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Autore: Hoel    08/01/2021    4 recensioni
Nell’agosto del 1511, gli esploratori veneziani intercettano una lettera scritta dal governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours e indirizzata al maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, in cui l’informa di come il Re di Francia Louis XII stia inviando rinforzi per aiutare l’Imperatore Maximilian I. von Habsburg nella sua “impresa di Treviso”, ovvero la conquista dell’ultimo ostinato baluardo veneto che separa la Lega di Cambrai dalla laguna di Venezia. Da ben due anni Treviso resiste irriducibile, così come la Serenissima, ripresasi in fretta dallo shock di Agnadello, ha ben dimostrato il suo fermo proposito di non lasciarsi cancellare tanto facilmente dalle pagine della Storia, rivelandosi un avversario più tenace di quanto prefiguratosi dai Collegati.
Su questo sfondo dell’assedio di Treviso si snoderanno le vicende di un giovane e misconosciuto patrizio veneziano, destinato però a diventare più grande di re e imperatori, di valenti condottieri e del Papa stesso.
[Vietati la riproduzione e il plagio; questa storia è tutelata]
Genere: Guerra, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Rinascimento
Capitoli:
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Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il 15.10.2021

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Capitolo Ventiduesimo 

18-19 settembre 1511

 

 

 

 

Michele da Brisighella s’appiattì per terra, sfruttando il fitto reticolo di felci e cespugli nonché il dislivello del terreno, che creava conche perfette da cui osservare la strada maestra sottostante. Con la coda dell’occhio controllò le postazioni dei suoi compagni esploratori e degli stradioti veneziani, anch’essi camuffatisi nella fitta vegetazione di roveri e farnie, in attesa che l’eco lontano di voci e di ruote di carri si materializzasse dinanzi a loro.

“I tuoi compaesani affermavano il vero”, sussurrò a Cabriel, steso sul fianco accanto a lui. “Ecco da dove si fanno arrivare i viveri: non più da ovest, bensì da est, al di là della Piave!”

Il giovane soldato terminò di caricare la balestra a leva. “Noi siamo sempre sinceri coi nostri alleati, siete voi i malfidati opportunisti e bugiardi”, replicò secco.

Contrariamente all’altra squadra rientrata a Treviso a seguito dell’assalto al campo nemico, la sua era rimasta al Montello onde controllare gli spostamenti dei franco-imperiali e continuare nelle azioni di disturbo. Cabriel, memore delle indicazioni di Malgari e di suo padre Nane, aveva proposto di mettersi in contatto coi contadini rintanati nelle grotte, così da poter meglio coordinare l’assalto ai rifornimenti e muoversi agilmente nell’intricato bosco. Infatti, giravano voci che, pur rimanendo sprovvisti in gran parte, comunque delle vittuarie stavano lentamente giungendo all’accampamento e ciò aveva agitato non poco i loro capitani, che scalpitavano d’apprendere maggiori dettagli a riguardo. Quella mattina, poi, alcuni dei villani erano spariti, così come le provviste e i marciani invero brancolavano nel buio, scombussolati da tal novità.

“Ho combattuto molte guerre e assistito a troppi tradimenti per fidarmi di chicchessia”, si giustificò altero Michele, pur arrossendogli le orecchie quanto la sua casacca e il palvese dietro alla schiena, metà rossi e metà bianchi. “Scusami se voglio riportare la mia pellaccia da mia moglie!”

“Non è mai stata per te una faccenda personale, la guerra?”

“E’ il mio mestiere. Ho servito sotto i Manfredi, poi per il signor capitano Dionigi Naldi [1] e quest’anno mi ritrovo col signor capitano Vitello Vitelli. Finché mi pagano e mia moglie e i miei figli mangiano, a me basta.”

“Il tuo mestiere … bah, non il mio”, replicò cupo Cabriel, appoggiando la balestra e calibrando la mira. “Non sono mai stato balestriere. Qua io non ci ho guadagnato niente, tranne quella ragazza che ho aiutato a scappare e che ora mi aspetta. Ero ceramista, sai? Creavo oggetti utili e belli per la gioia dei miei concittadini e dei mercanti, non ero artista di morte. Ma i Collegati hanno distrutto la mia città, massacrandomi uno alla volta tutti i miei familiari. A Castelnuovo ho perso i miei ultimi fratelli … Non ho voluto io questa guerra, ci sono stato trascinato dentro e pertanto, finché avrò vita, darò tutto me stesso per aiutare la Signoria a vincerla, per punire questi scellerati assassini.”

Un sorriso amaro si dipinse sul volto del brisighellese. “Ecco perché voi sopravvivrete a questa tempesta, mentre noialtri siamo crollati”, commentò, sistemando la sua balestra e lo scudo. “Silenzio! Ecco qua i nostri galli.

Era indubbio che si trattassero di carri di rifornimenti, tuttavia ciò che sorprese i due soldati furono alcuni aspetti a loro completamente nuovi: primo, non s’attendevano un sì gran numero di mezzi, impossibile che provenissero ciascuno dai villaggi immediatamente dopo la Piave. Secondo, soldati armati, addirittura Michele ne riconobbe qualcuno della scorta personale di La Palice e i lancieri dovevano invece appartenere alla compagnia di Giulio Sanseverino. Non saccomanni o stradioti, vera e propria cavalleria da sfondamento. Avevano mangiato la foglia e s’erano preparati di conseguenza.

Eh, merda.

“Che facciamo? Li lasciamo andare?”

“Manco per sogno”, scosse il capo Michele, dando il segnale ai suoi compari e agli stradioti nascosti dall’altra parte del sentiero. “Voglio proprio scoprire da dove si riforniscono ‘sti stronzi!”

Il sibilo di una freccia fendette l’aria, interrompendo il ritmico cigolio delle ruote e dello scalpitio dei cavalli. Il sordo gemito del cavaliere colpito alla gola e il tonfo del suo corpo caduto da cavallo scatenarono l’immediata e rumorosa reazione nei francesi, i quali si raggrupparono d’istinto attorno ai preziosissimi carri, berciando ordini di caricare le loro balestre e tenere spade e zagaglie pronte all’assalto.

Una seconda freccia saettò dal buio del bosco, colpendo un soldato più lontano dal primo ucciso. Una terza la seguì, in apparenza a caso, impedendo ai francesi di capire esattamente dove si nascondesse il balestriere e in quanti fossero.

All’improvviso gli stradioti veneziani li caricarono sullo stesso lato, evitando però di avvicinarsi troppo ai carri e limitandosi a cozzare le loro zagaglie contro le picche nemiche, scansandosi rapidissimi così da non fornire un bersaglio fisso ai balestrieri nemici e tenendo i lancieri e i gendarmi [2] focalizzati su di loro. Ché infatti, senza rendersene conto, i francesi avevano dato gradualmente le spalle a Michele e alla sua compagnia: in quell’istante, al segnale del brisighellese presero a piovere frecce dal loro lato sicché i nemici, cadendo come anatre in volo, si voltarono di scatto dall’altra parte  e di ciò ne approfittarono subito gli stradioti, stavolta ingaggiando serrata battaglia e nulla poté più di tanto la cavalleria pesante, costretta a muoversi in spazi sempre più ristretti ed insidiata dai cavalleggeri e i fanti a piedi. Assediati da ambedue i lati, i cisalpini si strinsero l’uno all’altro nella speranza di resistere alla spinta veneziana, ma la pressione fu troppa e non li rimase altra soluzione se non arrendersi.

Mentre i loro colleghi tenevano i prigionieri allineati e sotto tiro, alcuni soldati marciani balzarono agili sui carri, scoprendo i contenuti dei barili e casse e fischiando in apprezzamento: vino, farina, biave, carne essiccata, perfino qualche munizione. Gli stradioti invece si disputavano i cavalli dei francesi, contrattandoli animatamente tra insulti, innocue minacce e gioviali pacche sulla schiena.

“Questa roba non può venire unicamente dalla Marca”, borbottò Cabriel, osservando pensoso il bendiddio ai suoi piedi. “Quasi tutto o se lo sono portati via i contadini o è finito a Treviso oppure è stato distrutto. A meno che …!” e il viso gli si colorì dalla collera, immaginando il modo mediante il quale i francesi s’erano procurati i rifornimenti.

“Le munizioni vengono dalla Patria”, commentò un altro balestriere. “Riconosco il marchio sui barili.”

Michele si morse l’unghia del pollice, i suoi peggiori timori confermati. “L’invasione della Patria del Friuli sta dando i suoi frutti e per di più hanno scoperto dove i contadini nascondono i loro viveri!” e una frustrata imprecazione gli gorgogliò in bocca. “Non abbiamo spazio sufficiente nelle stinche né vogliamo sprecar cibo per sfamare ‘sti pezzenti”, si rivolse perentorio ai suoi sottoposti, intanto che prendeva posto alla guida di uno dei carri, raccogliendo le redini degli agitati cavalli. “Denudate questi cani di ogni loro bene, che ritornino dal La Palissa in mutande! Sono certo che si sapranno benissimo difendere dai contadini ch’hanno appena derubato!”, aggiunse pieno di perverso gusto, abbandonandoli alla giustizia dei villani gabbati. Oh beh, a Michele del loro codice militaresco e d’onore non gliene fregava un granché, così come della sorte di quei bastardi e arroganti invasori. Il discorso di Cabriel gli aveva risvegliato in petto una rabbia antica, sentendosi dopo anni di cinico e disilluso servizio quasi patriottico.

“Questo qua lo conosco!”, esclamò di punto in bianco Teodoro Madalo, della compagnia di Manoli Clada.

“Chi?”, fece confuso Michele.

Lo stradiota gli indicò un francese seminudo e seminascosti tra i suoi compagni. “Quand’ero prigioniero a Montebelluna, l’ho visto andarsene a zonzo assieme al cuoco de La Palissa. Da come parlottavano fitto-fitto tra di loro, dovevano essere amici assai intimi. Può darsi che sappia qualcosa sulla provenienza di questa miracolosa carovana. Si sa, i cuochi son tutti dei gran pettegoli.”

Il brisighellese si ritrovò d’accordissimo e Cabriel scese dal carro con una corda, staccando l’interdetto e spaventato francese dal gruppo e, legatolo, lo issò di peso tra i barili di vino.

Il resto dei prigionieri, ora liberati, veniva invece pungolato dalle picche a camminare scalzi e in camicia lungo il sentiero, in direzione opposta alla loro.

“Porgete i nostri saluti al generalissimo!”, gridò loro Michele, strafottente. “Ditegli che non si crucci se stasera non cenerà. Ditegli che avete già mangiato abbastanza sulle spalle dell’Italia e che un po’ di digiuno non v’ammazzerà di certo!”

 

***

 

Fra’ Anselmo chiuse gli occhi al soldato e incrociò le sue braccia al petto. Due oblati, solleciti e intuitivi, sollevarono il lenzuolo su cui giaceva e lo sollevarono di peso in modo da trasportarlo al camposanto improvvisato ai piedi dell’Abbazia. Il padre confessore, dal canto suo, terminò le sue preghiere e benedisse il cadavere, il volto ancora verde da quel poco che aveva udito della sua ultima confessione. Il benedettino indovinava quanto fosse costato, sul piano personale, al confratello elargire l’assoluzione al soldato: non aveva osato origliare, tuttavia alla fine della fiera i racconti di quei moribondi s’assomigliavano più o meno tutti quanti, macabri resoconti di ogni abiezione umana immaginabile. Più conosceva gli uomini, più provava rispetto per gli animali, anche per quei lunghi serpenti arrampicatori e strangolatori che popolavano il Montello.

Il monaco appoggiò solidale la mano sulla spalla del confessore, confortandolo che ormai il loro dovere era compiuto, quell’anima adesso si trovava nel tribunale di San Pietro e di San Michele Arcangelo, i quali avrebbero certamente saputo valutarla meglio di loro. L’altro benedettino scrollò le spalle, preferendo osservate il novizio che, dopo aver gettato della calce, preparava il letto con lenzuola pulite per il suo prossimo sfortunato inquilino.

Siccome la febbre non mieteva abbastanza vittime tra i francesi, l’assalto notturno aveva riempito l’infermeria fino a costringere i monaci a stendere per terra i feriti su tavole di legno improvvisate a letti. Almeno, le loro erano state morti o guarigioni piuttosto veloci, non una lenta e incerta agonia.

Via, a che pro lamentarsi? Al lavoro, si spronò il benedettino, scostando la tenda che lo separava dal prossimo ammalato, onde controllare eventuali segni o di miglioramento o di ricaduta ed aiutare il suo paziente a mangiare la magra colazione.

Peccato, che detto pasto fosse in procinto d’esser svuotato da un Thomà colto in flagrante degustazione.

“Sarai pure un Attila!”, lo rimproverò aspramente Fra’ Anselmo, ghermendo il bambino per un orecchio, sebbene tale trattamento non sortì l’effetto di persuaderlo a mollare la presa dal piatto. E pensare che il benedettino, pur di curare l’ammalato, si privava del già poco cibo rimasto!

“Attilio te sarà ti, vecio bacuco, mi me ciamo Thomà!”, ribatté stizzito il fantolino, ficcandosi impunito in bocca quanto più pane e formaggio riuscisse, dimostrando una flessuosità d’esofago paragonabile a quella di un serpente.

“Rubi il cibo agli ammalati? Sei proprio senza Dio e Madonne, eh?”

“Xéi franzosi mica christiani, no xé pecà!”

“Cossa? Ma io ti …!” e a quale punizione l’indignato religioso volesse sottoporre Thomà – neanche a lui garbavano i francesi, però levare il pane di bocca agli ammalati era una scortesia davvero poco cristiana – il piccino non ebbe modo di scoprirlo, ché l’imponente figura di Mercurio Bua irrompeva in infermeria, cercando convulsamente un letto vuoto e al contempo un monaco disponibile ad assisterlo.

Abbandonando la sua presa all’orecchio, Fra’ Anselmo si diresse verso il condottiero, indicandogli di seguirlo al letto appena sgomberato. Si morse l’interno della guancia alla vista del patrizio veneziano pallido come un morto, tremante convulsamente e le labbra secche, gli angoli lordi dei residui giallastri di vomito.

Senza proferire parola il monaco s’attivò subito in una celere diagnosi, aprendogli le palpebre, controllandogli attento dentro la bocca, ai lati del collo, sulla gola, le ascelle e l’inguine. Storcendo il naso, gli levò la camicia sporca di dosso, lasciandola cadere per terra e ripromettendosi di bruciarla alla prima occasione. Passò lievemente la mano sulle gambe e sul petto ricoperti di graffi e tagli, di ecchimosi ora rosse, ora gialle ora viola; scorse in particolare il dito sulla ferita crostosa al fianco, arrossata. 

“L’ho … l’ho tro-trovato così … pensavo … pensavo stesse ancora dormendo, poi è … è caduto dal letto e …  e …”, tartagliava nel frattempo Mercurio, cambiando esagitato peso da una gamba all’altra e sarebbe stato interessante sapere quale delle due prospettive lo terrorizzasse di più, se perdere il suo prezioso ostaggio o la possibilità di crepare di peste tramite lui.

Siccome Fra’ Anselmo non apparteneva alla categoria degli infami, su quel punto ci tenne a rassicurarlo: “Non è il morbo, credo una brutta febbre e forse un raffreddamento di stomaco … Ha avuto il flusso?”

Il Bua lo fissò stralunato e un poco offeso: per chi lo prendeva, per una balia che controllava l’attività defecatoria del suo puttino? Brevemente, gli spiegò invece la faccenda: il giorno dopo l’assalto all’Abbazia il suo prigioniero se n’era stato tranquillo nella sua cella – il greco-albanese gli aveva lasciato perfino l’usufrutto del suo letto, acciocché si riprendesse dalla caduta. Gli aveva anche parlato la sera prima, dannazione! Invece, ritornando quella mattina dall’ennesimo incontro con La Palice e gli altri comandanti, Mercurio aveva ritrovato Hironimo riverso per terra circondato da una pozza di vomito e tremante neanche avesse – San Valentino gliela scampasse! – l’epilessia [3].

Il monaco gli scoccò di rimando uno sguardo pieno di commiserazione. “La febbre è molto alta”, sentenziò infine, sollevando il dorso dalla pelle d’Hironimo. Immerse una pezza nella bacinella d’acqua e gli tamponò la fronte, in particolare l’escrescenza e il taglio su di essa. Il giovane aprì per un istante gli occhi, girandoli confusamente alla ricerca di chissà cosa e Fra’ Anselmo vi lesse una bruciante delusione, sicché il patrizio li richiuse subito, affondando sfinito sul semplice cuscino. “Finché non scende trovo consigliabile che rimanga qui, sott’osservazione.”

“Non se ne parla nemmeno!”, ringhiò il greco-albanese, riacquistando la sua tracotanza. “Tu lo guarisci ora, in questo istante!”

Adesso Fra’ Anselmo aveva perso invero la pazienza e che San Benedetto suo padre fondatore lo aiutasse. “Ma per chi accidenti mi hai preso, sentiamo?! Per Missier Domeneddio?! Ché compio miracoli io ora?! Se il ragazzo si trova in questo stato pietoso, condanna la tua stupidità: quand’è stata l’ultima volta che gli hai dato un abito caldo, da mangiare adeguatamente, che non l’hai menato alla stregua d’un cane rabbioso, che non l’hai esposto a questa pestilenza?!”, ruggì, al punto che le teste degli ammalati sui lettini accanto a lui si girarono e qualche confratello arcuò il sopracciglio tra il sorpreso e il biasimante. “Hai mai visto uno che getta in una lercia stalla un povero cristo con le piaghe ancora aperte? Anni a combattere e ancora non conosci il concetto d’infezione?! E ti sorprendi che ora stia facendo gli equilibrismi con la morte?!”

Il condottiero aprì e chiuse la bocca a guisa di pesce, impappinandosi dopo tanto tempo in vita sua, non più avvezzo a sentirsi oggetto di paternali così severe e umilianti: “Io … io non mi fido di … Hai visto cos’è successo, no? E se la sua gente venisse a riprenderselo?”

Il benedettino grugnì sardonico, sferzando via da sé un’invisibile molestia. “Ti risparmierebbero di sicuro il fastidio di seppellire un cadavere!” e detto questo si concentrò sul suo paziente, sennonché si ritrovò improvvisamente agguantato per lo scapolare.  

“Lui non muore, intesi?”, gli lavò quasi la faccia Mercurio, il viso deformato in un’espressione spaventosa. “Non m’importa cosa t’inventi, cosa gli fai ingurgitare per resuscitarlo, ma perdiana lo devi guarire e questo nella mia cella, non qui, dove entrano cani e porci!”

Affatto intimorito dai suoi modi violenti, Fra’ Anselmo si staccò sdegnato da lui. “A te la scelta, capitano: o ritrovarsi un ammalato in infermeria o un cadavere in camera tua!” Era stufo delle continue prevaricazioni, delle morti crudeli e assurde, delle immeritate sofferenze, della follia di quei bambocci arroganti, buoni soltanto ad infilzarsi in inutili mattanze e per questo convinti di trovarsi all’apice della sapienza, soffrendo invece di palesi deliri di blasfema onnipotenza!

“Tu osi comandarmi? Di costringermi a scegliere? Vecchio, ora a te chiedo chi ti credi di essere!”

“Se il ragazzo muore, peserà sulla tua coscienza perché hai avuto la possibilità di salvarlo, ma per il tuo egoismo ti sei rifiutato. E ricordati, figliolo, che il male viene sempre ripagato da altro male”, gli puntò contro il dito. “Ché la vendetta divina, Mercurio Bua Spata, trova sempre il modo di colpirti dove più soffri!”

E dovette esserci stato un qualcosa di profetico negli occhi del monaco, ché il greco-albanese impallidì fino al giallognolo, il labbro inferiore tremante. Fu un attimo, però: strabuzzando gli occhi e scotendo il capo, l’uomo s’impose di calmarsi e di assumere un atteggiamento imperturbabile.

“D’accordo”, deglutì, espirando pesantemente l’aria, i pugni serrati convulsamente e l’intero suo corpo teso di furiosa energia a malapena repressa. “Per stavolta hai vinto, vecchio … Tanto, il nostro messere conosce quale punizione l’aspetta, in caso s’azzardasse a fuggire …”, gli rivelò con perfido gusto, indicando Thomà che trasalì impaurito, avendo giudicato sicuro origliare dietro la sottile tenda che separava i letti degli ammalati.  Rise malevolo e fu il turno di Fra’ Anselmo di percepire del sudore freddo colargli lungo la schiena, afferrando al volo la minacciosa promessa del comandante.

“Hai finito?”, lo sfidò ugualmente, intrecciando le mani dietro lo scapolare, onde nascondere quanto in realtà tremassero.

“Ho finito.”

“Allora levati dai piedi, qui non mi servi”, gli fece cenno col capo Fra’ Anselmo, indicandogli la porta.

Un guizzo assassino attraversò gli occhi di Mercurio e le sue dita inconsciamente avevano accarezzato l’elsa del pugnale. Ciononostante si dominò, sparendo quel lampo tanto velocemente quant’era comparso. “Restate servito, padre”, sibilò velenoso, abbozzando ad un beffardo inchino e uscendo con la medesima veemenza con la quale era entrato.

Il benedettino cacciò fuori un sconquassante singulto, sentendosi finalmente libero di respirare e un poco traballante sui piedi si sedette sul bordo del letto, la mano appoggiata al cuore. Mio Dio, soccorso! Non posso più, non posso più sopportare questa violenza, questa profanazione della Tua casa! È questa la prova che ci vuoi dare? Per testare la nostra saldezza?, pregò frustrato, congiungendo e stringendo i pugni e portatali alla fronte, si batteva con essi. Cosa fare? Cosa fare? L’Abate oramai obbediva al maresciallo francese e se non a lui, alle direttive dei Conti di Collalto. Poco gli importava, evidentemente, dei danni fisici e morali, pur di scampare a questa tempesta.

Un lieve ma costante singhiozzare lo distrasse dai suoi intimi crucci e recriminazioni contro la guida dell’Abate. Girandosi in sua direzione, vide Thomà abbracciare in una sorta di bizzarra Pietà il suo padrone, inumidendogli il volto di pingui lacrime.

“Lo gh’ho assassinà!”, pianse disperato, stringendolo forte e al contempo scuotendo il patrizio per destarlo. “Mi gh’ho uto ea frebe ante d’elo e depo’ gheo dà qualcossa de stranio da manzar e bevar! El mio patron va morir par colpa mia!”

Sorridendogli incoraggiante, Fra’ Anselmo gli scorse una mano tra la zazzera bionda. “Avi fe’, fio mio. Il tuo padrone ha la pelle più dura del marmo, non l’uccidi così facilmente. Dico bene, sior castelan?”

Thomà sobbalzò sorpreso e confuso, specie quando la mano d’Hironimo sostituì quella del monaco nella sua carezza consolatoria al capo del fantolino. “Patron!”, esclamò giubilante, ridendo e piangendo  e ricoprendolo di moccolosi baci manco si fosse trasformato in Santa Marta col redivivo Lazzaro.

Sottraendosi da quelle effusioni d’affetto e invitando il bambino a calmarsi onde non attirare sguardi ed orecchie indiscrete, Hironimo si puntellò a fatica sui gomiti, mirando i febbricitanti occhi nerissimi contro il monaco. “Come hai capito che fingevo?”, lo inquisì perentorio e un pelino curioso.

Fra’ Anselmo arricciò sardonico la bocca. “Caro ti, ero medico prima di rinunciare al mondo e anche qui, nella Badia, continuo a curare i malati. Certo, ammetto che sei stato proprio bravo a recitare la parte del moribondo – Veniexia in fin dei conti è la patria del Carlevar – ma un medico della mia sorte ed esperienza non si lascia certo corbellare da un puto nato ieri, siornò!”

 “An!”, puntualizzò in rimprovero patrizio. “Peccato di superbia, sior pare, non va bene!” e i due ridacchiarono conniventi, tranne Thomà che li fissava confuso, tentando di collegare gli eventi e capire quanto stesse accadendo. Nel dubbio si strinse di più accanto al giovane: lui non era più in pericolo di vita e questo gli bastava. “Confiteor”, riprese il Miani, ritornando serio, “che mi gero stuffo di la mala compagnia dil Bua e gh’ho volesto ‘ndarmene da la soa zella.”

Un vecchio espediente ben collaudato ai tempi della prima adolescenza, onde marinare la scuola: approfittando delle lunghe ore di solitudine, Hironimo aveva cautamente inzuppato il petto e il trapezio d’acqua, così come le tempie, in modo da far credere al condottiero d’aver sudato peggio d’una fontana. Dopodiché, s’era cacciato in bocca un dito e aveva punzecchiato e irritato l’esofago finché lo stimolo non era giunto al cardias, che aveva rilasciato tra acidi spasimi quel poco di cibo rimastogli nello stomaco. Infine, riconoscendo l’oramai inconfondibile passo del Bua, il veneziano s’era gettato a terra e aveva incominciato la sua accurata recita e bisognava dire che quell’altro c’era cascato sublimemente, portandolo là dove voleva finire, ossia in infermeria, lontano dalla sua sorveglianza e dunque con più possibilità di fuga.

“Non sopporto più questa situazione”, concluse il suo racconto il giovane Miani, serrando possessivamente il braccio attorno alla vita di Thomà. “M’è ormai chiaro come, per motivi che non conosco, il Bua non avanzerà alcuna richiesta di riscatto. Donca, non ho alcun’intenzione d’attendere né i porci comodi di quel satanasso né che si stufi di me e m’ammazzi perché annoiato. L’anticiperò fuggendo via.”

 “Come?”

Hironimo strabuzzò gli occhi, sorpreso da quell’ovvia domanda. “Col tuo aiuto, che altro? Tu conosci molto bene la Badia, così come sono sicuro che tu conosca come si entri e come si esca da qui inosservati, per i sentieri del bosco circostante.”

“Supponiamo che sia così …”, mormorò cauto Fra’ Anselmo. “Perché dovrei indicarti la via?”

Il patrizio veneziano reclinò vezzoso il capo, il viso una maschera di complicità e malizia. “Perché anca ti te xé stracho de ser prexom di sti barbari e de dar obediença ad on Abba’ che nol te proteze ”, gli lesse nei pensieri, verità inoppugnabile cui il benedettino non poteva se non acquiescere. “Sin dal primo giorno, ti ho letto la ribellione negli occhi”, aggiunse, mantenendo lo sguardo ben ancorato a quello dell’altro.

Fra’ Anselmo s’inumidì le labbra, voltando il capo in ogni direzione sia per controllare che nessuno stesse origliando sia per valutare se ne valesse la pena, rischiare così tanto. In fin dei conti, lui personalmente si trovava in una posizione abbastanza privilegiata – gli ammalati andavano sempre curati e di lui si necessitava. Forse s’era lamentato troppo, alcuni suoi confratelli subivano angherie peggiori, sebbene nulla paragonato alla popolazione civile. Insomma, si trovava comunque in un luogo sicuro, perché compromettersi … Però, eh sì, però. Lui aveva rinunciato al mondo, non alla sua dignità.

“Puoi contare sul mio aiuto”, sussurrò il benedettino e il giovane Miani riprese a fiatare, sciogliendo il lenzuolo stretto forte nel pugno. “Soltanto però quando sarai guarito, è la mia unica condizione. Il vomito, gli spasimi … quelli li puoi anche fingere e procurateli, ma la febbre alta, caro, ti, quella purtroppo per te è vera!”, gli confidò pragmatico, appuntandosi di preparargli entro l’ora di pranzo un infuso di tiglio e genziana per abbassargli la temperatura.

In effetti, Hironimo dovette riconoscere che si sentiva ribollire dall’interno, i muscoli doloranti e la visione ogni tanto che si deformava, provocandogli piccoli capogiri e brividi involontari. Tossì forte, riverberandogli l’eco nella cassa toracica e per qualche istante credette di non riuscire a respirare. Thomà, dolcemente, gli batté apprensivo sul coppino, porgendogli un bicchiere d’acqua. I suoi occhi rilucevano limpidi e le gote pur smunte avevano riacquistato colore, segno che il corpo del piccino aveva vinto la sua personale battaglia contro la malattia.

Ciò riempì Hironimo di una sconosciuta gioia, nel vederlo scampato dal pericolo.

M’ha affidato la sua vita e ripone in me la massima fiducia, si ripeté il giovane patrizio, massaggiandosi la tempia destra, le cui vene gli tambureggiavano ritmicamente, peggio che in galea, scendendo il rigido e punzecchiante fastidio lungo il collo, alle cervicali, le quali gli tiravano e pulsavano inclementi tanto che perfino ai denti gli parve assaporare l’emicrania. Non posso ammalarmi proprio ora, non posso permettermi alcuna debolezza!

Non voglio morire così stupidamente, in un letto d’infermeria, senza aver concluso almeno un’azione degna di merito! e un oscuro brivido lo percorse da capo a piedi, realizzando come, dal giorno della sua cattura, i pensieri di morte si facessero sempre più frequenti e tragici, non in circostanze eroiche e onorevoli bensì squallide e anonime, in perfetto contrappasso dal modo in cui aveva fino a quel momento vissuto.

Vissuto … quale vita aveva vissuto?                                    

Hironimo strinse gli occhi, corrugando la fronte al pizzicore dell’emicrania. Basta piangersi addosso, basta desiderare l’impossibile. Il passato stava lì, immoto ed eterno, bisognava focalizzarsi sul concreto presente e l’incerto futuro. Convenne che qualche giorno di riposo gli avrebbe giovato, per riprendere le forze ché invero la loro sarebbe stata una corsa al limite della fibra umana, se volevano passare il confine sicuro delle linee veneziane. Un passo alla volta, senza rovinare tutto a causa della fretta.

Il giovane Miani concluse che del Gambara non si poteva troppo fidare: gente come lui si comportava tanto cortese e disponibile, finché non cambiava il vento e abbandonava il cosiddetto “amico” al proprio destino, che s’arrangiasse da solo. Evidentemente il bresciano aveva fiutato aria di ribaltamenti del gioco, dell’alternanza di favore di quella grande capricciosa della dea Fortuna, che da puttana dei Collegati poteva divenire quella della Serenissima.

In caso però non dovesse accadere, ecco che il conte nuovamente avrebbe confermato la sua alleanza alla Lega, lasciando Hironimo col culo per terra. Nossignore, il veneziano si risolse di sfruttare la gentilezza del Gambara finché a lui sarebbe convenuto, evitando però d’affidargli ogni sua speranza. Il monaco, al contrario, possedeva i requisiti fondamentali per i suoi scopi: non un combattente, non un uomo in prima fila ad affrontare i problemi della vita; ciononostante abbastanza dignitoso da non subire all’infinito e non troppo idealista d’anelare ad uno sciocco martirio, propendendo più ad una pratica sopravvivenza. Scuotere la polvere dai propri calzari! Invero! Prima o poi sarebbe scappato via ed Hironimo gli aveva elargito soltanto la spintarella necessaria per decidersi definitivamente. Adesso doveva pensare a guarire e anche in fretta, pianificando alla perfezione ogni passaggio della fuga.

D’altronde, la posta in gioco per lui era altissima: neppure per un istante aveva dubitato della serietà del Bua, quando gli aveva minacciato di uccidere Thomà avesse lui deciso di fuggire e anche su quel punto, Hironimo stava meditando alacremente su come anticiparlo, assicurandosi perlomeno la salvezza del bambino, poiché, in caso di fallimento, se doveva proprio morire l’avrebbe fatto con la soddisfazione di ridere in faccia a Mercurio Bua.

 

***

 

Il Castello di San Salvatore dei Conti di Collalto era situato in posizione strategica a controllo dei guadi della Piave, espandendosi sinuoso lungo l’intera collina e sovrastando i campi e le vigne sottostanti. Tra la rocca, la corte e il borgo abitato da contadini e artigiani, esso era uno dei complessi fortificati più estesi in Italia.

L’antichissimo casato dominava stabilmente su quelle terre dai tempi di Grimoaldo re dei Longobardi, navigando con accorta maestria attraverso le acque tempestose dei tempi, sempre riuscendo a conservare i loro feudi e i privilegi essenziali, malgrado i frequenti cambi di governo nella Marca Trevigiana durante i burrascosi secoli, dal libero Comune alle signorie degli Ezzelini, dei Caminesi e Carraresi; dal dominio del Ducato d’Austria a quello della Serenissima. Gli approvati e confermati “Statuta Collalti” li avevano garantito l’antico diritto di governare la contea secondo le proprie leggi, tuttavia al costo della pubblica e perpetua rinuncia da parte di Vinciguerra I di Collalto nel 1471 al titolo di “Conte di Treviso” su sollecita richiesta della Repubblica di Venezia. Vinciguerra pertanto aveva dovuto accontentarsi di quello di “Conte di Collalto e San Salvatore” e naturalmente della garanzia di continuare ad esercitare il suo potere senza l’ingerenza del Podestà e Capitano di Treviso, segno della fiducia che la Signoria voleva riporre nella famiglia comitale per una pacifica convivenza.

Ciò aveva evidentemente insuperbito i Conti, cullandoli nella certezza di poter mantenere in eterno il piede in due staffe e barcamenarsi come loro uso, saltando all’occasione opportuna sul carro del vincitore. Così avevano fatto anche in occasione della rotta di Agnadello: il castello di San Salvatore era stato scelto come sede di vitali trattative per una tregua tra Venezia e l’Impero, peccato che i tedeschi, certi della loro imminente vittoria nella Marca e in generale sulla Repubblica, avevano rifiutato all’ultimo momento l’incontro coi messi di San Marco e male gliene incorse a Maximilian, il quale se era una persona di temperamento vendicativo, aveva purtroppo scoperto a suo danno un rivale altrettanto caparbio nell’inimicizia. Di fatti, malgrado nei seguenti due anni l’Habsburg avesse seguitato imperterrito a lanciare contemporaneamente appelli di tregua e alla popolazione di ribellarsi alla Signoria, egli a sua volta per contrappasso aveva raccolto solo no secchi. Gli unici alleati dell’Imperatore, e del Re di Francia per associazione, rimanevano le antiche famiglie feudali dell’entroterra che o per paura o per avidità si dichiaravano prontissime a servire i due sovrani stranieri.

“Monsieur le Grand Maître de France Jacques de Chabannes, signore di La Palice, Pacy, Chauverothe, Bort-le-Comte e Le Héron, maresciallo delle truppe di Francia e dell’Impero!”

Sicché Mercurio Bua non si stupì di vedere il ventottenne conte Joanne Antonio I di Giambattista I di Collalto di Sopra, il conte Antonio III di Vinciguerra I di Collalto di Sotto e l’intero parentado di ambedue i rami venirli incontro vestiti alla francese. Né che si fosse stabilito di pranzare in una sala decorata di variopinti e preziosi arazzi fiamminghi e francesi. Ridacchiando tra sé e sé, il capitano di ventura sperò almeno il cibo seguire le usanze italiane.

“Il magnifico messer Mercurio Bua Spata, principe di Morea, conte di Soave ed Illasi, consigliere imperiale e capitano degli stradioti.”

“Illustrissimi domini comiti, Vostre Signorie eccellentissime”, reclinò il capo il greco-albanese in un inchino a malapena abbozzato ai due Conti, gesto che in particolare Joanne Antonio ricambiò con ugual affettata cortesia, un sorriso magnanimo sulle labbra, e soffermandosi specialmente sullo zipone di broccato d’oro indossato da Mercurio, nonché le pesanti catene d’uguale metallo, forse calcolandone mentalmente il prezzo.

In tal caso il condottiero si sentì assai gratificato nell’avergli chiaramente dimostrato quanto in nulla gli fosse inferiore. Troppe volte nella vita aveva sopportato sulla sua pelle la spocchia della nobiltà italiana, che lo considerava alla stregua d’un apolide vagabondo affamato, pronto a vendersi al miglior offerente. Si ricordava benissimo l’espressione di sfottitore divertimento sul volto della ventenne Beatrice d’Este, quando al termine della Battaglia di Fornovo il marchese e capitano dei Collegati Francesco Gonzaga e suoi superiori, i provveditori veneziani sier Lucha Pixani, Marchiò Trivixan e Bernardo Contarini lo avevano di persona presentato a lei e al marito Ludovico il Moro, elogiando l’audacia di Mercurio che, neanche diciottenne, era riuscito a sfondare le linee nemiche francesi, ferendo di striscio il medesimo Re di Francia e catturando il Duca di Borbone. Il giovanissimo capitano degli stradioti si era atteso di essere trattato allo stesso modo dei suoi superiori, soprattutto da parte della duchessa Beatrice, del cui animo virile tanto si favoleggiava. Invece, non soltanto si era trovato una giovane donna che non la smetteva di civettare, ma che al contempo lo trattava alla stregua d'un ragazzino ingenuo, d'un provincialotto appena arrivato e facilmente manipolabile. Ché Mercurio non aveva mai visto una femmina in vita sua? E magari più bella? Lo zenit era giunto quando gli venne rimproverata la barba, credendola un segno d'incuria visto che, considerata l'età, ancora non possedeva la regolare foltezza di quella di un uomo. Dinanzi alla perplessità del giovane capitano, l’Estense s’era giustificata, ridendo, su quanto trovasse incomprensibile l’uso stradiota sia di portarla sia di legare in trecce i lunghi capelli. “E’ la tradizione della mia gente, l’unico ricordo della nostra terra che possiamo portarci appresso!”, le aveva Mercurio candidamente spiegato.“Oh, che tradizione orribile!”, aveva licenziato Beatrice la questione, accettando tuttavia il bacio sulla mano alla greca. Il giovane capitano aveva sbrigato in fretta i convenevoli, umiliato da cotanta cieca superficialità e ritirandosi furente nei suoi alloggi e partecipando ai festeggiamenti soltanto perché il suo superiore sier Bernardo Contarini glielo aveva espressamente ordinato. “Madama è tanto schizzinosa con chi ha salvato l'Italia, ma tanto liberale con chi l'ha devastata! Non mi pare avesse avuto da ridire sui capelli dei francesi, sui vestiti dei francesi, su ... su ... su qualsiasi cosa loro! Ma cosa pretende? Chi si crede d'essere? La dea Venere? E' una capricciosa come tutte, ecco cosa, ed è pure brutta e scura peggio d'una fantesca turca!”, s’era sfogato col provveditore degli stradioti, alludendo all’opulento benvenuto offerto dai duchi ai francesi l’anno addietro, nonché al fatto che l’Estense, assieme alle sue ottanta dame, avesse concesso ai nobili cisalpini di baciarla sulla bocca, secondo la loro di usanza. Il Contarini, posandogli una mano sulla spalla, lo aveva allora consolato: “Così funziona in Italia: si è cortesi fintanto che l’amicizia risulta vantaggiosa. La gratitudine e la reciprocità hanno vita breve e la memoria corta, qui. Non ti curare di ciò che dice madona Beatrixe, sicuramente non l'ha fatto apposta e lascia che le sue truppe da giostra vengano guidate dai suoi signorini impomatati; la Signoria ha visto il tuo valore e se ne ricorderà. Puoi solo salire, Mercurio, se però impedirai a chicchessia di buttarti giù!”

Le sagge parole di sier Bernardo gli erano rimaste scolpite nel cuore al pari di una massima di vita, anche quando Mercurio aveva disertato la Serenissima per altri committenti. Da quel momento, infatti, aveva giurato sulla tomba del suo illustre padre, il kyrie Pietro Bua Spata capo degli Albanesi in Morea, che nessuno mai lo avrebbe più dileggiato sia per la sua abilità che per la sua provenienza. Con le unghie e con i denti avrebbe strappato il suo posto nelle alte sfere e trattato da pari chi vi si trovava più per virtù di nascita, che per merito personale. Avrebbe elevato il nome suo e della sua casata, indorandolo di gloria e onore e bivaccando sulle ossa di chiunque avesse osato sottovalutarlo. In un certo qualmodo, dunque, era grato a Beatrice d’Este poiché, nella sua impulsività e ignoranza, gli aveva rivelato il vero volto degli italiani, specie dei nobili.

Nel frattempo che gli altri comandanti venivano presentati uno ad uno alla famiglia comitale, a sua volta il Bua si soffermò sugli abiti di Joanne Antonio di Collalto, sul suo toque di velluto nero ornato di perle e zaffiri e da una cascante penna di struzzo, la chemise à encolure dégagée e bordata di sottili fili d’oro, vaporosa, semitrasparente e a stento trattenuta dallo zipone a righe di damasco grigio dai riflessi argentati.

Costui sarà anche un damerino fatto e finito, tuttavia gli concedo una certa astuzia nella sua scelta di vestirsi alla francese, concluse Mercurio, mentre i Collalto si premuravano di mostrare brevemente agli ospiti la Rocca. Infatti, cogitava, sarebbe stato più logico presentarsi con abiti alla tedesca poiché l’impresa era quella di Maximilian; tuttavia i Conti dovevano aver immaginato quanto a La Palice, pur servendo formalmente il Re dei Romani, avrebbero recato più piacere i familiari costumi del suo paese rispetto a quelli alemanni, specie a seguito del colpo basso ricevuto dai disertori imperiali.

E di fatti il maresciallo, svestita per l’occasione l’armatura, ammirava tutto contento la francesità al limite del pacchiano esposta ad arte nel castello, il buonumore improvvisamente ritornato e non mancava di scherzare coi suoi anfitrioni nel suo piuttosto discreto italiano appreso a Milano. Dal canto suo, Mercurio trovò invece più interessante studiarsi gli affreschi in corso nella chiesa di San Salvatore, ad opera del maestro Zuan Antonio de’ Sacchis, detto il Pordenone. In particolar modo, rimase piacevolmente impressionato da un “San Girolamo nel deserto” di Cima da Conegliano, ammirando l’armonico passaggio dall’ocra brullo del deserto alla pastosa verdura dei prati collinosi e dei boschi, culminante in un complesso castello arroccato su di una rocciosa altura che gli ricordava proprio quella dei Collalto. Similmente anche i piccoli borghi e le chiesette emulavano lo stile architettonico di quelli veneti, testimoni dei fecondi anni di pace. Il capitano di ventura si scoprì incredibilmente attratto dalla Marca Trevigiana, con la sua intricata rete di fiumi, l’acqua di risorgiva leggera e chiarissima, le campagne fertili, i fitti boschi collinari e gli svettanti campanili che competevano in altezza cogli alberi. Il tutto circondato da quell’aria quasi montana, fresca e dolce, un poco malinconica che sfumava i contorni dell’orizzonte, conchiuso dalle sagome delle montagne e che soltanto i pittori veneti riuscivano a cogliere nei loro colori sfumati, indefiniti. Se avesse dovuto scegliere un posto ove stabilirsi nei lunghi anni della vecchiaia, forse … magari …

“Il maestro Cima da Conegliano si è ispirato a queste terre”, gli giunse alle spalle la timida vocina di Cassandra di Collalto di Sopra, la quale arrossì pudica non appena il condottiero si girò verso di lei. Una graziosa bambolina invero, piccola e pienotta, un bocciolo d’aprile. Su ordine fraterno anch’ella vestiva alla francese, indossando una sopravveste di damasco scollata e lunga fino a terra, con alquanto strascico e tutta foderata di pellicce finissime, stretta alla vita da una lunga e spessa catena d’oro. Sotto portava una veste di velluto a maniche strette vicino alle mani, mentre quelle della sopraveste erano al contrario molto larghe e ricoperte delle medesime pellicce di cui erano all’interno foderate. Il capo della contessina Cassandra era ornato da uno chaperon d’ermisino sottilissimo e lucente, tutto ornato da diversi fili di belle perle, delle quali s’era arricchita anche il petto e il collo, assieme ad altre pietre di gran valore cucite sullo scollo.

Anche se costoso e di gran pregio, in tutta onestà quello chaperon non incontrava i gusti di Mercurio, poiché a sua detta rendeva la giovinetta non dissimile da una suora, nascondendole la fluente chioma bionda e conferendogli un’aria severa che alla sua età non le si confaceva.

“Notate la Piave sulla destra?”, seguitava la damigella nella sua descrizione, ignara di quel pignolo studio della sua persona. “E poco distante …”

“… l’Abbazia?”, terminò per lei il Bua, sorridendole accattivante.

Cassandra annuì. “La mia famiglia nutre da sempre uno speciale affetto verso l’ordine benedettino. E anche di San Girolamo Dottore della Chiesa. Avete visitato suppongo il suo eremo, all’Abbazia?”

“Provvederò uno di questi giorni.”

“Conoscete per caso Giuliana di Collalto? Ancora non è tale, però in molti già la considerano una beata!” [4]

“Non credo s’incontrino santi e beati nel mio mestiere!”

La contessina si coprì la bocca col ventolino di damasco, nascondendo un sorrisino compiaciuto e sovvenendo a Mercurio una bimbetta pronta a vantarsi di una qualche sua marachella particolarmente ben riuscita. Gli ricordò immediatamente la famosa civetteria di Beatrice d’Este. “An, non lo dubito. La reverenda madre badessa Giuliana di Collato era una monaca benedettina, una mia antenata, fondatrice della chiesa e del monastero di San Biagio e Cataldo alla Giudecca. Le sue spoglie mortali, incorrotte, riposano tuttora lì. Prima della guerra mi piaceva recarmi a Venezia per pregare sulla sua tomba, adesso però …”

Il Bua fu immensamente grato dell’annuncio dello scalco a raggiungerlo per il pranzo, levandolo d’impaccio. Non desiderava concludere il discorso rammentando alla ragazza, che se i veneziani avessero saputo del doppiogioco dei Collalto, beata o non beata, la cara badessa Giuliana sarebbe finita in un qualche canale di scolo, a spregio della sua famiglia traditrice. Meglio dunque lasciare la contessina nei suoi sogni di dame e cavalieri, protetta dalle mura centenarie del suo castello e dalla spregiudicatezza politica dei suoi fratelli e parenti.

Finalmente a tavola, La Palice e gli altri comandanti dovettero dominarsi a viva forza dal commuoversi dinanzi al bendiddio offertoli, sebbene i Conti insistessero sulla sobrietà di quel pranzo, causa i difficili tempi di guerra. Contenti loro, Mercurio da tempo immemore non mangiava una prima portata completa di zuppa, frittura, lesso e fricandò; seguito poi dalla seconda portata d’arrosto tenero con la mostarda, di pasticci di selvaggina, verdure fresche per pulirsi la bocca, il tutto accompagnato da salse di ogni colore e densità. E vino, ovviamente, dai rossi duri del Friuli ai bianchi gradevoli delle vigne degli stessi Conti.

Masticando voracemente una fetta di testina intinta nella salsa verde, il greco-albanese fece cenno ad un inserviente d’avvicinarsi. “Xélo possibile metar da parte qualche vanzaùra (avanzo, ndr.)?” Il giovinetto scoccò un’occhiata inquisitrice al conte Joanne Antonio, che a sua volta fissò confuso il condottiero. “All’Abbazia ho due cani”, gli spiegò garbatamente ironico, “e la mia cagna diventa particolarmente feroce, qualora non provvedessi a sfamare il suo cucciolo.”

“Oh, avete dei cani con voi, signor Mercurio?”, cinguettò intrigato il tredicenne Manfredo di Collalto, uno dei tanti fratelli minori del conte, e di recente appassionato d’arte venatoria. “A quale razza appartengono, se posso chiedere?”

“Della miglior razza veneziana, la madre; il cucciolo, mi sa ch’è uscito un po’ bastardo”, sogghignò Mercurio, compiaciuto lui per primo del suo scherzo segreto e delle facce spaesate dei commensali.

Pulendosi a disagio gli angoli della bocca, la contessa Chiara di Collalto di Sotto, sorella del conte Antonio e moglie di Joanne Antonio, ravvivò la conversazione domandando al conte Gianfrancesco di Gambara: “Come sta la vostra cara figlia, la contessa Veronica? Ho sentito che a febbraio è divenuta madre per la seconda volta.”

Il nobile bresciano dovette ingollare qualche sorsata d’acqua, onde riacquistare la parvenza di una voce umana. La sua faccia rasentava invero il cadaverico e Mercurio si chiedeva come facesse a rimanere in piedi senza stramazzare. Studiando accorto gli astanti dietro il bicchiere, il greco-albanese notò un certo pallore anche sulle gote del maresciallo La Palice, il quale si portava il fazzoletto troppe volte alla bocca, da non destar sospetti. Forse l’incidente di quella mattina non era stato così improbabile, forse il monaco aveva avuto ragione: il malanno in qualche modo era riuscito dal campo ad insinuarsi nell’Abbazia e lui, stoltamente, aveva esposto il suo prigioniero a contrarlo, abbandonandolo in un luogo sporco senza adeguato vestimento e cibo.

“Magnificamente bene, madonna contessa. Mio nipote Girolamo gode d’eccellete salute e spero di poter visitare lui e la sua famiglia assai presto”, rispose vago di Gambara, tralasciando il doloroso dettaglio confidatogli dal genero Gilberto da Correggio, laddove lo informava di una tremenda malattia post-parto ch’aveva afflitto la sua dilettissima Veronica, impedendole, una volta guarita, di poter concepire di nuovo. Fortunatamente Gilberto non se ne crucciava, la discendenza assicurata da Ippolito l’anno addietro e ora dal piccolo Girolamo, il primogenito tenuto a battesimo dal cardinale Ippolito d’Este e la Marchesana Isabella d’Este, con la quale Veronica intratteneva da anni una fitta corrispondenza.

“La contessa di Correggio scrive ancora quelle deliziose Frottole?”

“In quest’ultimi difficili mesi, la poesia le rimane uno dei suoi più grandi conforti. Dopo i figli e il marito, ovviamente”, ammise intenerito il conte Gianfrancesco.

“E voi, signor Mercurio? V’intendete di poesia?”, inquisì quasi sottovoce Cassandra di Collalto, sedutagli accanto e che lo fissava sognante, neanche il condottiero fosse saltato fuori direttamente dalle pagine dell’Orlando Innamorato.

“Sorella cara, credo che il capitano non abbia di recente avuto modo d’occuparsi d’arte”, la rimbeccò dolcemente sua sorella Degnamerita, ottenendo un imbarazzato rossore sul viso a forma di cuore della fanciulla.

“Vostra sorella ha ragione: non ho espugnato tre settimane fa Castelnuovo di Quero declamando al suo castellano Boiardo o Ariosto o chiunque altro poeta laureato!”, a meno che non si considerassero poesia gli sboccatissimi insulti lanciatisi contro, roba da scommettitori ai combattimenti dei galli o da ubriachi alle bettole, cattiva abitudine che, neanche da prigioniero, quella peste bubbonica di veneziano aveva intenzione d’ammansire. O beh, fino a qualche giorno addietro. Adesso se ne stava così stranamente zitto …

“E come, allora, avete espugnato quella fortezza?”, insistette curiosa Degnamerita di Collalto, impironando un pezzo d’arrosto. “Nostro fratello ci ha raccontato come il suo castellano, un tal messer Girardo Manni, avesse al contrario fortificato assai bene il castello. Addirittura era riuscito a persuadere i podestà di Feltre e Belluno a venirsi in reciproco soccorso, in caso d’assedio.”

Mercurio sogghignò amaro: un piano eccellente, peccato che il suo patrizio non avesse calcolato l’immancabile traditore, che l’aveva venduto allegramente al nemico. “Non è mio uso descrivere la guerra alle nobildonne, non lo giudico un argomento adatto. Ed in ogni caso”, si sentì in obbligo di puntualizzare, “il castellano non è né un tale né un Girardo Manni, si chiama Girolamo Miani e così dev’essere ricordato. Ha perso, ma ha perso con la spada in mano, cosa che non di tutti si può dire oggigiorno.”

Le due sorelle, imbarazzate dalla schietta correzione, incassarono stoicamente il colpo. “Ogni giorno da due anni i nostri fratelli e cugini parlano soltanto di guerra; voi pure siete nostri ospiti appunto per discuterne a riguardo. Non è un tema a noi alieno”, provò timidamente a contro-argomentare Cassandra, dimostrando dietro la maschera di soave pudicizia una testarda forza di volontà, aspetto che scaldò il cuore del condottiero, rendendolo d’un tratto nostalgico.

“La guerra appare eroica soltanto nei libri, contessina. Sussiste un motivo, per cui appartiene ai Quattro Cavalieri dell’Apocalisse”, liquidò in fretta il discorso, anzi, pure riempiendosi la bocca di carne e verdura onde ben sottolineare il concetto che la conversazione su quel tema per lui finiva lì.

“Dunque perché la fate?”, mormorò piano Cassandra, sgranando i suoi occhioni di cerbiatta e corrugando la fronte.

“Forse perché vogliamo finire in quei libri e di conseguenza far sognare voi belle fanciulle”, ironizzò allegro il Bua, bevendo un lungo sorso di vino e tosto imitato dalle due nobildonne, i loro volti pieni d’ilari fossette.

“Signor Jacopo, signor Nicolò”, s’era nel frattanto rivolto Teodoro Trivulzio agli altri due Collalto di Sotto, attirando l’attenzione del greco-albanese. “Abbiamo saputo del vostro perdono da parte della Signoria. Non l’avremmo immaginato possibile.” Alludeva il comandante al ritiro del bando d’esilio per i due nobiluomini, avvenuto il marzo scorso, richiamandoli da Udine e assolvendoli da ogni crimine.

“Neppure noi l’avremmo mai creduto”, confermò Jacopo, ché aveva temuto in quegli istanti esser invece giunta la sua ora, spedito prima alle Orbe e poi in Piazzetta. “Ci consideriamo assai fortunati.”

“Tale misericordia è inconsueta da parte della Signoria”, convenne meditabondo Gianfrancesco di Gambara.

“Forse ha percepito il fuoco dell’inferno attenderla e vuole fare ammenda”, teorizzò Giulio Sanseverino, “come se potesse riconquistarle il favore di Dio.”

“Davvero la considerate irrimediabilmente condannata?”

“Tutta la cristianità o quasi le ha dichiarato guerra: nessuno Stato è mai sopravvissuto a tal ondata; ciascuno dei Collegati ha giurato di non darle mai tregua, finché la Repubblica non scomparirà dalla faccia della terra!”, ribadì il fratello del Gran Scudiero di Francia.

“Dunque la nostra assoluzione ci ritorna doppiamente gradita!”, commentò sollevato Nicolò di Collalto. “Poiché non le abbiamo concesso l’ultima soddisfazione di giustiziarci!”

“O forse”, s’intromise Mercurio tra le risate dei commensali, “forse voi risultate più utili alla Signoria da vivi che da morti”, insinuò malizioso e il gelo scese nella sala, ognuno fissando a disagio il proprio piatto.

“Signor Mercurio”, replicò freddamente cortese il conte Antonio, venendo i soccorso dei fratelli, “da anni viviamo sotto la Serenissima e siamo certi di poterne indovinare se non addirittura anticiparne i pensieri.”

Il Bua levò il bicchiere in alto a mo’ di brindisi. “I miei complimenti, signor conte, per il vostro infallibile intuito e per la vostra approfondita conoscenza dell’anima nera della Signoria! D’altronde, ve la siete pure portata nel talamo nuziale”, esclamò gioviale, tracannando in un sol sorso il vino rimasto. “E un brindisi anche a voi, messer Nicolò: la vostra moglie veneziana immagino sarà stata assai contenta, di non essere rimasta precocemente vedova!”

Nicolò di Collalto sbiancò fino a mimetizzarsi con la sottile tovaglia di cotone, non attendendosi certo quel colpo basso da parte del vendicativo condottiero: sei anni addietro egli aveva impalmato madona Maria Zane, figliola di sier Bernardo, la quale non soltanto s’era rifiutata di seguirlo in esilio ad Udine, ma anche dopo l’assoluzione del consorte s’ostinava a rimanere nella casa paterna. Analogo destino era capitato a suo fratello il conte Antonio, accasato con madona Luzia Mozenigo di sier Lorenzo, portatasi appresso a Venezia i tre figlioletti Bianca, Violante e Rambaldo. Infine, Nicolò da Collalto di Sopra era ufficialmente fidanzato con madona Maria Contarini di sier Marco Antonio e nulla al mondo era intenzionato a rinunciare alla ricca dote di lei, veneziana o no.

“Codesti matrimoni li abbiamo tutti contratti prima della guerra, in segno d’amicizia e collaborazione con la Repubblica. Il che non significa necessariamente cieca sottomissione da parte nostra”, sibilò altero il conte Antonio, rigirando nervosamente il piron tra le dita. “Non reputo dunque inconsueta la prudenza delle nostri mogli, se hanno preferito riparare al sicuro con i nostri pargoletti. Venezia rimane comunque la loro patria e lì nessuno le molesterà. Ignoriamo, infatti, fino a che punto possiamo garantire la protezione a queste terre e a chi vi abita.”

“E da chi, sentiamo, dovete proteggerle? Dai Veneziani o da noialtri?”, lo stuzzicò Mercurio, guadagnandosi feroci occhiatacce da parte del Trivulzio, Pallavicino e Sanseverino.

Ignorando la stoccata e tuttavia ansioso di cambiar velocemente discorso così d’evitare un litigio a tavola, il conte Joanne Antonio riprese la conversazione interrotta con La Palice: “Sapevamo della riconquista di Castelfranco e della scarsità di rifornimenti; ciononostante, non comprendiamo il motivo per il quale adombrate ad una nostra mancanza di solidarietà. Noi vi abbiamo sempre e sollecitamente inviato i viveri richiesti, anzi, giusto stamane abbiamo aggregato dei nostri carri a quelli provenienti da Sacile e Spilimbergo.”

“Monseigneur le Comte”, lo tranquillizzò La Palice, “noi non v’accusiamo di niente. Appunto perché sappiamo della vostra fedeltà alla Lega, che volevamo il vostro permesso ed aiuto per stanare dei fastidiosi sabotatori.”

“Sabotatori?”, ripeté incredulo Jacopo di Collalto. “Nelle nostre terre?”

“Le truppe veneziane non possono transitare nella contea senza il nostro consenso! La Signoria può possedere metodi discutibili, tuttavia non ha mai mancato ai patti!”, protestò incredulo il ventiduenne Sartorio di Collalto di Sopra. “Diteglielo, fratello!”, si rivolse a Joanne Antonio, che annuì lentamente col capo e Mercurio ben si figurava quali ragionamenti gli tamburellassero nel cervello: se la Signoria avesse scoperto del tradimento dei Collalto di Sopra e di Sotto, non avrebbe avuto alcuna remora di rimangiarsi ogni accordo e di trattarli alla stregua dei ribelli, confiscando ogni loro bene e spedendoli uno ad uno dal boia tra le colonne di San Marco e San Todero.

“Sospettiamo, nel bosco del Montello e anche nella vostra contea, nascondersi dei contadini ribelli, i veri responsabili degli agguati”, delucidò brevemente la situazione La Palice. “Di conseguenza, vorremmo per cortesia il vostro beneplacito nel perseguirli, qualora venissero catturati nelle vostre terre, o d’indicarci la geomorfologia del Montello così da poterli affrontare e punire. Già stamane abbiamo inviato 300 uomini in esplorazione, in attesa della loro relazione a riguardo.”

Il conte Joanne Antonio strinse la bocca in una linea dura. “I miei contadini non oserebbero mai compiere tali azioni: io li proteggo, loro mi devono obbedienza. Sanno fin troppo bene, che se colti in flagrante non verrebbero giudicati dalla legge veneziana bensì dagli Statuta Collalti e …”

“… e non gliene importa un gigantesco fico secco!”, concluse lapidario Mercurio, ammutolendo nuovamente la tavolata, ma stavolta il tono del condottiero aveva perduto ogni ironia e frivolezza, assumendo il tono serio di comando nei consigli di guerra. “Indovinate cosa si nettano i villani coi vostri statuti? Non sottovalutateli, signor Conte, non commettete il medesimo errore dei vostri altezzosi pari! Questi non sono dei disorganizzati bifolchi senza cervello, bensì squadre di partigiani pronti a morire per un ideale, ossia rimanere a qualunque costo sotto San Marco. Siete voi tutti Collalto degli uomini d’arme, nevvero? E allora onorate questi combattenti con la medesima cura e serietà, che riservereste ad un esercito nemico!”

“Se aveste evitato di costruire quel ponte di barche per attraversare la burrascosa Piave, forse i vostri soldati non avrebbero razziato le campagne circostanti e i miei contadini non si sarebbero ribellati”, non gliela volle dar vinta il conte di Collalto di Sopra, scaldandosi. “Ho ricevuto notizie molto sgradevoli dal Priore della Certosa di San Girolamo, sul pessimo trattamento riservato ai monaci, sulle continue ruberie! Poi, ci giungono missive dall’Abate invece di Sant’Eustachio, laddove, oltre alle prepotenze cui sottoponete i monaci, mi si narra addirittura di un vero e proprio assalto notturno, con tanto di morti e danni ingenti ad un edificio sotto la mia protezione, che m’avevate giurato di non coinvolgere in alcuno scontro diretto!”

“In guerra, signor Conte, non esistono né Dio né Madonne né Santi”, non si lasciò invece commuovere Mercurio. “Nessun luogo è reputato abbastanza sacro da non venir scelto come campo di battaglia, accampamento o fonte di bottino. A volte mi domando sul serio se voi …”

“… abbiate mai considerato questo piccolo dettaglio”, intervenne speditamente La Palice, chetando il suo sottoposto. “Ossia che noi, al nostro meglio, ci siamo in ogni occasione premurati di trattare con cortesia i monaci benedettini e di rispettare i loro usi e costumi, comportandoci in maniera quanto più discreta possibile. Così io ho voluto e comandato. Purtroppo, i soldati tedeschi hanno invece preferito agire di testa propria, spinti dall’invidia e dalla loro proverbiale avidità. Non paghi, sprezzanti di ogni impegno preso e dell’onore militare, se la sono infine data oltre Piave, malgrado le mie innegoziabili ordinanze!”

“Per davvero si sono comportati così?”

“Madame la Comtesse”, si pose il maresciallo una mano sul cuore, puntando gli occhi azzurri sul viso preoccupato della giovane Chiara di Collalto. “L’onore e la cavalleria m’impongono schiettezza sia nei confronti dei miei alleati che del nemico. Non vi nasconderò niente: nutro una profonda sfiducia ne les Allemands e sulla loro costanza in quest’impresa di Trévise.”

“L’Imperatore ha assicurato …”

“… molte cose, ma finora a nessuna delle sue tante promesse ha adempiuto. Alla fine, quelli inguaiati in questo stallo siamo noi, non i tedeschi. Avevamo ricevuto ordini chiari dall’Empereur, d’attenderlo qui senza guadare per nessun motivo la Piave, ed ecco che i suoi soldati al contrario l’attraversano impunemente, occupando città dopo città, facendo rifornimenti e bottino, mentre noi costretti qui a rimanere senza né viveri né la certezza di non finir tagliati a pezzi da les Vénitiens. Je vous demande pardon, mesdames”, si scusò immediatamente il francese, conscio d’aver usato termini troppo macabri per le sensibili orecchie delle nobildonne.

“Quindi voi dubitate che l’Imperatore scenda in campo?”, domandò il conte Antonio, scoccando una celere e apprensiva occhiata ai fratelli.

La Palice annuì gravemente. “Da settimane l’Empereur se ne sta accampato a Bolzane a brigare diossacché. Il nostro legato ci ha riferito come neppure abbia pronto un esercito! Il suo atteggiamento corrisponde ad un insulto a Notre Sire le Roi, che tanta fiducia ha riposto in lui, per venir invece ripagato con ingratitudine e codardia!”

“Capisco siate confusi …”, mormorò Joanne Antonio. “Probabilmente l’Imperatore vuole assicurarsi il ritorno delle truppe imperiali dalla Patria del Friuli e forse giudica queste terre ancora troppo pericolose per arrischiare di …”

“Monseigneur le Comte”, lo interruppe seccamente il maresciallo. “Noi per allora potremmo già esser stati massacrati dal nemico. Ho inviato una missiva all’Empereur per sollecitarlo, l’ennesima, ed una ai capitani tedeschi nella Patrie du Frioul, in cui li comando di tornare indietro entro la fine del mese, o si troveranno stavolta loro da soli a fronteggiare i Vénitiens. Questo è il mio ultimatum: se les Allemands non si ricongiungeranno a noi entro la scadenza prestabilita, quest’impresa di Trévise non soltanto non si farà, ma sarà mia premura sollecita di informare personalmente le Roi sulla mancata fede dell’Empereur. Dieu giudicherà e s’occuperà del resto.”

A seguito di questo severo discorso ed irremovibile decisione, ciascuno dei commensali - dai Collalto agli stessi comandanti francesi ed italiani -  si chiese se avesse in effetti commesso un grave sbaglio, avendo infatti puntato ogni sua fortuna e speranza su quel cavallo sbagliato di Maximilian I. von Habsburg.

Nel frattanto che il banchetto procedeva verso il dolce e il suo termine, lo scalco scendeva nelle cucine onde controllare i tempi d’attesa per la spongada. Ricevuta la precisa conferma dal cuoco, l’uomo allora inviò alcuni garzoni cogli avanzi del pranzo da portare agli scudieri rimasti a guardia dei cavalli nonché i soldati di scorta. Rammentò severo e puntiglioso ai giovanotti di farsi seguire dai francesi in foresteria e ivi di lasciarli consumare tranquillamente il pasto riparati dalla pioggia e questo senza mai perderli di vista, che per nulla al mondo gironzolassero nel cortile interno del castello.

Dopodiché, congedati i garzoni, i servitori rimasti chiusero a chiave la porta principale della cucina e lo scalco aprì invece una più piccina, di servizio, quella dove i contadini portavano la carne, le verdure e la frutta per i loro signori.

Due figure vestite di stracci, in apparenza medicanti, non esitarono a scivolare dentro lesti e circospetti, stringendo vigorosamente la mano al maestro di casa e sedendosi accanto al caminetto su suo invito. Prontamente li venne offerto da mangiare una fetta d’arrosto e da bere un bicchiere di buon vino rosso, onde rifocillarsi oltre che ad asciugarsi.

“Bone Jesu, che pioza, zò!”, esclamò allegro il giovane Vio, intingendo un pezzo di pane nel sugo della carne. “Mi credea deboto de negar en la Piave, co la ghemo traversà!” e appoggiato il piatto vuoto per terra, pur continuando a ruminare, allungò le mani sul vivace fuoco, sfregando loro e le braccia intorpidite dal freddo. “Uhm, i ghe magna ben, lorssignorie!”, biascicò a bocca piena.

“An, savestu!”, ridacchiò una fantesca, riempiendogli nuovamente il piatto. “Per dasseno aveu traversà la Piave cum sta pioza?”

“Mare de diana! Roba da far sbiancar quei cancari de Rolando, Rinaldo e Ruzier e le lhoro siore mari!”, esclamò Bernardin, il fratello maggiore di Vio, battendosi a mo’ di vanto il petto. “Ringrassiemo perhò el sior Mercurio Bua et el sòo ponte de barche!”, gli concesse un po’ più modesto. “Sença d’elo, no saremo no riussiti a vegnir qua!”

“Amen!”, risposero solennemente in coro il maestro di casa e i servitori, ridendo poi ilari alla battuta.

“Donca”, terminò di bere Bernardin il suo vino, nettandosi la bocca col dorso della mano. “Quae bone nove gh’aveu da contar a la Signoria?”

Gli occhi dello scalco s’illuminarono di perversa gioia e così anche quelli dell’intera servitù, mentre ripetevano per filo e per segno alle due spie veneziane quanto visto e udito durante il banchetto nel castello di San Salvatore.

 

***

 

 

Di Trevixo, dil provedador sier Zuam Paulo Gradenigo.

 

Uno compagno del cuogo de monsignor de la Paliza, questa matina preso et per stratioti menato de qui, è stà examinato, dice, che monsignor de la Paliza era passato la Piave per andar a disnar con li conti da Colalto, e francesi alozano soto Narvesa, sopra la Piave, e la persona di monsignor di la Paliza aloza ne la Badia, e che sono lanze 1200 de conduta, ma in effeto da zercha 1000; li capi sono questi, videlicet:

 

Monsignor da la Paliza: lanze 50

Monsignor de Boisi: lanze 50

Missier Rubert de la Massa: lanze 50

Monsignor de Stasom: lanze 50

El gran scuodier: lanze 100

Monsignor de Frontaglia: lanze 50

El conte Zuam Francesco da Gambara: lanze 50

El capetanio de Borgognon: lanze 100

Numero lanze: 500

 

[…]Dice che fanno preparamenti di vituarie, et alcuni dicono che voglino venir a questa impresa, e alcuni dicono che sono per andar a la volta de padoana e andar a la sua via. Afferma, li todeschi volevano far questa volta per a brusar el tutto, et che monsignor de la Paliza diceva, non voler acompagnarli per abrusar, perchè tornando un’altra volta non troveriano cossa alcuna, et che sono stati 3 zorni senza pan, et che un pan valea 4 marcheti, et qualche volta non se haveria trovato pur un pan chi havesse voluto pagarlo un ducato, ma che heri sera furon portati molti cari de pan in campo, mandato da le parte de là de la Piave.

Item, dimandato come l’era stà preso, dice, che tutti li sacomani del campo eran venuti a questa volta con una scorta de 300 homeni d’arme per cerchar strami, vini et biave, che pur ne atrovavano, perchè villani non haveano voluto condur le robe sue dentro, ma le hanno ascose, et sono da’ nemici trovate, et che non heri l’altro monsignor de la Paliza ha scrito al re di Franza et a l’imperador, et per questo crede, per la dimora che fano, che l’haspetta la risposta.

 

 

Di Trevixo, di sier Lunardo Zustignan

 

[…] Item, per nostri è stà preso alcuni da i qual pocho si à potuto cavar, salvo da un garzon che dize, l’altro zorno si trovò a Colalto i francesi con li signori di Colalto, e che si consigliavano quello havesse a far, chè vedea todeschi averli soiati, dicendo, voler far pur assai cosse, e li havea conduti fino lì, e hora se ne stevano di là di la Piave, e lhoro francesi di qua, e dubitavano che, come dicesse a’ todeschi de ritornar adrieto, che lhoro non li vegneria in compagnia, ma anderiano a caxa sua, e lhoro stariano in le petole, e che stevano in gran pericolo de esser taiati a pezi, et erano mezi confusi.

[…] Item hanno, etiam el conte Zuam Francesco da Gambara esser andato in gran pressa, con 50 cavali, per la via di Seravale, e va in Val Sugana e a la volta di brexana; non si sa la causa.

 

***

 

Quella mattina, svegliandosi con la nebbia fitta e la fastidiosa pioggerellina a bagnarli il viso più di vapore che d’acqua, la squadra al comando di Mercurio Bua s’era domandata se davvero fosse il caso di proseguire nel loro piano, attaccando di sorpresa i contadini nascostisi nel bosco del Montello. Vero che il loro capitano s’era prodigato il giorno precedente d’insegnarli come muoversi a colpo sicuro in quell’impenetrabile bosco dal terreno irregolarissimo – cortesia delle cartine e indicazioni dei Conti di Collalto - ripetendo all’infinito e rassicurandoli sulle modalità d’attacco, tuttavia il cuore dei soldati ancora tentennava, troppo provato dall’ansia delle brutali imboscate subite per mano di quei villani ribelli. La nebbia non aiutava, semmai acuiva i loro timori, non giudicandosi abili a sufficienza per districarsi in quell’infido bosco e scampare ai loro tremendi abitanti.

Oramai i soldati consideravano i contadini del Montello alla stregua di spiriti malevoli, inafferrabili e immortali, pronti ad assumere la forma degli imponenti alberi per poi balzare fuori all’improvviso e assalirli. Oppure li immaginavano trasformarsi in animali e costì cacciare, affamati e feroci, di notte come di giorno, trasalendo al bubulare della civetta, che li ricordava l’urlo di una donna uccisa e pertanto foriero di sventura.

Mercurio, dal canto suo, non condivideva tali insensate superstizioni da balia, semmai a sentir tale lagne da parte dei suoi stradioti, dei lancieri del Sanseverino e perfino dei gendarmi, perse l’ultimo granello di pazienza e li apostrofò sprezzante:

“Se vi cagate in mano dinanzi a quattro villani, cosa farete sotto le mura di Treviso? V’inginocchierete e succhiandovi il pollice, invocherete piangendo la vostra mamma?”

Personalmente, il greco-albanese era snervato da quella situazione: già ritornando dal pranzo da San Salvatore, l’ignobile spettacolo delle truppe intente a sgavazzare e a compiere scorrerie nei villaggi limitrofi, nelle chiese e negli stessi monasteri l’aveva assai disgustato, ancor più apprendendo come alcuni soldati fossero riusciti a disertare tranquillamente. Inutile aggiungere quanto il condottiero avesse desiderato pigliarli a sberle uno dopo l’altro; qualcuno della sua compagnia pure le ricevette.

A peggiorare la situazione, dei trecento uomini inviati a far provviste e a scortare i carri provenienti dai Collalto e dalla Patria del Friuli ne erano ritornati la metà, in camicia e mutande e ovviamente senza né rifornimenti né cavalli. Dulcis in fundo, il suo prigioniero manco gli aveva rivolto una sola parola, destandosi dal suo profondo sonno d’ammalato giusto per mangiare gli avanzi portatigli e, ringraziatolo distrattamente, se n’era ritornato a dormire incurante degli appelli del Bua a rimanere desto. Tempo addietro avrebbe ringraziato San Giorgio e tutta la sua legione per quel mutismo, invece ora la cosa lo inquietava, non presagendo nulla di buono dall’improvvisa apatia del veneziano. In ogni modo, aveva posto due sue sottoposti a guardia dell’infermeria, per sicurezza.

“Maurikos, non essere così duro nei loro confronti: a furia di prenderle dai villani, hanno imparato a temerli”, tentò Leka Busicchio di spiegare al collega il motivo di tanta agitazione nella compagnia. “Questa nebbia poi non aiuta, credono l’abbiano evocata loro, così come gli spiriti dagli abissi più profondi del bosco …”

“Che! Questo lo so fare anch’io e lo saprebbe fare chiunque”, replicò scettico Mercurio, stringendo le redini onde calmare il suo impaziente destriero turchesco. “Ma verranno poi, questi spiriti, quando i contadini li avranno invocati? L’unico modo per comandare il diavolo è fronteggiarlo e vedrete che non morderà né farà più spavento. Oggi questi fifoni temono i villani, ma vedrai che stasera, ebbri del loro sangue, si scorderanno di ogni paura previamente nutrita verso costoro.”

Azione o paralisi, reagire o subire. Il condottiero non aveva mai esitato sulla sua linea di condotta e s’augurò d’aver ben inculcato tale determinazione anche nei suoi uomini, quando, prima d’uscire da Nervesa per addentrarsi nel bosco del Montello, li aveva domandato se volevano dare soddisfazione ai tedeschi, quando quest’ultimi li ingiuriavano appellandoli pavidi conigli.

“Li dimostreremo che ci sappiamo difendere, che sappiamo farci temere e che non abbiamo bisogno di loro per quest’impresa di Treviso!”, aveva concluso, nella speranza di riuscire effettivamente nel suo piano: come delineato a La Palice, una volta appreso della posizione di forza dei francesi, i tedeschi avrebbero incominciato a sudare freddo, paventando della vittoria degli alleati senza il loro supporto e conseguente esclusione dal bottino. In questo modo, presi per la gola, sarebbero ritornati prontamente a Nervesa.

 

Zanze, la sua sorellina Zuaneta e poco distante da loro l’amica Lussìa stavano terminando di raccogliere gli ultimi rami secchi, riempiendo le rispettive gerle, le orecchie ben tese in ascolto di rumori sospetti: avevano approfittato della nebbia per uscire e far legna, portando l’avanzante autunno sempre più freddo e umidità che rendeva la permanenza nelle grotte poco piacevole e pericolosa, quando la luce sarebbe diminuita e il freddo avrebbe attirato alcuni predatori in cerca di facile preda.

“Nana”, chiamò la contadina la minore, “par ancuò, ghemo finio. Tornemo indrio, finché ghe xé sto caigo (nebbia, ndr.)!” Lussìa già le aveva anticipate, complice il pancione che le dava non poco fastidio alla schiena, rallentandola nei lavori.

La ragazzina annuì, infilando le bretelle della gerla e avviandosi verso il campo, sennonché un sordo rimbombo e il lieve tremore del terreno la gelò sul posto, similmente a sua sorella che si girò di scatto dietro di sé, osservando il latteo velo quasi potesse intuire quale orrido mostro vi si celasse dietro.

“Corate!”, gridò Zanze non appena le sue orecchie isolarono il nitrito dei cavalli e i loro zoccoli battere pesanti al galoppo e il sinistro scricchiolio delle armature. “Lassa star ea gerla e corate!”, spinse via la giovinetta che obbedì immediatamente, arrampicandosi sul terreno in salita, in direzione però opposta del campo. “Nana! Nana!”, tentò d’avvertirla la giovane contadina, ma sua sorella ormai era stata inghiottita dalla nebbia e pure lei non capiva più in quale direzione stesse correndo esattamente, l’unica sua certezza erano i nemici alle sue calcagna.

All’improvviso, una mano sbucata dalla nebbia la ghermì per lo scialle e lei si sentì tirare all’indietro; disperata, Zanze anguillò via in una serie di buffe piroette, rinunciando al capo d’abbigliamento e riprendendo a scattare via veloce. Allora il soldato si sbilanciò in avanti e l’afferrò per la vita, sollevandola di peso malgrado lei si dimenasse impazzita e scalciasse e menasse pugni e schiaffi contro quell’altro che se la rideva divertito. L’uomo se la caricò in sella e tirò le redini per ricongiungersi al suo gruppo, sennonché Zanze torse il busto e gli morse l’orecchio con tutta la forza posseduta dai suoi denti, staccandoglielo e sputandolo per poi passare l’altro. Tremando accecato dal dolore, il soldato perse il controllo del cavallo che a sua volta si spaventò, cavalcando alla cieca e imboccando un dislivello. La bestia v’inciampò, perse l’equilibrio e gli si ruppe il garretto e la gamba anteriore cedette, rotolando essa e il suo cavaliere giù fino alla morte, le ossa fratturate al primo impatto contro il solido tronco d’un rovere, mentre la contadina si limitò a ruzzolare seppur dolorosamente, avendo posseduto sufficienze prontezza di spirito di gettarsi dalla cavalcatura prima della caduta.

Alzandosi non senza notevoli difficoltà, Zanze riprese zoppicando a correre, stringendo i denti insanguinati onde soffocare il dolore al corpo, ma una scudisciata improvvisa la gettò a terra, giunti gli altri compagni del soldato indirettamente da lei ucciso. Ostinata si rimise in piedi e ne ricevette un’altra e poi un’altra ancora, credette volessero assassinarla a furia di frustate e forse non era disprezzabile come fine, almanco le avrebbero risparmiato una sorte ben più vergognosa.

La ragazza strisciò sul terreno fangoso ricoperto di foglie, i polmoni pieni dell’acre odore dell’humus mischiato al suo sangue, premendo sulle ginocchia e sui gomiti e artigliando qualsiasi cosa le servisse a mo’ di leva per proseguire. Ángele Dei, qui custos es mei, me, tibi commissum pietáte supérna, illúmina, custódi, rege et gubérna. Amen!, pregava ferventemente, supplicando in un mantra ossessivo il suo Angelo Custode di pigliarsi la sua anima e di portarla al cospetto di Dio, prima che i soldati si prendessero il suo corpo.

Arrivò infine il buio e Zanze non seppe se si trattasse della morte o di uno scherzo del diavolo atto a tormentarla. In ogni modo, ante d’abbandonarvisi, la ragazza si puntellò sui gomiti e cacciò fuori un urlo spaventoso, neppure i dannati più abietti sguazzanti nei recessi più orridi dell’inferno potevano emularlo: se a lei non era concesso salvarsi almeno lo fosse ai suoi compagni, lanciandoli quell’avvertimento angosciato, l’ultimo suo contributo alla loro lotta per la fede in San Marco.

L’eco di quel grido inumano fischiò nelle orecchie di Lussìa, riuscita malgrado il ventre gonfio a correre fino al loro nascondiglio e dando esagitata il tardivo allarme; appena ebbe il tempo di raggiungere il suo uomo, che le sagome degli stradioti, lancieri e gendarmi francesi si stagliarono nere e compatte, ai loro occhi una schiera di demoni sputati dalle viscere della terra.

“Toga el tròzo (sentiero, ndr.) pel Trevixo, nuj li trategnéremo finché podemo!”, spingeva Berto la sua compagna in direzione di una viuzzia nascosta tra le piccole rocce carsiche, là dove altre donne e bambini stavano correndo.

“No, ti va morir!”, singhiozzò Lussìa, abbracciandolo forte. “Se te mori, moro anca mi!”

Il giovane contadino la strattonò via. “No!”, gridò perentorio. “Ti te va vivar: par mi, par nuostro fio; ti fasse tuto el possibile per farlo nassere e cressare! Zuramelo!”

La ragazza si portò di riflesso le mani al grembo pieno, stranamente tranquillo quasi il bimbo comprendesse la gravità della situazione. “T’eo zuro”, s’asciugò le lacrime col dorso della mano, baciando infelice Berto più a lungo che le venne concesso.

“Corate, lesta!”, si staccò da lei il suo compagno, affrettandosi nella direzione opposta, la picca in mano.

Pur agguerriti e pieni di buona volontà, nulla poterono i contadini in uno scontro diretto coi soldati francesi, agevolati dall’effetto sorpresa e dai loro cavalli che con facilità disperdevano i già disorganizzati villani, impedendo loro di formare un quadrilatero compatto di picche. Simili ai fanciulli che corrono dietro alle oche in cortile per torcerle il collo, così gli stradioti rincorrevano i contadini, sciabolandoli con le scimitarre o infilzandoli con le loro zagaglie, impennando i loro corsieri acciocché questi li colpissero al petto cogli zoccoli, per poi trafiggerli più volte fino a sventrarli.

Alcuni villani più audaci avevano imbracciato i loro archi raffazzonati e colpito i cavalleggeri meno coperti dall’armatura, se non uccidendoli perlomeno colpendoli strategicamente in modo da disarcionarli o per le ferite subite o perché uccisa direttamente la cavalcatura. Ugual trattamento lo riserbò chi, come Berto, puntava contro le bestie le punte acuminate delle picche o addirittura qualche torcia, spaventandole e imbizzarendole. Stae, un compare del contadino, con la falce ferì fin quasi ad amputare le gambe di un cavallo; la bestia nitrì agonizzante e cadde sul fianco, trascinando seco lo stradiota che prontamente venne ucciso dai due uomini.

Un profondo ululato seguito da latrati e urla di sorpresa e di dolore attirò l’attenzione di Berto e il cuore gli scese nello stomaco, realizzando la comparsa di una piccola muta di cani, i quali sguinzagliati dai francesi davano man forte ai loro padroni. Calciando via l’avversario abbattuto, il contadino strinse la picca e affrontò il prossimo, evitando d’un pelo l’affondo della sua spada, per infilzarlo alla gola. Un altro lo impirò all’inguine e un ultimo alla coscia. Aveva appena staccato la punta dalla carne di un saccomanno ruzzolato ai suoi piedi, che una figura scura gli balzò contro di peso e un dolore indescrivibile gli artigliò il braccio viaggiando fino al cervello.

Berto gridò come mai aveva fatto in vita sua, la carne martoriata dai denti del cane, il quale ringhiando strattonava, affondava i denti giallastri nel sangue zampillante misto alla sua saliva, affatto desideroso di mollare la preda. Un altro di questo azzannò il contadino al fianco e questi cadde per terra, tremando d’acutissimo dolore e soffocato dal vomito, invocando la morte che però si presentò curiosamente nei panni del suo amico Stae. Il primo cane si ribellò alla presa alla gola da parte dell’uomo, cercando di morderlo ma questi, estraendo un pugnale dalla cintura, lo sgozzò come i porci a San Giovanni mentre al secondo cane si limitò di piantargli la lama nelle viscere, ammazzandolo tra i patetici guaiti della bestia.

“Berto! Berto!”, chiamò Stae lo semisvenuto compagno, afferrandolo per il braccio sano e issandolo su onde nascondersi dietro un luogo riparato. Berto aprì la bocca, gorgogliando sangue e schiuma, sforzandosi con ogni fibra del suo essere d’avvertirlo nella sagoma dietro di lui, la quale levò in aria la scimitarra e la calò in un rapidissimo sibilo sull’amico, in un sinistro scricchiolio dell’ossa craniche.

Sangue e cervella imbrattarono il contadino, trascinato per terra dal corpo del compagno ucciso e scosso dagli ultimi spasimi, la faccia deformata in una maschera grottesca, gli occhi improvvisamente strabici che lo fissavano vacui e torbidi. Anche Berto avrebbe seguito Stae nell’Aldilà, n’era conscio, però ai suoi termini: afferrato il pugnale dalla mano ancora calda dell’amico, facendo appello alle ultime forze il giovane contadino si scagliò contro Mercuria Bua, il quale, senza neppure battere ciglio né scomporsi, lo colpì di traverso per il collo, lasciandogli la testa a malapena attaccata.

Appurata la morte di quel pazzo temerario, il condottiero si guardò velocemente attorno, analizzando la situazione e giudicandola a loro vantaggio -  oramai in pochi erano sopravvissuti al violento scontro - urlò alla sua compagnia: “Setacciate le grotte! Prendete ogni loro bestia, ogni provvista! Spogliate i cadaveri di ogni loro bene! Uccidete chi non s’arrende e fate prigioniero chiunque lo faccia! Tutto ciò ch’apparteneva a questi ribelli è vostro, le loro donne comprese!”, li comandò, mulinando in alto la scimitarra a mo’ d’incoraggiamento.

Più in là, in direzione dell’agognato limite del bosco, un'ansante Zuaneta galoppava aiutata dalla rapidità figlia della disperazione, incespicando di tanto in tanto e rimettendosi in fretta in piedi, il corpicino suo di dodicenne ridotto ad un Ecce Homo di tagli e graffi.

Un singulto le scosse il petto nel captare l’ululato dei cani, i quali stavano avvertendo i padroni della preda fiutata e pronta alla cattura. La ragazzina accelerò fin quanto le gambe glielo permisero, ma già sentiva le forze abbandonarla e, ultima spes, decise quindi di tentare il tutto per tutto. Giunta ai piedi di una farnia, s’aggrappò alla ruvida corteccia, allungando il braccio verso il primo ramo e pian pianino s’issò su di esso. Puntò il piede e si spinse a quello sopra e via così salì fino a nascondersi tra le fronde. Zuaneta s’appiattì al centro della farnia, tremando tutta da capo a piedi, tappandosi la bocca e imponendosi di trasformarsi in un silenzioso topolino e pregando che non la trovassero.

L’abbaiare festante dei cani ruppe questa sua speranza, così come i loro balzi e il continuo e inquieto graffiare sul tronco. Lo scalpiccio di zoccoli confermò i suoi peggiori timori e gli schiamazzi divertiti dei lancieri non tardarono a riverberare nell’aria, ferendola peggio di una frustata.

Cosa dicessero, lo ignorava. Tuttavia ben vedeva il modo in cui uno di loro sventolava beffardo la sua vesticciola, strappatale di dosso quando l’altro suo compare pensava d’averla atterrata e invece n’erano rimasto gabbato, ché Zuaneta era sì stata allevata nella pudicizia, ma scaltra abbastanza da afferrare in caso di necessità i coglioni di un uomo e torcerglieli e stringerglieli al punto da farlo urlare, come insegnatole da sua sorella Zanze. Sgusciando via dal dolorante soldato, la fanciulla aveva ripreso la sua fuga, nuda come il giorno in cui uscì da sua madre e forse ciò aveva infoiato i compagni del demascolinizzato, chissà. Certamente aveva fornito una traccia ai cani.

L’albero tremò, seguito da colpi di ferro, divertendosi infatti i lancieri e gendarmi a fingere d’abbattere la farnia, tra risa, fischi e lerce promesse su ciò che le avrebbero fatto una volta avutala tra le mani. I cani, nel frattanto, saltavano sempre più in alto, ringhiando rabbiosi.

Zuaneta guardò il gruppetto di soldati, i cani e poi il vuoto sotto di sé. Era alto a sufficienza? Se si fosse lasciata cadere di schiena, avrebbe sbattuto la testa abbastanza da morire sul colpo? Domine Iddio l’avrebbe perdonata per quel suo gesto? Lui leggeva il suo cuore, leggeva la sua paura, avrebbe avuto di lei pietà?

La dodicenne s’erse in piedi, dondolando in precario equilibrio sul ramo che già scricchiolava sotto il suo peso. Fece lentamente tre volte il segno della Croce, confessò al Padreterno i suoi peccati, e s’apprestò a porre fine a quell’immeritata sofferenza.

Quand’ecco, una voce virile dalla calata della sua gente, le ridiede speranza.

“Voltati, figlio di puttana e prenditela con un uomo!”

Per aiutarla ad addormentarsi alla sera, sua sorella Zanze le raccontava le vite dei Santi e spesso Zuaneta sognava d’essere la principessa salvata da San Giorgio. Ed eccolo là, neanche fosse sceso di persona dal Cielo, galoppare sul suo destriero bianco latte incontro al drago antropomorfo che l’insidiava, la zagaglia abbassata in attacco pronta a colpire.

Il cavaliere si scagliò ferocemente gagliardo contro il gendarme, colto quest’ultimo alla sprovvista: abile, egli aveva approfittato della visiera alzata del francese per colpirlo dritto in faccia, in mezzo agli occhi senza neppure concedergli il tempo di chieder perdono dei propri peccati. Voltò il cavallo e si preparò a fronteggiare gli altri, mentre i suoi compagni s’aggregavano a lui, dando battaglia senza concedere alcuna via di scampo. Uno di questi cavalleggeri infilzò a guisa di cinghiale i cani, i quali s’accasciarono in un sordo tonfo ai piedi della farnia.

Finalmente calò il sospirato silenzio.

“Desmonta de là! Vien zoso, putela, semo zente in fede de Sen Marco!”, si portò sotto il cavaliere, scendendo da cavallo e sbirciando tra i rami. Si tolse l’elmo, liberando un’arruffata zazzera scura e due occhi nerissimi, incastonati in un viso addolcito da un’espressione cortese e rassicurante. “Non temere: non ti farò alcun male. A casa, a Veniexia, ho moglie e tre bambini più piccoli di te”, le raccontò onde metterla a proprio agio e darle confidenza.

Tirando su col naso, Zuaneta si sporse tra il sospettoso e l’incuriosito, chiedendo con una vocina tremula: “Chome se ciameli?”

Il cavaliere le sorrise teneramente. “Zanzi, Ina e Scipio. Il primo ha sette anni, la seconda sei e il terzo è ancora in culla.”

“Zanzi per Anzolo?”

“Sì.”

“Anca la mia sorea la se ciama Anzola, ma tutti ea ciaman Zanze.”

“Che bello! Tu invece?”

“Mi Zuanna o Zuaneta. O Nana, perhò solo la Zanze la me pol ciamar cussì!”

“D’accordo, mi riferirò a te come Zuaneta. Ma adesso, splendore, scendi giù da lì, così ti posso aiutare a ritrovare la sua sorella Zanze!”, le promise il cavaliere, stendendo incoraggiante le braccia verso di lei.

Che Iddio gliela mandasse buona, la ragazzina scese cautamente, ponendo attenzione a non scivolare né a posizionare il piede su di un ramo marcio o rotto. Balzò giù dall’ultimo ramo (o primo a seconda dei punti di vista), atterrando esattamente davanti al cavaliere, il quale s’inginocchiò, si sciolse immediatamente il nodo al mantello e lo usò per coprirla, abbracciandola di rimando quando Zuaneta gli cinse il collo, scoppiando in un pianto isterico e sconquassante.

“Brava … sei stata bravissima … più coraggiosa di una leonessa … è finita, sei in salvo, sei al sicuro … ssshh, è finita …”, le accarezzava la schiena Marco Miani, consolandola intanto che la contadinella si sfogava in quei singulti liberatori, battendogli sul corsaletto i pugnetti dai palmi spellati dalle infinite cadute per terra. Non gli diede fastidio l’umidità crescente al collo, irrorato delle grasse lacrime della fanciulla né il pungente odore di urina che la permeava per ovvi motivi. “Quanto te la senti ti parlare, raccontami tutto. Di tua sorella, da dove vieni, cos’è successo alla tua gente.”

Zuaneta sciolse la sua presa, stropicciandosi gli occhi. “Siorsì”, annuì e al meglio delle sue capacità gli riassunse quanto accaduto, di come quella mattina lei, sua sorella Zanze e Lussìa fossero andate a raccogliere legna, dell’arrivo dei francesi, della forsennata fuga e di come si fosse separata accidentalmente da sua sorella. “Questo xé queo che mi sciò, patron”, terminò il suo racconto, stringendosi il mantello sull’esili spallucce.

“Brava la mia guerriera”, le diede il Miani un giocoso buffetto sulla guancia sporca di terra e lacrime e la ragazzina gongolò orgogliosa, arrossendo notevolmente.

Dietro di lui ritornava intanto uno stradiota della compagnia di Teodoro Paleologo, staccatosi dal gruppo in rapida esplorazione, il quale informò sottovoce il suo capitano. “Kyrie Markos”, richiamò infine il condottiero la sua attenzione a discorso terminato.

“Ditemi.”

“I miei esploratori mi hanno riferito di uno scontro poco distante da qua. Forse la piccoletta è da lì ch’è scappata via.”

“Uno scontro?”

Il greco confermò. “Non osiamo avvicinarci troppo, non adesso almeno. Fra poco, se vorrete controllare. I ladri non sostano mai a lungo dove hanno rubato.”

Alla categoria dei codardi gli stradioti di certo non appartenevano, dunque sussisteva un altro motivo per il quale si rifiutavano di cavalcare in quel luogo di morte. “In quanti sono?”, s’informò cauto il patrizio. Paleologo glielo riferì. “Sacramento!”, imprecò allora Marco tra i denti, stringendo stizzito le dita sull’elsa della spada. “La cavalleria pesante? Questa non corrisponde ad una fortuita imboscata, bensì ad una spedizione ben pianificata ch’andava a colpo sicuro.”

Il capitano di ventura si ritrovò d’accordo, grato della perspicacia del veneziano. “Sono troppi per noi e verremmo sopraffati facilmente, specie adesso che si sono insuperbiti da questa vittoria!”

“Tranquillizzatevi, kyrie Theodoros, condivido appieno il vostro punto di vista. Neanche io ho alcun’intenzione di finire prigioniero dei francesi, men che meno di quel tartaro di Merkourios Buas. Io e lui abbiamo un conto in sospeso e voglio terminarlo alla pari, non certo in catene!”, digrignò i denti Marco, sollevando di peso Zuaneta e sistemandola sulla sella. Inforcata la staffa, salì in groppa anch’egli d’Eòo. “A questo punto approfittiamone per cercare i superstiti, finché c’è luce. Treviso ha bisogno di quante più braccia possibili per terminare le mura”, suggerì poi.

Si sforzava di mascherare il suo disappunto dietro una maschera di distaccata professionalità; nel suo intimo ribolliva in realtà di rabbia scellerata, frustrato all’infinito da quell’ennesimo imbroglio. Dai rapporti degli esploratori aveva creduto l’Abbazia essere infine aperta ad incursioni notturne, impegnati i francesi a guardarsi le spalle sia dai tedeschi che dai contadini del Montello a sud-est, dalla valle, per realizzare la loro scarsa difesa al lato nord-ovest del monastero, quello che dava direttamente sul bosco. Se invero Mercurio Bua aveva liquidato nel sangue il problema dei villani ribelli, avevano purtroppo perso un validissimo alleato ché i superstiti si sarebbero ancora più rintanati nel bosco e forse non avrebbero più collaborato coi marciani, pensando soltanto a salvare la pelle.

Quel greco-albanese … Marco dubitava d’aver mai odiato in vita sua una persona così tanto, ecco forse l’anonimo assassino senza volto di suo padre poteva superarlo nel podio per intensità … Era stato ad un passo dal liberare Momolo, quella notte avevano intenzione di ritentare l’assalto e invece!

Stramaledetto Bua, che il diavolo se lo ingoiasse e lo cagasse in un pitale di fuoco!

“Vinceremo questa guerra?”, gli chiese di punto in bianco Teodoro Paleologo, squadrandolo lungamente.

Miani arcuò un sopracciglio. “Ne dubitate?”

“Le notizie dalla Patria del Friuli non sono buone. Tutti i nobili friulani stanno aprendo le porte delle loro città, andando incontro ai tedeschi e alcuni perfino all’Imperatore.”

“Puttane”, commentò lapidario Marco.

“Forse davvero siamo stati maledetti, kyrie Markos. Forse è vero che ricevendo i poteri direttamente da Theos, Maximilianos possiede facoltà soprannaturali …”

Il patrizio veneziano si sganasciò dalle risate, gettando indietro il capo. Zuaneta levò lo sguardo in alto, incuriosita da quello scatto d’ilarità. “Suvvia, kyrie Theodoros, non lasciatevi influenzare da queste insulse storielle né dalle vostre antiche credenze sulla figura del Basileus. V’assicuro che Maximilianos è un uomo di carne e sangue, che s’abbassa le braghe e caga e piscia come noialtri, se non di più! Ed uguale a lui anche il Papa, il re Ludovico e tutta la loro allegra masnada d’altezzosi piscialletto, che si credono Missier Domeneddio in terra solamente perché hanno avuto culo di nascere in una reggia invece di una stalla. E a proposito di stalla, ricordate che solamente Uno a questo mondo fa miracoli e prima o poi anche Lui si nauserà delle porcate di queste bestie. Theos è con noi e ci darà giustizia e così la Parthena Maria. Noi dobbiamo resistere e impegnarci al meglio delle nostre possibilità.”

“Aiutati che Theos t’aiuta.”

“Appunto.”

Requiem aeternam dona eis Domine et lux perpetua luceat eis, requiescant in pace. Amen. Una volta rientrato a Treviso, quella sera Marco accese una candela all’altare della Madonna dell’Umiltà nella chiesa-tempio di San Nicolò per le anime dei contadini morti sul Montello, commilitoni sconosciuti ma a lui non meno vicini e fraterni, forse rimasti insepolti alla mercé delle bestie notturne, senza un funerale né una messa. Pregò affinché Dio li giudicasse per i loro meriti e non per le loro colpe, concedendoli quel ristoro e quell’abbondanza negata in vita nonché la Sua protezione ai loro famigliari sopravvissuti, che resistessero saldi nella salute e nella fede fino alla liberazione. Pregò che il provveditore Zuam Paulo Gradenigo cangiasse idea, concedendogli di continuare ad affiancare i Paleologi nelle loro perlustrazioni, invece d’arrostire d’ansia a guardia del Castello. Pregò per Momolo e per Zanze, di riuscire a salvarli; pregò per la sua famiglia.

Poco prima Marco aveva affidato Zuaneta alle cure di madona Maria Malipiero Gradenigo, la quale dopo averla personalmente lavata le aveva regalato un bel vestitino e delle pianelle nuove. Offertole infine un abbondante pasto caldo, la nobildonna aveva poi accompagnato l’intimidita fanciulla a Palazzo, tenendole compagnia mentre suo marito sier Zuam Paulo l’interrogava circa gli avvenimenti della giornata.

Levando gli occhi sull’antica immagine della Madonna allattante il Bambino, il Miani ripercorse mentalmente la breve e sussurrata conversazione avuta con la moglie del provveditore, invocando soccorso e forza alla Madre di Dio, per non arrendersi, per mantenere in lui salda la virtù teologale della Speranza, verde-vestita come il Figlio nell’affresco, sedutoLe sulle ginocchia.

“Se non v’incomoda, sier Marco, vorrei tenere meco Zuaneta in qualità d’assistente in ospedale, almeno finché non si ricongiungerà con la sua famiglia. È una brava donnina, obbediente e lavoratrice.”

“Non potrebbe avere protettrice migliore di voi, madona Maria.”

“Via, adulatore!”

“Quale missiva, se posso chiedere, è giunta a vostro marito da spingerlo a rinchiudersi col Podestà e i capitani a Palazzo, senza consultare il resto del Consiglio?”

“Dubito poterne parlare liberamente, sier Marco.”

“Suvvia, il mio barba è consigliere ducale: ne verrei ugualmente a conoscenza.”

“D’accordo, a condizione però che ve lo teniate per voi: il Consiglio dei Dieci ha inviato un piano segretissimo per la distruzione del ponte sulla Piave.”

“Perché non ci è stato comunicato? Avrei potuto distruggerlo io oggi stesso, intanto che quei dannati erano impegnati a massacrare i contadini!”

“Perché la Patria del Friuli è persa o lo sarà presto, sier Marco. Stamane in Collegio c’è stata una grande agitazione alla notizia di come sier Alvixe Gradenigo, luogotenente della Patria, abbia abbandonato di gran fretta Udene, senza portarsi via l’artiglieria o perlomeno inchiodarla. Molti rettori di castelli stanno disertando le loro postazioni; i Conti di Porcia hanno offerto la loro dedizione all’Imperatore. A Spilimbergo il castellano esiliato Zuane Erico ha catturato il provveditore Jacomo Boldù e consegnato lui e la città agli imperiali.

“Non possiamo sbilanciarci troppo al di là della Piave. Ormai la linea di confine s’è assottigliata. Un conto è inviare esploratori, un conto è distruggere il ponte: richiederebbe un’operazione perigliosa a rischio di troppi uomini. Non ci è concesso questo lusso, lo sapete. Dobbiamo accettare che questo turno lo stanno vincendo i franco-imperiali e adeguarci di conseguenza.”

“Il provveditore degli stradioti sier Ferigo Contarini ci raggiungerà presto qui a Trevixo. E vedrete, madona Maria, quanto più dolorosamente cade chi ha creduto di toccare il cielo!”

“Dio v’esaudisca, sier Marco. Dio v’esaudisca.”

 

***

 

Uno dei privilegi di ricoprire la carica di consigliere ducale includeva la possibilità di piombare all’improvviso in camera del Serenissimo senza premura d’annunciarsi, né di rispondere alle domande delle sue guardie del corpo sui come dove e perché di quella visita, scaltro espediente atto ad impedire al Doge di tramare contro la Repubblica e in generale per comunicargli in tempo reale urgenti notizie e altre peculiarità legate al suo ufficio.

Un trafelato cancellerie da Palazzo aveva strappato sier Carlo Morexini “da Lisbona” dal sonno e dal talamo nuziale, spronandolo a correre difilato al piano nobile e svegliare suo padre sier Batista, il quale, udito il conciso messaggio, aveva spedito il segretario e i suoi emissari a radunare quanto prima gli altri cinque consiglieri ducali, intanto che si vestiva alla bell’e meglio, aiutato contemporaneamente dal figlio e dalla moglie e soltanto in gondola ebbe il tempo di infilarsi le pianelle rosse, raddrizzandosi la vesta abbottonata di traverso e la stola.

Giunto a Palazzo Ducale e fattosi riconoscere, assieme ai suoi colleghi era entrato negli appartamenti dove dormiva Missier il Doxe Lunardo Loredan, scuotendolo delicatamente e così rendendolo partecipe, in letto e ancora con la berretta da notte e in camicia, del disastro in procinto d’avverarsi.

Le loro spie avevano scoperto e riferivano come, di fronte ad una situazione militare insostenibile e alla possibilità di saccheggio e distruzione di Udine, domino Antonio Savorgnan aveva accettato di negoziare coi messi imperiali nonché le loro generose offerte, ossia il mantenimento di tutti i suoi feudi e proprietà in cambio della sua perpetua fedeltà alla casa von Habsburg. Con le cernide di 5.000 e passa uomini al soldo del Savorgnan; l’imminente occupazione di Udine e l’artiglieria ivi trovata, mancava all’appello soltanto Gradisca d’Isonzo e la conquista della Patria del Friuli poteva dirsi completata.

In un sol giorno, Antonio Savorgnan aveva disconosciuto l’alleanza centenaria del suo casato con Venezia.

Il doge Lunardo Loredan s’accasciò sul materasso, sprofondando quasi nella turchesca che l’avvolgeva. Dopodiché, balzando giù dal letto, il suo volto scarno e rugoso si tinse di scarlatto e scagliò certe maledizioni contro il conte ribelle da superare in fantasia le Dieci Piaghe d’Egitto. Passandosi una mano tremante sugli occhi, implorò al Minor Consiglio e al Consiglio dei Dieci di porvi rimedio, in qualsiasi modo ritenessero più idoneo: stipulare una tregua, pagare il riscatto della Patria, cercare di persuadere il Savorgnan a ritornare dalla parte della Serenissima, punire per la loro negligenza sier Andrea Loredan e sier Piero Capelo …

Il povero sier Hironimo Querini, capo dei Dieci, assieme a tutti i suoi colleghi ascoltavano il Doge costernati e indecisi su quale soluzione prendere, lì così su due piedi senza alcun consulto, almeno per dar qualche appiglio di consolazione al Serenissimo, che già piangeva la caduta di Treviso e la fine della Repubblica.

Al che sier Batista Morexini dichiarò colmata la misura di quella tragedia da due soldi e, avanzando in mezzo alla stanza, interpellò risoluto sier Hironimo: “Lustrissimo collega, come voi ora anch’io feci parte del Consejo dei X e conosco lo scopo per cui fu costituito. Se dobbiamo sporcarci le mani per la salute della Signoria, lo facciamo di buon cuore.

“Avé sentio i capitoli: domino Antonio Savorgnan è un ribelle traditore e così va trattato. È inutile corrergli dietro alla stregua di una donzella respinta. Il tempo della misericordia, dell’onestà, della guerra all’italiana è finito: Impero, Franza, Mantoa, Frara si credono più forti e crudeli di noi? Li dimostreremo che Veniexia al bisogno sa e può superarli.

“Dobbiamo fare di Antonio Savorgnan un exemplum, acciocché gli altri nobili di terraferma sappiano cosa li aspetta, in caso gh’avian el muso di tradir la Signoria. Lui, il figlio don Nicolao, suo fratello Zuanne, i suoi nezzi Francesco, Bernardin … tutta la sua casata!”

“Ma don Nicolao è un canonico!”

“Donca? Anche i religiosi tradiscono!”

Un mormorio di consenso riempì la sala e il Doge stesso aveva assunto un’espressione attenta, piacendogli la prospettiva di fare del traditore friulano un esempio per il resto della nobiltà feudale di terraferma così da infrangere la loro illusione di perpetua immunità.

“Il cugino del ribelle, domino Hironimo Savorgnan, in questo preciso momento si starà anche lui recando dall’Imperatore Maximiano, forse per capire quale profitto può ricavarne da un eventuale vassallaggio”, seguitò sier Batista, ripetendo quando appreso dalle spie e delineando un certo piano, che gli era venuto in mente durante il tragitto da Ca’ Morexini a Palazzo Ducale. “Ora, dalle informazioni ottenute durante il mio mandato nei X, so  per certo che domino Hironimo sempre è stato segretamente geloso del cugino Antonio, per il suo potere e reputazione nella Patria, nonché per la grande stima che la Signoria nutriva nei suoi confronti. Pertanto, in virtù di tanta fama ed eccelse qualità, sono pronto a scommettere che anche l’Imperatore preferirà il Savorgnan ribelle rispetto a quello ancora … nostro.”

All’epoca il “da Lisbona” non aveva potuto sfruttare tale rivalità tra cugini; adesso invece cascava a pennello ché facendovi leva avrebbe impedito ai due parenti d’unire le forze e di soccorrersi a vicenda e dove uno aveva fallito, l’altro avrebbe rimediato. Un altro fattore non trascurabile su cui far leva rimanevano i matrimoni d'Hironimo Savorgnan: dopo la prima moglie, Maddalena della Torre, egli s'era legato al patriziato veneziano sposando le nobildonne Felicita Trum, Biancha Malipiero ed infine, due anni addietro, madona Orsina da Canal di sier Hironimo, già vedova di sier Marco Antonio Marzello.

“Dunque proponete di confiscare i beni, le terre, i castelli ad Antonio Savorgnan per cederli a suo cugino domino Hironimo?”, concluse sier Hironimo Querini. “In questo modo egli otterrà ciò cui ha sempre ambito: autorità in Friuli, la fiducia della Signoria e il ruolo di capo del partito dei zambarlani.”

Sier Batista annuì gravemente, seppur la bocca gli s’arricciasse in una piega compiaciuta assai poco raccomandabile. “Cao de zambarlani? Certo, glielo faremo credere”, fu la sua acuta puntualizzazione.

In realtà, spiegò il Morexini ai suoi colleghi, Hironimo Savorgnan sì sarebbe divenuto il nuovo signore Savorgnan, sì il nuovo principe-cliente di Venezia ma capo del partito filo-veneziano in Friuli? Soltanto di facciata e non più autonomo com’era stato in passato con suo cugino. I nobili friulani avevano ripagato la fiducia della Serenissima col peggiore dei tradimenti  - asseriva il consigliere ducale - mai più avrebbe la Signoria abbassato la guardia né allentato la presa su coloro che sarebbero sopravvissuti alla sua vendetta.

“E domino Antonio Savorgnan? Come vi pare si debba procedere nei suoi confronti?”

Oramai era chiaro che non ci sarebbe stato per il Conte alcun mandato di cattura, né un processo pubblico né alcuna offerta di riappacificazione. Si discusse piuttosto sulla ricompensa da riservare a chiunque riuscisse ad uccidere il ribelle, giungendo alla ragionevole cifra di 5.000 ducati e della revoca del bando o l’amnistia da ogni condanna per qualsiasi crimine commesso. In questo modo, giudicarono soddisfatti il Doge, i Dieci e il Minor Consiglio, nessun angolo della terra conosciuta all’uomo sarebbe stato sicuro per Antonio Savorgnan, in perpetua fuga e costretto a guardarsi le spalle fino alla fine dei suoi giorni, Deo volente assai presto. Il contratto d’assassinio sarebbe stato poi archiviato nella “Secretissima”.

“Gli strumieri ci libereranno di lui.”

“Quei vigliacchi, ribelli traditori filo-imperiali? Dobbiamo proprio trattare con loro?”

“Sì, perché stavolta abbiamo un nemico in comune”, ribatté conciso il consigliere ducale alle giuste obiezioni degli altri senatori. “Anche se adesso Antonio Savorgnan parteggia per l’Imperatore, non dimentichiamoci come egli in passato abbia servito zelantemente la Signoria, portandolo a massacrare per gli interessi suoi e nostri intere famiglie di strumieri. Un fatto di sangue che i suoi conterranei non avranno di certo dimenticato assai facilmente. Né perdonato.”

Alleandosi cogli strumieri – illustrò pragmatico - sarebbero riusciti a braccare Antonio Savorgnan in breve tempo e giustizia compiuta senza lordarsi direttamente le mani. Compito dei Dieci sarebbe stato di scovare tra i nobili friulani chi tra questi era stato particolarmente danneggiato dai saccheggi del “Crudel Zobia Grassa”, fomentato e diretto dal Savorgnan stesso, e di conseguenza disposto ad ogni compromesso pur di vendicarsi dell’ex-capo della fazione zambarlana.   

Dategli ciò che vogliono-  insistette sier Batista - dategli appunto sangue e vendetta per i massacri, gli stupri e saccheggi subiti dai zambarlani capeggiati dall’antico alleato della Repubblica. Che questi nobili si scannassero pure tra di loro per riacquistare l’onore perduto, cosicché nessuno avrebbe potuto in seguito affermare che la Signoria aveva in realtà architettato ogni singolo dettaglio di quell’esecuzione. E anche supponendo che quegli strumieri avessero deciso di denunciarla, esponendo al mondo la sua complicità, hé, chi li avrebbe mai creduti? In fin dei conti, non erano anch’essi dei traditori filo-imperiali esattamente come il Savorgnan? Nessuno si sarebbe stupito se la Signoria avesse deciso prontamente di sbugiardarli e di giustiziarli. L’ombra della spada del boia già accarezzava infatti il loro collo, gli strumieri non avevano nulla né da perdere né da rivelare. Ecco, forse potevano togliersi l’ultima soddisfazione di vendicare l’onore offeso delle loro donne.

“Ed in nome dell’onore, rinunceranno alla loro libertà e diverranno nostri vassalli per sempre”, concluse solenne il Morexini il suo discorso. In nome dell’onore mostreranno con orgoglio le nostre catene, concluse a menteIl consigliere tacque in una significativa pausa e, non ricevendo repliche, intrecciò le mani davanti a sé, in attesa del verdetto finale del Consiglio dei Dieci.

Missier il Doxe Lunardo Loredan prese un profondo sospiro e, alzandosi dal letto, sentenziò: “Vae Antonio Savorgnano”, invitando, se  la soluzione li garbava, sier Hironimo Querini e il resto del Consiglio d’attivarsi onde procedere come suggerito, in via straordinaria ovviamente date le circostanze, da sier Battista Morexini, il quale si scusò timido e modesto, giustificandosi e sostenendo la sua riluttanza a volersi far consigliere dei Dieci. Soltanto, considerata la magra figura di due sue membri – videlicet sier Andrea Loredan e sier Piero Capelo – e possedendo lui un poco (molta) esperienza come ex-consigliere e segretario dello stesso organo esecutivo, ecco, ci teneva a condividere le sue informazioni onde sostenere i suoi colleghi senatori in questo difficile momento, tutto per la salvezza della Signoria.

D’altronde, già era stato strano coinvolgere il Doge in quella discussione dove solitamente lui ascoltava e annuiva a decisioni previamente approvate e trascritte; una piccola e tuttavia condonabile eccezione poiché in guerra bisognava per sopravvivere dimostrare una certa flessibilità.

“Secondo voi”, fermò sier Hironimo Querini il “da Lisbona”, proprio mentre quest’ultimo stava per risalire sulla sua gondola. “Maximiano vincerà questa guerra?”

Al consigliere ducale sorse una gran voglia di grattarsi i coglioni, soltanto che in pubblico, malgrado l’ora tarda, proprio non sarebbe stato il caso. Già sua moglie lo chiamava vecchio satiro libidinoso, meglio non coinvolgere anche l’intera Piazza San Marco. “Non vincerà”, condivise spassionatamente la sua opinione. “Maximiano è abile a conquistare terre, ma che poi sia in grado di mantenerle, hé, quest’è un altro paio di maniche …” se ne sarebbero accorti i friulani, una volta giunte le esose e irragionevoli tasse dell’Imperatore.

Magra consolazione? Folle speranza? Chi lo sa.

Sier Batista, finalmente nella sua felze, si levò la bereta e si passò una mano sulla fronte, massaggiandosi poi gli occhi stanchi quanto la sua anima. Arrivare all’apice o quasi del potere a Venezia significava sobbarcarsi delle decisioni più spietate e impopolari, soffocando ogni afflato di rimorso e di pietà cristiana e in quegli anni di guerra, tali occasioni divenivano sempre più frequenti, tanto che in alcune occasioni, a Messa, l’anziano patrizio per poco giurava d’udire distintamente le maledizioni scagliategli contro da tutti coloro che, per la sopravvivenza della Serenissima, lui e i suoi colleghi avevano cinicamente disposto.

Presto Antonio Savorgnan si sarebbe aggiunto a quel coro di voci accusatrici. E anche i senatori sier Andrea Loredan e sier Piero Capelo.

“No, vira da st’altra parte!”, gridò al pope de casada, indicandogli dove voleva recarsi. Non al suo palazzo, dove l’attendeva la sua buona ma petulante moglie. Il suo vero erede sia spirituale che terreno Carlo, per quanto solidale, aveva da badare alla sua bella e giovane Maria e a Dio piacendo una famiglia sua. Gli altri suoi figli Nicolò, Ferigo e Hironimo? Mah, che avrebbero capito dei suoi crucci, loro che disprezzavano quel mondo che neppure conoscevano, interessati più alle questioni celesti che terrene? Neanche Luzietta poteva consolarlo dalla solitudine e dalla malinconia, pur tenera e amorosa come sempre, tuttavia anch’ella sul viale del tramonto. Ah, l’esser vecchi e aver vissuto troppo a lungo! 

Sarebbe andato da Leonora, l’unico suo porto sicuro in gran tempesta, l’unica a cui credesse quando lei gli sussurrava teneramente materna: Andrà tutto bene.

Una volta giunto a Ca’ Miani, infatti, il servitore Baldissera non si stupì di scorgerlo all’uscio della porta d’acqua e lo scortò fino al piano nobile, dove già la sua padrona, avvertita, lo attendeva.

Sier Batista non proferì parola, si lasciò guidare dalla sorellastra accanto al caminetto e una volta seduta lei sullo sgabello e lui sul cuscino, le appoggiò il capo sul grembo come solevano fare da giovani e nubili, quando Leonora lo consolava per un rimprovero particolarmente severo o per una delusione amorosa o semplicemente per sentire le sue invettive contro l’eterno rivale Anzolo Miani. All’epoca e adesso gli accarezzava il capo, silente, in attesa che il fratellastro incominciasse a sbottonarsi con lei, aprendole il suo cuore.

Pur legato dalla segretezza del suo ufficio, tra lui e Leonora non esistevano segreti. Le confessò ogni discorso, ogni preoccupazione, quasi cercasse da parte sua un’assoluzione, valutando il suo giudizio migliore di quello di un qualsiasi prete.

In particolar modo, le rivelò quanto soffrisse per l’infamia che si stava per abbattere su sier Andrea Loredan e sier Piero Capelo. Il voltafaccia del Savorgnan avrebbe trascinato nell’onta i suoi sostenitori nel Senato e chiunque fosse rimasto coinvolto nei recenti eventi della politica veneziana in Friuli, vittime innocenti di feroci rappresaglie politiche e nessuno, il “da Lisbona” se lo sentiva, avrebbe mai pagato tanto quanto il Loredan, ingiustamente poi: il giorno prima del tradimento di quel pezzente, gli oratori di Udine avevano persino chiesto, per via della sua esperienza e reputazione, di far nominare proprio sier Andrea luogotenente della guarnigione locale, nutrendo in lui la massima fiducia e stima.  Da alcuni senatori sier Batista aveva poi appreso come sier Andrea avesse intenzione l’indomani di sborsare una notevole cifra di ducati, onde pagare di tasca propria le truppe stanziate a Padova acciocché potessero soccorrere Treviso.

Venezia nelle punizioni si dimostrava cieca e implacabile, il Morexini lo sapeva: il Loredan, Capelo e i  loro infelici compagni di sventura sarebbe divenuto una pietra di scandalo, ostracizzati e la loro carriera congelata finché sarebbe piaciuto alla Signoria e la sua collera placata. Avevano sbagliato, certo, ma comunque spinti dalle migliori intenzioni.

“Spero che l’uccidano e anche presto”, mormorò sier Batista, nascondendo il volto stanco sul velluto della gonna nera di Leonora. La mano di lei si posò delicata sulla sua e soltanto allora egli s’accorse di quanto stesse tremando.

Perché poi? Un tiro del genere da tempo l’aveva sospettato, addirittura quasi profetizzato; ciononostante, per quanto ci si prepari al peggio, esso costantemente riusciva a sorprendere e a ferire.

Poco importava, oramai. Questione di ore ed Udine si sarebbe consegnata agli imperiali, indipendentemente da cosa sier Batista avesse o non avesse fatto per impedirlo.  

Il futuro si trasformava velocemente in presente e subito finiva relegato nel passato; tendersi di nuovo al futuro, giocare d’anticipo prima ancora d’ipotizzarlo. Non c’era spazio per il presente men che meno per il passato.

Soltanto il futuro, soltanto il futuro. Indefinibile, malleabile, volubile. Un regno senza sovrano dove tutto era possibile, anche vincere quella stramaledetta guerra ribaltando clamorosamente i giochi.

 

***

 

Trascinando il letto presso il muro e nello specifico sotto la finestra, Hironimo si pose in piedi e scrutò il campo sottostante l’Abbazia. Stava giusto indugiando negli ultimi strascichi del sonno indotto dal farmaco di Fra’ Anselmo, quando cori alti e ben distinti eppure intrecciati in strana polifonia l’avevano destato completamente, attirando la sua attenzione.

A quanto pareva non si trattava dell’unico curioso: i monaci, quei pochi pazienti che riuscivano a starsene in piedi e ovviamente Thomà che non stava mai fermo, tutti costoro avevano trovato il modo di guardare quanto stava accadendo e, a giudicare dalle facce disgustate di Fra’ Anselmo e perfino di qualche soldato, non doveva trattarsi di un bello spettacolo.

Con lo sguardo domandò al benedettino cosa si fosse perduto, nel frattanto che questi l’aveva stordito tra tisane, decotti e chissà quali altri intrugli. Non che se ne lamentasse, avrebbe potuto andargli anche peggio: la sua emicrania aveva infatti raggiunto tali livelli d’agonia che le vene del giovane Miani s’erano ingrossate allo spasimo neanche volessero scoppiare e il ragazzo stesso stringeva i denti e dimenava convulsamente gli arti, tirandogli i muscoli tesissimi del corpo, al che Fra’ Anselmo aveva deciso di sottoporlo ad un salasso d’emergenza. Sennonché, all’improvviso,una copiosa epistassi dal naso aveva regolato la pressione nonché la circolazione sanguigna, liberando in parte Hironimo da quella dolorosa impressione d’indossare al capo le tenaglie d’una garrotta. Il monaco l’aveva allora costretto a bere una strana bevanda amarognola e il patrizio non aveva capito più niente, crollando sfinito sul letto.

“E’ da un bel po’ che continuano a far bisboccia”, gli rivelò invece un soldato, dal cui accento Hironimo intuì provenire dalla Lombardia, probabilmente al soldo di Sanseverino o Pallavicino.

“Che vuoi dire?”

L’uomo tossì forte, sconquassandosi il petto. Afferrò rapido il pitale, si raschiò la gola e vi sputò sopra un grumo verde misto a sangue. “Mentre tu ronfavi alla grossa, il capitano Mercurio Bua e i suoi stradioti hanno tagliato a pezzi quei villani là rintanatisi nelle grotte, portando seco quei pochi sopravvissuti, le bestie e le provviste ma soprattutto le loro donne. Questi lamenti che senti sono il loro canto funebre.”

Hironimo tese l’orecchio, distinguendo tra i festanti schiamazzi il lugubre pianto muliebre e un brivido freddo lo percorse dalla nuca lungo l’intera colonna vertebrale, ben intuendo il motivo dietro quell’apparente misericordia, dietro quel risparmiarle la vita contrariamente ai loro uomini. Era stato Mercurio Bua ad ordinarlo? Lo immaginava appartenere alla peggior razza d’avventurieri e approfittatori, ma permettere tali … tali …

“Beh, suppongo sia giusto così”, fece spallucce il lombardo.

La testa del patrizio scattò rapidissima nella sua direzione. “Prego?”, sibilò astioso, avvertendo l’ira vibrargli nel petto.

“Le nostre donne sono state violentate dai francesi, mi par giusto tocchi alle vostre, no?”

Un pugno in faccia corrispose alla risposta del giovane Miani. E poi un secondo per cavarsi lo sfizio di spaccargli il naso prima di ciondolare dalle vertigini e cadere per terra, tossendo a carponi e vomitando anch’egli catarro e pezzi della colazione. Uno sbuffante Fra’ Anselmo lo trascinò via dalla sua preda, mentre un confratello tratteneva il soldato smanioso di restituire il favore al patrizio.

“Daghetele cum on legno!”, l’ammonì perentorio il benedettino, costringendo un ansimante Hironimo a calmarsi. “Non vorrai mica che il Bua ti dia per guarito e che ti rinchiuda di nuovo nella sua cella, no?”, gli sussurrò all’orecchio con la scusa di controllargli la temperatura, ricordandogli implicitamente il piano di fuga.

Hironimo si conficcò le unghie nei palmi delle mani, traendo sangue e battendo furioso e impotente i pugni sulle cosce. Era colpa sua, soltanto sua. Se soltanto non l’avessero tradito. Se soltanto Castelnuovo avesse retto l’assedio. Se soltanto avesse puntato una colubrina dritta in testa a Mercurio Bua, facendogliela saltare in mille pezzettini a guisa di melone. Per colpa sua li aveva tutti sulla coscienza. Era suo dovere difendere la via per Treviso, era … era …

“LA MIA MAMA, A XE’ STA VERGOGNADA DI TODESCHI E LE MII SORELE CO’ ELA. E TI TEA CIAMI JUSTITIA QUESTA?! TE SARASTU UN DIAOL, BECHO D’UN LUMBARDO!”, ruggì Thomà, afferrando un pitale pulito e scagliandolo contro il soldato, colpendolo alla spalla e sfracellandosi per terra tra lo sconcerto generale. “Co’ te sdormi, te degolaré!”, gli promise minaccioso, mimando col cucchiaio di legno uno sgozzamento.

“Aspetta e spera, poppante”, lo derise il lombardo, ridacchiando incurante e a sua volta lanciando una caraffa contro il fantolino, prontamente intercettata da Hironimo, il quale gliela rigettò indietro, colpendo però il muro sopra di lui essendosi il soldato agilmente abbassato.

“Quella gran vacca di tua madre, quella sì che puppa forte, tutti i cazzi di Francia!”, lo insultò battagliero il giovane patrizio, nascondendo il bambino dietro la sua schiena onde ripararlo da altre balote di fortuna. “Avvicinati a mio figlio e neanche t’accorgi di morire!”

“Ripeti un po’, troia veneziana? Vuoi ingoiare i denti, la lingua, il cervello mentre crepi?”

“Avanti, succhiacazzi buzaron, fatti sotto, ché t’impicco con le tue budella!”

“Qui nessuno ammazza nessuno e fra poco aggiungerò sapone alla vostra acqua, per nettarvi quelle vostre onte linguacce!”, esplose infine Fra’ Anselmo, afferrando la scopa di saggina e percuotendo salomonicamente le dure cervici di ciascuno, secondo le buone creanze di un po’ per uno per far male a ciascuno. “E voi dovreste essere gli scudi e il sostegno delle donne? Voi? Dei collerici, immaturi, frignanti bambinetti? Povere figliole, quanto sono cascate male!”, strillò il benedettino, gettando via di malagrazia la scopa e ritornandosene furibondo alla sua postazione. Estraendo il suo rosario e agitandolo a mo' di frusta, puntò gli indici contro il soldato lombardo e Hironimo, ambedue a capo chino, includendo tuttavia anche il resto dei pazienti nella sua veemente filippica. “Le vostre stolte recriminazioni mi nauseano! Le vostre stupide rivalità pure! Invece d’insultarvi, pensate a quanto stiano patendo in questo esatto momento quelle disgraziate contadine e vergognatevi! Io pregherò per la loro salute e spero anche voi, se v’è rimasto un briciolo di coscienza in quelle vostre animacce nere!”

E mentre Fra’ Anselmo impediva una zuffa da quartiere militare nella sua infermeria e forniva ottimi spunti di riflessione non soltanto ai litiganti ma anche agli altri pazienti, nel campo sotto l’Abbazia si respirava aria di festa. Così aveva ordinato Mercurio Bua, in apparenza a mo’ di premio per la vittoria conseguita quel giorno, in realtà per tenere a bada le truppe cadaun giorno sempre più indisciplinate e irrequiete. Almeno che dirottassero altrove le loro energie, coloro che non stavano morendo né di fame né di malattia.

Stipata in recinti improvvisati assieme alle sue sventurate compagne, Lussìa s’accarezzava con una mano il ventre rigonfio e con l’altra stringeva convulsamente una ciocca miracolosamente strappata a Berto, gli unici ricordi terreni rimastele di lui.

Per quanto si fosse sforzata di correre veloce, aveva indugiato troppo a lungo ed era stata una delle prime a finire prigioniera: fortunatamente il pesante zendale la ingoffava nascondendole la pancia, altrimenti Dio solo sapeva come avrebbero reagito quei satanassi. Ricondotta al luogo dello scontro appena terminato, la giovane contadina aveva approfittato di un attimo di distrazione dei suoi carcerieri per staccare dei capelli al defunto compagno. Anche se ricoperto di sangue e la testa mezza decollata, l’avrebbe riconosciuto ovunque e sempre in maniera furtiva s’era portata la sua mano gelida e rattrappita sul pancione, quasi a chiedergli un’ultima benedizione per quel figlio che non avrebbe mai conosciuto.

Incessantemente, neanche si fossero trasformate in vitelli da macellare, quel dannato cancello s’apriva e si chiudeva e due o tre soldati entravano alla volta, issando di peso una piangente contadina, trascinandola via dal gruppo che inutilmente si stringeva a mo’ di difesa, sperando di rendersi invisibili o più pesanti del piombo. Quando ritornavano, singhiozzavano doppiamente, rannicchiandosi vergognose e doloranti nell’angolo.

Lussìa chiuse gli occhi, annusando la presenza del nuovo arrivato e non oppose resistenza quando lui le afferrò il braccio, ponendola in piedi di malagrazia e così spintonandola in direzione della sua tenda.

Non preoccuparti, bimbo mio, la mamma è qui. Ti proteggerà a qualsiasi costo.

Nessun’umiliazione le sarebbe apparsa troppo disonorevole, se significava offrire al piccino una possibilità di nascere. Glielo doveva a Berto: una vita per un’altra vita, un morto per un nascituro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Sia ben chiaro che questo Alvise Gradenigo e il Gian Paolo nostro non sono assolutamente parenti; sicuramente però il nostro caro provveditore avrà rosicato parecchio nell’esser associato (per via d’omonimia) a chi abbandona la propria artiglieria senza neppure manometterla … sigh … Idem per il doge Leonardo Loredan e Andrea Loredan.

Sulle vicende del Friuli si potrebbe scrivere una storia a sé, ho tentato di riassumere pur rimanendo quanto più possibile esauriente, spargendo di qua e di là degli indizi su quanto stesse accadendo, fino alla sorpresina (?) finale. Anche perché fu effettivamente una conquista lampo – tutti i nobili friulani s’arresero e i contadini mica avevano voglia di farsi ammazzare – ai todeschi: ti piace vincere facile!

Lo so che i capitoli stanno divenendo sempre più lunghi: abbiate pazienza, lo zenit della storia si sta avvicinando e purtroppo questi giorni furono assai frenetici! Superata la “crisi”, ritorneremo a capitoli più umani, promesso!

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

[1] in breve, così anche da capire il discorso di Michele: Brisighella era stata, dopo vari tira e molla tra la casata e il Papa, sotto i Manfredi di Faenza, poi conquistata nel 1500 da Dionigi Naldi per conto di Cesare Borgia e infine nel 1503 si diede sempre su impulso del Naldi a Venezia, quando ormai la cometa del Valentino era passata. Ritornò papalina dopo la rotta di Agnadello nel maggio del 1509.

[2] Gendarmi = nel XVI secolo s’intende il corpo specializzato di cavalleria pesante, come i Corazzieri per l’esercito imperiale.

[3] San Valentino (sì, proprio lui, quello del 14 febbraio) era invocato come protettore degli epilettici, avendo curato il figlio Cratone che soffriva appunto d’epilessia.

[4] Giuliana di Collato = nata nel 1186 a Collalto e appartenente all’omonima famiglia, morì a Venezia nel 1262. Per un certo periodo visse assieme alla Beata Beatrice I d'Este nel monastero benedettino di Santa Margherita sui Colli Euganei, dopodiché si trasferì alla Giudecca a Venezia, dove fondò la chiesa  e il monastero dei Santi Biagio e Cataldo, apparsole il primo in sogno. Beatificata da Benedetto XIV nel 1743, il suo corpo riposa adesso a Sant'Eufemia a Venezia, in quanto il monastero e la chiesa vennero demoliti nel 1822 da Giovanni Stucky per costruire il mulino Stucky, oggidì un lussuoso hotel.





 

  
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