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Autore: Alarnis    29/12/2020    5 recensioni
"Quel giorno fu lei a restare ferita, solo ora se ne rendeva conto."
Genere: Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1 La freccia del destino

“Fermi! Scendiamo da cavallo!” ordinò il comandante Lavia ai suoi uomini che eseguirono, seguendo il suo esempio.
La ragazza, guardinga, fissò l’immensa distesa di faggi. Un’espressione seccata per essere giunta così distante da Rocca Lisia. Sarebbe stato imprudente per il giovane Ludovico sconfinare proprio nelle loro terre, ma forse pensava che là non l’avrebbero cercato. Come potessero ignorare quell’eventualità, pensò scaltra.
Ludovico, dove mai ti nascondi?, cantilenò tra sé: quella caccia la entusiasmava, rifletté ironica, calcando con gli stivali il soffice strato di foglie.
La zona era vasta, ma non essendoci sottobosco, avrebbero individuato velocemente sentieri e tracce tra le foglie schiacciate: avevano ottimi perlustratori. Si compiacque di quella certezza. “Ludovico, hai i giorni contati!” rifletté, stendendo le lunghe labbra sottili, che ristorate dalla punta della lingua sembravano ritrovare la freschezza dei petali d’una rosa.
Prontamente, i suoi soldati si sguinzagliavano in giro a ragnatela.
Cercò di intuire che tipo di riparo potesse dare quella zona: a nord i faggeti si facevano sempre più fitti, ma quelli che costituivano l’avanguardia di quella radura consistevano in piante basse e giovani.
Un fondo irregolare percorreva una morbida collina che procedeva con dossi, radici nodose sopra terra; un manto di foglie marroni che si distribuiva equamente al suolo, tradendo nettamente un potenziale calpestio.
Lavia con le mani sfiorò alcuni rami per sollevarli e, salvare i bruni capelli dal contatto con le foglie friabili proprie dell’autunno; aveva preferito raccoglierli in una crocchia perché non le infastidissero lo sguardo e gli occhi marroni potessero spaziare.
Come aveva fatto a sfuggirgli fino a quel posto così solitario?
Devono aver cavalcato come il vento!, si innervosì di quella certezza. Dunque, non sono feriti, si rammaricò.
Quello era il dominio di solitari taglia legna; non posto per dispiegare un corpo di ricerca!
Lavia continuò a guardarsi attorno, attendendo notizie, impaziente.
Girò piano, su se stessa, spaziando con lo sguardo in lontananza, da ogni lato.
Quel posto solitario, invitava alla concentrazione nel suo silenzio, nel suo colore armonioso, tale era la sua bellezza nei toni del marrone.
Possibile? si disse sconcertata.
Si guardò attorno, incredula. Le era familiare.
Non era possibile? Era già stata in quel posto, si portò la mano a scostare un ciuffo che le era finito al lato sinistro del viso.
Si mosse veloce, ricordando quel luogo, che le continue spedizioni a soldo per servire re Bressano, le avevano fatto trascurare; del resto avevano continuato a dimorare a Montetardo.
Procedette spedita tra un albero e l’altro, guardandosi attorno per orientarsi. Gli alberi erano caduti o cresciuti: i faggi crescevano in fretta!
Ma le rocce? Le rocce non potevano spostarsi negli anni. Quella certezza le parve confortante.
Andò verso le più grandi: una, quasi piantata come una colonna e altre due più piccole; abbattute ai suoi piedi dagli assestamenti del terreno di una china, ora coperte di vegetazione.
Non poteva sbagliarsi.
Si chinò a cercare qualcosa, spostando il fogliame maciullato. Ricordava che Moros l’aveva calpestata feroce, in spregio e spinta verso la base della grande roccia.
Eccola!
Per quattro anni, ai piedi di quel grezzo e primitivo pilastro, quel cimelio aveva riposato. Lei, Gregorio e il loro tutore Guglielmo, a quel tempo, si erano addentrati in quella foresta per cacciare, ma lei li aveva seminati. Fosse un segno? si disse.
In passato “Re Bressano mi ha onorato della sua stima con le terre di Raucelio.” aveva chiarito il tutore, che abile capitano di ventura era stato riconosciuto fidato dal re e meritevole del titolo di conte oltre che del soldo.
Lavia si accovacciò a terra, per raccogliere quello che restava della freccia spezzata in due, esattamente al centro.
La prese tra le mani che sentì scottare, quasi con timore d’averla ritrovata, come se il passato la venisse a cercare: un’incertezza dettata dalla profondità del sentimento che le ribolliva in petto; anche se mascherò i propri occhi, perché nessuno intuisse per lei fosse importante.
“Cercatelo!” urlò aggressiva, sfidando con la voce il vento che ora probabilmente rideva di lei, che credeva di poterlo ingannare come se fosse uno dei soldati al suo comando.
Nelle orecchie il ricordo di una voce, che impertinente la rimproverava “Ma chi ti credi di essere?”. Quel giorno Moros era sbucato dagli alberi. Era ancora un ragazzetto, ma già la sua aria era sfrontata e priva di ritegno nel parlarle impunemente. Ricordò la pelle chiara, i capelli scuri, gli occhi del colore satinato delle lame.
Davanti a lei, aveva spezzato quella freccia che ora, lei, aveva raccolto e che in passato aveva trascurato se non per il fatto che le appartenesse. Era sembrata un fuscello tra le mani di Moros, che aveva impresso in quel gesto tutta la propria collera verso la sua superficialità. Il comandante Lavia, a quel tempo per tutti Lavinia e basta, aveva strabuzzato gli occhi allo scrock che aveva provocato la pressione sul legno, come fosse imperdonabile un simile gesto in sua presenza.
Le labbra le avevano tremolato per la rabbia nel dire “Era la mia freccia!”. La propria voce aveva continuato stridula “Come hai osato?”.
La sua mano che veniva bloccata da quel ragazzetto insignificante, prima che lei lo schiaffeggiasse in pieno volto. La forza che le torceva la mano, ma solo perché non la usasse contro di lui e le appuntava di contro “E se avessi ferito qualcuno?”.
Quel giorno fu lei a restare ferita, solo ora se ne rendeva conto.
Purtroppo ora aveva da fare: “Voglio la sua testa!” ammonì i suoi soldati “Non può essersi volatilizzato!”. Il tono della sua voce era deciso e nonostante i ricordi che le aveva suscitato quel luogo, era e rimaneva un comandante, proprio come era stato Guglielmo e suo padre!
La sua voce suonò rabbiosa; incutendo paura nei sottoposti, che battevano il sottobosco alla ricerca di tracce.
Ritornò in piedi, spostando il mantello oltre la spalla destra in un gesto nervoso, che dettava la sua impazienza. Un’immagine fiera ed elegante in abiti che sembravano fasciare il suo corpo alto e snello, come calza un guanto sulle dita. Nascose i resti della freccia nella bisaccia della cintura. Il passato non doveva inficiare il presente, ma era come… Che ci fosse una speranza per loro? Sarebbe stato possibile porvi rimedio?
“Mio fratello ha detto di cercarlo!” aggredì il suo contingente, ghermendo alla spalla uno degli uomini che le era prossimo, strattonandolo e portandolo a sé, all’altezza del proprio viso per fissarlo risoluta “Ubaldo, la parola perdono non è contemplata!”; chiarì l’animo di Gregorio, suo fratello, divenuto ora signore di Rocca Lisia, messo in fuga il giovane Ludovico.
Lasciò il soldato, ma il ritmo delle ricerche aveva preso nuova foga, tanto da farle accordare ottimista “Troviamolo!”. Strofinò le mani per pulirle dal terriccio.
Lavia si guardò nuovamente in giro. Era bella quella foresta. Il sole sprizzava raggi tra le foglie degli alberi che finivano luminosi al suolo, ristorando le erbe e i muschi. I faggi crescevano velocemente e la frescura delle loro chiome, scacciava la presenza degli insetti.
“E anche se fosse? Queste terre mi appartengono. Ho diritto di vita e di morte! O non sai neppure chi ti comanda.” aveva risposto fiera quel lontano giorno di quattro anni fa, guadagnandosi l’appellativo di “Brutta strega!”.
E al castello per la prima volta s’era guardata allo specchio, cercando una ruga, un brufolo, un segno di qualsiasi riferimento magico ma soprattutto di bruttezza; scatenando l’ilarità di Gregorio che ammetteva già di vederne uno spuntare. La genuina rabbia che aveva accompagnato le parole di Moros, ora le coloriva le guance di imbarazzo, ogni volta che ripensava a lui nel silenzio delle sue stanze.
Rimembrò le guardie che inclementi l’avevano affiancata durante quella discussione per servirla, che cautelando lei, imprigionavano lui; accerchiandolo e puntandogli addosso le lance.
Un soldato si avvicinò a riferire e lei si distolse da quei lontani pensieri; “Rapporto!” intimò perché si spicciasse.
“Le tracce portano oltre la china.” dichiarò Aldobrando, pulendosi con la mano la barba, come gli desse fastidio per il caldo, indicando verso nord, verso il villaggio di Risicone.
“Facciamo presto!” esortò il gruppo a partire, senza indugio.
Le sembrò di sentire il richiamo del suo tutore ancora nelle orecchie, che l’appellava “Lavinia!” pretendendo spiegazioni per le insolenze che il ragazzo accerchiato rivolgeva ai soldati. Moros aveva parlato per lei, quel giorno: defraudandola della spiegazione, in spregio degli uomini che rilanciavano la vicinanza delle lance alle sue giovani membra.
Com’erano mutate le cose da quel giorno: Gregorio, a quel tempo, si era limitato a guardare la meschinità delle guardie. Ora…
“Mio nonno era un capitano di ventura. Non meno popolano di quanto sei tu ora!” aveva sottolineato il suo tutore concedendo clemenza all’indomito carattere: gli occhi azzurri di Guglielmo che racchiudevano un che di regale. Il sorriso del tutore, onesto come il sole. Limpido come il mare, pur di spada inclemente nell’agire. Fiero delle proprie umili origini quanto Gregorio, oggi, le disprezzava, nonostante sfoggiasse il titolo di conte e una nobile aquila, concessa da re Bressano come blasone.
Guglielmo le ricordava un dio: potente come l’essenza stessa della guerra e di nobiltà d’animo.
Lei invece era stata funestata da una freccia.


NdA: Grazie per aver letto! Mi farebbe piacere cosa ne pensate o magari vostre perplessità sulla trama; non è mai facile pensare ad una storia. Voi che dite?
Un salutone!
   
 
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