutato la crudeltà umana e che tutto ciò non si sarebbe mai potuto raccontare, tanto doloroso e tanto disgustoso che era.
Poi la catena di ferro lo strattonò e fu proprio mentre abbassava lo sguardo per scendere dai gradini del palco che lo vide. Era in fondo alla piazza, lontano ma inconfondibile con i suoi capelli biondi e dalle punte scure, mentre rideva e batteva la mano sulla spalla del suo amico rosso, stringendo tra le mani un grosso boccale di birra. Mentre Kenjirou scendeva i gradini del palco ogni sua aspettativa, speranza e sentimento si spezzò in due e si ricompose per poi rispezzarsi e continuare il circolo vizioso all'infinito perché lui era lì, Eita Semi era lì ed era vivo.
E il corpo di Kenjirou si mosse prima che lui potesse fare qualcosa, prima che si potesse rendere conto del fatto che magari era tutta un'allucinazione, una presa in giro, che era troppo bello per essere vero, perché quando Eita voltò la testa nella sua direzione e i loro sguardi si incrociarono l'unica cosa a cui Shirabu riuscì a pensare furono i suoi occhi scuri pieni di stelle e si ritrovò a gridare con tutto il fiato che aveva: «EITA SEMI! SONO QUI!»

 

   
 
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