Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 15.10.2021
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Capitolo
Ventiduesimo
18-19
settembre 1511
Michele
da Brisighella s’appiattì per terra, sfruttando il
fitto
reticolo di felci e cespugli nonché il dislivello del
terreno, che creava
conche perfette da cui osservare la strada maestra sottostante. Con la
coda
dell’occhio controllò le postazioni dei suoi
compagni esploratori e degli
stradioti veneziani, anch’essi camuffatisi nella fitta
vegetazione di roveri e
farnie, in attesa che l’eco lontano di voci e di ruote di
carri si
materializzasse dinanzi a loro.
“I
tuoi compaesani affermavano il vero”, sussurrò a
Cabriel, steso
sul fianco accanto a lui. “Ecco da dove si fanno arrivare i
viveri: non più da
ovest, bensì da est, al di là della
Piave!”
Il
giovane soldato terminò di caricare la balestra a leva.
“Noi
siamo sempre sinceri coi nostri alleati, siete voi i malfidati
opportunisti e
bugiardi”, replicò secco.
Contrariamente
all’altra squadra rientrata a Treviso a seguito
dell’assalto al campo nemico, la sua era rimasta al Montello
onde controllare
gli spostamenti dei franco-imperiali e continuare nelle azioni di
disturbo.
Cabriel, memore delle indicazioni di Malgari e di suo padre Nane, aveva
proposto di mettersi in contatto coi contadini rintanati nelle grotte,
così da
poter meglio coordinare l’assalto ai rifornimenti e muoversi
agilmente
nell’intricato bosco. Infatti, giravano voci che, pur
rimanendo sprovvisti in
gran parte, comunque delle vittuarie stavano lentamente giungendo
all’accampamento e ciò aveva agitato non poco i
loro capitani, che scalpitavano
d’apprendere maggiori dettagli a riguardo. Quella mattina,
poi, alcuni dei
villani erano spariti, così come le provviste e i marciani
invero brancolavano
nel buio, scombussolati da tal novità.
“Ho
combattuto molte guerre e assistito a troppi tradimenti per
fidarmi di chicchessia”, si giustificò altero
Michele, pur arrossendogli le
orecchie quanto la sua casacca e il palvese dietro alla schiena,
metà rossi e
metà bianchi. “Scusami se voglio riportare la mia
pellaccia da mia moglie!”
“Non
è mai stata per te una faccenda personale, la
guerra?”
“E’
il mio mestiere. Ho servito sotto i Manfredi, poi per il
signor capitano Dionigi Naldi [1] e quest’anno mi ritrovo col
signor capitano
Vitello Vitelli. Finché mi pagano e mia moglie e i miei
figli mangiano, a me
basta.”
“Il
tuo mestiere … bah, non il mio”,
replicò cupo Cabriel,
appoggiando la balestra e calibrando la mira. “Non sono mai
stato balestriere.
Qua io non ci ho guadagnato niente, tranne quella ragazza che ho
aiutato a
scappare e che ora mi aspetta. Ero ceramista, sai? Creavo oggetti utili
e belli
per la gioia dei miei concittadini e dei mercanti, non ero artista di
morte. Ma
i Collegati hanno distrutto la mia città, massacrandomi uno
alla volta tutti i
miei familiari. A Castelnuovo ho perso i miei ultimi fratelli
… Non ho voluto
io questa guerra, ci sono stato trascinato dentro e pertanto,
finché avrò vita,
darò tutto me stesso per aiutare la Signoria a vincerla, per
punire questi
scellerati assassini.”
Un
sorriso amaro si dipinse sul volto del brisighellese. “Ecco
perché voi sopravvivrete a questa tempesta, mentre noialtri
siamo crollati”,
commentò, sistemando la sua balestra e lo scudo.
“Silenzio! Ecco qua i
nostri galli.”
Era
indubbio che si trattassero di carri di rifornimenti, tuttavia
ciò che sorprese i due soldati furono alcuni aspetti a loro
completamente
nuovi: primo, non s’attendevano un sì gran numero
di mezzi, impossibile che
provenissero ciascuno dai villaggi immediatamente dopo la Piave.
Secondo,
soldati armati, addirittura Michele ne riconobbe qualcuno della scorta
personale di La Palice e i lancieri dovevano invece appartenere alla compagnia di Giulio Sanseverino. Non saccomanni o stradioti, vera e propria
cavalleria
da sfondamento. Avevano mangiato la foglia e s’erano preparati di
conseguenza.
Eh, merda.
“Che
facciamo? Li lasciamo andare?”
“Manco
per sogno”, scosse il capo Michele, dando il segnale ai
suoi compari e agli stradioti nascosti dall’altra parte del
sentiero. “Voglio
proprio scoprire da dove si riforniscono ‘sti
stronzi!”
Il sibilo
di una freccia fendette l’aria, interrompendo il ritmico
cigolio delle ruote e dello scalpitio dei cavalli. Il sordo gemito del
cavaliere colpito alla gola e il tonfo del suo corpo caduto da cavallo
scatenarono l’immediata e rumorosa reazione nei francesi, i
quali si
raggrupparono d’istinto attorno ai preziosissimi carri,
berciando ordini di
caricare le loro balestre e tenere spade e zagaglie pronte
all’assalto.
Una
seconda freccia saettò dal buio del bosco, colpendo un
soldato
più lontano dal primo ucciso. Una terza la seguì,
in apparenza a caso,
impedendo ai francesi di capire esattamente dove si nascondesse il
balestriere
e in quanti fossero.
All’improvviso
gli stradioti veneziani li caricarono sullo stesso
lato, evitando però di avvicinarsi troppo ai carri e
limitandosi a cozzare le
loro zagaglie contro le picche nemiche, scansandosi rapidissimi
così da non
fornire un bersaglio fisso ai balestrieri nemici e tenendo i lancieri e i gendarmi
[2]
focalizzati su di loro. Ché infatti, senza rendersene conto,
i francesi avevano
dato gradualmente le spalle a Michele e alla sua compagnia: in
quell’istante,
al segnale del brisighellese presero a piovere frecce dal loro lato
sicché i nemici,
cadendo come anatre in volo, si voltarono di scatto
dall’altra
parte e di ciò ne approfittarono subito
gli stradioti, stavolta
ingaggiando serrata battaglia e nulla poté più di
tanto la cavalleria pesante,
costretta a muoversi in spazi sempre più ristretti ed
insidiata dai
cavalleggeri e i fanti a piedi. Assediati da ambedue i lati, i
cisalpini si
strinsero l’uno all’altro nella speranza di
resistere alla spinta veneziana, ma
la pressione fu troppa e non li rimase altra soluzione se non
arrendersi.
Mentre i
loro colleghi tenevano i prigionieri allineati e sotto
tiro, alcuni soldati marciani balzarono agili sui carri, scoprendo i
contenuti
dei barili e casse e fischiando in apprezzamento: vino, farina, biave,
carne
essiccata, perfino qualche munizione. Gli stradioti invece si
disputavano i
cavalli dei francesi, contrattandoli animatamente tra insulti, innocue
minacce
e gioviali pacche sulla schiena.
“Questa
roba non può venire unicamente dalla Marca”,
borbottò
Cabriel, osservando pensoso il bendiddio ai suoi piedi.
“Quasi tutto o se lo
sono portati via i contadini o è finito a Treviso oppure
è stato distrutto. A
meno che …!” e il viso gli si colorì
dalla collera, immaginando il modo
mediante il quale i francesi s’erano procurati i rifornimenti.
“Le
munizioni vengono dalla Patria”, commentò un altro
balestriere. “Riconosco il marchio sui barili.”
Michele
si morse l’unghia del pollice, i suoi peggiori timori
confermati. “L’invasione della Patria del Friuli
sta dando i suoi frutti e per
di più hanno scoperto dove i contadini nascondono i loro
viveri!” e una
frustrata imprecazione gli gorgogliò in bocca.
“Non abbiamo spazio sufficiente
nelle stinche né vogliamo sprecar cibo per sfamare
‘sti pezzenti”, si rivolse
perentorio ai suoi sottoposti, intanto che prendeva posto alla guida di
uno dei
carri, raccogliendo le redini degli agitati cavalli.
“Denudate questi cani di
ogni loro bene, che ritornino dal La Palissa in mutande! Sono certo che
si
sapranno benissimo difendere dai contadini ch’hanno appena
derubato!”, aggiunse
pieno di perverso gusto, abbandonandoli alla giustizia dei villani
gabbati. Oh
beh, a Michele del loro codice militaresco e d’onore non
gliene fregava un
granché, così come della sorte di quei bastardi e
arroganti invasori. Il
discorso di Cabriel gli aveva risvegliato in petto una rabbia antica,
sentendosi dopo anni di cinico e disilluso servizio quasi patriottico.
“Questo
qua lo conosco!”, esclamò di punto in bianco
Teodoro
Madalo, della compagnia di Manoli Clada.
“Chi?”,
fece confuso Michele.
Lo
stradiota gli indicò un francese seminudo e seminascosti tra
i
suoi compagni. “Quand’ero prigioniero a
Montebelluna, l’ho visto andarsene a
zonzo assieme al cuoco de La Palissa. Da come parlottavano fitto-fitto
tra di
loro, dovevano essere amici assai intimi. Può darsi che
sappia qualcosa sulla
provenienza di questa miracolosa carovana. Si sa, i cuochi son tutti
dei gran
pettegoli.”
Il
brisighellese si ritrovò d’accordissimo e Cabriel
scese dal
carro con una corda, staccando l’interdetto e spaventato
francese dal gruppo e,
legatolo, lo issò di peso tra i barili di vino.
Il resto
dei prigionieri, ora liberati, veniva invece pungolato
dalle picche a camminare scalzi e in camicia lungo il sentiero, in
direzione
opposta alla loro.
“Porgete
i nostri saluti al generalissimo!”, gridò loro
Michele,
strafottente. “Ditegli che non si crucci se stasera non
cenerà. Ditegli che
avete già mangiato abbastanza sulle spalle
dell’Italia e che un po’ di digiuno
non v’ammazzerà di certo!”
***
Fra’
Anselmo chiuse gli occhi al soldato e incrociò le sue
braccia
al petto. Due oblati, solleciti e intuitivi, sollevarono il lenzuolo su
cui
giaceva e lo sollevarono di peso in modo da trasportarlo al camposanto
improvvisato ai piedi dell’Abbazia. Il padre confessore, dal
canto suo, terminò
le sue preghiere e benedisse il cadavere, il volto ancora verde da quel
poco
che aveva udito della sua ultima confessione. Il benedettino indovinava
quanto
fosse costato, sul piano personale, al confratello elargire
l’assoluzione al
soldato: non aveva osato origliare, tuttavia alla fine della fiera i
racconti
di quei moribondi s’assomigliavano più o meno
tutti quanti, macabri resoconti
di ogni abiezione umana immaginabile. Più conosceva gli
uomini, più provava
rispetto per gli animali, anche per quei lunghi serpenti arrampicatori
e
strangolatori che popolavano il Montello.
Il monaco
appoggiò solidale la mano sulla spalla del confessore,
confortandolo che ormai il loro dovere era compiuto,
quell’anima adesso si
trovava nel tribunale di San Pietro e di San Michele Arcangelo, i quali
avrebbero certamente saputo valutarla meglio di loro. L’altro
benedettino
scrollò le spalle, preferendo osservate il novizio che, dopo
aver gettato della
calce, preparava il letto con lenzuola pulite per il suo prossimo
sfortunato
inquilino.
Siccome
la febbre non mieteva abbastanza vittime tra i francesi,
l’assalto notturno aveva riempito l’infermeria fino
a costringere i monaci a
stendere per terra i feriti su tavole di legno improvvisate a letti.
Almeno, le
loro erano state morti o guarigioni piuttosto veloci, non una lenta e
incerta
agonia.
Via,
a che pro lamentarsi? Al lavoro, si spronò
il benedettino, scostando la tenda che lo separava dal prossimo
ammalato, onde
controllare eventuali segni o di miglioramento o di ricaduta ed aiutare
il suo
paziente a mangiare la magra colazione.
Peccato,
che detto pasto fosse in procinto d’esser svuotato da un
Thomà colto in flagrante degustazione.
“Sarai
pure un Attila!”, lo rimproverò aspramente
Fra’ Anselmo,
ghermendo il bambino per un orecchio, sebbene tale trattamento non
sortì
l’effetto di persuaderlo a mollare la presa dal piatto. E
pensare che il
benedettino, pur di curare l’ammalato, si privava del
già poco cibo rimasto!
“Attilio
te sarà ti, vecio bacuco, mi me ciamo
Thomà!”, ribatté
stizzito il fantolino, ficcandosi impunito in bocca quanto
più pane e formaggio
riuscisse, dimostrando una flessuosità d’esofago
paragonabile a quella di un
serpente.
“Rubi
il cibo agli ammalati? Sei proprio senza Dio e Madonne, eh?”
“Xéi
franzosi mica christiani, no xé pecà!”
“Cossa?
Ma io ti …!” e a quale punizione
l’indignato religioso
volesse sottoporre Thomà – neanche a lui garbavano
i francesi, però levare il
pane di bocca agli ammalati era una scortesia davvero poco cristiana
– il
piccino non ebbe modo di scoprirlo, ché
l’imponente figura di Mercurio Bua
irrompeva in infermeria, cercando convulsamente un letto vuoto e al
contempo un
monaco disponibile ad assisterlo.
Abbandonando
la sua presa all’orecchio, Fra’ Anselmo si diresse
verso il condottiero, indicandogli di seguirlo al letto appena
sgomberato. Si
morse l’interno della guancia alla vista del patrizio
veneziano pallido come un
morto, tremante convulsamente e le labbra secche, gli angoli lordi dei
residui
giallastri di vomito.
Senza
proferire parola il monaco s’attivò subito in una
celere
diagnosi, aprendogli le palpebre, controllandogli attento dentro la
bocca, ai
lati del collo, sulla gola, le ascelle e l’inguine. Storcendo
il naso, gli levò
la camicia sporca di dosso, lasciandola cadere per terra e
ripromettendosi di
bruciarla alla prima occasione. Passò lievemente la mano
sulle gambe e sul
petto ricoperti di graffi e tagli, di ecchimosi ora rosse, ora gialle
ora
viola; scorse in particolare il dito sulla ferita crostosa al fianco,
arrossata.
“L’ho
… l’ho tro-trovato così …
pensavo … pensavo stesse ancora
dormendo, poi è … è caduto dal letto e
… e …”, tartagliava
nel
frattempo Mercurio, cambiando esagitato peso da una gamba
all’altra e sarebbe
stato interessante sapere quale delle due prospettive lo terrorizzasse
di più,
se perdere il suo prezioso ostaggio o la possibilità di
crepare di peste
tramite lui.
Siccome
Fra’ Anselmo non apparteneva alla categoria degli infami,
su quel punto ci tenne a rassicurarlo: “Non è il
morbo, credo una brutta febbre
e forse un raffreddamento di stomaco … Ha avuto il
flusso?”
Il Bua lo
fissò stralunato e un poco offeso: per chi lo prendeva,
per una balia che controllava l’attività
defecatoria del suo puttino?
Brevemente, gli spiegò invece la faccenda: il giorno dopo
l’assalto all’Abbazia
il suo prigioniero se n’era stato tranquillo nella sua cella
– il greco-albanese
gli aveva lasciato perfino l’usufrutto del suo letto,
acciocché si riprendesse
dalla caduta. Gli aveva anche parlato la sera prima, dannazione!
Invece,
ritornando quella mattina dall’ennesimo incontro con La
Palice e gli altri
comandanti, Mercurio aveva ritrovato Hironimo riverso per terra
circondato da
una pozza di vomito e tremante neanche avesse – San Valentino
gliela scampasse!
– l’epilessia [3].
Il monaco
gli scoccò di rimando uno sguardo pieno di
commiserazione. “La febbre è molto
alta”, sentenziò infine, sollevando il dorso
dalla pelle d’Hironimo. Immerse una pezza nella bacinella
d’acqua e gli tamponò
la fronte, in particolare l’escrescenza e il taglio su di
essa. Il giovane aprì
per un istante gli occhi, girandoli confusamente alla ricerca di
chissà cosa e
Fra’ Anselmo vi lesse una bruciante delusione,
sicché il patrizio li richiuse
subito, affondando sfinito sul semplice cuscino.
“Finché non scende trovo
consigliabile che rimanga qui, sott’osservazione.”
“Non
se ne parla nemmeno!”, ringhiò il greco-albanese,
riacquistando la sua tracotanza. “Tu lo guarisci ora, in
questo istante!”
Adesso
Fra’ Anselmo aveva perso invero la pazienza e che San
Benedetto
suo padre fondatore lo aiutasse. “Ma per chi accidenti mi hai
preso, sentiamo?!
Per Missier Domeneddio?! Ché compio miracoli io ora?! Se il
ragazzo si trova in
questo stato pietoso, condanna la tua stupidità:
quand’è stata l’ultima volta
che gli hai dato un abito caldo, da mangiare adeguatamente, che non
l’hai
menato alla stregua d’un cane rabbioso, che non
l’hai esposto a questa
pestilenza?!”, ruggì, al punto che le teste degli
ammalati sui lettini accanto
a lui si girarono e qualche confratello arcuò il
sopracciglio tra il sorpreso e
il biasimante. “Hai mai visto uno che getta in una lercia
stalla un povero
cristo con le piaghe ancora aperte? Anni a combattere e ancora non
conosci il
concetto d’infezione?! E ti sorprendi che ora stia facendo
gli equilibrismi con
la morte?!”
Il
condottiero aprì e chiuse la bocca a guisa di pesce,
impappinandosi dopo tanto tempo in vita sua, non più avvezzo
a sentirsi oggetto
di paternali così severe e umilianti: “Io
… io non mi fido di … Hai visto
cos’è
successo, no? E se la sua gente venisse a riprenderselo?”
Il
benedettino grugnì sardonico, sferzando via da sé
un’invisibile
molestia. “Ti risparmierebbero di sicuro il fastidio di
seppellire un
cadavere!” e detto questo si concentrò sul suo
paziente, sennonché si ritrovò
improvvisamente agguantato per lo scapolare.
“Lui
non muore, intesi?”, gli lavò quasi la faccia
Mercurio, il
viso deformato in un’espressione spaventosa. “Non
m’importa cosa t’inventi,
cosa gli fai ingurgitare per resuscitarlo, ma perdiana lo devi guarire
e questo
nella mia cella, non qui, dove entrano cani e porci!”
Affatto
intimorito dai suoi modi violenti, Fra’ Anselmo si
staccò
sdegnato da lui. “A te la scelta, capitano: o ritrovarsi un
ammalato in
infermeria o un cadavere in camera tua!” Era stufo delle
continue
prevaricazioni, delle morti crudeli e assurde, delle immeritate
sofferenze,
della follia di quei bambocci arroganti, buoni soltanto ad infilzarsi
in
inutili mattanze e per questo convinti di trovarsi all’apice
della sapienza,
soffrendo invece di palesi deliri di blasfema onnipotenza!
“Tu
osi comandarmi? Di costringermi a scegliere? Vecchio, ora a te
chiedo chi ti credi di essere!”
“Se
il ragazzo muore, peserà sulla tua coscienza
perché hai avuto
la possibilità di salvarlo, ma per il tuo egoismo ti sei
rifiutato. E
ricordati, figliolo, che il male viene sempre ripagato da altro
male”, gli
puntò contro il dito. “Ché la vendetta
divina, Mercurio Bua Spata, trova sempre
il modo di colpirti dove più soffri!”
E dovette
esserci stato un qualcosa di profetico negli occhi del
monaco, ché il greco-albanese impallidì fino al
giallognolo, il labbro
inferiore tremante. Fu un attimo, però: strabuzzando gli
occhi e scotendo il
capo, l’uomo s’impose di calmarsi e di assumere un
atteggiamento
imperturbabile.
“D’accordo”,
deglutì, espirando pesantemente l’aria, i pugni
serrati convulsamente e l’intero suo corpo teso di furiosa
energia a malapena
repressa. “Per stavolta hai vinto, vecchio …
Tanto, il nostro messere conosce
quale punizione l’aspetta, in caso s’azzardasse a
fuggire …”, gli rivelò con
perfido gusto, indicando Thomà che trasalì
impaurito, avendo giudicato sicuro
origliare dietro la sottile tenda che separava i letti degli
ammalati. Rise malevolo e fu il turno di
Fra’ Anselmo di percepire del
sudore freddo colargli lungo la schiena, afferrando al volo la
minacciosa
promessa del comandante.
“Hai
finito?”, lo sfidò ugualmente, intrecciando le
mani dietro lo
scapolare, onde nascondere quanto in realtà tremassero.
“Ho
finito.”
“Allora
levati dai piedi, qui non mi servi”, gli fece cenno col
capo Fra’ Anselmo, indicandogli la porta.
Un guizzo
assassino attraversò gli occhi di Mercurio e le sue dita
inconsciamente avevano accarezzato l’elsa del pugnale.
Ciononostante si dominò,
sparendo quel lampo tanto velocemente quant’era comparso.
“Restate
servito, padre”,
sibilò velenoso, abbozzando ad un beffardo inchino
e uscendo con la medesima veemenza con la quale era entrato.
Il
benedettino cacciò fuori un sconquassante singulto,
sentendosi
finalmente libero di respirare e un poco traballante sui piedi si
sedette sul
bordo del letto, la mano appoggiata al cuore. Mio
Dio, soccorso! Non
posso più, non posso più sopportare questa
violenza, questa profanazione della
Tua casa! È questa la prova che ci vuoi dare? Per testare la
nostra
saldezza?, pregò frustrato, congiungendo
e stringendo i pugni e
portatali alla fronte, si batteva con essi. Cosa fare? Cosa fare?
L’Abate
oramai obbediva al maresciallo francese e se non a lui, alle direttive
dei
Conti di Collalto. Poco gli importava, evidentemente, dei danni fisici
e
morali, pur di scampare a questa tempesta.
Un lieve
ma costante singhiozzare lo distrasse dai suoi intimi
crucci e recriminazioni contro la guida dell’Abate. Girandosi
in sua direzione,
vide Thomà abbracciare in una sorta di bizzarra
Pietà il suo padrone,
inumidendogli il volto di pingui lacrime.
“Lo
gh’ho assassinà!”, pianse disperato,
stringendolo forte e al
contempo scuotendo il patrizio per destarlo. “Mi
gh’ho uto ea frebe ante d’elo
e depo’ gheo dà qualcossa de stranio da manzar e
bevar! El mio patron va morir par
colpa mia!”
Sorridendogli
incoraggiante, Fra’ Anselmo gli scorse una mano tra
la zazzera bionda. “Avi fe’, fio mio. Il tuo
padrone ha la pelle più dura del
marmo, non l’uccidi così facilmente. Dico bene,
sior castelan?”
Thomà
sobbalzò sorpreso e confuso, specie quando la mano
d’Hironimo sostituì quella del monaco nella sua
carezza consolatoria al capo
del fantolino. “Patron!”, esclamò
giubilante, ridendo e piangendo e
ricoprendolo di moccolosi baci manco si fosse trasformato in Santa
Marta col
redivivo Lazzaro.
Sottraendosi
da quelle effusioni d’affetto e invitando il bambino
a calmarsi onde non attirare sguardi ed orecchie indiscrete, Hironimo
si
puntellò a fatica sui gomiti, mirando i febbricitanti occhi
nerissimi contro il
monaco. “Come hai capito che fingevo?”, lo
inquisì perentorio e un pelino
curioso.
Fra’
Anselmo arricciò sardonico la bocca. “Caro ti, ero
medico
prima di rinunciare al mondo e anche qui, nella Badia, continuo a
curare i
malati. Certo, ammetto che sei stato proprio bravo a recitare la parte
del
moribondo – Veniexia in fin dei conti è la patria
del Carlevar – ma un medico
della mia sorte ed esperienza non si lascia certo corbellare da un puto
nato
ieri, siornò!”
“An!”,
puntualizzò in rimprovero
patrizio. “Peccato di superbia, sior pare, non va
bene!” e i due ridacchiarono
conniventi, tranne Thomà che li fissava confuso, tentando di
collegare gli
eventi e capire quanto stesse accadendo. Nel dubbio si strinse di
più accanto
al giovane: lui non era più in pericolo di vita e questo gli
bastava.
“Confiteor”, riprese il Miani, ritornando serio,
“che mi gero stuffo di la mala
compagnia dil Bua e gh’ho volesto ‘ndarmene da la
soa zella.”
Un
vecchio espediente ben collaudato ai tempi della prima
adolescenza, onde marinare la scuola: approfittando delle lunghe ore di
solitudine, Hironimo aveva cautamente inzuppato il petto e il trapezio
d’acqua,
così come le tempie, in modo da far credere al condottiero
d’aver sudato peggio
d’una fontana. Dopodiché, s’era cacciato
in bocca un dito e aveva punzecchiato
e irritato l’esofago finché lo stimolo non era
giunto al cardias, che aveva
rilasciato tra acidi spasimi quel poco di cibo rimastogli nello
stomaco.
Infine, riconoscendo l’oramai inconfondibile passo del Bua,
il veneziano s’era
gettato a terra e aveva incominciato la sua accurata recita e bisognava
dire
che quell’altro c’era cascato sublimemente,
portandolo là dove voleva finire,
ossia in infermeria, lontano dalla sua sorveglianza e dunque con
più possibilità
di fuga.
“Non
sopporto più questa situazione”, concluse il suo
racconto il
giovane Miani, serrando possessivamente il braccio attorno alla vita di
Thomà.
“M’è ormai chiaro come, per motivi che
non conosco, il Bua non avanzerà alcuna
richiesta di riscatto. Donca, non ho alcun’intenzione
d’attendere né i porci
comodi di quel satanasso né che si stufi di me e
m’ammazzi perché annoiato.
L’anticiperò fuggendo via.”
“Come?”
Hironimo
strabuzzò gli occhi, sorpreso da quell’ovvia
domanda. “Col
tuo aiuto, che altro? Tu conosci molto bene la Badia, così
come sono sicuro che
tu conosca come si entri e come si esca da qui inosservati, per i
sentieri del
bosco circostante.”
“Supponiamo
che sia così …”, mormorò
cauto Fra’ Anselmo. “Perché
dovrei indicarti la via?”
Il
patrizio veneziano reclinò vezzoso il capo, il viso una
maschera di complicità e malizia.
“Perché anca ti te xé stracho de ser
prexom
di sti barbari e de dar obediença ad on Abba’ che
nol te proteze ”, gli lesse
nei pensieri, verità inoppugnabile cui il benedettino non
poteva se non
acquiescere. “Sin dal primo giorno, ti ho letto la ribellione
negli occhi”,
aggiunse, mantenendo lo sguardo ben ancorato a quello
dell’altro.
Fra’
Anselmo s’inumidì le labbra, voltando il capo in
ogni
direzione sia per controllare che nessuno stesse origliando sia per
valutare se
ne valesse la pena, rischiare così tanto. In fin dei conti,
lui personalmente
si trovava in una posizione abbastanza privilegiata – gli
ammalati andavano
sempre curati e di lui si necessitava. Forse s’era lamentato
troppo, alcuni
suoi confratelli subivano angherie peggiori, sebbene nulla paragonato
alla
popolazione civile. Insomma, si trovava comunque in un luogo sicuro,
perché
compromettersi … Però, eh sì,
però. Lui aveva rinunciato al mondo, non alla sua
dignità.
“Puoi
contare sul mio aiuto”, sussurrò il benedettino e
il giovane
Miani riprese a fiatare, sciogliendo il lenzuolo stretto forte nel
pugno. “Soltanto
però quando sarai guarito, è la mia unica
condizione. Il vomito, gli spasimi … quelli
li puoi anche fingere e procurateli, ma la febbre alta, caro, ti,
quella
purtroppo per te è vera!”, gli confidò
pragmatico, appuntandosi di preparargli
entro l’ora di pranzo un infuso di tiglio e genziana per
abbassargli la
temperatura.
In
effetti, Hironimo dovette riconoscere che si sentiva ribollire
dall’interno, i muscoli doloranti e la visione ogni tanto che
si deformava,
provocandogli piccoli capogiri e brividi involontari. Tossì
forte,
riverberandogli l’eco nella cassa toracica e per qualche
istante credette di
non riuscire a respirare. Thomà, dolcemente, gli
batté apprensivo sul coppino,
porgendogli un bicchiere d’acqua. I suoi occhi rilucevano
limpidi e le gote pur
smunte avevano riacquistato colore, segno che il corpo del piccino
aveva vinto
la sua personale battaglia contro la malattia.
Ciò
riempì Hironimo di una sconosciuta gioia, nel vederlo
scampato
dal pericolo.
M’ha
affidato la sua vita e ripone in me la massima fiducia, si
ripeté il giovane patrizio, massaggiandosi la tempia destra,
le cui vene gli
tambureggiavano ritmicamente, peggio che in galea, scendendo il rigido
e
punzecchiante fastidio lungo il collo, alle cervicali, le quali gli
tiravano e
pulsavano inclementi tanto che perfino ai denti gli parve assaporare
l’emicrania. Non posso ammalarmi proprio
ora, non posso permettermi
alcuna debolezza!
Non
voglio morire così stupidamente, in un letto
d’infermeria,
senza aver concluso almeno un’azione degna di merito! e un
oscuro brivido lo percorse da capo a piedi, realizzando come, dal
giorno della
sua cattura, i pensieri di morte si facessero sempre più
frequenti e tragici,
non in circostanze eroiche e onorevoli bensì squallide e
anonime, in perfetto
contrappasso dal modo in cui aveva fino a quel momento vissuto.
Vissuto
… quale vita aveva
vissuto?
Hironimo
strinse gli occhi, corrugando la fronte al pizzicore
dell’emicrania. Basta piangersi addosso, basta desiderare
l’impossibile. Il
passato stava lì, immoto ed eterno, bisognava focalizzarsi
sul concreto
presente e l’incerto futuro. Convenne che qualche giorno di
riposo gli avrebbe
giovato, per riprendere le forze ché invero la loro sarebbe
stata una corsa al
limite della fibra umana, se volevano passare il confine sicuro delle
linee
veneziane. Un passo alla volta, senza rovinare tutto a causa della
fretta.
Il
giovane Miani concluse che del Gambara non si poteva troppo
fidare: gente come lui si comportava tanto cortese e disponibile,
finché non
cambiava il vento e abbandonava il cosiddetto
“amico” al proprio destino, che
s’arrangiasse da solo. Evidentemente il bresciano aveva
fiutato aria di
ribaltamenti del gioco, dell’alternanza di favore di quella
grande capricciosa
della dea Fortuna, che da puttana dei Collegati poteva divenire quella
della
Serenissima.
In caso
però non dovesse accadere, ecco che il conte nuovamente
avrebbe confermato la sua alleanza alla Lega, lasciando Hironimo col
culo per
terra. Nossignore, il veneziano si risolse di sfruttare la gentilezza
del
Gambara finché a lui sarebbe convenuto, evitando
però d’affidargli ogni sua
speranza. Il monaco, al contrario, possedeva i requisiti fondamentali
per i
suoi scopi: non un combattente, non un uomo in prima fila ad affrontare
i
problemi della vita; ciononostante abbastanza dignitoso da non subire
all’infinito e non troppo idealista d’anelare ad
uno sciocco martirio,
propendendo più ad una pratica sopravvivenza. Scuotere
la polvere dai
propri calzari! Invero! Prima o poi sarebbe scappato
via ed Hironimo
gli aveva elargito soltanto la spintarella necessaria per decidersi
definitivamente. Adesso doveva pensare a guarire e anche in fretta,
pianificando alla perfezione ogni passaggio della fuga.
D’altronde,
la posta in gioco per lui era altissima: neppure per
un istante aveva dubitato della serietà del Bua, quando gli
aveva minacciato di
uccidere Thomà avesse lui deciso di fuggire e anche su quel
punto, Hironimo
stava meditando alacremente su come anticiparlo, assicurandosi
perlomeno la
salvezza del bambino, poiché, in caso di fallimento, se
doveva proprio morire l’avrebbe
fatto con la soddisfazione di ridere in faccia a Mercurio Bua.
***
Il
Castello di San Salvatore dei Conti di Collalto era situato in
posizione strategica a controllo dei guadi della Piave, espandendosi
sinuoso
lungo l’intera collina e sovrastando i campi e le vigne
sottostanti. Tra la
rocca, la corte e il borgo abitato da contadini e artigiani, esso era
uno dei
complessi fortificati più estesi in Italia.
L’antichissimo
casato dominava stabilmente su quelle terre dai
tempi di Grimoaldo re dei Longobardi, navigando con accorta maestria
attraverso
le acque tempestose dei tempi, sempre riuscendo a conservare i loro
feudi e i
privilegi essenziali, malgrado i frequenti cambi di governo nella Marca
Trevigiana durante i burrascosi secoli, dal libero Comune alle signorie
degli
Ezzelini, dei Caminesi e Carraresi; dal dominio del Ducato
d’Austria a quello
della Serenissima. Gli approvati e confermati “Statuta
Collalti” li avevano
garantito l’antico diritto di governare la contea secondo le
proprie leggi, tuttavia
al costo della pubblica e perpetua rinuncia da parte di Vinciguerra I
di
Collalto nel 1471 al titolo di “Conte di Treviso”
su sollecita richiesta della
Repubblica di Venezia. Vinciguerra pertanto aveva dovuto accontentarsi
di
quello di “Conte di Collalto e San Salvatore” e
naturalmente della garanzia di
continuare ad esercitare il suo potere senza l’ingerenza del
Podestà e Capitano
di Treviso, segno della fiducia che la Signoria voleva riporre nella
famiglia
comitale per una pacifica convivenza.
Ciò
aveva evidentemente insuperbito i Conti, cullandoli nella
certezza di poter mantenere in eterno il piede in due staffe e
barcamenarsi
come loro uso, saltando all’occasione opportuna sul carro del
vincitore. Così
avevano fatto anche in occasione della rotta di Agnadello: il castello
di San
Salvatore era stato scelto come sede di vitali trattative per una
tregua tra
Venezia e l’Impero, peccato che i tedeschi, certi della loro
imminente vittoria
nella Marca e in generale sulla Repubblica, avevano rifiutato
all’ultimo
momento l’incontro coi messi di San Marco e male gliene
incorse a Maximilian,
il quale se era una persona di temperamento vendicativo, aveva
purtroppo
scoperto a suo danno un rivale altrettanto caparbio
nell’inimicizia. Di fatti,
malgrado nei seguenti due anni l’Habsburg avesse seguitato
imperterrito a
lanciare contemporaneamente appelli di tregua e alla popolazione di
ribellarsi
alla Signoria, egli a sua volta per contrappasso aveva raccolto solo no
secchi.
Gli unici alleati dell’Imperatore, e del Re di Francia per
associazione,
rimanevano le antiche famiglie feudali dell’entroterra che o
per paura o per
avidità si dichiaravano prontissime a servire i due sovrani
stranieri.
“Monsieur
le Grand Maître de France Jacques de Chabannes, signore
di La Palice, Pacy, Chauverothe, Bort-le-Comte e Le Héron,
maresciallo delle
truppe di Francia e dell’Impero!”
Sicché
Mercurio Bua non si stupì di vedere il ventottenne conte
Joanne Antonio I di Giambattista I di Collalto di Sopra, il conte
Antonio III di
Vinciguerra I di Collalto di Sotto e l’intero parentado di
ambedue i rami
venirli incontro vestiti alla francese. Né che si fosse
stabilito di pranzare
in una sala decorata di variopinti e preziosi arazzi fiamminghi e
francesi.
Ridacchiando tra sé e sé, il capitano di ventura
sperò almeno il cibo seguire
le usanze italiane.
“Il
magnifico messer Mercurio Bua Spata, principe di Morea, conte
di Soave ed Illasi, consigliere imperiale e capitano degli
stradioti.”
“Illustrissimi
domini comiti, Vostre Signorie eccellentissime”,
reclinò il capo il greco-albanese in un inchino a malapena
abbozzato ai due
Conti, gesto che in particolare Joanne Antonio ricambiò con
ugual affettata
cortesia, un sorriso magnanimo sulle labbra, e soffermandosi
specialmente sullo
zipone di broccato d’oro indossato da Mercurio,
nonché le pesanti catene
d’uguale metallo, forse calcolandone mentalmente il prezzo.
In tal
caso il condottiero si sentì assai gratificato
nell’avergli
chiaramente dimostrato quanto in nulla gli fosse inferiore. Troppe
volte
nella vita aveva sopportato sulla sua pelle la spocchia della
nobiltà italiana,
che lo considerava alla stregua d’un apolide vagabondo
affamato, pronto a
vendersi al miglior offerente. Si ricordava benissimo
l’espressione di
sfottitore divertimento sul volto della ventenne Beatrice
d’Este, quando al
termine della Battaglia di Fornovo il marchese e capitano dei Collegati
Francesco Gonzaga e suoi superiori, i provveditori veneziani sier Lucha
Pixani, Marchiò Trivixan e Bernardo Contarini lo avevano di persona presentato a lei e
al marito Ludovico
il Moro, elogiando l’audacia di Mercurio che, neanche
diciottenne, era riuscito
a sfondare le linee nemiche francesi, ferendo di striscio il medesimo
Re di
Francia e catturando il Duca di Borbone. Il giovanissimo capitano degli
stradioti si era atteso di essere trattato allo stesso modo dei suoi superiori, soprattutto da parte della duchessa Beatrice, del cui animo virile tanto si favoleggiava. Invece, non soltanto si era trovato una giovane donna che non la smetteva di civettare, ma che al contempo lo trattava alla stregua d'un ragazzino ingenuo, d'un provincialotto appena arrivato e facilmente manipolabile. Ché Mercurio non aveva mai visto una femmina in vita sua? E magari più bella? Lo zenit era giunto quando gli venne rimproverata la barba, credendola un segno d'incuria visto che, considerata l'età, ancora non possedeva la regolare foltezza di quella di un uomo. Dinanzi alla perplessità del giovane capitano, l’Estense s’era
giustificata, ridendo, su quanto
trovasse incomprensibile l’uso stradiota sia di portarla sia
di legare in
trecce i lunghi capelli. “E’
la
tradizione della mia gente, l’unico ricordo della nostra
terra che possiamo
portarci appresso!”, le aveva Mercurio
candidamente spiegato.“Oh, che
tradizione orribile!”, aveva
licenziato Beatrice la questione, accettando tuttavia il bacio sulla mano alla greca. Il giovane capitano aveva sbrigato in fretta i
convenevoli, umiliato
da cotanta cieca superficialità e ritirandosi furente nei suoi alloggi e
partecipando ai festeggiamenti soltanto perché il suo
superiore sier Bernardo
Contarini glielo aveva espressamente ordinato. “Madama
è tanto schizzinosa con chi ha salvato l'Italia, ma tanto
liberale con chi l'ha devastata! Non mi pare avesse avuto da ridire sui capelli dei francesi, sui vestiti dei francesi, su ... su ... su qualsiasi cosa loro! Ma cosa pretende? Chi si crede d'essere? La dea Venere? E' una capricciosa come tutte, ecco cosa, ed è pure brutta e scura peggio d'una fantesca turca!”, s’era
sfogato col provveditore degli stradioti, alludendo
all’opulento benvenuto offerto dai duchi ai francesi
l’anno addietro, nonché al
fatto che l’Estense, assieme alle sue ottanta dame, avesse
concesso ai nobili
cisalpini di baciarla sulla bocca, secondo la loro di usanza. Il
Contarini,
posandogli una mano sulla spalla, lo aveva allora consolato: “Così funziona in Italia: si è
cortesi
fintanto che l’amicizia risulta vantaggiosa. La gratitudine e
la reciprocità
hanno vita breve e la memoria corta, qui. Non ti curare di
ciò che dice madona
Beatrixe, sicuramente non l'ha fatto apposta e lascia che le sue truppe da giostra vengano guidate dai suoi
signorini impomatati; la Signoria ha visto il tuo valore e se ne
ricorderà.
Puoi solo salire, Mercurio, se però impedirai a chicchessia
di buttarti giù!”
Le sagge
parole di sier Bernardo gli erano rimaste scolpite nel
cuore al pari di una massima di vita, anche quando Mercurio aveva
disertato la
Serenissima per altri committenti. Da quel momento, infatti, aveva
giurato
sulla tomba del suo illustre padre, il kyrie Pietro Bua Spata capo
degli
Albanesi in Morea, che nessuno mai lo avrebbe più dileggiato
sia per la sua
abilità che per la sua provenienza. Con le unghie e con i
denti avrebbe
strappato il suo posto nelle alte sfere e trattato da pari chi vi si
trovava
più per virtù di nascita, che per merito
personale. Avrebbe elevato il nome suo
e della sua casata, indorandolo di gloria e onore e bivaccando sulle
ossa di
chiunque avesse osato sottovalutarlo. In un certo qualmodo, dunque, era
grato a
Beatrice d’Este poiché, nella sua
impulsività e ignoranza, gli aveva rivelato
il vero volto degli italiani, specie dei nobili.
Nel
frattempo che gli altri comandanti venivano presentati uno ad
uno alla famiglia comitale, a sua volta il Bua si soffermò
sugli abiti di
Joanne Antonio di Collalto, sul suo toque di
velluto nero
ornato di perle e zaffiri e da una cascante penna di struzzo,
la chemise
à encolure
dégagée e bordata di sottili
fili d’oro,
vaporosa, semitrasparente e a stento trattenuta dallo zipone a righe di
damasco
grigio dai riflessi argentati.
Costui
sarà anche un damerino fatto e finito, tuttavia gli concedo
una certa astuzia nella sua scelta di vestirsi alla francese, concluse
Mercurio, mentre i Collalto si premuravano di mostrare brevemente agli
ospiti
la Rocca. Infatti, cogitava, sarebbe stato più logico
presentarsi con abiti
alla tedesca poiché l’impresa era quella di
Maximilian; tuttavia i Conti
dovevano aver immaginato quanto a La Palice, pur servendo formalmente
il Re dei
Romani, avrebbero recato più piacere i familiari costumi del
suo paese rispetto
a quelli alemanni, specie a seguito del colpo basso ricevuto dai
disertori
imperiali.
E di
fatti il maresciallo, svestita per l’occasione
l’armatura,
ammirava tutto contento la francesità al limite del
pacchiano esposta ad arte
nel castello, il buonumore improvvisamente ritornato e non mancava di
scherzare
coi suoi anfitrioni nel suo piuttosto discreto italiano appreso a
Milano. Dal
canto suo, Mercurio trovò invece più interessante
studiarsi gli affreschi in
corso nella chiesa di San Salvatore, ad opera del maestro Zuan Antonio
de’
Sacchis, detto il Pordenone. In particolar modo, rimase piacevolmente
impressionato da un “San Girolamo nel deserto” di
Cima da Conegliano, ammirando
l’armonico passaggio dall’ocra brullo del deserto
alla pastosa verdura dei
prati collinosi e dei boschi, culminante in un complesso castello
arroccato su
di una rocciosa altura che gli ricordava proprio quella dei Collalto.
Similmente anche i piccoli borghi e le chiesette emulavano lo stile
architettonico di quelli veneti, testimoni dei fecondi anni di pace. Il
capitano di ventura si scoprì incredibilmente attratto dalla
Marca Trevigiana,
con la sua intricata rete di fiumi, l’acqua di risorgiva
leggera e chiarissima,
le campagne fertili, i fitti boschi collinari e gli svettanti campanili
che
competevano in altezza cogli alberi. Il tutto circondato da
quell’aria quasi
montana, fresca e dolce, un poco malinconica che sfumava i contorni
dell’orizzonte, conchiuso dalle sagome delle montagne e che
soltanto i pittori
veneti riuscivano a cogliere nei loro colori sfumati, indefiniti. Se
avesse
dovuto scegliere un posto ove stabilirsi nei lunghi anni della
vecchiaia, forse
… magari …
“Il
maestro Cima da Conegliano si è ispirato a queste
terre”, gli
giunse alle spalle la timida vocina di Cassandra di Collalto di Sopra,
la quale
arrossì pudica non appena il condottiero si girò
verso di lei. Una graziosa
bambolina invero, piccola e pienotta, un bocciolo d’aprile.
Su ordine fraterno
anch’ella vestiva alla francese, indossando una sopravveste
di damasco scollata
e lunga fino a terra, con alquanto strascico e tutta foderata di
pellicce
finissime, stretta alla vita da una lunga e spessa catena
d’oro. Sotto portava una
veste di velluto a maniche strette vicino alle mani, mentre quelle
della
sopraveste erano al contrario molto larghe e ricoperte delle medesime
pellicce
di cui erano all’interno foderate. Il capo della contessina
Cassandra era
ornato da uno chaperon d’ermisino
sottilissimo e lucente, tutto
ornato da diversi fili di belle perle, delle quali s’era
arricchita anche il
petto e il collo, assieme ad altre pietre di gran valore cucite sullo
scollo.
Anche se
costoso e di gran pregio, in tutta onestà quello chaperon
non incontrava i gusti di Mercurio, poiché a sua detta
rendeva la giovinetta
non dissimile da una suora, nascondendole la fluente chioma bionda e
conferendogli un’aria severa che alla sua età non
le si confaceva.
“Notate
la Piave sulla destra?”, seguitava la damigella nella sua
descrizione, ignara di quel pignolo studio della sua persona.
“E poco distante
…”
“…
l’Abbazia?”, terminò per lei il Bua,
sorridendole accattivante.
Cassandra
annuì. “La mia famiglia nutre da sempre uno
speciale
affetto verso l’ordine benedettino. E anche di San Girolamo
Dottore della
Chiesa. Avete visitato suppongo il suo eremo,
all’Abbazia?”
“Provvederò
uno di questi giorni.”
“Conoscete
per caso Giuliana di Collalto? Ancora non è tale,
però
in molti già la considerano una beata!” [4]
“Non
credo s’incontrino santi e beati nel mio mestiere!”
La
contessina si coprì la bocca col ventolino di damasco,
nascondendo un sorrisino compiaciuto e sovvenendo a Mercurio una
bimbetta
pronta a vantarsi di una qualche sua marachella particolarmente ben
riuscita. Gli
ricordò immediatamente la famosa civetteria di Beatrice
d’Este. “An, non lo
dubito. La reverenda madre badessa Giuliana di Collato era una monaca
benedettina, una mia antenata, fondatrice della chiesa e del monastero
di San
Biagio e Cataldo alla Giudecca. Le sue spoglie mortali, incorrotte,
riposano
tuttora lì. Prima della guerra mi piaceva recarmi a Venezia
per pregare sulla
sua tomba, adesso però …”
Il Bua fu
immensamente grato dell’annuncio dello scalco a
raggiungerlo per il pranzo, levandolo d’impaccio. Non
desiderava concludere il
discorso rammentando alla ragazza, che se i veneziani avessero saputo
del
doppiogioco dei Collalto, beata o non beata, la cara badessa Giuliana
sarebbe
finita in un qualche canale di scolo, a spregio della sua famiglia
traditrice.
Meglio dunque lasciare la contessina nei suoi sogni di dame e
cavalieri,
protetta dalle mura centenarie del suo castello e dalla
spregiudicatezza
politica dei suoi fratelli e parenti.
Finalmente
a tavola, La Palice e gli altri comandanti dovettero
dominarsi a viva forza dal commuoversi dinanzi al bendiddio offertoli,
sebbene
i Conti insistessero sulla sobrietà di quel pranzo, causa i
difficili tempi di
guerra. Contenti loro, Mercurio da tempo immemore non mangiava una
prima portata
completa di zuppa, frittura, lesso e fricandò; seguito poi
dalla seconda
portata d’arrosto tenero con la mostarda, di pasticci di
selvaggina, verdure
fresche per pulirsi la bocca, il tutto accompagnato da salse di ogni
colore e
densità. E vino, ovviamente, dai rossi duri del Friuli ai
bianchi gradevoli
delle vigne degli stessi Conti.
Masticando
voracemente una fetta di testina intinta nella salsa
verde, il greco-albanese fece cenno ad un inserviente
d’avvicinarsi. “Xélo
possibile metar da parte qualche vanzaùra (avanzo,
ndr.)?” Il giovinetto scoccò
un’occhiata inquisitrice al conte Joanne Antonio, che a sua
volta fissò confuso
il condottiero. “All’Abbazia ho due
cani”, gli spiegò garbatamente ironico,
“e
la mia cagna diventa particolarmente feroce, qualora non provvedessi a
sfamare
il suo cucciolo.”
“Oh,
avete dei cani con voi, signor Mercurio?”,
cinguettò
intrigato il tredicenne Manfredo di Collalto, uno dei tanti fratelli
minori del
conte, e di recente appassionato d’arte venatoria.
“A quale razza appartengono,
se posso chiedere?”
“Della
miglior razza veneziana, la madre; il cucciolo, mi sa
ch’è
uscito un po’ bastardo”, sogghignò
Mercurio, compiaciuto lui per primo del suo
scherzo segreto e delle facce spaesate dei commensali.
Pulendosi
a disagio gli angoli della bocca, la contessa Chiara di
Collalto di Sotto, sorella del conte Antonio e moglie di Joanne
Antonio,
ravvivò la conversazione domandando al conte Gianfrancesco
di Gambara: “Come
sta la vostra cara figlia, la contessa Veronica? Ho sentito che a
febbraio è
divenuta madre per la seconda volta.”
Il nobile
bresciano dovette ingollare qualche sorsata d’acqua,
onde riacquistare la parvenza di una voce umana. La sua faccia
rasentava invero
il cadaverico e Mercurio si chiedeva come facesse a rimanere in piedi
senza
stramazzare. Studiando accorto gli astanti dietro il bicchiere, il
greco-albanese notò un certo pallore anche sulle gote del
maresciallo La
Palice, il quale si portava il fazzoletto troppe volte alla bocca, da
non
destar sospetti. Forse l’incidente di quella mattina non era
stato così
improbabile, forse il monaco aveva avuto ragione: il malanno in qualche
modo
era riuscito dal campo ad insinuarsi nell’Abbazia e lui,
stoltamente, aveva
esposto il suo prigioniero a contrarlo, abbandonandolo in un luogo
sporco senza
adeguato vestimento e cibo.
“Magnificamente
bene, madonna contessa. Mio nipote Girolamo gode
d’eccellete salute e spero di poter visitare lui e la sua
famiglia assai
presto”, rispose vago di Gambara, tralasciando il doloroso
dettaglio confidatogli
dal genero Gilberto da Correggio, laddove lo informava di una tremenda
malattia
post-parto ch’aveva afflitto la sua dilettissima Veronica,
impedendole, una
volta guarita, di poter concepire di nuovo. Fortunatamente Gilberto non
se ne
crucciava, la discendenza assicurata da Ippolito l’anno
addietro e ora dal
piccolo Girolamo, il primogenito tenuto a battesimo dal cardinale
Ippolito
d’Este e la Marchesana Isabella d’Este, con la
quale Veronica intratteneva da
anni una fitta corrispondenza.
“La
contessa di Correggio scrive ancora quelle deliziose Frottole?”
“In
quest’ultimi difficili mesi, la poesia le rimane uno dei suoi
più grandi conforti. Dopo i figli e il marito,
ovviamente”, ammise intenerito
il conte Gianfrancesco.
“E
voi, signor Mercurio? V’intendete di poesia?”,
inquisì quasi
sottovoce Cassandra di Collalto, sedutagli accanto e che lo fissava
sognante,
neanche il condottiero fosse saltato fuori direttamente dalle pagine
dell’Orlando Innamorato.
“Sorella
cara, credo che il capitano non abbia di recente avuto
modo d’occuparsi d’arte”, la
rimbeccò dolcemente sua sorella Degnamerita,
ottenendo un imbarazzato rossore sul viso a forma di cuore della
fanciulla.
“Vostra
sorella ha ragione: non ho espugnato tre settimane fa
Castelnuovo di Quero declamando al suo castellano Boiardo o Ariosto o
chiunque
altro poeta laureato!”, a meno che non si considerassero
poesia gli
sboccatissimi insulti lanciatisi contro, roba da scommettitori ai
combattimenti
dei galli o da ubriachi alle bettole, cattiva abitudine che, neanche da
prigioniero, quella peste bubbonica di veneziano aveva intenzione
d’ammansire.
O beh, fino a qualche giorno addietro. Adesso se ne stava
così stranamente
zitto …
“E
come, allora, avete espugnato quella fortezza?”, insistette
curiosa Degnamerita di Collalto, impironando un pezzo
d’arrosto. “Nostro
fratello ci ha raccontato come il suo castellano, un tal messer Girardo
Manni,
avesse al contrario fortificato assai bene il castello. Addirittura era
riuscito a persuadere i podestà di Feltre e Belluno a
venirsi in reciproco
soccorso, in caso d’assedio.”
Mercurio
sogghignò amaro: un piano eccellente, peccato che il suo
patrizio non avesse calcolato l’immancabile traditore, che
l’aveva venduto
allegramente al nemico. “Non è mio uso descrivere
la guerra alle nobildonne,
non lo giudico un argomento adatto. Ed in ogni caso”, si
sentì in obbligo di
puntualizzare, “il castellano non è né
un tale né un Girardo Manni, si chiama
Girolamo Miani e così dev’essere ricordato. Ha
perso, ma ha perso con la spada
in mano, cosa che non di tutti si può dire
oggigiorno.”
Le due
sorelle, imbarazzate dalla schietta correzione, incassarono
stoicamente il colpo. “Ogni giorno da due anni i nostri
fratelli e cugini
parlano soltanto di guerra; voi pure siete nostri ospiti appunto per
discuterne
a riguardo. Non è un tema a noi alieno”,
provò timidamente a contro-argomentare
Cassandra, dimostrando dietro la maschera di soave pudicizia una
testarda forza
di volontà, aspetto che scaldò il cuore del
condottiero, rendendolo d’un tratto
nostalgico.
“La
guerra appare eroica soltanto nei libri, contessina. Sussiste
un motivo, per cui appartiene ai Quattro Cavalieri
dell’Apocalisse”, liquidò in
fretta il discorso, anzi, pure riempiendosi la bocca di carne e verdura
onde
ben sottolineare il concetto che la conversazione su quel tema per lui
finiva
lì.
“Dunque
perché la fate?”, mormorò piano
Cassandra, sgranando i
suoi occhioni di cerbiatta e corrugando la fronte.
“Forse
perché vogliamo finire in quei libri e di conseguenza far
sognare voi belle fanciulle”, ironizzò allegro il
Bua, bevendo un lungo sorso
di vino e tosto imitato dalle due nobildonne, i loro volti pieni
d’ilari
fossette.
“Signor
Jacopo, signor Nicolò”, s’era nel
frattanto rivolto
Teodoro Trivulzio agli altri due Collalto di Sotto, attirando
l’attenzione del
greco-albanese. “Abbiamo saputo del vostro perdono da parte
della Signoria. Non
l’avremmo immaginato possibile.” Alludeva il
comandante al ritiro del bando
d’esilio per i due nobiluomini, avvenuto il marzo scorso,
richiamandoli da
Udine e assolvendoli da ogni crimine.
“Neppure
noi l’avremmo mai creduto”, confermò
Jacopo, ché aveva
temuto in quegli istanti esser invece giunta la sua ora, spedito prima
alle
Orbe e poi in Piazzetta. “Ci consideriamo assai
fortunati.”
“Tale
misericordia è inconsueta da parte della
Signoria”, convenne
meditabondo Gianfrancesco di Gambara.
“Forse
ha percepito il fuoco dell’inferno attenderla e vuole fare
ammenda”, teorizzò Giulio Sanseverino,
“come se potesse riconquistarle il
favore di Dio.”
“Davvero
la considerate irrimediabilmente condannata?”
“Tutta
la cristianità o quasi le ha dichiarato guerra: nessuno
Stato è mai sopravvissuto a tal ondata; ciascuno dei
Collegati ha giurato di
non darle mai tregua, finché la Repubblica non
scomparirà dalla faccia della
terra!”, ribadì il fratello del Gran Scudiero di
Francia.
“Dunque
la nostra assoluzione ci ritorna doppiamente gradita!”,
commentò sollevato Nicolò di Collalto.
“Poiché non le abbiamo concesso l’ultima
soddisfazione di giustiziarci!”
“O
forse”, s’intromise Mercurio tra le risate dei
commensali,
“forse voi risultate più utili alla Signoria da
vivi che da morti”, insinuò
malizioso e il gelo scese nella sala, ognuno fissando a disagio il
proprio
piatto.
“Signor
Mercurio”, replicò freddamente cortese il conte
Antonio, venendo
i soccorso dei fratelli, “da anni viviamo sotto la
Serenissima e siamo certi di
poterne indovinare se non addirittura anticiparne i pensieri.”
Il Bua
levò il bicchiere in alto a mo’ di brindisi.
“I miei
complimenti, signor conte, per il vostro infallibile intuito e per la
vostra
approfondita conoscenza dell’anima nera della Signoria!
D’altronde, ve la siete
pure portata nel talamo nuziale”, esclamò
gioviale, tracannando in un sol sorso
il vino rimasto. “E un brindisi anche a voi, messer
Nicolò: la vostra moglie
veneziana immagino sarà stata assai contenta, di non essere
rimasta
precocemente vedova!”
Nicolò
di Collalto sbiancò fino a mimetizzarsi con la sottile
tovaglia di cotone, non attendendosi certo quel colpo basso da parte
del vendicativo
condottiero: sei anni addietro egli aveva impalmato madona Maria Zane,
figliola
di sier Bernardo, la quale non soltanto s’era rifiutata di
seguirlo in esilio
ad Udine, ma anche dopo l’assoluzione del consorte
s’ostinava a rimanere nella
casa paterna. Analogo destino era capitato a suo fratello il conte
Antonio,
accasato con madona Luzia Mozenigo di sier Lorenzo,
portatasi appresso a Venezia i tre figlioletti Bianca, Violante e Rambaldo. Infine, Nicolò da Collalto di Sopra era ufficialmente fidanzato con madona Maria Contarini di sier Marco Antonio e nulla al mondo era intenzionato a rinunciare alla ricca dote di lei, veneziana o no.
“Codesti
matrimoni li abbiamo tutti contratti prima della guerra,
in segno d’amicizia e collaborazione con la Repubblica. Il
che non significa
necessariamente cieca sottomissione da parte nostra”,
sibilò altero il conte
Antonio, rigirando nervosamente il piron tra le dita. “Non
reputo dunque
inconsueta la prudenza delle nostri mogli, se hanno preferito riparare
al
sicuro con i nostri pargoletti. Venezia rimane comunque la loro patria
e lì
nessuno le molesterà. Ignoriamo, infatti, fino a che punto
possiamo garantire
la protezione a queste terre e a chi vi abita.”
“E
da chi, sentiamo, dovete proteggerle? Dai Veneziani o da
noialtri?”, lo stuzzicò Mercurio, guadagnandosi
feroci occhiatacce da parte del
Trivulzio, Pallavicino e Sanseverino.
Ignorando
la stoccata e tuttavia ansioso di cambiar velocemente
discorso così d’evitare un litigio a tavola, il
conte Joanne Antonio riprese la
conversazione interrotta con La Palice: “Sapevamo della
riconquista di
Castelfranco e della scarsità di rifornimenti;
ciononostante, non comprendiamo
il motivo per il quale adombrate ad una nostra mancanza di
solidarietà. Noi vi
abbiamo sempre e sollecitamente inviato i viveri richiesti, anzi,
giusto
stamane abbiamo aggregato dei nostri carri a quelli provenienti da
Sacile e
Spilimbergo.”
“Monseigneur
le Comte”, lo tranquillizzò La Palice,
“noi non
v’accusiamo di niente. Appunto perché sappiamo
della vostra fedeltà alla Lega,
che volevamo il vostro permesso ed aiuto per stanare dei fastidiosi
sabotatori.”
“Sabotatori?”,
ripeté incredulo Jacopo di Collalto. “Nelle nostre
terre?”
“Le
truppe veneziane non possono transitare nella contea senza il
nostro consenso! La Signoria può possedere metodi
discutibili, tuttavia non ha
mai mancato ai patti!”, protestò incredulo il
ventiduenne Sartorio di Collalto
di Sopra. “Diteglielo, fratello!”, si rivolse a
Joanne Antonio, che annuì
lentamente col capo e Mercurio ben si figurava quali ragionamenti gli
tamburellassero nel cervello: se la Signoria avesse scoperto del
tradimento dei
Collalto di Sopra e di Sotto, non avrebbe avuto alcuna remora di
rimangiarsi
ogni accordo e di trattarli alla stregua dei ribelli, confiscando ogni
loro
bene e spedendoli uno ad uno dal boia tra le colonne di San Marco e San
Todero.
“Sospettiamo,
nel bosco del Montello e anche nella vostra contea,
nascondersi dei contadini ribelli, i veri responsabili degli
agguati”, delucidò
brevemente la situazione La Palice. “Di conseguenza, vorremmo
per cortesia il
vostro beneplacito nel perseguirli, qualora venissero catturati nelle
vostre
terre, o d’indicarci la geomorfologia del Montello
così da poterli affrontare e
punire. Già stamane abbiamo inviato 300 uomini in
esplorazione, in attesa della
loro relazione a riguardo.”
Il conte
Joanne Antonio strinse la bocca in una linea dura. “I
miei contadini non oserebbero mai compiere tali azioni: io li proteggo,
loro mi
devono obbedienza. Sanno fin troppo bene, che se colti in flagrante non
verrebbero giudicati dalla legge veneziana bensì dagli
Statuta Collalti e …”
“…
e non gliene importa un gigantesco fico secco!”, concluse
lapidario Mercurio, ammutolendo nuovamente la tavolata, ma stavolta il
tono del
condottiero aveva perduto ogni ironia e frivolezza, assumendo il tono
serio di
comando nei consigli di guerra. “Indovinate cosa si nettano i
villani coi
vostri statuti? Non sottovalutateli, signor Conte, non commettete il
medesimo
errore dei vostri altezzosi pari! Questi non sono dei disorganizzati
bifolchi
senza cervello, bensì squadre di partigiani pronti a morire
per un ideale,
ossia rimanere a qualunque costo sotto San Marco. Siete voi tutti
Collalto
degli uomini d’arme, nevvero? E allora onorate questi
combattenti con la
medesima cura e serietà, che riservereste ad un esercito
nemico!”
“Se
aveste evitato di costruire quel ponte di barche per
attraversare la burrascosa Piave, forse i vostri soldati non avrebbero
razziato
le campagne circostanti e i miei contadini non si sarebbero
ribellati”, non
gliela volle dar vinta il conte di Collalto di Sopra, scaldandosi.
“Ho ricevuto
notizie molto sgradevoli dal Priore della Certosa di San Girolamo, sul
pessimo
trattamento riservato ai monaci, sulle continue ruberie! Poi, ci
giungono
missive dall’Abate invece di Sant’Eustachio,
laddove, oltre alle prepotenze cui
sottoponete i monaci, mi si narra addirittura di un vero e proprio
assalto
notturno, con tanto di morti e danni ingenti ad un edificio sotto la
mia
protezione, che m’avevate giurato di non coinvolgere in
alcuno scontro
diretto!”
“In
guerra, signor Conte, non esistono né Dio né
Madonne né
Santi”, non si lasciò invece commuovere Mercurio.
“Nessun luogo è reputato
abbastanza sacro da non venir scelto come campo di battaglia,
accampamento o fonte
di bottino. A volte mi domando sul serio se voi …”
“…
abbiate mai considerato questo piccolo dettaglio”, intervenne
speditamente La Palice, chetando il suo sottoposto. “Ossia
che noi, al nostro
meglio, ci siamo in ogni occasione premurati di trattare con cortesia i
monaci
benedettini e di rispettare i loro usi e costumi, comportandoci in
maniera
quanto più discreta possibile. Così io ho voluto
e comandato. Purtroppo, i
soldati tedeschi hanno invece preferito agire di testa propria, spinti
dall’invidia e dalla loro proverbiale avidità. Non
paghi, sprezzanti di ogni
impegno preso e dell’onore militare, se la sono infine data
oltre Piave,
malgrado le mie innegoziabili ordinanze!”
“Per
davvero si sono comportati così?”
“Madame
la Comtesse”, si pose il maresciallo una mano sul cuore,
puntando gli occhi azzurri sul viso preoccupato della giovane Chiara di
Collalto. “L’onore e la cavalleria
m’impongono schiettezza sia nei confronti
dei miei alleati che del nemico. Non vi nasconderò niente:
nutro una profonda sfiducia
ne les Allemands e sulla loro costanza in quest’impresa di
Trévise.”
“L’Imperatore
ha assicurato …”
“…
molte cose, ma finora a nessuna delle sue tante promesse ha
adempiuto. Alla fine, quelli inguaiati in questo stallo siamo noi, non
i
tedeschi. Avevamo ricevuto ordini chiari dall’Empereur,
d’attenderlo qui senza
guadare per nessun motivo la Piave, ed ecco che i suoi soldati al
contrario
l’attraversano impunemente, occupando città dopo
città, facendo rifornimenti e
bottino, mentre noi costretti qui a rimanere senza né viveri
né la certezza di
non finir tagliati a pezzi da les Vénitiens. Je vous demande
pardon, mesdames”,
si scusò immediatamente il francese, conscio
d’aver usato termini troppo
macabri per le sensibili orecchie delle nobildonne.
“Quindi
voi dubitate che l’Imperatore scenda in campo?”,
domandò il
conte Antonio, scoccando una celere e apprensiva occhiata ai fratelli.
La Palice
annuì gravemente. “Da settimane
l’Empereur se ne sta
accampato a Bolzane a brigare diossacché. Il nostro legato
ci ha riferito come
neppure abbia pronto un esercito! Il suo atteggiamento corrisponde ad
un
insulto a Notre Sire le Roi, che tanta fiducia ha riposto in lui, per
venir
invece ripagato con ingratitudine e codardia!”
“Capisco
siate confusi …”, mormorò Joanne
Antonio. “Probabilmente
l’Imperatore vuole assicurarsi il ritorno delle truppe
imperiali dalla Patria
del Friuli e forse giudica queste terre ancora troppo pericolose per
arrischiare di …”
“Monseigneur
le Comte”, lo interruppe seccamente il maresciallo.
“Noi per allora potremmo già esser stati
massacrati dal nemico. Ho inviato una
missiva all’Empereur per sollecitarlo, l’ennesima,
ed una ai capitani tedeschi
nella Patrie du Frioul, in cui li comando di
tornare indietro
entro la fine del mese, o si troveranno stavolta loro da
soli
a fronteggiare i Vénitiens. Questo è il mio
ultimatum: se les Allemands non si
ricongiungeranno a noi entro la scadenza prestabilita,
quest’impresa di Trévise
non soltanto non si farà, ma sarà mia premura
sollecita di informare
personalmente le Roi sulla mancata fede dell’Empereur. Dieu
giudicherà e
s’occuperà del resto.”
A seguito
di questo severo discorso ed irremovibile decisione,
ciascuno dei commensali - dai Collalto agli stessi comandanti
francesi ed
italiani - si chiese se avesse in effetti commesso
un grave sbaglio,
avendo infatti puntato ogni sua fortuna e speranza su quel cavallo
sbagliato di
Maximilian I. von Habsburg.
Nel
frattanto che il banchetto procedeva verso il dolce e il suo
termine, lo scalco scendeva nelle cucine onde controllare i tempi
d’attesa per
la spongada. Ricevuta la precisa conferma dal cuoco, l’uomo
allora inviò alcuni
garzoni cogli avanzi del pranzo da portare agli scudieri rimasti a
guardia dei
cavalli nonché i soldati di scorta. Rammentò
severo e puntiglioso ai giovanotti
di farsi seguire dai francesi in foresteria e ivi di lasciarli
consumare
tranquillamente il pasto riparati dalla pioggia e questo senza mai
perderli di
vista, che per nulla al mondo gironzolassero nel cortile interno del
castello.
Dopodiché,
congedati i garzoni, i servitori rimasti chiusero a
chiave la porta principale della cucina e lo scalco aprì
invece una più
piccina, di servizio, quella dove i contadini portavano la carne, le
verdure e
la frutta per i loro signori.
Due
figure vestite di stracci, in apparenza medicanti, non esitarono
a scivolare dentro lesti e circospetti, stringendo vigorosamente la
mano al
maestro di casa e sedendosi accanto al caminetto su suo invito.
Prontamente li
venne offerto da mangiare una fetta d’arrosto e da bere un
bicchiere di buon
vino rosso, onde rifocillarsi oltre che ad asciugarsi.
“Bone
Jesu, che pioza, zò!”, esclamò allegro
il giovane Vio,
intingendo un pezzo di pane nel sugo della carne. “Mi credea
deboto de negar en
la Piave, co la ghemo traversà!” e appoggiato il
piatto vuoto per terra, pur continuando
a ruminare, allungò le mani sul vivace fuoco, sfregando loro
e le braccia
intorpidite dal freddo. “Uhm, i ghe magna ben,
lorssignorie!”, biascicò a bocca
piena.
“An,
savestu!”, ridacchiò una fantesca, riempiendogli
nuovamente
il piatto. “Per dasseno aveu traversà la Piave cum
sta pioza?”
“Mare
de diana! Roba da far sbiancar quei cancari de Rolando,
Rinaldo e Ruzier e le lhoro siore mari!”, esclamò
Bernardin, il fratello
maggiore di Vio, battendosi a mo’ di vanto il petto.
“Ringrassiemo perhò el sior
Mercurio Bua et el sòo ponte de barche!”, gli
concesse un po’ più modesto.
“Sença d’elo, no saremo no riussiti a
vegnir qua!”
“Amen!”,
risposero solennemente in coro il maestro di casa e i
servitori, ridendo poi ilari alla battuta.
“Donca”,
terminò di bere Bernardin il suo vino, nettandosi la
bocca col dorso della mano. “Quae bone nove gh’aveu
da contar a la Signoria?”
Gli occhi
dello scalco s’illuminarono di perversa gioia e
così
anche quelli dell’intera servitù, mentre
ripetevano per filo e per segno alle
due spie veneziane quanto visto e udito durante il banchetto nel
castello di
San Salvatore.
***
Di
Trevixo, dil provedador sier Zuam Paulo Gradenigo.
Uno
compagno del cuogo de monsignor de la Paliza, questa matina
preso et per stratioti menato de qui, è stà
examinato, dice, che monsignor de
la Paliza era passato la Piave per andar a disnar con li conti da
Colalto, e
francesi alozano soto Narvesa, sopra la Piave, e la persona di
monsignor di la
Paliza aloza ne la Badia, e che sono lanze 1200 de conduta, ma in
effeto da
zercha 1000; li capi sono questi, videlicet:
Monsignor
da la Paliza: lanze 50
Monsignor
de Boisi: lanze 50
Missier
Rubert de la Massa: lanze 50
Monsignor
de Stasom: lanze 50
El gran
scuodier: lanze 100
Monsignor
de Frontaglia: lanze 50
El conte
Zuam Francesco da Gambara: lanze 50
El
capetanio de Borgognon: lanze 100
Numero
lanze: 500
[…]Dice
che fanno preparamenti di vituarie, et alcuni dicono che
voglino venir a questa impresa, e alcuni dicono che sono per andar a la
volta
de padoana e andar a la sua via. Afferma, li todeschi volevano far
questa volta
per a brusar el tutto, et che monsignor de la Paliza diceva, non voler
acompagnarli per abrusar, perchè tornando un’altra
volta non troveriano cossa
alcuna, et che sono stati 3 zorni senza pan, et che un pan valea 4
marcheti, et
qualche volta non se haveria trovato pur un pan chi havesse voluto
pagarlo un
ducato, ma che heri sera furon portati molti cari de pan in campo,
mandato da
le parte de là de la Piave.
Item,
dimandato come l’era stà preso, dice, che tutti li
sacomani
del campo eran venuti a questa volta con una scorta de 300 homeni
d’arme per
cerchar strami, vini et biave, che pur ne atrovavano, perchè
villani non
haveano voluto condur le robe sue dentro, ma le hanno ascose, et sono
da’
nemici trovate, et che non heri l’altro monsignor de la
Paliza ha scrito al re
di Franza et a l’imperador, et per questo crede, per la
dimora che fano, che
l’haspetta la risposta.
Di
Trevixo, di sier Lunardo Zustignan
[…]
Item, per nostri è stà preso alcuni da i qual
pocho si à
potuto cavar, salvo da un garzon che dize, l’altro zorno si
trovò a Colalto i
francesi con li signori di Colalto, e che si consigliavano quello
havesse a
far, chè vedea todeschi averli soiati, dicendo, voler far
pur assai cosse, e li
havea conduti fino lì, e hora se ne stevano di là
di la Piave, e lhoro francesi
di qua, e dubitavano che, come dicesse a’ todeschi de
ritornar adrieto, che
lhoro non li vegneria in compagnia, ma anderiano a caxa sua, e lhoro
stariano
in le petole, e che stevano in gran pericolo de esser taiati a pezi, et
erano
mezi confusi.
[…]
Item hanno, etiam el conte Zuam Francesco da Gambara esser
andato in gran pressa, con 50 cavali, per la via di Seravale, e va in
Val
Sugana e a la volta di brexana; non si sa la causa.
***
Quella
mattina, svegliandosi con la nebbia fitta e la fastidiosa
pioggerellina a bagnarli il viso più di vapore che
d’acqua, la squadra al
comando di Mercurio Bua s’era domandata se davvero fosse il
caso di proseguire
nel loro piano, attaccando di sorpresa i contadini nascostisi nel bosco
del
Montello. Vero che il loro capitano s’era prodigato il giorno
precedente
d’insegnarli come muoversi a colpo sicuro in
quell’impenetrabile bosco dal
terreno irregolarissimo – cortesia delle cartine e
indicazioni dei Conti di
Collalto - ripetendo all’infinito e rassicurandoli sulle
modalità d’attacco,
tuttavia il cuore dei soldati ancora tentennava, troppo provato
dall’ansia
delle brutali imboscate subite per mano di quei villani ribelli. La
nebbia non
aiutava, semmai acuiva i loro timori, non giudicandosi abili a
sufficienza per
districarsi in quell’infido bosco e scampare ai loro tremendi
abitanti.
Oramai i
soldati consideravano i contadini del Montello alla
stregua di spiriti malevoli, inafferrabili e immortali, pronti ad
assumere la
forma degli imponenti alberi per poi balzare fuori
all’improvviso e assalirli.
Oppure li immaginavano trasformarsi in animali e costì
cacciare, affamati e
feroci, di notte come di giorno, trasalendo al bubulare della civetta,
che li
ricordava l’urlo di una donna uccisa e pertanto foriero di
sventura.
Mercurio,
dal canto suo, non condivideva tali insensate
superstizioni da balia, semmai a sentir tale lagne da parte dei suoi
stradioti,
dei lancieri del Sanseverino e perfino dei gendarmi, perse l’ultimo
granello di pazienza e li
apostrofò sprezzante:
“Se
vi cagate in mano dinanzi a quattro villani, cosa farete sotto
le mura di Treviso? V’inginocchierete e succhiandovi il
pollice, invocherete
piangendo la vostra mamma?”
Personalmente,
il greco-albanese era snervato da quella
situazione: già ritornando dal pranzo da San Salvatore,
l’ignobile spettacolo
delle truppe intente a sgavazzare e a compiere scorrerie nei villaggi
limitrofi, nelle chiese e negli stessi monasteri l’aveva
assai disgustato,
ancor più apprendendo come alcuni soldati fossero riusciti a
disertare
tranquillamente. Inutile aggiungere quanto il condottiero avesse
desiderato
pigliarli a sberle uno dopo l’altro; qualcuno della sua
compagnia pure le
ricevette.
A
peggiorare la situazione, dei trecento uomini inviati a far
provviste e a scortare i carri provenienti dai Collalto e dalla Patria
del
Friuli ne erano ritornati la metà, in camicia e mutande e
ovviamente senza né
rifornimenti né cavalli. Dulcis in fundo, il suo prigioniero
manco gli aveva
rivolto una sola parola, destandosi dal suo profondo sonno
d’ammalato giusto
per mangiare gli avanzi portatigli e, ringraziatolo distrattamente, se
n’era
ritornato a dormire incurante degli appelli del Bua a rimanere desto.
Tempo addietro
avrebbe ringraziato San Giorgio e tutta la sua legione per quel
mutismo, invece
ora la cosa lo inquietava, non presagendo nulla di buono
dall’improvvisa apatia
del veneziano. In ogni modo, aveva posto due sue sottoposti a guardia
dell’infermeria, per sicurezza.
“Maurikos,
non essere così duro nei loro confronti: a furia di
prenderle dai villani, hanno imparato a temerli”,
tentò Leka Busicchio di
spiegare al collega il motivo di tanta agitazione nella compagnia.
“Questa
nebbia poi non aiuta, credono l’abbiano evocata loro,
così come gli spiriti
dagli abissi più profondi del bosco …”
“Che!
Questo lo so fare anch’io e lo saprebbe fare
chiunque”,
replicò scettico Mercurio, stringendo le redini onde calmare
il suo impaziente
destriero turchesco. “Ma verranno poi, questi spiriti, quando
i contadini li
avranno invocati? L’unico modo per comandare il diavolo
è fronteggiarlo e
vedrete che non morderà né farà
più spavento. Oggi questi fifoni temono i
villani, ma vedrai che stasera, ebbri del loro sangue, si scorderanno
di ogni
paura previamente nutrita verso costoro.”
Azione o
paralisi, reagire o subire. Il condottiero non aveva mai
esitato sulla sua linea di condotta e s’augurò
d’aver ben inculcato tale
determinazione anche nei suoi uomini, quando, prima d’uscire
da Nervesa per
addentrarsi nel bosco del Montello, li aveva domandato se volevano dare
soddisfazione ai tedeschi, quando quest’ultimi li
ingiuriavano appellandoli
pavidi conigli.
“Li
dimostreremo che ci sappiamo difendere, che sappiamo farci
temere e che non abbiamo bisogno di loro per quest’impresa di
Treviso!”, aveva
concluso, nella speranza di riuscire effettivamente nel suo piano: come
delineato a La Palice, una volta appreso della posizione di forza dei
francesi,
i tedeschi avrebbero incominciato a sudare freddo, paventando della
vittoria
degli alleati senza il loro supporto e conseguente esclusione dal
bottino. In
questo modo, presi per la gola, sarebbero ritornati prontamente a
Nervesa.
Zanze, la
sua sorellina Zuaneta e poco distante da loro l’amica
Lussìa stavano terminando di raccogliere gli ultimi rami
secchi, riempiendo le
rispettive gerle, le orecchie ben tese in ascolto di rumori sospetti:
avevano
approfittato della nebbia per uscire e far legna, portando
l’avanzante autunno
sempre più freddo e umidità che rendeva la
permanenza nelle grotte poco
piacevole e pericolosa, quando la luce sarebbe diminuita e il freddo
avrebbe
attirato alcuni predatori in cerca di facile preda.
“Nana”,
chiamò la contadina la minore, “par
ancuò, ghemo finio.
Tornemo indrio, finché ghe xé sto caigo (nebbia,
ndr.)!” Lussìa già le aveva
anticipate, complice il pancione che le dava non poco fastidio alla
schiena,
rallentandola nei lavori.
La
ragazzina annuì, infilando le bretelle della gerla e
avviandosi
verso il campo, sennonché un sordo rimbombo e il lieve
tremore del terreno la
gelò sul posto, similmente a sua sorella che si
girò di scatto dietro di sé,
osservando il latteo velo quasi potesse intuire quale orrido mostro vi
si
celasse dietro.
“Corate!”,
gridò Zanze non appena le sue orecchie isolarono il
nitrito dei cavalli e i loro zoccoli battere pesanti al galoppo e il
sinistro
scricchiolio delle armature. “Lassa star ea gerla e
corate!”, spinse via la
giovinetta che obbedì immediatamente, arrampicandosi sul
terreno in salita, in
direzione però opposta del campo. “Nana!
Nana!”, tentò d’avvertirla la giovane
contadina, ma sua sorella ormai era stata inghiottita dalla nebbia e
pure lei
non capiva più in quale direzione stesse correndo
esattamente, l’unica sua
certezza erano i nemici alle sue calcagna.
All’improvviso,
una mano sbucata dalla nebbia la ghermì per lo
scialle e lei si sentì tirare all’indietro;
disperata, Zanze anguillò via in
una serie di buffe piroette, rinunciando al capo
d’abbigliamento e riprendendo
a scattare via veloce. Allora il soldato si sbilanciò in
avanti e l’afferrò per
la vita, sollevandola di peso malgrado lei si dimenasse impazzita e
scalciasse
e menasse pugni e schiaffi contro quell’altro che se la
rideva divertito.
L’uomo se la caricò in sella e tirò le
redini per ricongiungersi al suo gruppo,
sennonché Zanze torse il busto e gli morse
l’orecchio con tutta la forza
posseduta dai suoi denti, staccandoglielo e sputandolo per poi passare
l’altro.
Tremando accecato dal dolore, il soldato perse il controllo del cavallo
che a
sua volta si spaventò, cavalcando alla cieca e imboccando un
dislivello. La
bestia v’inciampò, perse l’equilibrio e
gli si ruppe il garretto e la gamba
anteriore cedette, rotolando essa e il suo cavaliere giù
fino alla morte, le
ossa fratturate al primo impatto contro il solido tronco d’un
rovere, mentre la
contadina si limitò a ruzzolare seppur dolorosamente, avendo
posseduto
sufficienze prontezza di spirito di gettarsi dalla cavalcatura prima
della
caduta.
Alzandosi
non senza notevoli difficoltà, Zanze riprese zoppicando
a correre, stringendo i denti insanguinati onde soffocare il dolore al
corpo,
ma una scudisciata improvvisa la gettò a terra, giunti gli
altri compagni del
soldato indirettamente da lei ucciso. Ostinata si rimise in piedi e ne
ricevette un’altra e poi un’altra ancora, credette
volessero assassinarla a
furia di frustate e forse non era disprezzabile come fine, almanco le
avrebbero
risparmiato una sorte ben più vergognosa.
La
ragazza strisciò sul terreno fangoso ricoperto di foglie, i
polmoni pieni dell’acre odore dell’humus mischiato
al suo sangue, premendo
sulle ginocchia e sui gomiti e artigliando qualsiasi cosa le servisse a
mo’ di
leva per proseguire. Ángele Dei, qui
custos es mei, me, tibi commissum
pietáte supérna, illúmina,
custódi, rege et gubérna. Amen!,
pregava
ferventemente, supplicando in un mantra ossessivo il suo Angelo Custode
di
pigliarsi la sua anima e di portarla al cospetto di Dio, prima che i
soldati si
prendessero il suo corpo.
Arrivò
infine il buio e Zanze non seppe se si trattasse della
morte o di uno scherzo del diavolo atto a tormentarla. In ogni modo,
ante
d’abbandonarvisi, la ragazza si puntellò sui
gomiti e cacciò fuori un urlo
spaventoso, neppure i dannati più abietti sguazzanti nei
recessi più orridi
dell’inferno potevano emularlo: se a lei non era concesso
salvarsi almeno lo
fosse ai suoi compagni, lanciandoli quell’avvertimento
angosciato, l’ultimo suo
contributo alla loro lotta per la fede in San Marco.
L’eco
di quel grido inumano fischiò nelle orecchie di
Lussìa,
riuscita malgrado il ventre gonfio a correre fino al loro nascondiglio
e dando
esagitata il tardivo allarme; appena ebbe il tempo di raggiungere il
suo uomo,
che le sagome degli stradioti, lancieri e gendarmi francesi si
stagliarono nere
e compatte, ai loro occhi una schiera di demoni sputati dalle viscere
della
terra.
“Toga
el tròzo (sentiero, ndr.) pel Trevixo, nuj li
trategnéremo
finché podemo!”, spingeva Berto la sua compagna in
direzione di una viuzzia
nascosta tra le piccole rocce carsiche, là dove altre donne
e bambini stavano
correndo.
“No,
ti va morir!”, singhiozzò Lussìa,
abbracciandolo forte. “Se
te mori, moro anca mi!”
Il
giovane contadino la strattonò via.
“No!”, gridò perentorio.
“Ti te va vivar: par mi, par nuostro fio; ti fasse tuto el
possibile per farlo
nassere e cressare! Zuramelo!”
La
ragazza si portò di riflesso le mani al grembo pieno,
stranamente tranquillo quasi il bimbo comprendesse la
gravità della situazione.
“T’eo zuro”,
s’asciugò le lacrime col dorso della mano,
baciando infelice Berto
più a lungo che le venne concesso.
“Corate,
lesta!”, si staccò da lei il suo compagno,
affrettandosi
nella direzione opposta, la picca in mano.
Pur
agguerriti e pieni di buona volontà, nulla poterono i
contadini in uno scontro diretto coi soldati francesi, agevolati
dall’effetto
sorpresa e dai loro cavalli che con facilità disperdevano i
già disorganizzati
villani, impedendo loro di formare un quadrilatero compatto di picche.
Simili
ai fanciulli che corrono dietro alle oche in cortile per torcerle il
collo,
così gli stradioti rincorrevano i contadini, sciabolandoli
con le scimitarre o
infilzandoli con le loro zagaglie, impennando i loro corsieri
acciocché questi
li colpissero al petto cogli zoccoli, per poi trafiggerli
più volte fino a
sventrarli.
Alcuni
villani più audaci avevano imbracciato i loro archi
raffazzonati e colpito i cavalleggeri meno coperti
dall’armatura, se non
uccidendoli perlomeno colpendoli strategicamente in modo da
disarcionarli o per
le ferite subite o perché uccisa direttamente la
cavalcatura. Ugual trattamento
lo riserbò chi, come Berto, puntava contro le bestie le
punte acuminate delle
picche o addirittura qualche torcia, spaventandole e imbizzarendole.
Stae, un
compare del contadino, con la falce ferì fin quasi ad
amputare le gambe di un
cavallo; la bestia nitrì agonizzante e cadde sul fianco,
trascinando seco lo
stradiota che prontamente venne ucciso dai due uomini.
Un
profondo ululato seguito da latrati e urla di sorpresa e di
dolore attirò l’attenzione di Berto e il cuore gli
scese nello stomaco,
realizzando la comparsa di una piccola muta di cani, i quali
sguinzagliati dai
francesi davano man forte ai loro padroni. Calciando via
l’avversario
abbattuto, il contadino strinse la picca e affrontò il
prossimo, evitando d’un
pelo l’affondo della sua spada, per infilzarlo alla gola. Un
altro lo impirò
all’inguine e un ultimo alla coscia. Aveva appena staccato la
punta dalla carne
di un saccomanno ruzzolato ai suoi piedi, che una figura scura gli
balzò contro
di peso e un dolore indescrivibile gli artigliò il braccio
viaggiando fino al
cervello.
Berto
gridò come mai aveva fatto in vita sua, la carne martoriata
dai denti del cane, il quale ringhiando strattonava, affondava i denti
giallastri nel sangue zampillante misto alla sua saliva, affatto
desideroso di
mollare la preda. Un altro di questo azzannò il contadino al
fianco e questi
cadde per terra, tremando d’acutissimo dolore e soffocato dal
vomito, invocando
la morte che però si presentò curiosamente nei
panni del suo amico Stae. Il
primo cane si ribellò alla presa alla gola da parte
dell’uomo, cercando di
morderlo ma questi, estraendo un pugnale dalla cintura, lo
sgozzò come i porci
a San Giovanni mentre al secondo cane si limitò di
piantargli la lama nelle
viscere, ammazzandolo tra i patetici guaiti della bestia.
“Berto!
Berto!”, chiamò Stae lo semisvenuto compagno,
afferrandolo
per il braccio sano e issandolo su onde nascondersi dietro un luogo
riparato.
Berto aprì la bocca, gorgogliando sangue e schiuma,
sforzandosi con ogni fibra
del suo essere d’avvertirlo nella sagoma dietro di lui, la
quale levò in aria
la scimitarra e la calò in un rapidissimo sibilo
sull’amico, in un sinistro
scricchiolio dell’ossa craniche.
Sangue e
cervella imbrattarono il contadino, trascinato per terra
dal corpo del compagno ucciso e scosso dagli ultimi spasimi, la faccia
deformata in una maschera grottesca, gli occhi improvvisamente strabici
che lo
fissavano vacui e torbidi. Anche Berto avrebbe seguito Stae
nell’Aldilà, n’era
conscio, però ai suoi termini: afferrato il pugnale dalla
mano ancora calda
dell’amico, facendo appello alle ultime forze il giovane
contadino si scagliò
contro Mercuria Bua, il quale, senza neppure battere ciglio
né scomporsi, lo
colpì di traverso per il collo, lasciandogli la testa a
malapena attaccata.
Appurata
la morte di quel pazzo temerario, il condottiero si
guardò velocemente attorno, analizzando la situazione e
giudicandola a loro
vantaggio - oramai in pochi erano sopravvissuti al
violento scontro
- urlò alla sua compagnia: “Setacciate le grotte!
Prendete ogni loro bestia,
ogni provvista! Spogliate i cadaveri di ogni loro bene! Uccidete chi
non
s’arrende e fate prigioniero chiunque lo faccia! Tutto
ciò ch’apparteneva a
questi ribelli è vostro, le loro donne comprese!”,
li comandò, mulinando in
alto la scimitarra a mo’ d’incoraggiamento.
Più
in là, in direzione dell’agognato limite del
bosco, un'ansante
Zuaneta galoppava aiutata dalla rapidità figlia della
disperazione,
incespicando di tanto in tanto e rimettendosi in fretta in piedi, il
corpicino
suo di dodicenne ridotto ad un Ecce Homo di tagli e graffi.
Un
singulto le scosse il petto nel captare l’ululato dei cani, i
quali stavano avvertendo i padroni della preda fiutata e pronta alla
cattura.
La ragazzina accelerò fin quanto le gambe glielo permisero,
ma già sentiva le
forze abbandonarla e, ultima spes, decise quindi di tentare il tutto
per tutto.
Giunta ai piedi di una farnia, s’aggrappò alla
ruvida corteccia, allungando il
braccio verso il primo ramo e pian pianino s’issò
su di esso. Puntò il piede e
si spinse a quello sopra e via così salì fino a
nascondersi tra le fronde.
Zuaneta s’appiattì al centro della farnia,
tremando tutta da capo a piedi,
tappandosi la bocca e imponendosi di trasformarsi in un silenzioso
topolino e
pregando che non la trovassero.
L’abbaiare
festante dei cani ruppe questa sua speranza, così come
i loro balzi e il continuo e inquieto graffiare sul tronco. Lo
scalpiccio di
zoccoli confermò i suoi peggiori timori e gli schiamazzi
divertiti dei lancieri
non tardarono a riverberare nell’aria, ferendola peggio di
una frustata.
Cosa
dicessero, lo ignorava. Tuttavia ben vedeva il modo in cui
uno di loro sventolava beffardo la sua vesticciola, strappatale di
dosso quando
l’altro suo compare pensava d’averla atterrata e
invece n’erano rimasto
gabbato, ché Zuaneta era sì stata allevata nella
pudicizia, ma scaltra
abbastanza da afferrare in caso di necessità i coglioni di
un uomo e
torcerglieli e stringerglieli al punto da farlo urlare, come
insegnatole da sua
sorella Zanze. Sgusciando via dal dolorante soldato, la fanciulla aveva
ripreso
la sua fuga, nuda come il giorno in cui uscì da sua madre e
forse ciò aveva
infoiato i compagni del demascolinizzato, chissà. Certamente
aveva fornito una
traccia ai cani.
L’albero
tremò, seguito da colpi di ferro, divertendosi infatti i lancieri e
gendarmi a fingere d’abbattere la farnia, tra risa, fischi e
lerce promesse su
ciò che le avrebbero fatto una volta avutala tra le mani. I
cani, nel
frattanto, saltavano sempre più in alto, ringhiando rabbiosi.
Zuaneta
guardò il gruppetto di soldati, i cani e poi il vuoto
sotto di sé. Era alto a sufficienza? Se si fosse lasciata
cadere di schiena,
avrebbe sbattuto la testa abbastanza da morire sul colpo? Domine Iddio
l’avrebbe perdonata per quel suo gesto? Lui leggeva il suo
cuore, leggeva la
sua paura, avrebbe avuto di lei pietà?
La
dodicenne s’erse in piedi, dondolando in precario equilibrio
sul ramo che già scricchiolava sotto il suo peso. Fece
lentamente tre volte il
segno della Croce, confessò al Padreterno i suoi peccati, e
s’apprestò a porre
fine a quell’immeritata sofferenza.
Quand’ecco,
una voce virile dalla calata della sua gente, le
ridiede speranza.
“Voltati,
figlio di puttana e prenditela con un uomo!”
Per
aiutarla ad addormentarsi alla sera, sua sorella Zanze le
raccontava le vite dei Santi e spesso Zuaneta sognava
d’essere la principessa
salvata da San Giorgio. Ed eccolo là, neanche fosse sceso di
persona dal Cielo,
galoppare sul suo destriero bianco latte incontro al drago antropomorfo
che l’insidiava,
la zagaglia abbassata in attacco pronta a colpire.
Il
cavaliere si scagliò ferocemente gagliardo contro il
gendarme,
colto quest’ultimo alla sprovvista: abile, egli aveva
approfittato della
visiera alzata del francese per colpirlo dritto in faccia, in mezzo
agli occhi
senza neppure concedergli il tempo di chieder perdono dei propri
peccati. Voltò
il cavallo e si preparò a fronteggiare gli altri, mentre i
suoi compagni
s’aggregavano a lui, dando battaglia senza concedere alcuna
via di scampo. Uno di
questi cavalleggeri infilzò a guisa di cinghiale i cani, i
quali s’accasciarono
in un sordo tonfo ai piedi della farnia.
Finalmente
calò il sospirato silenzio.
“Desmonta
de là! Vien zoso, putela, semo zente in fede de Sen
Marco!”, si portò sotto il cavaliere, scendendo da
cavallo e sbirciando tra i
rami. Si tolse l’elmo, liberando un’arruffata
zazzera scura e due occhi
nerissimi, incastonati in un viso addolcito da un’espressione
cortese e
rassicurante. “Non temere: non ti farò alcun male.
A casa, a Veniexia, ho
moglie e tre bambini più piccoli di te”, le
raccontò onde metterla a proprio
agio e darle confidenza.
Tirando
su col naso, Zuaneta si sporse tra il sospettoso e
l’incuriosito, chiedendo con una vocina tremula:
“Chome se ciameli?”
Il
cavaliere le sorrise teneramente. “Zanzi, Ina e Scipio. Il
primo
ha sette anni, la seconda sei e il terzo è ancora in
culla.”
“Zanzi
per Anzolo?”
“Sì.”
“Anca
la mia sorea la se ciama Anzola, ma tutti ea ciaman Zanze.”
“Che
bello! Tu invece?”
“Mi
Zuanna o Zuaneta. O Nana, perhò solo la Zanze la me pol
ciamar
cussì!”
“D’accordo,
mi riferirò a te come Zuaneta. Ma adesso, splendore,
scendi giù da lì, così ti posso
aiutare a ritrovare la sua sorella Zanze!”, le
promise il cavaliere, stendendo incoraggiante le braccia verso di lei.
Che Iddio
gliela mandasse buona, la ragazzina scese cautamente,
ponendo attenzione a non scivolare né a posizionare il piede
su di un ramo marcio
o rotto. Balzò giù dall’ultimo ramo (o
primo a seconda dei punti di vista),
atterrando esattamente davanti al cavaliere, il quale
s’inginocchiò, si sciolse
immediatamente il nodo al mantello e lo usò per coprirla,
abbracciandola di
rimando quando Zuaneta gli cinse il collo, scoppiando in un pianto
isterico e
sconquassante.
“Brava
… sei stata bravissima … più
coraggiosa di una leonessa … è
finita, sei in salvo, sei al sicuro … ssshh, è
finita …”, le accarezzava la
schiena Marco Miani, consolandola intanto che la contadinella si
sfogava in
quei singulti liberatori, battendogli sul corsaletto i pugnetti dai
palmi
spellati dalle infinite cadute per terra. Non gli diede fastidio
l’umidità
crescente al collo, irrorato delle grasse lacrime della fanciulla
né il pungente
odore di urina che la permeava per ovvi motivi. “Quanto te la
senti ti parlare,
raccontami tutto. Di tua sorella, da dove vieni,
cos’è successo alla tua gente.”
Zuaneta
sciolse la sua presa, stropicciandosi gli occhi.
“Siorsì”,
annuì e al meglio delle sue capacità gli
riassunse quanto accaduto, di come
quella mattina lei, sua sorella Zanze e Lussìa fossero
andate a raccogliere
legna, dell’arrivo dei francesi, della forsennata fuga e di
come si fosse
separata accidentalmente da sua sorella. “Questo
xé queo che mi sciò, patron”,
terminò il suo racconto, stringendosi il mantello
sull’esili spallucce.
“Brava
la mia guerriera”, le diede il Miani un giocoso buffetto
sulla guancia sporca di terra e lacrime e la ragazzina
gongolò orgogliosa,
arrossendo notevolmente.
Dietro di
lui ritornava intanto uno stradiota della compagnia di
Teodoro Paleologo, staccatosi dal gruppo in rapida esplorazione, il
quale
informò sottovoce il suo capitano. “Kyrie
Markos”, richiamò infine il
condottiero la sua attenzione a discorso terminato.
“Ditemi.”
“I
miei esploratori mi hanno riferito di uno scontro poco distante
da qua. Forse la piccoletta è da lì
ch’è scappata via.”
“Uno
scontro?”
Il greco
confermò. “Non osiamo avvicinarci troppo, non
adesso
almeno. Fra poco, se vorrete controllare. I ladri non sostano mai a
lungo dove
hanno rubato.”
Alla
categoria dei codardi gli stradioti di certo non
appartenevano, dunque sussisteva un altro motivo per il quale si
rifiutavano di
cavalcare in quel luogo di morte. “In quanti
sono?”, s’informò cauto il
patrizio. Paleologo glielo riferì.
“Sacramento!”, imprecò allora Marco tra
i
denti, stringendo stizzito le dita sull’elsa della spada.
“La cavalleria
pesante? Questa non corrisponde ad una fortuita imboscata,
bensì ad una
spedizione ben pianificata ch’andava a colpo
sicuro.”
Il
capitano di ventura si ritrovò d’accordo, grato
della
perspicacia del veneziano. “Sono troppi per noi e verremmo
sopraffati
facilmente, specie adesso che si sono insuperbiti da questa
vittoria!”
“Tranquillizzatevi,
kyrie Theodoros, condivido appieno il vostro
punto di vista. Neanche io ho alcun’intenzione di finire
prigioniero dei
francesi, men che meno di quel tartaro di Merkourios Buas. Io e lui
abbiamo un
conto in sospeso e voglio terminarlo alla pari, non certo in
catene!”, digrignò
i denti Marco, sollevando di peso Zuaneta e sistemandola sulla sella.
Inforcata
la staffa, salì in groppa anch’egli
d’Eòo. “A questo punto approfittiamone
per
cercare i superstiti, finché c’è luce.
Treviso ha bisogno di quante più braccia
possibili per terminare le mura”, suggerì poi.
Si
sforzava di mascherare il suo disappunto dietro una maschera di
distaccata professionalità; nel suo intimo ribolliva in
realtà di rabbia
scellerata, frustrato all’infinito da
quell’ennesimo imbroglio. Dai rapporti
degli esploratori aveva creduto l’Abbazia essere infine
aperta ad incursioni
notturne, impegnati i francesi a guardarsi le spalle sia dai tedeschi
che dai
contadini del Montello a sud-est, dalla valle, per realizzare la loro
scarsa
difesa al lato nord-ovest del monastero, quello che dava direttamente
sul
bosco. Se invero Mercurio Bua aveva liquidato nel sangue il problema
dei
villani ribelli, avevano purtroppo perso un validissimo alleato
ché i
superstiti si sarebbero ancora più rintanati nel bosco e
forse non avrebbero più
collaborato coi marciani, pensando soltanto a salvare la pelle.
Quel
greco-albanese … Marco dubitava d’aver mai odiato
in vita sua
una persona così tanto, ecco forse l’anonimo
assassino senza volto di suo padre
poteva superarlo nel podio per intensità … Era
stato ad un passo dal liberare
Momolo, quella notte avevano intenzione di ritentare
l’assalto e invece!
Stramaledetto
Bua, che il diavolo se lo ingoiasse e lo cagasse in
un pitale di fuoco!
“Vinceremo
questa guerra?”, gli chiese di punto in bianco Teodoro
Paleologo, squadrandolo lungamente.
Miani
arcuò un sopracciglio. “Ne dubitate?”
“Le
notizie dalla Patria del Friuli non sono buone. Tutti i nobili
friulani stanno aprendo le porte delle loro città, andando
incontro ai tedeschi
e alcuni perfino all’Imperatore.”
“Puttane”,
commentò lapidario Marco.
“Forse
davvero siamo stati maledetti, kyrie Markos. Forse è vero
che ricevendo i poteri direttamente da Theos, Maximilianos possiede
facoltà
soprannaturali …”
Il
patrizio veneziano si sganasciò dalle risate, gettando
indietro
il capo. Zuaneta levò lo sguardo in alto, incuriosita da
quello scatto
d’ilarità. “Suvvia, kyrie Theodoros, non
lasciatevi influenzare da queste
insulse storielle né dalle vostre antiche credenze sulla
figura del Basileus.
V’assicuro che Maximilianos è un uomo di carne e
sangue, che s’abbassa le
braghe e caga e piscia come noialtri, se non di più! Ed
uguale a lui anche il
Papa, il re Ludovico e tutta la loro allegra masnada
d’altezzosi piscialletto,
che si credono Missier Domeneddio in terra solamente perché
hanno avuto culo di
nascere in una reggia invece di una stalla. E a proposito di stalla,
ricordate
che solamente Uno a questo mondo fa miracoli e prima o poi anche Lui si
nauserà
delle porcate di queste bestie. Theos è con noi e ci
darà giustizia e così la
Parthena Maria. Noi dobbiamo resistere e impegnarci al meglio delle
nostre
possibilità.”
“Aiutati
che Theos t’aiuta.”
“Appunto.”
Requiem
aeternam dona eis Domine et lux perpetua luceat eis,
requiescant in pace. Amen.
Una volta rientrato a Treviso, quella sera
Marco accese una candela all’altare della Madonna
dell’Umiltà nella
chiesa-tempio di San Nicolò per le anime dei contadini morti
sul Montello,
commilitoni sconosciuti ma a lui non meno vicini e fraterni, forse
rimasti
insepolti alla mercé delle bestie notturne, senza un
funerale né una messa.
Pregò affinché Dio li giudicasse per i loro
meriti e non per le loro colpe,
concedendoli quel ristoro e quell’abbondanza negata in vita
nonché la Sua
protezione ai loro famigliari sopravvissuti, che resistessero saldi
nella
salute e nella fede fino alla liberazione. Pregò che il
provveditore Zuam Paulo
Gradenigo cangiasse idea, concedendogli di continuare ad affiancare i
Paleologi
nelle loro perlustrazioni, invece d’arrostire
d’ansia a guardia del Castello.
Pregò per Momolo e per Zanze, di riuscire a salvarli;
pregò per la sua
famiglia.
Poco
prima Marco aveva affidato Zuaneta alle cure di madona Maria
Malipiero Gradenigo, la quale dopo averla personalmente lavata le aveva
regalato un bel vestitino e delle pianelle nuove. Offertole infine un
abbondante pasto caldo, la nobildonna aveva poi accompagnato
l’intimidita
fanciulla a Palazzo, tenendole compagnia mentre suo marito sier Zuam
Paulo
l’interrogava circa gli avvenimenti della giornata.
Levando
gli occhi sull’antica immagine della Madonna allattante il
Bambino, il Miani ripercorse mentalmente la breve e sussurrata
conversazione
avuta con la moglie del provveditore, invocando soccorso e forza alla
Madre di
Dio, per non arrendersi, per mantenere in lui salda la virtù
teologale della
Speranza, verde-vestita come il Figlio nell’affresco,
sedutoLe sulle ginocchia.
“Se
non v’incomoda, sier Marco, vorrei tenere meco Zuaneta in
qualità d’assistente in ospedale, almeno
finché non si ricongiungerà con la sua
famiglia. È una brava donnina, obbediente e
lavoratrice.”
“Non
potrebbe avere protettrice migliore di voi, madona Maria.”
“Via,
adulatore!”
“Quale
missiva, se posso chiedere, è giunta a vostro marito da
spingerlo a rinchiudersi col Podestà e i capitani a Palazzo,
senza consultare
il resto del Consiglio?”
“Dubito
poterne parlare liberamente, sier Marco.”
“Suvvia,
il mio barba è consigliere ducale: ne verrei ugualmente a
conoscenza.”
“D’accordo,
a condizione però che ve lo teniate per voi: il
Consiglio dei Dieci ha inviato un piano segretissimo per la distruzione
del
ponte sulla Piave.”
“Perché
non ci è stato comunicato? Avrei potuto distruggerlo io oggi
stesso, intanto che quei dannati erano impegnati a massacrare i
contadini!”
“Perché
la Patria del Friuli è persa o lo sarà presto,
sier Marco.
Stamane in Collegio c’è stata una grande
agitazione alla notizia di come sier
Alvixe Gradenigo, luogotenente della Patria, abbia abbandonato di gran
fretta
Udene, senza portarsi via l’artiglieria o perlomeno
inchiodarla. Molti rettori
di castelli stanno disertando le loro postazioni; i Conti di Porcia
hanno
offerto la loro dedizione all’Imperatore. A Spilimbergo il
castellano esiliato
Zuane Erico ha catturato il provveditore Jacomo Boldù e
consegnato lui e la
città agli imperiali.
“Non
possiamo sbilanciarci troppo al di là della Piave. Ormai la
linea di confine s’è assottigliata. Un conto
è inviare esploratori, un conto è
distruggere il ponte: richiederebbe un’operazione perigliosa
a rischio di
troppi uomini. Non ci è concesso questo lusso, lo sapete.
Dobbiamo accettare
che questo turno lo stanno vincendo i franco-imperiali e adeguarci di
conseguenza.”
“Il
provveditore degli stradioti sier Ferigo Contarini ci
raggiungerà presto qui a Trevixo. E vedrete, madona Maria,
quanto più
dolorosamente cade chi ha creduto di toccare il cielo!”
“Dio
v’esaudisca, sier Marco. Dio v’esaudisca.”
***
Uno dei
privilegi di ricoprire la carica di consigliere ducale includeva
la possibilità di piombare all’improvviso in
camera del Serenissimo senza
premura d’annunciarsi, né di rispondere alle
domande delle sue guardie del
corpo sui come dove e perché di quella visita, scaltro
espediente atto ad
impedire al Doge di tramare contro la Repubblica e in generale per
comunicargli
in tempo reale urgenti notizie e altre peculiarità legate al
suo ufficio.
Un
trafelato cancellerie da Palazzo aveva strappato sier Carlo
Morexini “da Lisbona” dal sonno e dal talamo
nuziale, spronandolo a correre
difilato al piano nobile e svegliare suo padre sier Batista, il quale,
udito il
conciso messaggio, aveva spedito il segretario e i suoi emissari a
radunare
quanto prima gli altri cinque consiglieri ducali, intanto che si
vestiva alla
bell’e meglio, aiutato contemporaneamente dal figlio e dalla
moglie e soltanto
in gondola ebbe il tempo di infilarsi le pianelle rosse, raddrizzandosi
la
vesta abbottonata di traverso e la stola.
Giunto a
Palazzo Ducale e fattosi riconoscere, assieme ai suoi
colleghi era entrato negli appartamenti dove dormiva Missier il Doxe
Lunardo
Loredan, scuotendolo delicatamente e così rendendolo
partecipe, in letto e
ancora con la berretta da notte e in camicia, del disastro in procinto
d’avverarsi.
Le loro
spie avevano scoperto e riferivano come, di fronte ad una
situazione militare insostenibile e alla possibilità di
saccheggio e
distruzione di Udine, domino Antonio Savorgnan aveva accettato di
negoziare coi
messi imperiali nonché le loro generose offerte, ossia il
mantenimento di tutti
i suoi feudi e proprietà in cambio della sua perpetua
fedeltà alla casa von
Habsburg. Con le cernide di 5.000 e passa uomini al soldo del
Savorgnan; l’imminente
occupazione di Udine e l’artiglieria ivi trovata, mancava
all’appello soltanto
Gradisca d’Isonzo e la conquista della Patria del Friuli
poteva dirsi
completata.
In un sol
giorno, Antonio Savorgnan aveva disconosciuto l’alleanza
centenaria del suo casato con Venezia.
Il doge
Lunardo Loredan s’accasciò sul materasso,
sprofondando
quasi nella turchesca che l’avvolgeva. Dopodiché,
balzando giù dal letto, il
suo volto scarno e rugoso si tinse di scarlatto e scagliò
certe maledizioni
contro il conte ribelle da superare in fantasia le Dieci Piaghe
d’Egitto.
Passandosi una mano tremante sugli occhi, implorò al Minor
Consiglio e al
Consiglio dei Dieci di porvi rimedio, in qualsiasi modo ritenessero
più idoneo:
stipulare una tregua, pagare il riscatto della Patria, cercare di
persuadere il
Savorgnan a ritornare dalla parte della Serenissima, punire per la loro
negligenza sier Andrea Loredan e sier Piero Capelo …
Il povero
sier Hironimo Querini, capo dei Dieci, assieme a tutti i
suoi colleghi ascoltavano il Doge costernati e indecisi su quale
soluzione
prendere, lì così su due piedi senza alcun
consulto, almeno per dar qualche
appiglio di consolazione al Serenissimo, che già piangeva la
caduta di Treviso
e la fine della Repubblica.
Al che
sier Batista Morexini dichiarò colmata la misura di quella
tragedia da due soldi e, avanzando in mezzo alla stanza,
interpellò risoluto
sier Hironimo: “Lustrissimo collega, come voi ora
anch’io feci parte del Consejo
dei X e conosco lo scopo per cui fu costituito. Se dobbiamo sporcarci
le mani
per la salute della Signoria, lo facciamo di buon cuore.
“Avé
sentio i capitoli: domino Antonio Savorgnan è un ribelle
traditore e così va trattato. È inutile corrergli
dietro alla stregua di una
donzella respinta. Il tempo della misericordia,
dell’onestà, della guerra all’italiana
è finito: Impero, Franza, Mantoa, Frara si credono
più forti e crudeli di noi? Li
dimostreremo che Veniexia al bisogno sa e può superarli.
“Dobbiamo
fare di Antonio Savorgnan un exemplum, acciocché gli altri nobili di terraferma
sappiano cosa li aspetta, in caso gh’avian el
muso di tradir la Signoria.
Lui, il figlio don Nicolao, suo fratello Zuanne, i suoi nezzi
Francesco,
Bernardin … tutta la sua casata!”
“Ma
don Nicolao è un canonico!”
“Donca?
Anche i religiosi tradiscono!”
Un
mormorio di consenso riempì la sala e il Doge stesso aveva
assunto un’espressione attenta, piacendogli la prospettiva di
fare del
traditore friulano un esempio per il resto della nobiltà
feudale di terraferma così
da infrangere la loro illusione di perpetua immunità.
“Il
cugino del ribelle, domino Hironimo Savorgnan, in questo
preciso momento si starà anche lui recando
dall’Imperatore Maximiano, forse per
capire quale profitto può ricavarne da un eventuale
vassallaggio”, seguitò sier
Batista, ripetendo quando appreso dalle spie e delineando un certo
piano, che
gli era venuto in mente durante il tragitto da Ca’ Morexini a
Palazzo Ducale. “Ora,
dalle informazioni ottenute durante il mio mandato nei X, so per certo che domino
Hironimo sempre è stato
segretamente geloso del cugino Antonio, per il suo potere e reputazione
nella
Patria, nonché per la grande stima che la Signoria nutriva
nei suoi confronti. Pertanto,
in virtù di tanta fama ed eccelse qualità, sono
pronto a scommettere che anche
l’Imperatore preferirà il Savorgnan ribelle
rispetto a quello ancora … nostro.”
All’epoca
il “da Lisbona” non aveva potuto sfruttare tale
rivalità
tra cugini; adesso invece cascava a pennello ché facendovi
leva avrebbe
impedito ai due parenti d’unire le forze e di soccorrersi a
vicenda e dove uno
aveva fallito, l’altro avrebbe rimediato. Un altro fattore non trascurabile su cui far leva rimanevano i matrimoni d'Hironimo Savorgnan: dopo la prima moglie, Maddalena della Torre, egli s'era legato al patriziato veneziano sposando le nobildonne Felicita Trum, Biancha Malipiero ed infine, due anni addietro, madona Orsina da Canal di sier Hironimo, già vedova di sier Marco Antonio Marzello.
“
“Dunque
proponete di confiscare i beni, le terre, i castelli ad
Antonio Savorgnan per cederli a suo cugino domino Hironimo?”,
concluse sier
Hironimo Querini. “In questo modo egli otterrà
ciò cui ha sempre ambito: autorità
in Friuli, la fiducia della Signoria e il ruolo di capo del partito dei
zambarlani.”
Sier
Batista annuì gravemente, seppur la bocca gli
s’arricciasse
in una piega compiaciuta assai poco raccomandabile. “Cao de
zambarlani? Certo, glielo
faremo credere”, fu la sua acuta puntualizzazione.
In
realtà, spiegò il Morexini ai suoi colleghi,
Hironimo Savorgnan
sì sarebbe divenuto il nuovo signore Savorgnan,
sì il nuovo principe-cliente di
Venezia ma capo del partito filo-veneziano in Friuli? Soltanto di
facciata e
non più autonomo com’era stato in passato con suo
cugino. I nobili friulani
avevano ripagato la fiducia della Serenissima col peggiore dei
tradimenti -
asseriva il consigliere ducale - mai più
avrebbe la Signoria abbassato la guardia né allentato la
presa su coloro che
sarebbero sopravvissuti alla sua vendetta.
“E
domino Antonio Savorgnan? Come vi pare si debba procedere nei
suoi confronti?”
Oramai
era chiaro che non ci sarebbe stato per il Conte alcun
mandato di cattura, né un processo pubblico né
alcuna offerta di
riappacificazione. Si discusse piuttosto sulla ricompensa da riservare
a
chiunque riuscisse ad uccidere il ribelle, giungendo alla ragionevole
cifra di
5.000 ducati e della revoca del bando o l’amnistia da ogni
condanna per
qualsiasi crimine commesso. In questo modo, giudicarono soddisfatti il
Doge, i
Dieci e il Minor Consiglio, nessun angolo della terra conosciuta
all’uomo sarebbe
stato sicuro per Antonio Savorgnan, in perpetua fuga e costretto a
guardarsi le
spalle fino alla fine dei suoi giorni, Deo volente assai presto. Il
contratto
d’assassinio sarebbe stato poi archiviato nella
“Secretissima”.
“Gli
strumieri ci libereranno di lui.”
“Quei
vigliacchi, ribelli traditori filo-imperiali? Dobbiamo
proprio trattare con loro?”
“Sì,
perché stavolta abbiamo un nemico in comune”,
ribatté conciso
il consigliere ducale alle giuste obiezioni degli altri senatori.
“Anche se adesso
Antonio Savorgnan parteggia per l’Imperatore, non
dimentichiamoci come egli in
passato abbia servito zelantemente la Signoria, portandolo a massacrare
per gli
interessi suoi e nostri intere famiglie di strumieri. Un fatto di
sangue che i
suoi conterranei non avranno di certo dimenticato assai facilmente.
Né perdonato.”
Alleandosi
cogli strumieri – illustrò pragmatico - sarebbero
riusciti a braccare Antonio Savorgnan in breve tempo e giustizia
compiuta senza
lordarsi direttamente le mani. Compito dei Dieci sarebbe stato di
scovare tra i
nobili friulani chi tra questi era stato particolarmente danneggiato
dai
saccheggi del “Crudel Zobia Grassa”, fomentato e
diretto dal Savorgnan stesso,
e di conseguenza disposto ad ogni compromesso pur di vendicarsi
dell’ex-capo
della fazione zambarlana.
Dategli
ciò che vogliono-
insistette sier Batista - dategli appunto sangue e
vendetta per i
massacri, gli stupri e saccheggi subiti dai zambarlani capeggiati
dall’antico
alleato della Repubblica. Che questi nobili si scannassero pure tra di
loro per
riacquistare l’onore perduto, cosicché nessuno
avrebbe potuto in seguito
affermare che la Signoria aveva in realtà architettato ogni
singolo dettaglio
di quell’esecuzione. E anche supponendo che quegli strumieri
avessero deciso di
denunciarla, esponendo al mondo la sua complicità,
hé, chi li avrebbe mai
creduti? In fin dei conti, non erano anch’essi dei traditori
filo-imperiali
esattamente come il Savorgnan? Nessuno si sarebbe stupito se la
Signoria avesse
deciso prontamente di sbugiardarli e di giustiziarli. L’ombra
della spada del
boia già accarezzava infatti il loro collo, gli strumieri
non avevano nulla né
da perdere né da rivelare. Ecco, forse potevano togliersi
l’ultima
soddisfazione di vendicare l’onore offeso delle loro donne.
“Ed
in nome dell’onore, rinunceranno alla loro libertà
e diverranno
nostri vassalli per sempre”, concluse solenne il Morexini il
suo
discorso. In nome dell’onore mostreranno
con orgoglio le nostre catene,
concluse a mente. Il consigliere tacque in
una significativa pausa
e, non ricevendo repliche, intrecciò le mani davanti a
sé, in attesa del
verdetto finale del Consiglio dei Dieci.
Missier
il Doxe Lunardo Loredan prese un profondo sospiro e,
alzandosi dal letto, sentenziò: “Vae Antonio
Savorgnano”, invitando,
se la soluzione li garbava, sier Hironimo Querini e
il resto del
Consiglio d’attivarsi onde procedere come suggerito, in via
straordinaria
ovviamente date le circostanze, da sier Battista Morexini, il quale si
scusò
timido e modesto, giustificandosi e sostenendo la sua riluttanza a
volersi far
consigliere dei Dieci. Soltanto, considerata la magra figura di due sue
membri
– videlicet sier Andrea Loredan e sier Piero Capelo
– e possedendo lui un poco
(molta) esperienza come ex-consigliere e segretario dello stesso organo
esecutivo, ecco, ci teneva a condividere le sue informazioni onde
sostenere i
suoi colleghi senatori in questo difficile momento, tutto per la
salvezza della
Signoria.
D’altronde,
già era stato strano coinvolgere il Doge in quella
discussione dove solitamente lui ascoltava e annuiva a decisioni
previamente
approvate e trascritte; una piccola e tuttavia condonabile eccezione
poiché in
guerra bisognava per sopravvivere dimostrare una certa
flessibilità.
“Secondo
voi”, fermò sier Hironimo Querini il “da
Lisbona”,
proprio mentre quest’ultimo stava per risalire sulla sua
gondola. “Maximiano vincerà
questa guerra?”
Al
consigliere ducale sorse una gran voglia di grattarsi i
coglioni, soltanto che in pubblico, malgrado l’ora tarda,
proprio non sarebbe
stato il caso. Già sua moglie lo chiamava vecchio satiro
libidinoso, meglio non
coinvolgere anche l’intera Piazza San Marco. “Non
vincerà”, condivise
spassionatamente la sua opinione. “Maximiano è
abile a conquistare terre, ma
che poi sia in grado di mantenerle, hé,
quest’è un altro paio di maniche
…” se
ne sarebbero accorti i friulani, una volta giunte le esose e
irragionevoli
tasse dell’Imperatore.
Magra
consolazione? Folle speranza? Chi lo sa.
Sier
Batista, finalmente nella sua felze, si levò la bereta e si
passò una mano sulla fronte, massaggiandosi poi gli occhi
stanchi quanto la sua
anima. Arrivare all’apice o quasi del potere a Venezia
significava sobbarcarsi
delle decisioni più spietate e impopolari, soffocando ogni
afflato di rimorso e
di pietà cristiana e in quegli anni di guerra, tali
occasioni divenivano sempre
più frequenti, tanto che in alcune occasioni, a Messa,
l’anziano patrizio per
poco giurava d’udire distintamente le maledizioni
scagliategli contro da tutti
coloro che, per la sopravvivenza della Serenissima, lui e i suoi
colleghi
avevano cinicamente disposto.
Presto
Antonio Savorgnan si sarebbe aggiunto a quel coro di voci
accusatrici. E anche i senatori sier Andrea Loredan e sier Piero Capelo.
“No,
vira da st’altra parte!”, gridò al pope
de casada,
indicandogli dove voleva recarsi. Non al suo palazzo, dove
l’attendeva la sua
buona ma petulante moglie. Il suo vero erede sia spirituale che terreno
Carlo,
per quanto solidale, aveva da badare alla sua bella e giovane Maria e a
Dio
piacendo una famiglia sua. Gli altri suoi figli Nicolò,
Ferigo e Hironimo? Mah,
che avrebbero capito dei suoi crucci, loro che disprezzavano quel mondo
che
neppure conoscevano, interessati più alle questioni celesti
che terrene?
Neanche Luzietta poteva consolarlo dalla solitudine e dalla malinconia,
pur
tenera e amorosa come sempre, tuttavia anch’ella sul viale
del tramonto. Ah,
l’esser vecchi e aver vissuto troppo a lungo!
Sarebbe
andato da Leonora, l’unico suo porto sicuro in gran
tempesta, l’unica a cui credesse quando lei gli sussurrava
teneramente
materna: Andrà tutto bene.
Una volta
giunto a Ca’ Miani, infatti, il servitore Baldissera non
si stupì di scorgerlo all’uscio della porta
d’acqua e lo scortò fino al piano
nobile, dove già la sua padrona, avvertita, lo attendeva.
Sier
Batista non proferì parola, si lasciò guidare
dalla sorellastra
accanto al caminetto e una volta seduta lei sullo sgabello e lui sul
cuscino,
le appoggiò il capo sul grembo come solevano fare da giovani
e nubili, quando
Leonora lo consolava per un rimprovero particolarmente severo o per una
delusione amorosa o semplicemente per sentire le sue invettive contro
l’eterno
rivale Anzolo Miani. All’epoca e adesso gli accarezzava il
capo, silente, in
attesa che il fratellastro incominciasse a sbottonarsi con lei,
aprendole il
suo cuore.
Pur
legato dalla segretezza del suo ufficio, tra lui e Leonora non
esistevano segreti. Le confessò ogni discorso, ogni
preoccupazione, quasi
cercasse da parte sua un’assoluzione, valutando il suo
giudizio migliore di
quello di un qualsiasi prete.
In
particolar modo, le rivelò quanto soffrisse per
l’infamia che
si stava per abbattere su sier Andrea Loredan e sier Piero Capelo. Il
voltafaccia del Savorgnan avrebbe trascinato nell’onta i suoi
sostenitori nel
Senato e chiunque fosse rimasto coinvolto nei recenti eventi della
politica
veneziana in Friuli, vittime innocenti di feroci rappresaglie politiche
e
nessuno, il “da Lisbona” se lo sentiva, avrebbe mai
pagato tanto quanto il
Loredan, ingiustamente poi: il giorno prima del tradimento di quel
pezzente,
gli oratori di Udine avevano persino chiesto, per via della sua
esperienza e reputazione,
di far nominare proprio sier Andrea luogotenente della guarnigione
locale,
nutrendo in lui la massima fiducia e stima. Da
alcuni senatori sier
Batista aveva poi appreso come sier Andrea avesse intenzione
l’indomani di
sborsare una notevole cifra di ducati, onde pagare di tasca propria le
truppe
stanziate a Padova acciocché potessero soccorrere Treviso.
Venezia
nelle punizioni si dimostrava cieca e implacabile, il
Morexini lo sapeva: il Loredan, Capelo e i loro
infelici compagni di
sventura sarebbe divenuto una pietra di scandalo, ostracizzati e la
loro
carriera congelata finché sarebbe piaciuto alla Signoria e
la sua collera
placata. Avevano sbagliato, certo, ma comunque spinti dalle migliori
intenzioni.
“Spero
che l’uccidano e anche presto”, mormorò
sier Batista,
nascondendo il volto stanco sul velluto della gonna nera di Leonora. La
mano di
lei si posò delicata sulla sua e soltanto allora egli
s’accorse di quanto
stesse tremando.
Perché
poi? Un tiro del genere da tempo l’aveva sospettato,
addirittura quasi profetizzato; ciononostante, per quanto ci si prepari
al
peggio, esso costantemente riusciva a sorprendere e a ferire.
Poco
importava, oramai. Questione di ore ed Udine si sarebbe
consegnata agli imperiali, indipendentemente da cosa sier Batista
avesse o non
avesse fatto per impedirlo.
Il futuro
si trasformava velocemente in presente e subito finiva
relegato nel passato; tendersi di nuovo al futuro, giocare
d’anticipo prima
ancora d’ipotizzarlo. Non c’era spazio per il
presente men che meno per il
passato.
Soltanto
il futuro, soltanto il futuro. Indefinibile, malleabile,
volubile. Un regno senza sovrano dove tutto era possibile, anche
vincere quella
stramaledetta guerra ribaltando clamorosamente i giochi.
***
Trascinando
il letto presso il muro e nello specifico sotto la
finestra, Hironimo si pose in piedi e scrutò il campo
sottostante l’Abbazia.
Stava giusto indugiando negli ultimi strascichi del sonno indotto dal
farmaco
di Fra’ Anselmo, quando cori alti e ben distinti eppure
intrecciati in strana
polifonia l’avevano destato completamente, attirando la sua
attenzione.
A quanto
pareva non si trattava dell’unico curioso: i monaci, quei
pochi pazienti che riuscivano a starsene in piedi e ovviamente
Thomà che non
stava mai fermo, tutti costoro avevano trovato il modo di guardare
quanto stava
accadendo e, a giudicare dalle facce disgustate di Fra’
Anselmo e perfino di
qualche soldato, non doveva trattarsi di un bello spettacolo.
Con lo
sguardo domandò al benedettino cosa si fosse perduto, nel
frattanto che questi l’aveva stordito tra tisane, decotti e
chissà quali altri
intrugli. Non che se ne lamentasse, avrebbe potuto andargli anche
peggio: la
sua emicrania aveva infatti raggiunto tali livelli d’agonia
che le vene del
giovane Miani s’erano ingrossate allo spasimo neanche
volessero scoppiare e il
ragazzo stesso stringeva i denti e dimenava convulsamente gli arti,
tirandogli
i muscoli tesissimi del corpo, al che Fra’ Anselmo aveva
deciso di sottoporlo
ad un salasso d’emergenza. Sennonché,
all’improvviso,una copiosa epistassi dal
naso aveva regolato la pressione nonché la circolazione
sanguigna, liberando in
parte Hironimo da quella dolorosa impressione d’indossare al
capo le tenaglie
d’una garrotta. Il monaco l’aveva allora costretto
a bere una strana bevanda
amarognola e il patrizio non aveva capito più niente,
crollando sfinito sul
letto.
“E’
da un bel po’ che continuano a far bisboccia”, gli
rivelò
invece un soldato, dal cui accento Hironimo intuì provenire
dalla Lombardia,
probabilmente al soldo di Sanseverino o Pallavicino.
“Che
vuoi dire?”
L’uomo
tossì forte, sconquassandosi il petto. Afferrò
rapido il
pitale, si raschiò la gola e vi sputò sopra un
grumo verde misto a sangue.
“Mentre tu ronfavi alla grossa, il capitano Mercurio Bua e i
suoi stradioti
hanno tagliato a pezzi quei villani là rintanatisi nelle
grotte, portando seco
quei pochi sopravvissuti, le bestie e le provviste ma soprattutto le
loro
donne. Questi lamenti che senti sono il loro canto funebre.”
Hironimo
tese l’orecchio, distinguendo tra i festanti schiamazzi
il lugubre pianto muliebre e un brivido freddo lo percorse dalla nuca
lungo
l’intera colonna vertebrale, ben intuendo il motivo dietro
quell’apparente
misericordia, dietro quel risparmiarle la vita contrariamente ai loro
uomini.
Era stato Mercurio Bua ad ordinarlo? Lo immaginava appartenere alla
peggior
razza d’avventurieri e approfittatori, ma permettere tali
… tali …
“Beh,
suppongo sia giusto così”, fece spallucce il
lombardo.
La testa
del patrizio scattò rapidissima nella sua direzione.
“Prego?”, sibilò astioso, avvertendo
l’ira vibrargli nel petto.
“Le
nostre donne sono state violentate dai francesi, mi par giusto
tocchi alle vostre, no?”
Un pugno
in faccia corrispose alla risposta del giovane Miani. E
poi un secondo per cavarsi lo sfizio di spaccargli il naso prima di
ciondolare
dalle vertigini e cadere per terra, tossendo a carponi e vomitando
anch’egli
catarro e pezzi della colazione. Uno sbuffante Fra’ Anselmo
lo trascinò via
dalla sua preda, mentre un confratello tratteneva il soldato smanioso
di
restituire il favore al patrizio.
“Daghetele
cum on legno!”, l’ammonì perentorio il
benedettino,
costringendo un ansimante Hironimo a calmarsi. “Non vorrai
mica che il Bua ti
dia per guarito e che ti rinchiuda di nuovo nella sua cella,
no?”, gli sussurrò
all’orecchio con la scusa di controllargli la temperatura,
ricordandogli
implicitamente il piano di fuga.
Hironimo
si conficcò le unghie nei palmi delle mani, traendo
sangue e battendo furioso e impotente i pugni sulle cosce. Era colpa
sua,
soltanto sua. Se soltanto non l’avessero tradito. Se soltanto
Castelnuovo
avesse retto l’assedio. Se soltanto avesse puntato una
colubrina dritta in
testa a Mercurio Bua, facendogliela saltare in mille pezzettini a guisa
di
melone. Per colpa sua li aveva tutti sulla coscienza. Era suo dovere
difendere
la via per Treviso, era … era …
“LA
MIA MAMA, A XE’ STA VERGOGNADA DI TODESCHI E LE MII SORELE
CO’
ELA. E TI TEA CIAMI JUSTITIA QUESTA?! TE SARASTU UN DIAOL, BECHO
D’UN LUMBARDO!”,
ruggì Thomà, afferrando un pitale pulito e
scagliandolo contro il soldato,
colpendolo alla spalla e sfracellandosi per terra tra lo sconcerto
generale.
“Co’ te sdormi, te degolaré!”,
gli promise minaccioso, mimando col cucchiaio di
legno uno sgozzamento.
“Aspetta
e spera, poppante”, lo derise il
lombardo,
ridacchiando incurante e a sua volta lanciando una caraffa contro il
fantolino,
prontamente intercettata da Hironimo, il quale gliela
rigettò indietro,
colpendo però il muro sopra di lui essendosi il soldato
agilmente abbassato.
“Quella
gran vacca di tua madre, quella sì che puppa forte,
tutti i cazzi di Francia!”, lo insultò battagliero
il giovane patrizio,
nascondendo il bambino dietro la sua schiena onde ripararlo da altre
balote di
fortuna. “Avvicinati a mio figlio e neanche
t’accorgi di morire!”
“Ripeti
un po’, troia veneziana? Vuoi ingoiare i denti, la lingua,
il cervello mentre crepi?”
“Avanti,
succhiacazzi buzaron, fatti sotto, ché t’impicco
con le
tue budella!”
“Qui
nessuno ammazza nessuno e fra poco aggiungerò sapone alla
vostra acqua, per nettarvi quelle vostre onte linguacce!”,
esplose infine Fra’
Anselmo, afferrando la scopa di saggina e percuotendo salomonicamente
le dure
cervici di ciascuno, secondo le buone creanze di un po’ per
uno per far male a
ciascuno. “E voi dovreste essere gli scudi e il sostegno
delle donne? Voi? Dei
collerici, immaturi, frignanti bambinetti? Povere figliole, quanto sono
cascate
male!”, strillò il benedettino, gettando via di
malagrazia la scopa e
ritornandosene furibondo alla sua postazione. Estraendo il suo rosario
e
agitandolo a mo' di frusta, puntò gli indici contro il
soldato lombardo e
Hironimo, ambedue a capo chino, includendo tuttavia anche il resto dei
pazienti
nella sua veemente filippica. “Le vostre stolte
recriminazioni mi nauseano! Le
vostre stupide rivalità pure! Invece d’insultarvi,
pensate a quanto stiano
patendo in questo esatto momento quelle disgraziate contadine e
vergognatevi!
Io pregherò per la loro salute e spero anche voi, se
v’è rimasto un briciolo di
coscienza in quelle vostre animacce nere!”
E mentre
Fra’ Anselmo impediva una zuffa da quartiere militare
nella sua infermeria e forniva ottimi spunti di riflessione non
soltanto ai
litiganti ma anche agli altri pazienti, nel campo sotto
l’Abbazia si respirava
aria di festa. Così aveva ordinato Mercurio Bua, in
apparenza a mo’ di premio
per la vittoria conseguita quel giorno, in realtà per tenere
a bada le truppe
cadaun giorno sempre più indisciplinate e irrequiete. Almeno
che dirottassero
altrove le loro energie, coloro che non stavano morendo né
di fame né di
malattia.
Stipata
in recinti improvvisati assieme alle sue sventurate
compagne, Lussìa s’accarezzava con una mano il
ventre rigonfio e con l’altra
stringeva convulsamente una ciocca miracolosamente strappata a Berto,
gli unici
ricordi terreni rimastele di lui.
Per
quanto si fosse sforzata di correre veloce, aveva indugiato
troppo a lungo ed era stata una delle prime a finire prigioniera:
fortunatamente il pesante zendale la ingoffava nascondendole la pancia,
altrimenti Dio solo sapeva come avrebbero reagito quei satanassi.
Ricondotta al
luogo dello scontro appena terminato, la giovane contadina aveva
approfittato
di un attimo di distrazione dei suoi carcerieri per staccare dei
capelli al
defunto compagno. Anche se ricoperto di sangue e la testa mezza
decollata,
l’avrebbe riconosciuto ovunque e sempre in maniera furtiva
s’era portata la sua
mano gelida e rattrappita sul pancione, quasi a chiedergli
un’ultima
benedizione per quel figlio che non avrebbe mai conosciuto.
Incessantemente,
neanche si fossero trasformate in vitelli da
macellare, quel dannato cancello s’apriva e si chiudeva e due
o tre soldati
entravano alla volta, issando di peso una piangente contadina,
trascinandola
via dal gruppo che inutilmente si stringeva a mo’ di difesa,
sperando di
rendersi invisibili o più pesanti del piombo. Quando
ritornavano,
singhiozzavano doppiamente, rannicchiandosi vergognose e doloranti
nell’angolo.
Lussìa
chiuse gli occhi, annusando la presenza del nuovo arrivato
e non oppose resistenza quando lui le afferrò il braccio,
ponendola in piedi di
malagrazia e così spintonandola in direzione della sua tenda.
Non
preoccuparti, bimbo mio, la mamma è qui. Ti
proteggerà a
qualsiasi costo.
Nessun’umiliazione
le sarebbe apparsa troppo disonorevole, se
significava offrire al piccino una possibilità di nascere.
Glielo doveva a
Berto: una vita per un’altra vita, un morto per un nascituro.
Continua
…
************************************************************************************************
Sia ben
chiaro che questo Alvise Gradenigo e il Gian Paolo nostro
non sono assolutamente parenti; sicuramente però il nostro
caro provveditore
avrà rosicato parecchio nell’esser associato (per
via d’omonimia) a chi
abbandona la propria artiglieria senza neppure manometterla
… sigh … Idem per
il doge Leonardo Loredan e Andrea Loredan.
Sulle
vicende del Friuli si potrebbe scrivere una storia a sé, ho
tentato di riassumere pur rimanendo quanto più possibile
esauriente, spargendo
di qua e di là degli indizi su quanto stesse accadendo, fino
alla sorpresina
(?) finale. Anche perché fu effettivamente una conquista
lampo – tutti i nobili
friulani s’arresero e i contadini mica avevano voglia di
farsi ammazzare – ai
todeschi: ti piace vincere facile!
Lo so che
i capitoli stanno divenendo sempre più lunghi: abbiate
pazienza, lo zenit della storia si sta avvicinando e purtroppo questi
giorni
furono assai frenetici! Superata la “crisi”,
ritorneremo a capitoli più umani,
promesso!
Spero che
questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!
Un
po’ di noticine:
[1] in breve, così anche da capire
il
discorso di Michele: Brisighella era stata, dopo vari tira e molla tra
la
casata e il Papa, sotto i Manfredi di Faenza, poi conquistata nel 1500
da
Dionigi Naldi per conto di Cesare Borgia e infine nel 1503 si diede
sempre su
impulso del Naldi a Venezia, quando ormai la cometa del Valentino era
passata.
Ritornò papalina dopo la rotta di Agnadello nel maggio del
1509.
[2] Gendarmi =
nel XVI secolo
s’intende il corpo specializzato di cavalleria pesante, come
i Corazzieri per
l’esercito imperiale.
[3] San Valentino (sì,
proprio
lui, quello del 14 febbraio) era invocato come protettore degli
epilettici,
avendo curato il figlio Cratone che soffriva appunto
d’epilessia.
[4] Giuliana di Collato =
nata
nel 1186 a Collalto e appartenente all’omonima famiglia,
morì a Venezia nel
1262. Per un certo periodo visse assieme alla Beata Beatrice I d'Este
nel
monastero benedettino di Santa Margherita sui Colli Euganei,
dopodiché si
trasferì alla Giudecca a Venezia, dove fondò la
chiesa e il
monastero dei Santi Biagio e Cataldo, apparsole il primo in sogno.
Beatificata
da Benedetto XIV nel 1743, il suo corpo riposa adesso a Sant'Eufemia a
Venezia,
in quanto il monastero e la chiesa vennero demoliti nel 1822 da
Giovanni Stucky
per costruire il mulino Stucky, oggidì un lussuoso hotel.