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Autore: Striginae    08/01/2021    3 recensioni
[Het!FrUK: UK/Fem!Francia - AU!Human - AU!Belle Époque]
Al mondo esistevano due specie di uomini.
Alla prima tipologia appartenevano coloro che, non per particolari futuri meriti, erano nati sotto una buona stella, uomini favoriti dalla dea bendata e capaci di uscire vincenti da qualsiasi situazione, perfino la più avversa grazie alla sfacciata fortuna che mai li abbandonava.
La seconda categoria, al contrario, molto più ampia rispetto alla prima, comprendeva quegli infelici, iellati, che a dispetto di tutti i sacrifici e sforzi compiuti seguitavano ad essere baciati dalla cattiva sorte, loro unica fedele compagna di vita.
Forse per questioni di probabilità, forse per capriccio del destino, Arthur Kirkland faceva parte di quest’ultima fascia, di cui ormai poteva considerarsi socio onorario.

[Deathfic]
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Bad Friends Trio, Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland, Nyotalia
Note: AU | Avvertimenti: Gender Bender
Capitoli:
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Our love will live forever

Atto I 


Al mondo esistevano due specie di uomini.
Alla prima tipologia appartenevano coloro che, non per particolari futuri meriti, erano nati sotto una buona stella, uomini favoriti dalla dea bendata e capaci di uscire vincenti da qualsiasi situazione, perfino la più avversa grazie alla sfacciata fortuna che mai li abbandonava.
La seconda categoria, al contrario, molto più ampia rispetto alla prima, comprendeva quegli infelici, iellati, che a dispetto di tutti i sacrifici e sforzi compiuti seguitavano ad essere baciati dalla cattiva sorte, loro unica fedele compagna di vita.  
Forse per questioni di probabilità, forse per capriccio del destino, Arthur Kirkland faceva parte di quest’ultima fascia, di cui ormai poteva considerarsi socio onorario.

Arthur era profondamente insoddisfatto.
Aveva già compiuto ventitre anni ed era stufo di condurre un’esistenza piatta, monotona, che non gli riservava alcuna gioia.
Era nato in una famiglia di classe media che a causa dei debiti aveva perso tutto ed Arthur, quasi senza alcun preavviso si era ritrovato sul lastrico, dovendo rinunciare agli studi e a qualsiasi altra ambizione avesse per il futuro. Tutto gli era svanito tra le mani, come i fumi industriali della grigia Londra si disperdevano nel cielo.
Da anni ormai viveva all’ultimo piano di un condominio sovraffollato e decadente e divideva la camera con un americano ottuso, rumoroso e, se possibile, in una condizione di indigenza ancora più profonda della sua ma che, inspiegabilmente, riusciva sempre a mantenersi allegro senza l’aiuto di una bottiglia di birra. Ed era a malincuore che Arthur lo riconosceva come ciò che di più simile aveva ad un amico.
Come se non fosse già abbastanza, neppure la carriera lavorativa dell’inglese si poteva considerare rosea. Era impiegato come lampionaio, costretto a vagare per i bassifondi bui e melmosi della capitale ad accendere lumini per poche sterline a notte, spese interamente in assenzio.
Scherzando, la gente lo apostrofava come “colui che portava la luce alla città” e certo Arthur non lo considerava un gran vanto, ma quella era l’occupazione migliore che aveva trovato, l’alternativa era spaccarsi la schiena in fabbrica per un compenso ancora più miserevole. Tuttavia, sebbene non amasse il suo impiego, c’era un aspetto che apprezzava del suo meschino lavoro: la possibilità di vagare per le strade in solitaria e perdersi nei propri pensieri, improvvisarsi un po’ un flâneur[1]… se si ometteva il dettaglio che Arthur non vagava per ozio né poteva considerarsi un gentiluomo, se non nelle maniere.
Senza alcun dubbio però gli piaceva pensare e la Londra notturna gliene dava la possibilità: perdersi tra i meandri della città, esplorare i quartieri e interrogarsi su quanti prima di lui avessero marciato per quei vicoli... tutto ciò, esercitava un fascino oscuro nella sua mente. Ed in particolare, vi era una zona della metropoli che specificamente lo intrigava e davanti cui si curava passare ogni sera.
Covent Garden, nel West End.
Come una lampadina attira le falene, Arthur era abbagliato e attratto dalla luce che sprigionavano dall’interno i palazzi presenti nella piazza sede dei teatri e dell’Opera. Era lì che si attardava ad ammirare gli imponenti edifici di marmo bianco affiancati da maestose statue e il via vai di attori, ballerini e scenografi, invidiando in cuor suo i fortunati che avevano la possibilità di assistere agli spettacoli.
E, ammaliato da tutta quella luce, Arthur si sentiva insignificante. Ogni notte si chiedeva a che cosa servisse accendere i suoi lampioni quando era chiaro che quel luogo fosse uno splendente oceano di stelle che rifulgeva di luce propria.
Gli sarebbe piaciuto farne parte.
Bramava poter appartnervi. Il suo sogno, ormai andato in frantumi, era essere autore di teatro e vivere di arte e lasciarsi alle spalle la fioca luce artificiale dei lampioni. Più volte per pura velleità aveva provato ad inviare un suo testo a qualche casa editrice, nella speranza che venisse ricontattato per discutere delle sue opere, ma invano.

«Dovresti provare a cambiare aria.»
Gli aveva detto un giorno Alfred, l’americano, quando Arthur gli aveva comunicato mestamente che la sua sceneggiatura era stata respinta.
Di nuovo.

«Sai no... ricominciare tutto da capo, allargare i tuoi orizzonti. Se la fortuna non ti trova, vai a cercarla tu!»  

E fu quello che Arthur fece.


 

* * *



Il 1901 fu l’anno della svolta.
Da sei mesi Arthur aveva abbandonato Londra per raggiungere la vivace Parigi, culla della cultura europea e nuova detentrice di tutte le sue speranze. 

Si era lasciato indietro ogni cosa che, a ben riflettere, non era poi molto. Aveva atteso pazientemente di accumulare abbastanza denaro per il viaggio oltre la Manica, si era licenziato dal lavoro e aveva rinunciato agli indulgenti fumi dell’assenzio. Con sé aveva portato solo il minimo indispensabile: i vestiti, qualche spicciolo e i suoi quaderni.

A Parigi aveva cominciato a mettere da parte dei risparmi con qualche lavoretto saltuario con cui riusciva a stento a sostenersi, anche se la maggior parte delle sue forze le aveva impiegate all’apprendimento del francese. Non poteva certo pretendere che qualche impresario parigino gli concedesse una possibilità se non riusciva neppure a comprenderlo.


Una nube temporalesca rabbuiò il cielo. 

Quel giorno era domenica, il tempo del riposo per Arthur e delle attività all’aperto per i parigini.
Seduto in una panchina ai Giardini del Lussemburgo, Arthur ricurvo su se stesso componeva la sua opera, incurante della pioggerellina impietosa che gli cadeva addosso.
Era già primavera ma il timido sole francese spesso preferiva nascondersi dietro le nuvole invece che riscaldare la città con i suoi tiepidi raggi.

Parigi non è poi così diversa da Londra, ponderava Arthur abituato naturalmente al lunatico tempo britannico.

Recarsi ai Giardini per Arthur non significava semplicemente godersi una passeggiata ricreativa bensì ricongiungersi alla natura per qualche tempo, lasciare fluire i pensieri, trovare l’ispirazione. In un luogo talmente ameno, la sua fantasia non poteva che essere clemente con lui e suscitargli i giusti versi e le migliori assonanze.
Era un vero peccato perciò che la musa ispiratrice di Arthur sembrasse indifferente a tale visuale.


Una gocciolina lo colpì in testa, poi sulla spalla e poi ancora un’altra sulla punta del naso. Arthur arricciò le narici, non molto allarmato per il guastarsi del tempo.

La sua mente era dedita a faccende letterarie ben più serie per tediarsi di una semplice pioggerella. 

Fu però una risata cristallina a fare alzare appena lo sguardo del londinese, distogliendolo dalle proprie considerazioni. Arthur sbirciò oltre le sue carte e scandagliò i dintorni, incuriosito da quel riso inatteso.
Credeva di essere solo in quella parte del parco, appartata e dunque perfetta per pensare.

Davanti a sé, Arthur notò due giovani ragazze che non appena si accorsero del suo sguardo si apprestarono a distogliere il proprio mal celando dei risolini.
Arthur aggrottò le folte sopracciglia.
Che c’era da ridere?

Un’altra gocciolina gli batté addosso e all’improvviso Arthur si accorse di essere inzuppato.

L’inglese sollevò gli occhi, rendendosi conto di trovarsi nell’unico punto del parco non riparato in alcun modo e che la lieve pioggia di poco prima era aumentata fino a trasformarsi in un vero e proprio temporale, infradiciandolo dalla testa ai piedi.

Devono avermi preso per un pazzo.

Conscio dell’impressione da imbecille data, un intenso rossore gli imporporò le guance.

«Oh, blimey!»[2]
Goffamente si alzò in piedi e alla rinfusa raccolse le sue carte, maledicendosi per non aver neppure portato un ombrello con sé sotto cui ripararsi.

Stava ancora sistemando tutto quando, inaspettatamente, la stoffa di un parapioggia si frappose tra lui e il cielo plumbeo della capitale francese.
Sorpreso Arthur si voltò e trattenne il respiro, affatto pronto ad incrociare un paio di arguti occhi blu accompagnati da un sorriso civettuolo.

Una delle due ragazze che poco prima ridacchiavano gli si era avvicinata e gli porgeva il manico del suo ombrello.

«Monsieur
La voce chiara della ragazza lo riscosse e, senza pensare, Arthur afferrò l’asta metallica dell’oggetto, un po’ impacciato.

La ragazza gli rivolse un’occhiatina divertita ma priva di malizia e, dopo un lieve cenno del capo, si allontanò per tornare indietro dalla sua amica, con passo aggraziato ed elegante.
Arthur la vide prendere a braccetto la compagna, ripararsi sotto il paracqua dell’altra e incamminarsi via da lì rapidamente.
 
L’inglese la seguì con lo sguardo, fino a quando i capelli biondo cenere di lei non divennero che un punto indistinto tra le vie del parco.

Solo quando lei fu lontana, Arthur, ormai paonazzo, si accorse di essere imbambolato nel bel mezzo di un parco, di ripararsi sotto un ombrellino femminile e non avere avuto alcuna prontezza di spirito, di alcun genere.

Arthur si sentì morire.
Che figura che aveva appena fatto!


 
* * *


La domenica successiva, Arthur si trovava assiso ancora una volta sulla stessa panchina del Jardin du Luxemburg, a gambe incrociate e il pensiero nuovamente disperso nei suoi scritti. Accanto a se aveva abbandonato la sua piccola valigetta, anch’essa ricolma di quaderni.

Arthur teneva gli occhi ostinatamente abbassati sulle sue carte per evitare a tutti i costi di alzarlo e incrociare lo sguardo con la ragazza della settimana scorsa, questa volta da sola che, ironia della sorte, si trovava seduta nella panchina di fronte la quale si era accomodato l’inglese e lo fissava curiosamente, causando forse inconsapevolmente un certo disagio ad Arthur.

Certamente l’inglese le era grato per avergli prestato il suo ombrellino ma, consapevole della spiacevole impressione data, avrebbe preferito non avere più nulla a che fare con lei.
Al contrario, quella donna continuava a guardarlo da lontano e Arthur, da sempre di temperamento collerico, era come minimo tediato da tale oltraggioso comportamento.

Non glielo avrà mai detto nessuno che non è buon costume fissare gli sconosciuti con così tanta insistenza? Che presunzione!

Arthur cancellò un’altra frase del suo componimento.
Sospirò, ma non volle cedere allo sconforto. Era certo che con un po' di impegno sarebbe riuscito a superare quel blocco creativo che lo perseguitava da quando aveva iniziato a descrivere la nuova scena della sua opera.
Si trattava di un rendez-vous tra due amanti che, almeno nella mente di Arthur, doveva rappresentare il culmine, il massimo del pathos. Nei fatti, non erano altro che poche descrizioni fatte male e dei dialoghi sconnessi, privi di qualsiasi emozione.  

L’inglese strinse più forte la penna tra le mani, non si sarebbe alzato da quella panchina fino a quando non sarebbe arrivato alla fine della pagina. Animato dunque da nuova determinazione si rituffò tra le sue parole, perdendo momentaneamente la cognizione del tempo e del tutto indifferente alle persone che gli passavano accanto, tra cui un uomo che troppo insistentemente si aggirava intorno al sedile in cui aveva preso posto l'inglese.

L’unica certezza che Arthur aveva, l’unico sentore che non lo staccava del tutto dalla realtà, era che lei lo stesse guardando ancora con quell’aria impertinente. Riusciva a sentire il suo sguardo che gli si attaccava addosso e che quasi lo bruciava.

Questa nuova sensazione lo fece ritornare in sé.
Arthur incurvò le labbra all’ingiù, come poteva pensare di concludere qualcosa quando quella disturbatrice era nei paraggi?

Scocciato e incapace di concentrarsi ulteriormente, Arthur chiuse gli occhi in un momento di raccoglimento.


Tuttavia, qualcuno approfittò della sua distrazione.

Agile e rapido come un felino l’uomo vestito di stracci che gli ronzava attorno, con un gesto repentino, gli sottrasse la valigetta da sotto il naso, probabilmente pensando contenesse dei beni degni di essere rubati, dandosela subito a gambe.

«Ah, attenzione!»

Avvertito quell’urletto femminile Arthur sbarrò gli occhi. Gli bastò un attimo per capire cosa fosse successo e, resosi conto del fattaccio, il londinese balzò in piedi per lanciarsi all'inseguimento del ladro a solo poca distanza da lui, rivolgendogli insulti irripetibili.  



«Dannazione... maledetti francesi.»

Quando tornò, ansante e scombinato, Arthur poteva ritenersi soddisfatto.

Si era precipitato a rotta di collo per parecchi metri dietro al colpevole prima di acciuffarlo e per fortuna, almeno per una volta, la sua giovane età gli aveva facilitato la corsa. Per lo meno era riuscito a recuperare il maltolto. Si chiese che faccia avrebbe potuto fare il borseggiatore se solo avesse saputo che nella sua valigia non vi erano altro che bozze, appunti e vari promemoria. Sicuramente ne sarebbe rimasto insoddisfatto.

Per Arthur, comunque, le sorprese non sembravano essere ancora finite.

Nella sua panchina infatti si era accomodata la ragazza dell'ombrellino, la stessa che poco prima lo aveva avvertito del furto, che seduta con le gambe accavallate elegantemente l'una sull'altra, la schiena dritta, i capelli raccolti in uno chignon fissato con un fine fermaglio a coroncina, stringeva il suo quaderno tra le mani guantate.

Solo in quel momento Arthur realizzò che, per precipitarsi dietro all'uomo, aveva abbandonato incustoditi i suoi scritti su quella panchina. 

La giovane lo osservò con la coda dell’occhio e soffermò lo sguardo sulla valigetta, per verificare che l’avesse recuperata.

Arthur quasi non riusciva a credere ai suoi stessi occhi. Si morse l’interno della guancia e inspirò, per darsi un contegno. Aveva a che fare con una signorina e non voleva apparire sgarbato, ma certamente se fosse stata un uomo, si sarebbe rimpossessato dei suoi fogli senza troppe cerimonie.

«Cosa... cosa state facendo, signorina?»

Arthur odiava quando qualcuno ficcava il naso nei suoi affari. Soprattutto nelle sue storie, a maggior ragione se incomplete.

«Leggo.»

Rispose la donna con semplicità, con la sua voce armoniosa e modulata.

«Potreste ridarmelo, per cortesia?»

Arthur le fece un cenno spazientito per farsi restituire quanto gli apparteneva, cercando di resistere alla tentazione di strapparle il quaderno di mano.

Lei non gli rivolse nemmeno un'occhiata. Senza fretta tornò indietro e fece scorrere le pagine fino alla copertina, su cui l’inglese aveva appuntato il proprio nome.

«Ma certo, mister Kirkland.»

Rispose infine e sollevò lo sguardo, ricambiando con un'occhiata divertita quella burbera dell'inglese.
Gli porse il quaderno e Arthur se ne riappropriò, ben felice di averlo messo al sicuro da occhiate indiscrete.

«Bene, vi ringrazio.»
Riprese Arthur, cogliendo al volo l’opportunità di congedarsi e mettere fine a quello scomodo incontro.

«Adesso, con permesso io...»

Sfortunatamente, il danno era ormai fatto.
 

«Voi non vi siete mai innamorato, non è così?»

La domanda prese così di sorpresa l’inglese che per qualche istante rimase senza parole. La squadrò torvo, convincendosi di aver per forza sentito male.

«Come... mi sembra una domanda a dir poco sconveniente, da rivolgere così poi, dal nulla, non...»

La donna sollevò un sopracciglio sottile, portandosi una mano alle labbra per nascondere un sorrisetto sornione.

«Oh no, no, avete frainteso.»

Con un movimento sinuoso la donna si alzò, lanciando l’ennesima occhiatina all'inglese.

«Vedete, mister, mi è bastato qualche leggere qualche riga per capirlo. Quell'incontro che stavate descrivendo... sembrava di leggere le emozioni di due cubetti di ghiaccio. Eppure, lo stile è piacevole, non sembrava quello di qualcuno che non sa scrivere, anche se usate fin troppi paroloni. Direi che piuttosto vi manca il contenuto... l’esperienza diretta.»

Arthur era sempre più convinto di stare solo immaginando quella conversazione.
Fu costretto comunque ad incassare il colpo in silenzio. Poco prima, lui stesso pensava che qualcosa mancasse nella sua descrizione e aveva fallito ad individuare la sua stessa carenza. Sentire pronunciare un’analisi così accurata da parte di una sconosciuta era un colpo fin troppo brutale.
Ferito nell'orgoglio, Arthur cercò di non far a vedere nulla del suo tormento interiore.

«E cosa ne vorreste sapere voi di storie e sceneggiature, se permettete la domanda? Siete forse un critico? Certamente non ne date l’impressione.»

L’inglese provò a non suonare troppo risentito. Fallì miseramente, dato che ogni cosa in lui rendeva manifesta l'offesa: il suo cipiglio, il sarcasmo e l’aria di superiorità che aveva assunto per ripararsi dalle parole fin troppo veritiere della donna.

La ragazza però gli rivolse un sorrisetto di scherno.

«Non è necessario un critico per accorgersi dell’assenza di sentimenti in qualcosa. O in qualcuno. Sapete, lavoro a teatro. Ho ascoltato e interpretato le più svariate storie e vi assicuro, se lo si vuole impressionare il pubblico deve essere coinvolto emotivamente. Come pensate di riuscire a appassionare gli spettatori se in primis è l’autore a non provare nulla?»
Gli chiese lei, con un sorrisetto provocatorio.

«Ah davvero, lavorate a teatro? E dove, all'Opéra
Le domandò invece l’inglese, astenendosi dal rispondere ai velati attacchi della ragazza.
Era pur sempre un gentleman.
Inoltre, quella nuova rivelazione catturò la sua attenzione, ravvivando un nuovo interesse nei confronti della donna.

«Nulla del genere. Sono ballerina e attrice al Moulin Rouge

Arthur non si premurò a nascondere la delusione.

Tutti conoscevano il Moulin Rouge e non solo in Francia. In un certo senso, poteva benissimo dirsi che la sua fama lo precedeva. Un luogo ampiamente criticato dai benpensanti ma altrettanto frequentato da uomini e donne di ogni estrazione sociale, il Moulin Rouge era un vero e proprio paradiso in terra per gli amanti dello spettacolo, del cabaret e delle belle donne.  

«Capisco. Be', immagino che ogni pubblico si adatti al luogo che frequenta.»
Ripose Arthur con una nota di ironia nella voce, lasciando intendere allusivamente la sua opinione non molto benevola del teatro.

«Avete mai assistito ad uno spettacolo? O conoscete forse uno per uno tutti gli appassionati che vi si riuniscono?»
Chiese la ragazza, fingendo di non capire le implicazioni dell'inglese.

«Cielo, no. Ad entrambe le domande.»

«Lo sospettavo.»

Ci fu un attimo di silenzio, in cui entrambi si scambiarono uno sguardo. Poi la ragazza parlò di nuovo.

«Allora venite a vedere la rappresentazione di questa sera.»

Propose lei, lasciando Arthur di stucco.

«Perché mai dovrei fare una cosa del genere?»

«Perché non potete giudicare nulla se non lo avete mai provato.»

Arthur aggrottò le sopracciglia e, prima che potesse ribattere con qualche frase velenosa, la giovane lo precedette.

«Dopo la fine dello spettacolo, venite immediatamente a dirmi le vostre impressioni. Magari capirete come suscitare emozioni in chi vi guarda.»

«E sentiamo, come dovrei fare a trovarvi?»

La ragazza gli sorrise.

«All'entrata chiedete pure di Marianne Bonnefoy.»


 
* * *  



Per tutto il pomeriggio Arthur si lambiccò il cervello per capire cosa non andasse nel suo lavoro. Fino a quel momento non aveva avuto alcuna fortuna ed era innegabile che le parole di quella ragazza, Marianne, avessero un fondo di verità.

Arthur pensava che si potesse scrivere di qualsiasi cosa, sebbene non lo si avesse provato sulla propria pelle. Forse aver vissuto una certa esperienza in prima persona era utile, ma senza dubbio Arthur non si considerava inferiore a nessuno, gliela avrebbe fatta vedere lui a quella Marianne chi non era in grado di suscitare sentimenti negli altri.

Sbuffando come un treno, Arthur arrivò alla conclusione che la donna lo aveva voluto provocare apposta, probabilmente quella non era altro che una tattica per fare pubblicità al teatro e spillargli qualche franco.

Arthur aveva fermamente deciso di non andare.

Non aveva alcuna curiosità di vedere quella donna ballare il can-can o qualsiasi altra cosa facesse.
Anzi, per farsi passare qualsiasi tentazione, quella notte decise di andare pure a letto prima del solito e non pensarci più.
 


Arthur ci pensò ancora.

Dopo una settimana e mezzo durante la quale l’inglese non si era recato né al parco né al teatro, la sua mente continuava ad accarezzare l’idea di vedere con i propri occhi il famoso coinvolgimento dell’audience di cui gli aveva parlato Marianne. Anche se, era sicuro che in fin dei conti quella francesina avesse solo ingigantito la questione per il puro gusto di prendersi gioco di lui.

D’altro lato però, l’idea di recarsi al Moulin Rouge non lo attirava poi più di tanto ed era quasi sicuro che il biglietto gli sarebbe costato più della sua attuale paga.

Arthur rifletté e si domandò se per caso Marianne si ricordasse ancora di lui.

No, considerò, è una pessima idea.

Marianne è una perfetta sconosciuta e non le devo assolutamente nulla, si disse per la milionesima volta mentre indossava il pesante cappotto nero, diretto al IX arrondissement, Pigalle.
 

 
Il quartiere di Pigalle era esattamente come lo immaginava. Situato vicino la collinetta di Montmartre, vero centro della vita alla bohémien, racchiudeva i più svariati tipi di persone: artisti, fotografi, ballerine, giornalisti, semplici curiosi o smaliziati avventori, era possibile sentire il cuore pulsante della città e respirarne l’atmosfera a pieni polmoni.
E chi lo avrebbe mai immaginato che davvero Parigi odorava di sudore, oppio ed erotismo scandaloso? Forse ingenuamente, l’inglese aveva sempre pensato si trattasse di uno dei tanti stereotipi.

Ed era in quella folla di tipi umani che Arthur si aggirava guardingo come un ladro, vergognoso, con il cappello nero saldamente calcato sopra gli scompigliati capelli biondi.

Pigalle... more like Pig Alley.[3]

Cresciuto con l’austera mentalità vittoriana, per Arthur era davvero difficile capacitarsi che un luogo del genere esistesse veramente e che fosse così frequentato, alla piena luce del sole così come nel cuore della notte e senza alcuna pudicizia.


Individuare il teatro non fu per nulla difficile. Svettante sopra gli altri edifici, il mulino rosso che dava il nome al locale era ben visibile a metri di distanza.
Arthur riconsiderò tutte le sue scelte di vita. Faceva ancora in tempo e tornare indietro.



Varcò la soglia.
All'interno del locale si respirava un'aria dolciastra di fumo ed alcol e il chiacchiericcio eccitato ai vari tavoli segnalava l’entusiasmo degli spettatori.

Rigido come un palo ed in evidente imbarazzo, Arthur stonava nell'ambiente come una mosca bianca. Si sedette al tavolo che gli aveva indicato un cameriere che senza alcun permesso gli aveva rifilato una bottiglia di champagne che Arthur non era stato più capace di ridargli, dato che l’inserviente sembrava essersi dileguato.

Questo mi costerà ben più di un mese di paga.

Non si guardò attorno ma estrasse l’orologio per controllare l’orario. Le lancette indicavano cinque minuti alle ventitre, lo spettacolo sarebbe iniziato dunque tra qualche minuto.

Arthur picchiettò le dita sul legno, nervoso.
E, probabilmente, quelli furono i cinque minuti più lunghi della sua vita.
Di sicuro i più tormentati. 

Nell’attesa, il londinese tenne presente addirittura l’ipotesi che forse, quello spettacolo non avrebbe previsto la partecipazione di Marianne.

Quello dunque si poteva tramutare in un potenziale viaggio a vuoto e incontestabilmente, un inutile spreco di denaro.

No, no.

Arthur si diede dello stupido e ricordò a se stesso che se lui si trovava lì era per motivazioni squisitamente tecniche, ovvero constatare con i suoi occhi quanto uno stupido balletto potesse fare effetto sull’audience, non perché volesse vedere quella francesina.

Assolutamente no.

Proprio quando stava prendendo in considerazione l’idea di alzarsi e andarsene di nuovo, esplose la musica e un battito di tacchi sul pavimento in legno segnò l’inizio dello spettacolo.

In un battibaleno il palchetto venne invaso dalle ballerine, snelle e slanciate, che aggraziate facevano fluttuare le loro larghe e coloratissime gonne. Ad Arthur mancò un battito quando tra di loro riconobbe Marianne che, come le altre, aveva sollevato la gonna facendo intravedere la sottana di seta, infuocando il pubblico che aveva iniziato a battere le mani al ritmo di musica.

Colto dall'impellente urgenza di bere,
Arthur stappò la bottiglia di champagne.

Per dissimulare l’imbarazzo, l’inglese abbassò lo sguardo, fissando ostinatamente il tavolino.
Sapeva che si sarebbe rivelata una pessima idea recarsi in quel luogo. Quella danza era assolutamente inadeguata, scandalosa, licenziosa... certo che il pubblico ne veniva coinvolto, era qualcosa di assolutamente inaudito!

Bevve un altro bicchiere e sollevò lo sguardo, giusto in tempo per vedere le ballerine, e Marianne, eseguire un pied-en-air, facendo scorgere di sfuggita la candida sottoveste. Poi di nuovo un altro balzo e una spaccata, il ritmo aumentava e la musica si faceva più incalzante, un po' come il cuore dell'inglese che aveva preso a martellargli contro la cassa toracica come se si volesse anch’esso unire alle danze.

Con orrore, Arthur si rese conto di non riuscire più a distogliere lo sguardo da Marianne che, era certo, lo aveva ormai notato e gli sorrideva impertinente, quasi vittoriosa per averlo trasportato in quell'inferno di tentazioni.

Tra volteggi, ruote, saltelli, risolini ed una musica frenetica le ballerine facevano vorticare le loro gonne e i loro cappellini piumati e Arthur dovette far ricorso a tutto il suo autocontrollo inglese per non mettersi a battere il piede a tempo come facevano tutti gli altri presenti, che applaudivano e incitavano le ballerine a continuare con le loro acrobazie.

Un boato generale si alzava ogni qual volta una delle danzatrici sollevava la gonna con fare ammiccante e più e più volte l’inglese per pudore fu costretto a guardare altrove, principalmente sulla sua bottiglia di champagne già a metà.

Ed era difficile da ammettere ma, nonostante le sue titubanze, Arthur si stava davvero divertendo.
Quelle ballerine, così vive e impegnate in una danza tanto scabrosa, riuscivano a conquistare i cuori di tutti nel teatro. Nulla a che vedere con le sue opere che, Arthur realizzò, mancavano totalmente di vitalità.
La sua noiosa vita a Londra era riuscita ad infiltrarsi talmente profondamente dentro di lui che perfino le sue parole ne risentivano. Lì, in quello sregolato teatro, Arthur si sentiva pronto a buttar giù un’opera di diecimila parole e riuscire a far battere i cuori di chiunque, conquistare la fama e raggiungere la ribalta.

Una scossa.
Ecco di cosa aveva bisogno.


Il balletto si avvinava alla sua conclusione e, per il gran finale, le ballerine scesero tra la folla senza mai sbagliare un passo.
Arthur, ormai rapito dai movimenti flessuosi di Marianne, la seguì con lo sguardo fin quando lei non si trovò di fronte il suo tavolo.

Marianne incurvò all'insù le labbra scarlatte e intercettò lo sguardo dell'inglese, specchiando i suoi occhi blu in quelli verdi di lui.

«Ehi, Kirkland, si paga lo champagne eh!»[4]

Arthur, che stava bevendo dal suo bicchierino, quasi rischiò di strozzarsi.

Marianne ebbe addirittura l'ardire di fargli un occhiolino e poi con un guizzo leggiadro si voltò, gli diede le spalle e continuò imperterrita nei suoi numeri, alzandosi gonna e sottana, offrendo così allo schivo Arthur una visione completa delle lunghe calze e della biancheria, ben conscia di aver fatto avvampare l’inglese fino alla punta dei capelli.

Infine, con gli ultimi passi di danza, si ricongiunse alle altre ballerine e, con un inchino finale, sparì dietro le quinte del palco.

Ancora con il batticuore, Arthur dovette riconoscere che quello spettacolo non lo avrebbe dimenticato facilmente.
 
 


Due ore dopo, Arthur si trovava a fissare un affiche nell'atrio del teatro e, forse era solo la sua feconda fantasia, ma la ballerina rappresentata gli ricordava incredibilmente Marianne.

Aveva chiesto di lei, come la francesina gli aveva espressamente indicato, e nell'attesa, si era perso ad ammirare i manifesti presenti.

«Splendida, non è così? L'ha realizzata Toulouse-Lautrec dopo aver assistito ad una mia esibizione.»
Disse una voce femminile alle sue spalle e Arthur volse il capo, incrociando lo sguardo di Marianne che a sua volta ammirava la stampa.

L’inglese annuì. La somiglianza dunque non era stata casuale.

«Vi va una passeggiata? Ho bisogno di un po' d’aria fresca.»

Nuovamente Arthur fece cenno d'assenso con il capo, trovandosi stranamente a corto di parole.

«Allora, posso domandarvi che ne pensate dello spettacolo?»

Chiese Marianne, quando fianco a fianco uscirono dal locale. Con la coda dell’occhio, Arthur vide Marianne stringersi nel cappotto e rabbrividire per l'improvviso cambio di temperatura.

«Avete la faccia tosta di farmi sul serio questa domanda?»

Sbottò l’inglese e sbuffò dal naso, come se il sol ricordo dell’esibizione lo indignasse.

«È stata una scena indecorosa, ignobile, viziosa e assolutamente disdicevole per una ballerina, che dico, per una qualsiasi ragazza!»

Elencò l’inglese, sottolineando con sdegno ogni aggettivo.

«Ah sì? Mi sembravate piuttosto preso, tuttavia.»

Rimbeccò Marianne che aveva visto benissimo come l’inglese non riuscisse a toglierle lo sguardo di dosso.

Arthur tacque per qualche istante.

«Non ho mai detto che non sia stato di mio gradimento.»

Borbottò infine, tenendo gli occhi fissi sul marciapiede.


Di fianco a sé sentì Marianne stringersi al suo braccio e soffocare una risatina genuina.

«Oh cher, come siete vittoriano!»

In tal modo, tra piccoli battibecchi e confuse ammissioni, continuò la loro passeggiata notturna.



In fondo, pensò Arthur, il can-can non è neppure così male.   





[1]: non esiste un termine equivalente in italiano, lo si potrebbe tradurre come "passeggiatore", tipico dei poeti che vagano e ammirano la città che suscita in loro determinate sensazioni.
[2]: "Oh, accidenti!"
[3]: riporto qui la spiegazione di Wikipedia: "La reputazione licenziosa del quartiere portò, durante la seconda guerra mondiale, al soprannome Pig Alley ("Vicolo dei maiali", in inglese), da parte dei soldati alleati che vi si recavano in cerca di divertimento". Ho pensato che fosse abbastanza da Arthur fare un'osservazione del genere, non potevo non inserirla.
[4]: la vera citazione è: "Ehi, Galles, si paga lo champagne!", frase detta da una famosa ballerina del Moulin Rouge al principe di Galles, in visita. Anche qui, ho pensato fosse troppo da Francia per non metterla

Note finali
L'idea di questa storia è nata in maniera molto casuale. Ero sul mio letto e, girandomi, ho visto una stampa acquistata a Parigi del Moulin Rouge e allora mi sono detta: "Umh... ma perché non scriverci qualcosa al riguardo?" e dunque... eccoci qua xD 
Altra nota, come forse si è potuto intuire, questa storia è vagamente ispirita al musical Moulin Rouge! anche se per la maggior parte, la trama ne diverge completamente. C'è solo qualche richiamano, in particolare nel secondo, nonché ultimo, capitolo di questa mini-long. E sì, lo so, ho da aggiornare anche un'altra storia ma... non ho resistito, la tenteazione era troppo forte!
Ora, passiamo ai personaggi. Io spero con tutta me stessa di non essere andata troppo OOC, diciamo che come al solito ho provato a farli calare nell'epoca! Però mi sono divertita tantissimo a scrivere di loro, soprattutto di Arthur xD 
Ad ogni modo, parlando di Fem!Francia, ho cercato di non stravolgere troppo il personaggio, provando a rimanere "fedele" alla sua versione maschile, ovviamente con i giusti accorgimenti. Invece, per il nome, ho scelto Marianne perché... be', Marianne è il nome della personificazione della Francia, non penso la si potesse chiamare in altro modo. 
Ultima cosa, per la scena di can-can mi sono ispirata a questa scena del film, se foste interessati. 
Ora, come sempre, ringrazio chiunque sia arrivato a leggere fin qui e se vi va, ditemi un po' che ne pensate <3 
Ci vediamo prestissimo! 

P.S. nel prossimo capitolo arriva l'angst! 
   
 
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