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Autore: _Unmei_    29/12/2020    0 recensioni
Chissà se qualcuno è riuscito a capirlo, che in ogni colpo di scalpello che ha dato forma a quell'angelo, dietro a ogni lineamento cesellato con pazienza, nei boccoli che gli ricadono sulle spalle, nel morbido drappeggio che gli copre le gambe, nel lievissimo sorriso che gli increspa le labbra… che in ogni piuma delle ali che ho fatto nascere dalla sua schiena, c’è la mia dichiarazione d’amore per lui.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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Giardini di Pietra
 
Capitolo 10

 
_______________
 
 
Quando fummo di nuovo soli, Florent mi guardò con serio rimprovero; per quanto avessi cercato di mostrarmi amichevole, lui mi aveva smascherato. Potevo aver ingannato Gabriele, forse, ma non la persona a me più vicina, che mi conosceva bene e sapeva leggere sul mio viso e nel cuore.
C’era un’espressione preoccupata nel suo sguardo, quasi ferita, e una piega triste sulle sue labbra, che solo poco prima avevano salutato Gabriele con un sorriso.
 
“Cos’hai? Cosa non va?”
 
Proprio perché mi conosceva tanto a fondo, mi chiesi come potesse non capire. Forse perché aveva troppa fiducia in me, forse perché la mia gelosia era tanto assurda da essere per lui inconcepibile... forse perché non l’aveva mai sperimentata. Cercai di spiegarglielo, ma le mie emozioni erano così turbate che l’eloquenza mi tradì.
 
“Tu, con lui. Guardandovi mi sentivo… escluso. Distante da voi, che vi conoscete da anni, che avete un passato in comune. E mi è sembrato che, di fronte a questo passato, il sentimento che ci lega passasse in secondo piano. Ora che l’hai ritrovato – quanto esitarono quelle parole sulle mie labbra – cosa hai intenzione di fare?”
 
Florent mi guardò con occhi increduli.
 
“Cosa pensi ci fosse tra lui e me?”
 
Invece di rispondergli come avrei dovuto, di scusarmi, calmarmi e riacquistare la ragione, mi esposi ancora di più al ridicolo.
 
“Gli parlavi in modo differente! I segni che usavi erano diversi, non potevo capirli, e mi sentivo uno stupido. Perché non hai insegnato anche a me quel linguaggio? Abbiamo avuto tutto il tempo!”
 
Ero più che geloso: ero risentito, arrabbiato, persino impaurito. I sentimenti figli dell’amore offeso si agitavano dentro di me, con tutte le loro spine, come se il mio cuore si fosse trasformato in un pulsante cespuglio di rovi.
 
“E il modo in cui gli sorridevi. Il modo in cui lo guardavi, e gli stavi vicino.”
 
Aggiunsi, sottovoce, perdendo un altro po’ di dignità.
Solo a me. Quella dolcezza doveva riservarla solo a me!
Florent mi prese il volto tra le mani, e la sua espressione era colma di dispiacere e preoccupazione. E di delusione, anche; così tanta che mi sentii morire, che mi vergognai. Scosse la testa con lentezza, mi diede un casto bacio sulle labbra. Le mie erano aride, le sue così morbide…
 
“Ti insegnerò ciò che vuoi. E ti amo. Tanto. Ti prego.”
 
Era così evidente, il suo amore! Come potei mai dubitare? Eppure lo feci, come un idiota, un debole, un vigliacco. Mi aggrappai alle sue parole, ma esse non cancellarono del tutto il risentimento; ero arrabbiato con lui e allo stesso tempo disgustato di me stesso. Ero sul punto di supplicarlo e non sapevo nemmeno bene di cosa… di perdonarmi? Di non vedere più Gabriele? 
 
“Florent!”
 
Riuscii solo a dire, e lo attirai a me, lo strinsi, lo divorai di baci con furia e urgenza, per ribadire a lui e a me stesso che era solo mio, e farlo sentire in colpa per avermi indotto a pensare il contrario. Andammo in camera da letto, facemmo l’amore, e perdendomi in quella passione cercai di annegare le mie paure, di cancellare i sospetti che stavano insudiciando i miei sentimenti. Mi sembrò di riuscirci, grazie a Florent: alla sua dolcezza, alla sua voluttà, al modo in cui mi cercava, e si dava a me… come se io fossi tutto, per lui.
Dopo, quando riposavamo fra le lenzuola e Florent con l’indice pigramente scriveva sul mio palmo, lettera per lettera, parole d’amore intramezzate da baci, il mio cuore sembrava placato.
Ero stato stupido, esagerato, e avevo provocato un danno. Avevo dato un dolore a colui cui volevo donare solo felicità.
Dovevo rimediare, mi dissi. Lo giurai a me stesso. E non avrei ripetuto lo stesso sbaglio; non avrei mancato di fiducia, non avrei dato retta alle mie insensate, esagerate paure.
Avrei cercato di stringere amicizia con Gabriele, perché era importante per Florent, e perché gli dovevo gratitudine: gli aveva insegnato a suonare il violino, gli aveva dato una lingua per esprimersi, lo aveva aiutato nel suo periodo più buio… aveva contribuito a renderlo la persona meravigliosa che era, radiosa, affascinante e gentile.
Buoni propositi sprecati.
 
Così come aveva promesso, Gabriele venne da noi quotidianamente; non solo: acconsentì alle preghiere di Florent e decise di fermarsi ulteriori dieci giorni a Genova, oltre a quelli già programmati. La gioia di Florent fu pari solo al mio fastidio, ma ancora una volta cercai di non darlo a vedere, e di fingere in maniera più credibile. Rammentai a me stesso ciò che mi ero prefisso e cercai di essere invece felice per loro.
Ogni giorno pranzavamo insieme, e quasi ogni giorno facevo da guida per visitare la città e i dintorni, e mi costringevo ad accettare anche che passassero del tempo insieme da soli, così come era necessario a due persone con un legame profondo che dopo anni si erano ritrovate. Un pomeriggio – Florent non c’era, si era offerto di accompagnare Matilde in non ricordo che commissione - mostrai a Gabriele il mio studio, le statue a cui stavo lavorando.
La sua meraviglia e ammirazione furono sincere, questo lo posso dire; non ebbe che parole di lode, entusiaste, e in altre circostanze ne sarei stato lusingato. Invece, sempre rodeva quel tarlo maligno, ed esso quasi impazzì quando Gabriele si soffermò davanti alla statua, ormai completa, di Florent; sorrise, e persino nel guardare quel marmo scolpito i suoi occhi rilucevano d’affetto. Gli dissi ciò che rappresentava, e lui anticipò la mia spiegazione.
 
“L’angelo del Sonno Eterno, certo. La simbologia è chiara: il cerchio che regge, la corona di bacche di papavero sulla testa. E la sua espressione, con quegli occhi socchiusi, è dolce e misteriosa, è difficile smettere di guardarla. Ma ciò che più mi colpisce, sa, è la sua posa. La trovo insolita, per un angelo: la mano sotto il mento, l’inclinazione della testa… nel complesso questa statua ha quasi un che… di languido. Seducente.”
 
Mi guardò, inarcando le sopracciglia.
 
“Non è una critica, tutt’altro! La trovo magnifica.”
 
Avrei dovuto ringraziarlo, avrei potuto discorrere di arte e raccontargli l’emozione che era per me trarre la vita dal marmo; e invece, dopo essere rimasto a fissarlo per qualche secondo, furono altre le parole che uscirono dalla mia bocca. Lo fecero quasi al di fuori del mio controllo, diedero voce a un pensiero che era con me da quando Florent mi aveva raccontato la sua storia.
 
“Come ha potuto lasciarlo fare? Come ha potuto permettere a Florent di andarsene in quel modo?”
 
Comparve lo stupore sul volto di Gabriele, e poi un sorriso amaro.
 
“Permetterglielo? Lasciarglielo fare? E che autorità avevo, io, per impedirglielo? Florent soffriva, e sperava che un cambiamento radicale lo aiutasse a distogliere la mente dall’orrore. Anche se potevo capirla, non ero felice della sua decisione. Cercai di dissuaderlo, di farlo ragionare, ma alla fine non potei che arrendermi.”
“Io non avrei ceduto! A costo… a costo di rinchiuderlo! Sì, finché non fosse rinsavito!”
 
C’era un’espressione strana sul viso di Gabriele, come se provasse un misto di pena e disgusto di me; sotto il suo sguardo di compatimento mi sentii avvampare.
 
“E rinchiuderlo sarebbe stato un atto d’amore? Capivo quello che provava, ho detto, e pensavo che sì, allontanarsi poteva fargli bene. Ma avrei voluto che aspettasse, per poter sistemare i miei affari e le mie responsabilità, e andare con lui. O che accettasse di trasferirsi presso mia sorella e mio cognato, che vivono a Roma… l’avrebbero accolto a braccia aperte, se io glielo avessi chiesto. Florent non volle. Credo che andandosene da solo volesse dimostrare qualcosa a se stesso… di essere forte, in grado di farcela da solo. E da me stava cercando fiducia: voleva che credessi in lui, non che lo tenessi al riparo da tutto.”
“Dunque era fiducia permettere che finisse a vivere per strada, senza sapere che fine avrebbe fatto, e che -”
“Florent promise che sarebbe stato via solo per qualche mese, sei al massimo!”
 
Sbottò, ma fu solo un momento, e ritrovò subito la calma.
 
“Mi assicurò che avrebbe scritto ogni settimana. E non doveva andarsene a mendicare: quando partì gli diedi una somma di denaro sufficiente ad assicurargli pasti decenti e una camera dove dormire, per quanto modesta, ovunque fosse andato. Aveva con sé il violino, e mi disse che con quello avrebbe potuto guadagnare anche qualche soldo in più, che non dovevo preoccuparmi. Ma io lo facevo, ovviamente.”
 
Volse gli occhi alla statua, ed erano pieni di malinconico rimprovero.
 
“Mantenne la parola: mi scrisse tutte le settimane, per qualche mese. Tutto sembrava andare bene, lui si diceva sereno, persino di buon umore, e io mi rassicurai un po’. Ma poi venne una lettera in cui scriveva che non bastava… che non gli erano sufficienti quei mesi, che doveva staccarsi di più dal passato. Che mi avrebbe scritto di meno, ma che dovevo stare tranquillo. E invece non scrisse più.”
 
Tornò quindi a volgere lo sguardo a me.
 
“Provai a raggiungerlo. Partii poche ore dopo aver ricevuto la lettera, ma lui già non si trovava più nella città da cui l’aveva spedita. Lo cercai e cercai, inutilmente. Mi disperai, mi arrabbiai con lui, pregai. E ora, quando ormai avevo abbandonato la speranza, l’ho ritrovato, e sta bene, è felice. Grazie. Sapere che è al sicuro e che qualcuno sta avendo cura di lui mi libera da un peso enorme.”
 
Ecco, lui mi ringraziava quando io riuscivo a sentire solo avversione nei suoi confronti. Provai senso di colpa, breve, fugace: giusto il tempo di riconoscere quell’emozione, che essa venne rimpiazzata dalla solita ostilità. Era più forte di me, e non bastava quel racconto a spegnere la gelosia per ciò che lui e Florent avevano condiviso, e per ciò che ancora li legava. Spiazzato e colpevole esitai nel rispondere, e prima che potessi aprir bocca Florent entrò nello studio. Ci raggiunse sorridendo e guardò la statua; ne riprese fedelmente la posa, e lui lo fece per scherzare, ma a me si strinse il cuore perché era vero: era languido e seducente, eppure etereo, e io avevo paura di perderlo.
Poi ridacchiò e segnò:
 
“Tè e biscotti.”
 
Prese entrambi sottobraccio, portandoci in salotto; tutti e tre avevamo il sorriso sulle labbra, ma il mio era l’unico a tremare.
 
***
 
Ora sono qui, davanti al fuoco crepitante di un camino; scrivo e fumo, e fuori sta piovendo. Tra poco sarà ora di cena, così ha detto la governante, ma io non ho appetito; non ne ho quasi mai, e oggi ho già saltato il pranzo. Se rifiutassi anche la cena, la buona donna protesterebbe ora e se ne lamenterebbe con il medico domani, e io dovrei soffrire due volte, quindi mi sforzerò di mandare giù un po’ di consommé e una fettina di lesso.
Ma ho ancora tempo, per ricordare e per scrivere, prima di andare a tavola.
 
Dopo aver perso Florent, per anni riempii la mia vita di rumore, di persone, di impegni. Viaggiai, insegnai nelle accademie più rinomate, ebbi importanti committenti, conquistai grande fama; conobbi scrittori e pittori che resteranno nella storia.
Ero celebrato, ero invidiato.
Ebbi degli amanti; storie brevi e scontate, prive di batticuore.
Ebbi qualche raro buon amico, che ormai è morto.
Provai a fuggire, ma finii con lo scappare proprio là dove mi sarei fatto più male. L’ho già detto: vissi per anni a Venezia, e per di più trascorsi i lunghi mesi estivi in quella che fu la sua casa.
Forse desideravo inconsciamente che il dolore piantato nel mio cuore continuasse a farmi sanguinare, e lo coltivavo con dedizione perché crescesse e mettesse radici in tutto il mio animo. Vivere a Venezia, soprattutto quando andavo a stare in quella villa, erano allo stesso tempo la mia consolazione e la mia punizione.
E così è passata tutta la mia vita, e mi rendo conto che, nonostante il successo, è stata insignificante e vuota: solo forma, priva di sostanza. Scintillio di oro falso.
Mi barricai in me stesso, quasi del tutto incapace di lasciarmi andare, di intraprendere rapporti profondi e sinceri. Non vivevo da eremita, no; solo quando mi trasferii a Venezia, ormai ingrigito e stanco, mi diedi a una vita quieta.
Prima, però… prima uscivo spesso e ridevo altrettanto, sfoderando un cinismo brillante che non ero a conoscenza di possedere, che non aveva mai fatto parte di me. Così reagivo alla disperazione. Visto da fuori apparivo arguto ed estroso, la gente che contava mi voleva, mi cercava, mi invitava a feste sfarzose, a eventi solenni. Tutto quel chiasso soffocava la voce dell’angoscia, così potevo andare avanti giorno dopo giorno, illudendomi di stare diventando più forte, di stare vincendo, di non avere bisogno di ciò che avevo perduto.
Ma quando tutto intorno a me taceva e la mia mente non era più occupata dai vorticosi pensieri con cui sempre la distraevo, quando non avevo da leggere, disegnare, scrivere, scolpire, e restavo in compagnia di me stesso… mi colpiva infallibile e devastante la precisa consapevolezza che sarei sempre stato solo
Per tutta la vita, fino alla morte… solo.
Potevo vedere la distesa dei giorni che erano il mio futuro spiegarsi davanti a me come una pianura sempre uguale, il cui bordo andava a precipitare nel nulla. Una pianura arida, deserta, dove niente sarebbe mai germinato.
E quando mi rendevo conto di quanto fosse enorme quel nulla, quanto soverchiante la solitudine che mi aspettava, quante emozioni e quanta forza interiore mi sarebbero state negate, mi tremava il cuore in petto, mi si mozzava il respiro. Sentivo le lacrime risalire pericolosamente la strada verso gli occhi, pronte ad affacciarsi a vedere la luce.
Mai lo permisi loro, a quei tempi. Le ricacciavo sempre nel più profondo pozzo di me stesso, lasciavo che si accumulassero, forse sperando di riuscire ad affogarci dentro, prima o poi.
Così ingoiavo le lacrime e aggrottavo le sopracciglia, e fuggivo nel mio studio, colpivo la pietra con violenza, come avessi voluto assassinarla; le schegge mi volavano addosso, ferendomi al volto. Una volta temetti di perdere un occhio.
Qualche volta distrussi le mie creature quando erano già quasi terminate, riducendole coscientemente a informi cumuli di pietra, e mi sentivo un assassino.
 
Avevo cinquantaquattro anni quando, nel 1888, mi trasferii a Venezia, inseguendo il fantasma di Florent.
Respirando la stessa aria, navigando gli stessi canali, camminando per le stesse calli che aveva percorso lui da bambino e ragazzo, mi illudevo forse di trovare un varco nel tempo, e svoltando uno stretto angolo, trovarmelo davanti splendente di gioventù. E in quelle mie lunghe camminate, il labirinto di Venezia mi divenne così familiare che ancora oggi potrei percorrerlo a occhi chiusi… dal Ghetto all’Arsenale, da San Simeon Piccolo alla Basilica della Salute. E lo scrigno dorato di San Marco, certo, e i Frari, la chiesa che preferivo… lì dove sempre recitavo la mia preghiera laica a Canova.
Passeggiavo, scolpivo, mi facevo raccontare dai domestici le vecchie storie di fantasmi, di streghe, di demoni e di assassini e di amanti sfortunati, che sembravano aver sempre popolato ogni calle e ogni campo di quella strana città.
Mi raccontarono anche degli antichi proprietari della mia villa, i nobili Grimani Renier, e della loro fine sanguinosa, senza sapere quanto il cuore mi si stringesse e soffocasse nel sentir nominare il figlio mezzano, e le ipotesi che sulla sua scomparsa si erano fatte.
Ero a Venezia quel mattino d’estate del 1902 il campanile di San Marco crollò su se stesso con un cupo boato che scosse la laguna e gli animi, lasciandosi dietro solo rovine, e lo sgomento e l’orrore portati dalla caduta di un simbolo considerato immortale.
Ma meno di dieci anni dopo esso svettava ancora: al suo posto, riportato allo splendore, festeggiato come un dio risorto. I veneziani avevano ripristinato la gloria e la bellezza da un cumulo di macerie… mi sembrò ingiusto che fossero riusciti là dove io avevo fallito.
 
Perché soffrivo così tanto, perché non sono mai riuscito a riprendermi, a lasciar andare il passato per poter vivere e amare di nuovo?
Questo l’ho sempre saputo bene: non potevo incolpare nessuno della mia sorte infelice se non me stesso. Non era stata la morte a strapparmi l’amore, non il destino avverso, né era stato Florent a farmi del male. Non era stata colpa di un altro.
Ero stato abbandonato perché io ne avevo creato le condizioni, ed era giusto che mi punissi.
Non mi maledirò mai abbastanza.

__________

NdA


Nei secoli il campanile di San Marco ha subito danni in abbondanza, tra fulmini, incendi e crolli parziali. Il mattino del 14 luglio del 1902 però crollò completamente, lasciando solo un enorme cumulo di macerie (e  praticamente per miracolo la basilica non subì danni). Era già da tempo che il campanile dava brutti segnali; così preoccupanti che, la sera del 13 luglio, con gran mugugnar dei veneziani, era stato annullato all’ultimo momento un concerto all’aperto che doveva tenersi lì sulla piazza.
Immagino che Riccardo fosse nei pressi, quando il crollo accadde. Era al Florian a far colazione, ed ecco lo schianto, le urla, il boato… accorse subito, con la polvere ancora sospesa nell’aria, stranamente calmo nel panico generale, andando controcorrente mentre la gente fuggiva, per restare impietrito a lungo davanti alle rovine.


 
   
 
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