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Autore: Saeka    29/12/2020    1 recensioni
INTERATTIVA | Iscrizioni chiuse
Dopo aver terminato gli anni di Medimagia, i nostri aspiranti guaritori dovranno vedersela con la specializzazione all’Ospedale San Mungo dove dovranno dimostrare ai loro mentori di essere più che semplici matricole.
Per essere bravi guaritori non è sufficiente guarire i mali della pelle e della mente, bisogna guarire le ferite che si hanno dentro.
Way to heal è il percorso giusto per chi vuole dedicare la propria vita a curare gli altri, ma non deve dimenticarsi di se stesso. Forse le cicatrici del passato non si rimarginano mai del tutto.
Genere: Commedia, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Maghi fanfiction interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo 3
You got only one chance
Clover Jasmine Bluebell
 

 
Il tutor a cui era stata affidata non sembrava per niente interessato a loro. B. Folkoy, lesse sull’etichetta. Clover non gli arrivava neanche alle spalle e faticava a stare dietro ai suoi passi. Quell’uomo macinava mezzo metro alla volta con le sue gambe lunghe.
C’era qualcun altro oltre a lei che stava sudando sette tuniche per quella maratona. La ragazza che aveva a fianco era addirittura più bassa di lei. La vedeva annaspare di corridoio in corridoio, tutta rossa in viso. I suoi capelli, secchi come paglia, si muovevano in ogni dove e le sarebbero finiti anche sugli occhi se non fosse stato per la frangetta.
«È molto lontano?» chiese quella ragazza, ormai stremata. Il San Mungo pareva districarsi a non finire in una serie di corridoi lunghi e stretti che sfidavano qualunque legge della fisica: un labirinto eterno dai colori pastello. Di tanto in tanto giravano l’angolo e finivano su un piano rialzato che portava ai reparti più strampalati e coi nomi più lunghi e assurdi che Clover avesse mai visto. A volte, invece di angoli, trovavano curve talmente larghe da far credere loro di trovarsi in un cerchio infinito. Orientarsi in quel posto era a dir poco impossibile.
«Ehi, signore?» disse sempre quella ragazza. Quando Clover si sporse verso di lei per leggere l’etichetta sul suo camice trovò solo una K seguita dal cognome: Wilson. Klara? Katherine? Khalida? Glielo avrebbe chiesto il prima possibile, ma in quel momento non si poteva permettere di sprecare ossigeno.
«Folkoy?» chiamo a gran voce il ragazzo alle loro spalle. A quel punto il guaritore si fermò di botto ‒e tutti loro rischiarono di finirci addosso. Si voltò a guardarli sorpreso, o almeno così pensò Clover perché dalla sua faccia non traspariva alcunché.
«La signorina qui» disse. Indicò Wilson sotto di lui. «Chiedeva se mancasse ancora molto.»
A quel punto Wilson si lasciò cadere contro la parete rosa che aveva accanto. Clover fece lo stesso dall’altra parte. Doveva prendere fiato o non ce l’avrebbe fatta; molto più estenuante di rincorrere gli Kneazle. Folkoy rimase a guardarli con una punta di perplessità.
«Molto per cosa?» chiese. Era sinceramente confuso.
«Per … il caso. Il nostro p-primo … paziente. È da … da quanto? Mezz’ora? … che camminiamo.» Wilson boccheggiava da quanto era disidratata. Anche la milza le mandava brutte fitte.
«Oh, non stiamo andando da nessuna parte. Questa è la mia passeggiata mattutina.»
Silenzio.
I quattro ragazzi rimasero a fissarlo basiti dietro volti sconvolti dalla fatica. Intorno a loro le infermiere si muovevano con la braccia piene di cartelle cliniche e filtri dai colori variopinti. Un intero ospedale pieno di gente sofferente e moribonda li circondava da ogni parte, e loro passeggiavano?
Prima che chiunque potesse parlare, lamentarsi magari, Folkoy diede loro nuovamente le spalle e tornò a camminare lungo il corridoio oblungo. Mentre Clover lo guardava allontanarsi, non poté che chiedersi che diavolo avrebbero combinato per il resto della mattinata. Non potevano mica passeggiare per tutto il tempo, o sì? Clover era stata avvertita della stranezza dei guaritori del San Mungo. Quando era in Accademia una ragazza al primo anno della quinquennale era stata ricoverata d’urgenza per problemi linfatici. Era stata via alcuni mesi ed era tornata con una cura e un sacco di storielle imbarazzanti da raccontare alle amiche. Per lo più si trattava di pettegolezzi maligni che lasciavano il tempo che trovavano. Clover non si era lasciata impressionare; anche i guaritori più in vista del Paese avevano una vita privata e a giudicare dalle voci, doveva essere parecchio incasinata. Ma in quel momento, piegata dal suo respiro affannoso, si maledisse per non aver dato retta a quella pettegola dell’Accademia. Quantomeno, sarebbe arrivata al San Mungo sapendo cosa l’avrebbe aspettata.
«Ma fa sul serio?» disse il ragazzo di prima. Oltre gli occhiali dalla montatura sottile aveva una criniera di capelli ingellati; doveva usare un prodotto magico perché qualunque lacca babbana non sarebbe durata così a lungo.
Decise che se proprio doveva proseguire quella marcia funebre verso l’obitorio voleva almeno conoscere i nomi dei ragazzi che avrebbero accompagnato la sua salma e, eventualmente, condiviso la sua bara. Così si presentò: «Io sono Clover, comunque. Clover Bluebell, piacere di conoscervi.»
«Karma Wilson» disse la ragazza che ancora annaspava aggrappata di peso al muro dell’ospedale. «Volevo andare al San Mungo, ma … credo che questa sia la strada per il cimitero.»
Clover scoppiò in una risata fragorosa, anche se intervallata dai suoi polmoni che cercavano di prendere aria. Quella ragazza aveva il suo stesso senso dell’umorismo. Poi il suo nome le ricordò qualcosa che aveva visto alla bacheca degli annunci il giorno prima, durante il giro panoramico.
«Sei tu che cerchi coinquilini???» Era così euforica che cominciò ad agitare le mani in aria in preda alle convulsioni scatenando una pioggia di campanellini con i suoi braccialetti. Che culo finire nello stesso giro visite della ragazza che metteva a disposizione le camere! Avrebbe fatto i salti di gioia.
«Hai bisogno?» domandò Karma, apparentemente con lo stesso entusiasmo. «Ne ho tre.»
«Una è mia» proclamò Clover istantaneamente. Aveva già affrontato l’orrore di cercarsi un appartamento in cui vivere quando si era trasferita a Londra per il tirocinio. All’ultimo suo padre era riuscito a rimediarle un monolocale freddo e umidiccio, incastrato in un edificio fatiscente della Londra babbana. Era un rimedio temporaneo, così le era stato detto, fintanto che non fosse riuscita a trovare qualcosa di meglio. E quel qualcosa di meglio l’aspettava proprio lì in uno scricciolo di strega con gli abiti a stampe africane.
«Perfetto!» esclamò Karma con un sonoro clap delle mani. Si voltò verso gli altri per chiedere loro se volessero le altre due camere, ma entrambi si erano già sistemati. Wendy, così disse di chiamarsi, aveva ereditato un appartamento per sé da sua zia e aveva affittato le restanti camere a dei ragazzi che le avevano scritto una volta visto l’annuncio sulla bacheca. L’altro ragazzo, che si presentò come Lux, solo Lux, disse loro che era stato approcciato da un tizio in un pub la sera prima e ci aveva rimediato un appartamento. Era andato a festeggiare l’inizio del tirocinio e un mago, sentendolo, gli aveva detto che suo fratello cercava dei coinquilini.
«Suo fratello è uno specializzando?» domandò Karma. Avevano ripreso a camminare per il corridoio, nervosi di perdere di vista il loro tutor in quel labirinto insidioso.
«Così ha detto. Si chiama Marshall Ellis. Lo cercherò alla pausa pranzo.»
Mentre parlottavano tra di loro, Clover si girava verso Wendy per assicurarsi che non si sentisse esclusa. Alla fine decise di cedere il passo per starle accanto mentre Karma e Lux proseguivano spediti lungo il cammino.
«Sai già in cosa ti specializzerai?» chiese Clover alla ragazza esile che la affiancava.
Wendy scosse la testa. Aveva un collo talmente fino che Clover temette che la testa, muovendosi troppo, le si staccasse rotolando sul pavimento, ma ciò non successe.
Cogliendo subito il suo disagio, Clover decise che sarebbe stato meglio se fosse stata lei a mantenere viva la conversazione. «Io mi specializzerò in ferite da creature magiche» disse risoluta.
«È un bell’ambito» disse Wendy a voce così bassa che Clover dovette assottigliare l’udito per sentirla.
«Oh, è meraviglioso! Dovrò studiare un sacco, lo so, ma gli animali …» Si fermò un attimo a pensarci su, ma non completò mai la frase. «Sento che è la strada giusta per me.»
Si guardò meglio la divisa verde lime che aveva indosso. Il simbolo del San Mungo era appuntato proprio all’altezza del cuore, che ora le palpitava forte nel petto. Tutti quei battiti risonanti venivano dalla sua passione, o era solo colpa di Folkoy? Le venne quasi da ridere, ma si contenne: sarebbe parso strano.
«Dite che ci porterà da qualche parte, prima o poi?» domandò Lux voltandosi per guardare tutte loro. «Stiamo diventato dei maratoneti provetti.»
«In questo momento darei qualunque cosa per fermarmi» piagnucolò Karma. «Non chiedo un paziente, mi va bene anche una scrivania in sala accettazione!»
«Zitta!» la rimbrottò Lux. Sperò che Folkoy non li stesse ascoltando. «Non mettergli in testa strane idee.»
In mezzo ai loro sghignazzamenti una vocetta sottile si fece largo con vergogna. «Magari andiamo in laboratorio» disse Wendy. «Mi hanno detto che è un ricercatore.»
«Adoro le piante!» ululò Karma. Anche quella era una cosa che avevano in comune, ragionò Clover con sempre più entusiasmo. «Pensate che ci farà assistere ai suoi esperimenti?»
Quella passeggiata durò un’eternità. Per loro sfortuna, Folkoy quel giorno iniziava il turno non prima delle nove e un quarto. Visitarono così tanti reparti che ben presto persero del tutto l’orientamento. Non entrarono mai nelle aree ad alto rischio infettivo, chiaramente. Oh Merlino, Clover ormai dubitava che il buon senso avesse qualche effetto su Folkoy. Quell’uomo avrebbe potuto camminare tra i malati di tuberghoulosi con completa nonchalance. Li trascinava in giro da due ore e non aveva detto una singola parola. Se non fosse stato per Karma, probabilmente non li avrebbe neanche avvertiti della “passeggiata” scorazzandoseli in giro come nulla fosse.
Infine, giunsero davanti alle enormi ante dell’ascensore. Tutti e quattro si rinvigorirono alla loro vista e si prepararono ad entrarvi, ma Folkoy stroncò il loro miraggio virando a destra per prendere le scale.
«C’è l’ascensore» tentò Karma, ma non ci credeva neanche lei.
«Va tenuto libero per le urgenze.»
Come ragionamento non faceva una piega, ma Clover si ritrovò comunque a odiarlo. Si era sempre reputata un tipo atletico, ma a conti fatti era brava solo per gli scatti e i buoni riflessi. Non aveva alcuna resistenza e camminare nei luoghi chiusi la annoiava terribilmente. Se almeno ci fossero state piante rampicanti … decise che ne avrebbe parlato con il Primario dell’Ospedale. Non poteva certo dirle di no. Decorazioni floreali avrebbero giovato alla struttura, e anche ai pazienti. Era risaputo che le piante fossero un toccasana per la salute.
Pensò di tentare prima con il loro tutor, per sicurezza. Così si schiarì la gola tra un gradino e l’altro. Si rese subito conto che le scale non erano ben allineate e a guardarle davano delle brutte vertigini.
«Sarebbero carine delle piante, magari rampicanti.»
«Lungo i corridoi?» Folkoy suonava interessato. Ma poi si rabbuiò di colpo. «Hellebore non vuole.»
Clover si chiese chi diavolo fosse Hellebore, quale carica ricoprisse all’interno del San Mungo. Era una persona influente, con potere dirigenziale? Folkoy non sembrava intenzionato ad aggiungere altro  sul suo conto.
Quando arrivarono in cima trovarono l’uscita che dava sulla pista di atterraggio delle ambulfiere. La porta era stata divelta di netto, in maniera alquanto brusca, e ora ne rimanevano solo i cardini malmessi. Il varco era poi stato ampliato con l’uso della magia. Così i telai apparivano orribilmente distorti e la serratura, ormai arrugginita, aveva assunto una forma sconosciuta. Ci passarono tutti e cinque comodamente e contemporaneamente. E poi aspettarono.
Ben presto divennero vittime delle intemperie di Londra. Il vento fischiava e stramazzava tra i palazzi sollevando brezze di gelo che facevano rabbrividire i ragazzi. I capelli di Karma si scompigliarono in nodi mostruosi, mentre quelli di Clover le sferzavano la faccia come frustini. Wendy era stata abbastanza furba da legarseli ben stretti in una coda di cavallo che si agitava imbizzarrita dietro di lei. I capelli di Lux invece rimasero perfettamente al loro posto, imprigionati dal gel.
«Dovrai prestarmi la tua lacca!» urlò Clover da sopra il vento. «Dove l’hai presa?»
Ma prima che Lux potesse rispondere, in lontananza si levò un suono schioppettate e macchinoso. Guardando l’orizzonte non si vedeva nulla, solo nuvole su nuvole a coprire tutto il cielo minacciando una pioggia devastante. Poi la videro: un’enorme ambulfiera che aleggiava nell’aria sospingendosi verso di loro. Era quasi invisibile, i babbani non la notavano neanche, ma da dove si trovavano potevano vedere sprazzi di luce intermittente che baluginavano, sempre più vicini. Ben presto, ne poterono distinguere i lineamenti con chiarezza. Quando l’ambulfiera superò i confini dell’ospedale divenne completamente visibile, almeno per loro. L’enorme pallone rosso e verde svolazzava senza gas sopra di loro, ma al di sotto non vi era alcun cesto. Al suo posto, un intero vano era preposto alla cura tempestiva dei degenti.
L’ambulfiera non attraccò neanche. Tre barelle vennero calate con una cura meticolosa e rimasero sospese a mezzo metro da terra. I guaritori che erano accorsi dopo di loro si precipitarono verso le barelle, e così fece anche Folkoy. I ragazzi lo seguirono seduta stante, nervosi ma sovreccitati.
Clover guardava ancora l’ambulfiera imponente che li sovrastava. Le sarebbe piaciuto prestare servizio al magisoccorso. Chissà quante cose avevano da raccontare ogni giorno lassù.
Una paramedimaga venne loro incontro spingendo la barella. Aveva un aspetto selvaggio. Oltre le trecce corvine, un volto duro come il marmo con occhi sporgenti, di un verde acquitrino, e sopracciglia foltissime. Il passo era felpato, la voce sicura, e in mano teneva una cartella clinica che aveva compilato lungo il viaggio.
«Rainn de Loughrey, trentasei anni. Ha subito gravi lesioni da avvincino.»
«È messo male» mormorò Folkoy. Non sembrava per nulla agitato, come se quella persona che giaceva sulla barella fosse un qualcosa di troppo noioso per lui. Clover provò un moto di fastidio a quella vista.
Per scendere stavolta usarono l’ascensore. E poi trasportarono il paziente in una stanza blu zaffiro, adagiandolo sul letto.
Rainn era mosso da brevi scatti continui, come se le ferite lo portassero a contorcersi ma il dolore fosse troppo da sopportare. Teneva i denti stretti, ogni tanto si lasciava andare a qualche lamento ma non urlava, e soprattutto ‒cosa che sconvolse Clover ancora di più‒ non piangeva. Tra le gocce di sangue che bagnavano la barella e il pavimento di sotto, neanche una lacrima.
«È stato attaccato da un intero branco di avvincini» disse Folkoy con la cartelletta in mano. «Un caso facile. Che cosa notate?»
Clover sentì un’ondata di nervosismo investirla. Quello era il suo momento. Cercò di avere la mente lucida per ricordare quello che sapeva su quelle creature.
«Gli avvincini sono demoni acquatici di acqua dolce. Sono aggressivi, specie se in branco.» Folkoy non la guardava negli occhi, ma rimaneva in silenzio e Clover lo prese come un incoraggiamento a continuare. «Afferrano e stritolano le prede con i tentacoli. Ma il vero pericolo sono le ventose: aderiscono alla pelle con la stessa foga delle sanguisughe e rilasciano un veleno. Il grado di tossicità è basso, ma in grande quantità può diventare pericoloso.»
Parlava a una velocità impressionante snocciolando tutto il suo sapere senza neanche prendere fiato. Voleva passare subito all’azione, non poteva sopportare di vedere quell’uomo versare nella sofferenza.
I suoi occhi balzavano da Folkoy al paziente, in preda all’ansia.
Folkoy non disse niente del suo operato. «Che cosa si fa?»
Clover guardò le ferite sanguinolente di Rainn con occhio esperto. «Sono infette.»
«Sì» disse Folkoy. Lo sapeva già.
A quel punto s’intromise Karma.
«Sta soffrendo molto. Non dovremmo somministrargli la bellamorte?»
Bellamorte era il nome con cui comunemente ci si riferiva al nettare di mandragola, una sostanza pura ricavata dalle lacrime di mandragole infanti. Aveva un effetto analgesico alleviando completamente qualsiasi dolore. Di norma veniva somministrata attraverso un unguento, ma poteva anche essere ingerita; unita alla miscela di asfodelo e artemisia si rivelava il narcotico più potente in natura. Si chiamava bellamorte perché chi ne faceva un uso sprovveduto cadeva in un sonno simile alla morte, e nessuno poteva prevedere quanto a lungo sarebbe durato.
«La stanno portando in questo momento» disse Folkoy. Giusto in tempo, perché qualche minuto dopo un’infermiera comparve sull’uscio con una scatoletta in legno, tonda e intagliata, che recava scritto nettare di mandragola. Clover non l’aveva mai visto se non nelle illustrazioni dei libri in Accademia, così si sporse per dare un’occhiata. Sembrava miele da quanto era oleoso, traslucido, con riflessi simili a minuscoli minerali. L’odore resinoso e il colore della cenere però non lo rendeva affatto allettante al palato.
Mentre Clover continuava a fissare il nettare, Folkoy prese un bastoncino e glielo porse. Voleva che fosse lei a passare l’unguento sulle ferite del paziente. Era il suo modo di dirle che era stata brava? Clover non se lo fece ripetere due volte. Agguantò il bastoncino e lo immerse nella belladonna, poi prese a passarlo sulle ferite aperte. Rainn smise di sussultare. Per un attimo le sembrò che la guardasse con gratitudine.
«E ora cosa facciamo?» chiese Folkoy quand’ebbe finito.
«Ha delle ossa rotte» fece notare Karma indicando il modo in cui il petto si incrinava all’altezza delle costole.
« Aggiustale» le ordinò Folkoy. Allora Karma strabuzzò gli occhi, incredula.
«Io?» chiese. Sembrava incerta. Il loro tutor rimase immobile ad aspettare, del tutto incurante della sofferenza del paziente.
Così Karma tirò fuori la bacchetta dalla tunica dell’ospedale e prese un grosso respiro. La sua mano però tremolava.
«Costam emendo!»1
Ci fu un bagliore rossastro, ma nulla più. Il petto di Rainn rimaneva incrinato e il poveretto respirava a fatica. Karma sprofondò in un mare di vergogna.
«Poco male» disse Folkoy. Fece lo stesso incantesimo di Karma, e stavolta parve funzionare perché le ossa delle costole tornarono al loro posto in un crack da brivido.
«Prestatemi attenzione adesso.» Si fermò un attimo a ragionare su quello che aveva detto. «Strano modo di dire: prestatemi attenzione. Comunque, il veleno di avvincino non è letale ma può danneggiare seriamente gli organi interni se non curato per tempo»
Clover sentì un moto d’orgoglio al pensiero di aver fatto una buona impressione già al suo primo giorno.
«Non siamo macellai babbani, non apriamo le persone con i coltelli in questo ospedale. Quello che facciamo,» disse Folkoy con il solito tono monocorde che lo contraddistingueva, «è sfruttare la magia per un esame extracorporale. A cosa serve?» Si voltò verso Lux e Wendy che finora non avevano ancora parlato.
Wendy si morse le labbra, pressoché paralizzata dagli occhi fissi e inespressivi del guaritore.
Fu Lux a rispondere: «Serve a verificare lo stato di salute degli organi interni e agire di conseguenza.»
Prima che chiunque di loro potesse rendersene conto, Folkoy girò la testa verso il paziente e agitò la bacchetta per aria con mosse ampie del braccio.
«Expecto reflexum!»
Dalla punta della bacchetta fuoriuscirono sfolgorii di luce che scomparvero nel corpo di Rainn come uno stormo di lucciole gialle. Un attimo dopo da quello stesso corpo se ne levò un altro identico, splendente ma allo stesso tempo invisibile, come un riflesso di luce dorata. Non era accecante come Clover aveva sempre pensato. Vorticava sopra Rainn come un’ombra fedele che non volesse lasciare il suo compagno.
Durante gli esami dell’Accademia Clover si era ritrovata diverse volte a usare quell’incantesimo, ma gli effetti che aveva sui fantocci non erano niente rispetto a quello che si trovava di fronte in quel momento.
Folkoy tornò ad usare la bacchetta. Chissà quante volte aveva assistito ed eseguito esami extracorporali da che era guaritore. Abbastanza da non meravigliarsi più davanti a quella bellezza per lui così banale e quotidiana. A Clover invece pizzicavano gli occhi.
«Indago!»
Gli organi dell’ologramma cominciarono a illuminarsi uno dopo l’altro e poi a spegnersi finché non rimasero visibili solo il polmone sinistro, il pancreas, il fegato, l’appendice e un pezzo dell’intestino tenue. Quelli erano gli organi infettati dalla tossina.
«Si curano con una pozione purificatrice a base di bezoar» spiegò Folkoy. Apparentemente, non aveva più voglia di interrogarli. Infine, si voltò verso Clover e disse: «Chiudi le ferite. Qui abbiamo finito.»
Clover fece come le era stato detto. In men che non si dica, Rainn era un uomo nuovo. Di quel cartoccio di sangue e lamenti che era arrivato in ambulfiera non era rimasto nulla, solo un mago un po’ ammaccato che li ringraziava dal letto d’ospedale su cui era obbligato.
Aveva passato otto anni in Accademia: studiando sui libri, preparando pozioni, curando fantocci. Ma solo in quel momento capì che i sacrifici che aveva fatto sarebbero stati ampiamente ripagati. Solo in quel momento capì che Medimagia era la sua vita.
 
 
 
 
Dopo Rainn de Loughray la mattinata era proseguita tranquilla. Si erano incamminati verso l’ambulatorio accanto alla sala accettazioni e avevano visitato i pazienti che aspettavano in fila, uno dopo l’altro. Nessuno di loro presentava danni gravi. Nessuno di loro rischiava la vita. Ma fu ugualmente educativo.
Folkoy se ne era stato per i fatti suoi a leggersi un libricino sui funghi mentre loro avevano fatto tutto il lavoro. Clover aveva curato un uomo con le orecchie trasfigurate in cucchiai, una vecchia strega che aveva ingoiato metropolvere ‒e che ad ogni colpo di tosse faceva sparire un oggetto che aveva davanti, trasportato chissà dove‒ e infine un ragazzetto vispo che si era ridotto di dimensioni ed era diventato talmente piccolo da poter abitare comodamente una tazzina da tè. Era venuto anche un mago della sua età, cicciottello con un lungo mantello rosso, disperato per aver trasfigurato la bacchetta di sua moglie in una penna. Diceva di doverla far tornare al suo stato naturale prima che la moglie lo scoprisse. Era così avvilito che Clover si sentì in colpa a dirgli di andare da un esperto di bacchette o da un insegnante di trasfigurazione perché al San Mungo si occupavano di persone.
«A chi verrebbe mai in mente di trasfigurare una bacchetta?» disse Lux con fare sardonico. Era allibito almeno quanto Clover.
Alla fine avevano staccato per il pranzo. Folkoy si era dileguato senza tanti complimenti, ma nessuno dei quattro ci rimase particolarmente male.
«Proprio strano» disse Lux. «Mangiamo insieme?»
«Certamente.»
Non vedeva l’ora di mettere qualcosa sotto i denti. La mensa dell’ospedale era tra le più acclamate della comunità, seconda solo a quella di Hogwarts. Anche il ministro della magia, che godeva del suo personalissimo banchetto, aveva lodato il cibo del San Mungo quando era stato ricoverato per un controllo di routine.
Scoprirono che non c’era alcun self-service. All’entrata ci si metteva in fila e una strega con la veste tutta rattoppata serviva i vassoi, già pieni di pietanze. Quel giorno il pasto prevedeva proprio la zuppa di avvincino; Rainn ne sarebbe stato contento. Insieme alla zuppa avevano dato loro del pane tostato e un grappolo di uva nera da spiluccare come dessert. Niente dolci, anche se Lux le disse che al quinto piano, dentro la sala da tè, c’era un distributore magico di merendine. E che la donna dietro il bancone, oltre al tè, offriva cioccolata, frappè e biscotti. Era stipendiata direttamente dal San Mungo quindi non avrebbero dovuto sborsare uno zellino.
Mentre mangiavano Karma appariva afflitta.
«Che sfortuna!» si lamentò con fare sconsolato. «Povera me! Un errore così banale!»
«Sta’ tranquilla» la consolò Clover. «Folkoy se ne sarà già dimenticato. Non gli interessa di noi.»
«È un segno» disse invece Karma. «Andrà tutto male, me lo sento. Sarò quella delle ossa rotte. Wilbones, è così che mi chiameranno.»
«Non ti chiameranno in nessun modo.» Lux scosse la testa. «Anche se perfino Wilbones suona più normale di Karma.»
Prima di passare in mensa avevano fatto una capatina in segreteria per farsi dare i propri turni di lavoro. Ora Clover leggeva con attenzione i nomi che comparivano sulla sua pergamena. Segnava solo quella giornata, ma era sicura che l’indomani l’inchiostro sarebbe mutato per adattarsi ai turni successivi, e così per il resto dei suoi giorni.
«Siamo insieme a tutti e tre i turni» disse a Karma sperando di sollevarle un po’ il morale. «Il prossimo è con Alius Sinclair.»
Si accorse quasi subito che a differenza delle targhette la pergamena non riportava solo i cognomi. Così scoprì il primo nome di Folkoy e anche la sua specializzazione: Barrius Folkoy, fitoterapista.
«Io ce l’ho al terzo turno» disse invece Lux mentre si versava dell’acqua. «Adesso ho … aspetta che guardo … Desdemona Fillory! Oh, fa quello che vuoi fare tu, Clover.»
«Ferite da creature magiche?» I suoi occhi brillavano.
«Ma allora perché non si è occupata lei di Rainn de Loughray?» domandò Karma. Stava staccando con cura tutti gli acini d’uva.
«Magari non poteva» tentò Clover. «Magari si occupa dei casi più gravi e lascia quelli minori agli altri guaritori, indipendentemente dalla loro specializzazione.»
Pensò che fosse un ragionamento sensato e dovettero pensarlo anche gli altri, perché non fecero commenti.
«Tu cos’hai, Wendy?»
«È con me da Fillory» rispose Lux per lei.
«E poi stasera ho di nuovo Folkoy» concluse Wendy. Aveva mangiato pochissimo. Il pane rimaneva intatto, aveva preso giusto una manciata d’uva e un sorso di brodo. Tuttavia sembrava avere le loro stesse energie, nonostante il suo corpo ricordasse a Clover quello di un asticello.
 
 
 
Le loro strade si separarono venti minuti dopo. Clover e Karma tornarono nei pressi dello spogliatoio, che dava su un ampio salone pieno di divanetti bordeaux. Lì decisero di aspettare il loro nuovo tutor, nella speranza che non tardasse.
Dallo spogliatoio uscì un ragazzo magrolino con la faccia piena di lentiggini. Appariva nervoso e si contorceva le mani a più non posso facendo guizzare gli occhietti vispi da una parte all’altra del corridoio, come se avesse paura di qualcuno.
«Tutto okay?» chiese Karma facendogli cenno di avvicinarsi.
«S-Sì. Ehm …» Si guardò intorno con fare circospetto. «È che non voglio imbattermi di nuovo in Domheat. Ce l’ho già avuto stamattina e … beh, è terrificante.»
Clover riprese fuori la pergamena dalla larga tasca della tunica. Fece scorrere il dito fino al turno serale: Sean Domheat, viropatomedimago. Doveva essere davvero bravo per avere due specializzazioni.
Si voltò verso Karma. «Siamo con lui stasera.»
«Te l’ho detto che sarebbe andato tutto male.»
Non condivideva il suo fatalismo, ma capiva bene quanto male potesse sentirsi ad aver fallito di fronte a un guaritore, seppur bizzarro e atipico come Folkoy.
«Vuoi parlarne?»
Karma scosse la testa. Non le sembrava giusto sfogarsi con quella che sarebbe stata la sua nuova coinquilina. E se l’avesse spaventata fino a farla scappare? Aveva bisogno di affittare quelle camere.
«E tagliare fuori questo povero cucciolo smarrito?» disse invece indicando quel ragazzo dai larghi jeans e la maglia a strisce gialle e viola che si intravedeva da sotto la tunica. «Karma Wilson.»
«Graves. Duncan Graves.»
Clover si presentò subito dopo stringendogli la mano. Rimasero a parlare per un po’ del più e del meno ricordando gli anni all’Accademia e prima ancora a Hogwarts. Scoprì che erano stati tutti e tre a Tassorosso e probabilmente si erano già conosciuti allora, anche se ormai Clover aveva solo vaghi ricordi di quel periodo. Tendeva a ricordare solo i momenti più importanti della sua vita. In particolare il modo di parlare di Duncan le stuzzicava la memoria perché era l’accento più inglese che avesse mai sentito.
Sinclair li venne a prendere subito dopo, puntuale come l’espresso delle undici a King’s Cross. Ma non arrivò prima di Eave Moreen, che li raggiunse giusto in tempo per scambiare due convenevoli.
Alius Sinclair era un uomo composto e formale, con abiti sobri e impeccabili, grigio perla. Occhi puliti, schiena dritta, tutto di lui era in ordine. Ispirava autorità assoluta e la voce con cui chiamò i loro nomi era del tutto priva di umorismo.
«Camera 72. Hanno appena portato un paziente, un caso interessante. Vediamo di che cosa siete capaci.»
Nella camera 72 c’era un ragazzo sdraiato sul lettino e un altro in piedi. Sulla cartella c’era scritto Luke Parkinson.
«Salve, finalmente siete arrivati» li accolse il ragazzo in piedi. Si somigliavano molto quei due, eppure quello sdraiato sembrava solo la pallida imitazione di colui che li aveva accolti. «Sono Roman Parkinson e questo è mio cugino. Sta molto male.»
«Allucinazioni, ho sentito» disse Sinclair. Aveva la cartella in mano ma non la guardava. La sua attenzione era tutta rivolta verso Luke.
Clover pensò a tutte le malattie che potevano provocare allucinazioni, ma ce n’erano veramente troppe. Così pensò a quelle più comuni per aumentare le sue probabilità di successo. Un tumore, ad esempio.
«Può ripetermi quello che ha detto all’infermiera, per favore?» domandò Sinclair. Le sue abilità relazionali erano di gran lunga superiori a quelle di Folkoy. Già solo il modo in cui ancorava lo sguardo a Roman … tutto un altro livello.
«Crede che qualcuno lo perseguiti» cominciò a raccontare Roman. «Dice di vedere chiaramente qualcuno. Succede di continuo.»
«Che cosa sta facendo esattamente quando le capitano questi episodi?» domandò direttamente a Luke, che sentendosi chiamato si mosse sul posto con fare agitato. Sembrava in un perenne stato di vigilanza, come se non riuscisse a stare tranquillo.
«Niente» disse Luke. «Mangio, faccio una passeggiata, parlo con Roman. Faccio di tutto.»
«Quindi sono episodi casuali, apparentemente slegati da particolari contesti e persone?» Luke annuì e Sinclair proseguì: «Che cosa succede durante questi episodi, mi dica?»
Luke tornò a guardarsi le mani, pieno di vergogna. «Mi capitano … è come se mi partisse la magia … come se non riuscissi più a controllarla.»
«È curabile?» chiese Roman in un impeto d’ansia. Quella era, di norma, l’unica domanda che i famigliari ponevano una volta giunti in ospedale.
«Qualunque risposta sarebbe approssimativa in questo momento. Dobbiamo prima scoprire cos’ha suo cugino.» Poi si voltò verso i suoi specializzandi, cogliendoli di sorpresa. Li accompagnò fuori per evitare di discutere davanti al paziente. «Qualche idea?»
L’unica ad avere sufficiente prontezza di riflessi fu Eave.
«Psicosi» affermò con certezza quasi arrogante. «Le allucinazioni sono un sintomo psichiatrico.»
«La psichiatria è una buona pista, ma bisogna prima accertare che non sia un problema di natura biologica» disse invece Clover.
«Intendi un tumore al cervello? Potrebbe funzionare.» s’intromise Duncan.
Tutti e tre si voltarono verso Sinclair, che rimaneva freddo come il ghiaccio.
«Il corpo viene sempre prima della mente, almeno in questo ospedale» disse. Poi tirò fuori un foglio traslucido in cui si poteva notare un cervello perfettamente sano muoversi all’interno della cornice. «Per vostra fortuna ho già fatto fare una magitac: niente tumore.»
«Quindi è una psicosi.» Eave pareva sempre più convinta, mentre Clover si afflisse di poco ma non doveva lasciarsi sconfortare da un piccolo passo falso.
Sinclair lasciò loro un intero minuto per formulare ulteriori ipotesi, ma nessuno di loro tirò fuori qualcosa di consistente e il guaritore apparve alquanto deluso.
«Prima di entrare nell’ambito della psichiatria, è bene passare in rassegna la psicologia, non vi pare?» Non aspettò alcuna risposta. «Cosa potrebbe provocare deliri di tipo persecutorio? La paranoia. Da cosa nasce la paranoia? Dalla paura, dallo stress. È una mente che ha perso il contatto con la realtà.»
«Ma non si è fatto alcun accenno a traumi irrisolti» obiettò Eave, come se quell’omissione sull’anamnesi del paziente fosse stata un affronto personale.
Sinclair non la prese bene. Le lanciò un’occhiata seccata e proseguì con tono di rimprovero. «Hai bisogno di leggere un’anamnesi per comprendere lo stato di salute psicologica di un paziente? La risposta è no. L’empatia è l’unica chiave di lettura di cui puoi disporre. E anche se ne fossi totalmente priva, ti basterebbe usare il cervello: veniamo da una guerra tremenda che ha fatto più vittime tra i superstiti che tra i morti. La quasi totalità di persone che ti camminano accanto ha traumi irrisolti col passato.»
Le parole erano state dure e anche se non erano rivolte a lei, Clover si sentì comunque male. Si girò verso Eave per poterla consolare, magari tenerle la mano, farle capire che era al suo fianco, ma una volta girata si rese conto che Eave era molto più forte di lei. Rimaneva a fissare il loro tutor con la stessa sicurezza con cui Sinclair aveva parlato. Eave stava dicendo: mi tengo stretto il mio diritto di sbagliare e non me ne vergogno. Quanti altri sarebbero stati tanto forti di fronte a una simile batosta? Avrebbe potuto imparare tantissimo da quella ragazza.
Difatti Sinclair non si dilungò oltre. Finita la spiegazione ‒che a chiunque altro sarebbe parsa come un insopportabile rimprovero‒ tornò a dedicarsi al paziente.
«Abbiamo un ragazzo con lasciti traumatici e magia involontaria fuori controllo. Che cosa accomuna questi due fattori? Avete due minuti di tempo per darmi una risposta convincente.»
Cominciò a spremersi le meningi e sentiva Karma fare lo stesso accanto a lei. Duncan sembrava aver dato forfait da un pezzo.
Ripensò alla guerra, agli orrori che aveva portato, alle file di lapidi che erano comparse al cimitero di Londra. Luke appariva emaciato, sfibrato, con una faccia troppo ossuta per sopportare un’altra giornata. Depresso? Non avrebbe spiegato la magia involontaria. Era un tipo ansioso, a dir poco nevrotico, sempre sull’attenti … Sinclair aveva parlato di stress. Poteva trattarsi di disturbo da stress post traumatico. Era vittima della sua mente infranta che lo portava a rivivere la guerra nei suoi aspetti più atroci. Indifeso e in completa balia di se stesso, poteva affidarsi solo alla magia. Quegli sprazzi di magia involontaria erano un chiaro meccanismo di difesa automatico per proteggersi dalle immagini orrende che la sua mente creava e che, purtroppo, non era in grado di distinguere dalla realtà. Pensò che potesse avere senso e decise di farsi coraggio.
Prima che i due minuti scadessero fece un passo avanti e disse: «PTSD!»
Eave la seguì poco dopo ma con una diagnosi molto diversa.
«DEL!»
DEL. Disregolazione emotiva linfatica. Era una opzione azzardata, ma spiegava tutto. Inoltre appariva di gran lunga più stimolante per un linfologo come Sinclair.
Per la seconda volta si voltarono verso il loro mentore per scoprire chi avesse ragione,ma stavolta non ottennero alcuna risposta. Al contrario, Sinclair allungò loro la cartella clinica perché si occupassero loro del paziente.
«Adesso è sotto la vostra responsabilità. Fate tutti gli esami che credete indispensabili e poi datemi una risposta definitiva. Vi restano tre ore alla fine del turno. Quando avrete finito, mi troverete in neonatomagia.»
Se ne andò così rapidamente che Clover rimase a boccheggiare. Guardò la camera 72, senza fiato: i due cugini chiacchieravano mestamente e ogni tanto Roman si voltava verso di loro a guardarli. Luke rimaneva disteso tra i cuscini con le labbra secche e il corpo martoriato. Si chiese se sarebbero stati abbastanza bravi da salvargli la vita. Ma non poteva essere un caso così grave; Sinclair non li avrebbe mai piantati in asso se la vita di Luke fosse stata in pericolo. Improvvisamente, si rese conto che gli errori di un guaritore non erano segni scarabocchiati da cancellare con la matita, erano vite umane che potevano essere recise in un attimo, senza poter tornare indietro a chieder scusa. Aveva una sola possibilità, solo una.

 
 


 
 
Note:

1Costam emendo: dal latino «ottimizzo/aggiusto la costola». Proviene dall’incantesimo Brachiam emendo che Gilderoy Allock usa per “aggiustare” il braccio ad Harry in Harry Potter e la Camera dei Segreti. Lo so, non il migliore dei maestri.
 
 
 
Come vi sono andati questi mesi? Spero meno faticosi di quanto lo siano stati per me.
Alla fine mi sono rinchiusa in camera e con una convinzione che non pensavo neanche di avere ho deciso che non sarei uscita se non a capitolo concluso, e così ho fatto. Che dire, mi mancavate.
Questo capitolo è molto diverso dall’ultimo, me ne rendo conto: molto meno personale. Per ragioni narrative alcuni saranno più incentrati sul personaggio ‒come quello di Marshall‒ e altri saranno più incentrati sull’azione. Ogni volta sceglierò il personaggio che reputerò migliore per la narrazione, quindi non stupitevi se qualche pg dovesse ricomparire più volte.
Per farmi perdonare dell’attesa ho deciso di presentarvi non uno ma ben due casi clinici e lasciare in sospeso l’ultimo. Questo per darvi l’occasione di mettervi alla prova con le vostre diagnosi, ma anche per sancire una promessa solenne: il prossimo capitolo uscirà a breve. Sì, perché, dovesse cadere il cielo, d’ora in avanti voglio impegnarmi a scrivere almeno mille parole al giorno (chi ha detto Stephen King?).
Detto questo, ringrazio tutte le persone che hanno recensito lo scorso capitolo e voglio farvi sapere che vi ho letti tutti, ma difficilmente riuscirò a trovare il tempo per rispondere in modo elaborato, quantomeno non nel prossimo periodo. Sono una persona lenta, capitemi. Però le vostre parole sono state oro per me, quindi ci tenevo a dirvelo almeno qui.
Ringrazio infinitamente anche tutti coloro che hanno inserito la storia nelle seguite, ricordate o addirittura preferite! E ovviamente tutti quelli che hanno aspettato questo aggiornamento con lo stesso entusiasmo con cui si sono iscritti. Credete in me e io sarò pronta a credere in voi! <3
Bene, smetto di ammorbarvi e mi dileguo.





 
   
 
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