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Autore: Exentia_dream2    08/01/2021    7 recensioni
Questa storia partecipa al contest “4 canzoni” indetto da Nemesi01 sul forum di EFP- ci sono pensieri che si rincorrono nella mente, che non seguono nessun filo logico, che fanno così male a scriverli su carta. Che, non serve contare fino a cento e respirare a fondo, fanno male lo stesso. E' questo che pensa Hermione in una notte dove un quarto di luna illumina la sua casa, la loro casa...
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Fred Weasley, Hermione Granger | Coppie: Fred Weasley/Hermione Granger
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Questa storia partecipa al contest “4 canzoni” indetto da Nemesi01 sul forum di EFP.

 
Casa nostra (contare fino a cento).



Pensavo di averti sentito ridere e ho riso anch’io,
in piedi davanti alle radici di un albero che stava lì da troppi anni.
La tua bocca restava dritta, 
ma i tuoi occhi sembravano quelli di un bambino la notte di Natale.
Ti aspettavo, ti ho detto.
Mi hai risposto che non aveva senso farlo,
che era inutile aspettare se non sapevo contare fino a cento.
Ma non era vero, sapevo farlo: uno, due, cento.
Mi hai dato un bacio e poi sei rimasto in silenzio
ché la corsa ti aveva stancato- allora, riposa, amore.
Era così strano: avere la guerra a un passo da noi e noi che, a dispetto della morte,
siamo nati insieme, come se prima non fossimo mai esistiti,
con i progetti di casa nostra in una tasca e la paura di poter morire nell’altra.
Poi, l’inverno era arrivato e la neve aveva coperto tutto,
anche le impronte con cui l’ho sporcata per indicarti la strada del ritorno.
Chissà se hai mai guardato sotto la superficie, 
chissà se hai fatto finta di non vedere quant’era poca la distanza tra noi
o se non l’hai vista davvero.
Credo di aver pensato di averti visto provare mettere i piedi nella neve e tirarli subito fuori,
come quella volta che siamo stati al mare e hai fatto di tutto per scappare dalla sabbia,
che era troppo fastidiosa, troppo calda.
Ma la neve è fredda, lo so,
e magari non li sentivi più, i piedi,
con quel formicolio fastidioso che sicuramente si è esteso in tutta la gamba,
è per questo che sei rimasto fermo?
Credo di aver pensato di averti visto provare a fare tante cose, 
ma non lo so, non ne sono sicura…
perché, magari, ci hai provato davvero 
o, forse, non ci hai provato mai.
Sei tornato una sera senza dire una parola, 
perché avevi ragione, amore: in due è meglio- fa meno male,
fa meno paura, il buio che abbiamo dentro e la guerra che tuona fuori-
è più facile contare fino a cento.
E ti mettevi a dormire con le coperte tirate fin sopra i capelli, 
mentre io nascondevo i miei piedi sotto alle tue ginocchia.
Ti lamentavi dei miei capelli che ti riempivano la bocca,
delle mie mani sempre fredde,
del modo che avevo di amarti e perdonami,
ma quello era l’unico modo che conoscevo:
dirti di fare di più, di fare meglio, di farlo insieme.
Pensavo di averti sentito cantare, una volta
ed è stato quello il momento in cui ho capito che
avevi un’altra voce, che era solo per te,
che non facevi ascoltare a nessuno
e mi sono seduta sulle scale a lasciarmi cullare,
mentre tu lavoravi a chissà cosa, chino sul tavolo della cucina.
E le tue mani che si muovevano lente
come se stessi disegnando gli intarsi del legno 
e ogni crepa di questa piccola casa, casa nostra,
per ripararla, per ripararci.
E, se l’inverno è stato neve,
è stato anche un camino accesso di fronte a cui hai ripreso fiato,
con in mano un libro invecchiato e una cioccorana:
ti sei seduto nel posto che ti avevo occupato stendendo le gambe e 
hai portato l’autunno come fosse un bouquet di fiori,
di foglie secche e tramonti bellissimi.
Avevi paura di ritrovarmi, avevo paura di perderti
e ti mandavo via perché dicevo di essere cambiata, anche se ero sempre la stessa.
E sapevo farlo fare, contare fino a cento, e venire a riprenderti,
inginocchiarmi al tuo fianco e chiudere quel buco nel muro,
ché l’umidità s’era mangiata l’intonaco e a te entrava nelle ossa 
e d’estate ti s’incollavano i capelli alla fronte,
giravi per casa in mutande e te ne fregavi dei vicini che ti guardavano male.
Poi, ti ho visto piangere quando la Tana è stata distrutta,
ti ho detto che avremmo fatto meglio a lasciare tutto. 
Hogwarts è un posto sicuro, ti ho detto, perché lasciarti in un corridoio sarebbe stato più facile che dirti la verità,
perché forse avresti parlato con i quadri e non avresti visto il tuo riflesso solo allo specchio,
non saresti stato più a metà.
Due maglioni, il tuo orrendo cappello viola e hai chiuso la porta,
come se fosse stato possibile dimenticare tutto, dimenticare noi,
perdersi nelle voci dei professori e non dormire più in quel letto che pendeva a destra,
tra quelle pareti che avevamo riempito di cornici e macchie di caffè,
dove contare fino a cento non era poi così importante.
Adesso ci sono solo macerie 
e qualche asse di legno che ha avuto la meglio sul tempo,
e siamo crollati anche noi,
in quel cumulo di detriti impolverato anche dalle tue ceneri,
perché non volevi andar via, perché non volevi arrenderti.
Eppure, la guerra ci ha fatto a pezzi:
ti ha lasciato senza fiato e con il cuore fermo in quell’ultimo battito
e chissà cos’hai pensato prima di morire,
chissà quante volte hai chiuso gli occhi, convinto di poterli riaprire un attimo dopo.
O, forse, 
sono stata io a non muovermi, a dirti che era giusto restare
e, se avessi saputo che una giustizia superiore mi avrebbe lasciato soltanto il ricordo del tuo sorriso,
allora avrei sbagliato, un errore dopo l’altro, 
senza fermarmi mai,
pur di tenerti ancora qui.
Pensavo di averti sentito cantare e ho chiuso gli occhi,
come se il vento potesse davvero avere la tua voce
e dire parole che sembrano fiori che provano a sbocciare,
ma sono soltanto l’ombra di una foresta dentro cui saresti stato ancora vivo, 
se ci fossi entrato.
E ho ancora l’odore di bruciato sulla pelle,
di quel fumo che mi si è appiccicato addosso mentre correvo a cercarti,
tenendo stretto tra le mani un manico di scopa e la paura nella gola.
E’ che non ho mai saputo volare, 
ma tu mi hai insegnato che bisogna non pensare per poterlo fare,
che bisogna lasciar perdere tutto e alzare gli occhi, 
senza mai guardare giù.
E io non penso, ma non riesco a volare, 
perché tu non torni. Non torni mai.
 Ho comprato una casa, casa nostra, che puzzava di muffa,
con il soffitto bucato e una finestra rotta,
lontano da te, per un giorno, magari per tutta la vita.
L’ho rimessa a nuovo
e l’ho dipinta di blu, perché a te non piace, il blu,
ma a me sì e devo pur trovare un modo per sentirti urlare, per sentirti ancora.
Pensavo di averti sentito ridere, l’altra sera
e ho spalancato la porta di casa e ho urlato contro il firmamento,
perché è lì che riposano le anime dei morti-
e magari, uno di questi giorni, decido che non esiste il Paradiso,
che non ci sei dall’altra parte,
e allora che sei morto a fare se non hai guadagnato un posto in cielo?-
e contro quel quarto di luna che non somiglia alla tua bocca
e ride in mezzo alla notte, come se non sapesse fare altro.
Le ho maledette, quelle stelle che brillano per fare luce,
ma a cosa? A chi?
E perché non si spengono? Perché non esplodono? 
Mi sono fermata sulla porta ad aspettarti,
ho contato fino a cento: uno, due, cento.
Ma tu non torni e allora vorrei dirti che casa nostra è distrutta,
se l’è mangiata il fuoco e questa qui, con le mura perfette e dipinte blu,
con le finestre intatte e il letto comodo,
ti accoglierebbe come ha fatto quella sgangherata e sudicia, 
casa nostra, non casa mia.
E’ vuota, è fredda, perché nessuno ci entra mai e io voglio che stiano tutti fuori,
ché qui tutto aspetta te, io aspetto solo te.
E i tuoi scherzi che mi facevano fermare il cuore per la paura, 
ma questo no, questo sta durando troppo.
E’ il tuo scherzo più brutto: morire e lasciarmi da sola in queste stagioni che passano, 
ma non passano mai, perché qui piove sempre,
dentro ai miei occhi e allora piove pure fuori
e il sole non brilla più, perché ho le tende tirate e
 non voglio vedere niente, non voglio vedere nessuno.
Sono andati tutti avanti, io sono rimasta indietro
e allora sto lì ad applaudire, a dire bravo!  a chi apre gli occhi al mattino e non ti pensa,
ma io come faccio a non pensarti?
A non allungare la mano sulle lenzuola e farmi mancare l’aria
quando mi ricordo di star dormendo da sola.
A preparare una torta per il tuo compleanno
e nemmeno un biscotto per il mio,
perché tu avrai vent’anni per sempre
e io invecchierò anche per te,
anche se non è giusto, anche se fa troppo male- in due è meglio.
A dimenticare come si fa a contare fino a cento.
A non apparecchiare per due e chiamarti ad alta voce, 
perché sei nell’altra stanza, anche se dentro una cornice bianca.
A urlarti contro che sarebbe meglio abbracciarti davvero, 
piuttosto che venire a piangerti al cimitero.
A ricordare il suono della tua risata, 
quando pensavo di averti sentito ridere.
A ricordare la tua voce,
quando pensavo di averti sentito cantare.
A non pensarti.
Se casa nostra non c’è più, se tu non ci sei più, 
io come faccio a non pensarti? 



Angolo Autrice:
Ho scritto questa storia pensando a Fred e Hermione, ma non ci sono nomi scritti e quindi ognuno di voi può pensare a chi vuole.
Il contest prevede che si scelga una canzone e si scriva sopra una storia facendola girare intorno ad alcune frasi chiave (scelte dal giudice o da noi).

Io ho scelto Losing my religion dei R.E.M. con le seguenti frasi: I thought that I heard you laughing (Pensavo di averti sentito ridere) / I thought that I heard you sing (Pensavo di averti sentito cantare) / I think I thought I saw you try ( Credo di aver pensato di averti visto provare)

Nella mia testa, questi due hanno fatto di tutto per scappare dalla guerra, anche lasciare la scuola e nascondersi in una piccola casa malmessa.

Tornano a Hogwarts per affrontarla, la guerra, per dare un contributo alla pace che tutti sognano.
E Fred, come tutti sappiamo, muore.

E questo è tutto.

Spero vi sia piaciuta, questa piccola follia.


 
   
 
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