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Autore: Adeia Di Elferas    11/01/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Yves d'Alégre era certo che ormai l'esercito fosse di stanza, da ore, a Viterbo, come aveva ordinato appena prima di lasciare il campo. Era la posizione giusta, pensava, per poter far pressioni a Roma, in caso ce ne fosse stato bisogno.

Lungo la strada che lo separava dall'Urbe, aveva avuto modo di raccogliere qualche piccola informazione in più riguardo la prigionia di Caterina Sforza e, ormai, era sicuro che le fosse toccato il carcere peggiore, ovvero quello di Castel Sant'Angelo.

Stava scendendo la sera e il francese, con i suoi due accompagnatori, erano ormai in vista del caotico profilo di Roma. In quella luce, la città del papa sembrava quasi finta, eterea, malgrado la confusione dei suoi palazzi, il serpeggiare delle sue viuzze strette e buie, e il tortuoso gorgogliare del suo grande fiume, il Tevere.

Con lo sguardo, mentre faceva cenno ai suoi di spronare i cavalli, Yves cercò la mole di Castel Sant'Angelo, che, a quella distanza, era già visibile. Si chiese se davvero fosse lì, la povera Tigre di Forlì, e provò pietà per lei. Anche se come guerriero era sempre stato inflessibile coi nemici, perfino crudele, quando era servito, non accettava l'idea che una donna di valore come lei fosse stata ridotta in gabbia per il capriccio di un incapace.

Era la sera del 20 giugno. Roma era avvolta da un clima sospeso, ovattato, quasi che l'estate alle porte stesse attendendo con pazienza che la primavera se ne andasse, prima di scatenare la sua cupa afa.

L'Alégre, però, non si accorgeva nemmeno delle piccole gocce di sudore che gli scivolavano sulla fronte: l'unica cosa che gli interessava, in quel momento, era mantenere il controllo e gestire al suo meglio l'effetto sorpresa.

Arrivò fin sotto il palazzo pontificio, senza che nessuno lo fermasse. Lasciò il cavallo al suo scudiero, e, senza troppe cerimonie, si avviò, da solo, al portone. Si presentò come un comandante francese, mostrò una lettera di accompagnamento che portava sempre con sé e rifiutò di essere scortato fin dal papa dalle guardie, sostenendo che il pontefice lo stava aspettando e che ogni altra perdita di tempo sarebbe stata vista dallo stesso papa come un oltraggio personale.

Si inoltrò, con il passo silenzioso di un gatto, fin nel cuore degli appartamenti borgiani, e alla fine sentì la voce del papa borbottare qualcosa.

Si avvicinò alla porta accostata da cui era arrivato quel suono e, allungando l'orecchio, capì di non essersi sbagliato. Rodrigo si stava lamentando di qualcosa – forse della scomodità delle sue nuove babbucce – con un servo. Era il momento giusto.

Con l'arroganza che ben conosceva, ovvero quella di un alleato che sa di essere indispensabile al proprio interlocutore, Yves spalancò la porta e marciò nella stanza.

Il pontefice, nel trovarselo lì all'improvviso, vide innanzitutto un uomo in armi e solo in un secondo momento riconobbe il condottiero.

“Come... Che cosa...” iniziò a biascicare il Borja, sconvolto nel rendersi conto che quel soldato era arrivato fin nella sua stanza armato e indisturbato.

“Devo parlarvi.” spiegò il francese: “Con urgenza.”

Alessandro VI non se lo fece ripetere. Mise una mano sulla spalla del servo che gli stava accanto e gli sussurrò in fretta all'orecchio di far correre lì suo figlio Cesare. Solo dopo che il domestico se ne andò, il papa si esibì in un sorriso stiracchiato, assumendo un'aria cordiale molto forzata.

“Mi spiace ricevervi così, in abiti da camera...” spiegò, allargando le braccia e mostrandogli il camicione da notte che aveva appena infilato: “Ma ormai sono vecchio e a quest'ora mi corico...”

L'Alégre rimase impassibile, benché avrebbe tanto voluto poter dire che sapeva benissimo quanto al Santo Padre piaceva passare la notte tra feste e bagordi, più spesso in compagnia di qualche cortigiana che di un libro di preghiere, ma preferì non esprimere apertamente i suoi pensieri.

Al contrario, rigido, cominciò a esporre il discorso che, lungo la via che l'aveva portato a Roma, aveva studiato nei minimi dettagli, al fine di renderlo il più efficace possibile: “Santo Padre – disse, sollevando appena il mento – Madonna Caterina Sforza non è vostra prigioniera e non può e non deve esserlo in alcun modo.”

Rodrigo si sentì mancare. Era come un incubo. Suo figlio, arrivato a Roma appena il 17 di quel mese, sembrava ossessionato dalla storia della Sforza e ora l'Alégre, uno dei condottieri più importanti dell'esercito di Luigi XII si presentava in Vaticano proprio per parlare di lei.

“Ella è unicamente suddita del re di Francia mio signore, e le nostre costituzioni militari non consentono, voi lo sapete, che le donne possano essere prigioniere di guerra.” mentre Yves diceva quelle parole, dalla porta sgusciò dentro Cesare, gli occhi sgranati e spaventati nel vedersi davanti il francese: “A Roma ella poteva rimanere in deposito, ma libera sempre.”

Lo sguardo dell'Alégre si era spostato adesso sul Valentino, che, spaurito, si stava avvicinando al padre, come a dare e cercare sostegno morale e fisico.

“Questo è il patto stabilito per mia mediazione – riprese il condottiero, indicando Cesare, ma continuando a guardare Alessandro VI – tra il vostro signor Duca Valentino e il Balì di Digione, che aveva Madonna nelle sue mani, e io ne fui mallevadore.”

Il figlio del papa provò a schiudere un attimo le labbra, per ribattere, ma il padre sollevò subitaneo una mano, per farlo tacere e permettere al francese di concludere prima il suo discorso.

“Per questo, Vostra Santità immediatamente libererà Madonna, o, se vorrà tenerla ancora prigioniera, io avviserò per staffetta il re mio signore che i patti stretti in suo nome da voi sono violati – incalzò Yves, assumendo un tono molto più categorico, quasi apertamente minaccioso – ed egli, con dispiacere suo e in onta di Vostra Santità, a viva forza immediatamente farà liberare Madonna, se pure l'esercito nostro, che è a Viterbo, e che fra pochi giorni sarà qui, già non avrà fatto giustizia e provveduto all'onore di Francia commettendo grandissimo disordine e scandalo.”

“La libereremo.” disse all'istante il pontefice, scosso e intimorito all'inverosimile.

“Assolutamente no!” si oppose Cesare, guardando sconvolto il padre: “Non se ne parla!”

“Volete allora – ribatté l'Alégre, guardando il Borja di sottinsu – che io dia ordine al mio esercito di attaccare Roma stanotte stessa?”

“Voi non capite!” il Valentino aveva gli occhi spalancati, e le mani quasi gli tremavano, di rabbia e incredulità per la cedevolezza mostrata dal padre: “Lei è un pericolo per il mio Ducato di Romagna!”

“Si tratta di una donna sola, ormai...” gli ricordò il pontefice, che pur sapeva di essere parzialmente in torto, dato che non solo giusto quel giorno era arrivata una lettera da Firenze chiedendone la liberazione, ma addirittura si era presentato in Vaticano il piovano di Cascina, spalleggiato dal Cardinale Raffaele Sansoni Riario, sostenendo di portare con sé una richiesta ulteriore da parte degli Otto di Balia.

“Stupidaggini!” si infervorò il Duca di Valentinois, le guance che prendevano colore, sembrando quasi chiazzate di sangue, alla luce calda delle candele: “Appena libera, quella si metterà in pratiche coi Cardinali suoi parenti e getterà lo scompiglio nel Sacro Collegio! Poi tirerà a sé l'Imperatore, commuoverà i fiorentini, solleverà i bolognesi, insospettirà i veneziani, agiterà i genovesi e i savonesi, e metterà a soqquadro la Lombardia e la Romagna!”

“E dov'erano tutti questi italiani, quando lei ne aveva bisogno?” indagò Yves, ironico.

“Ah!” la voce di Cesare era ormai altissima, tanto che appena fuori dalla camera iniziava ad assieparsi un piccolo gruppo di servi curiosi, attirati dal suo urlare: “Non è donna da potersi lasciar libera! Ha partigiani, cospiratori, intrighi, e amanti in tutta Italia! Per riavere i suoi Stati e poter rovinare gli altrui, farà il diavolo come ha sempre fatto!”

Rodrigo, ormai, non parlava più, spaventato tanto dal condottiero francese quanto dalla cocciutaggine del figlio. Aveva fatto un passo indietro e guardava impotente la scena, chiedendosi come ne sarebbero usciti. In un certo senso, sperava quasi che gli venisse un colpo apoplettico in quel momento esatto, in modo da poter zittire i due contendenti e, al contempo, uscire di scena senza dover affrontare quel gravoso dilemma.

“L'esercito francese è alle porte di Roma.” ribadì Yves, granitico: “Non c'è tempo da perdere.”

“Un momento! Un momento...” fece il papa, riacquistando un briciolo di intraprendenza: “Che è tutto questo parlare di eserciti... Madonna Sforza è sotto la nostra protezione ormai da oltre un anno: cosa vi porta ad aver tanta fretta proprio questa sera?”

L'Alégre guardò il pontefice con sospetto, e poi, cautamente, cominciò a spiegare che il re di Francia aveva avuto pazienza oltre ogni limite e che se lui, come comandante dell'esercito di Luigi XII, era accorso a Roma quella sera, in anticipo rispetto ai soldati, l'aveva fatto solo per riguardo alla cristianità e all'importanza del papa stesso.

“Ma ricordate – concluse, sollevando un indice ammonitore – che presto colui che è re di Francia lo sarà anche di Napoli, e a Roma non converrebbe farsi nemici per colpa di una sola e misera donna.”

Rodrigo sapeva benissimo che Yves aveva ragione, ma doveva fare in modo che suo figlio digerisse quel boccone senza fatica, evitando di rovinare tutto solo per la sua giovanile arroganza.

Così, con un sorriso mellifluo, il Borja prese la parola, zittendo di fatto Cesare, che aveva già schiuso di nuovo le labbra per ribattere, e cominciò a fare lunghi discorsi nella lingua della diplomazia, una lingua che né il Duca di Valentinois, né, suo malgrado, il francese masticavano bene.

Alla fine, dopo quasi un'ora, istupidito dalla loquacità serpentina del Santo Padre, fu proprio l'Alégre a sbottare: “Per Dio! Ditemi che volete che si faccia per liberarla e si vedrà di farlo!”

Anche Cesare era in attesa di sentire la risposta di Rodrigo, e così il papa non si fece attendere, e dichiarò: “Madonna Sforza sarà libera, a patto che voi riusciate a carpirle una volta per tutte la formale rinuncia ai suoi Stati, e a convincerla ad accettare una sorveglianza perpetua, qui in Roma.”

Yves si grattò un istante il mento: voleva capire dove fosse l'inghippo in quella proposta. Di per sé, non gli sembrava nulla di che, in fondo. Innanzitutto, gli Stati ormai erano già persi, cosa sarebbe costato alla Tigre ammetterlo una volta di più? In secondo luogo, accettare di essere sorveglianza era una promessa ben vana, se si trovava il modo di scappare...

“Va bene.” accettò allora l'Alégre, sorprendo Alessandro VI.

“Sapete che non sarà facile, far accettare queste cose a una donna come lei... Specie se sarete voi, un francese, a domandarle di farlo...” sorrise il Borja, non riuscendo a trattenersi: “Sappiate che non avrete un tempo illimitato, per riuscire in questa impresa.”

“Mi basterà una notte.” assicurò il condottiero.

Il Santo Padre, a quel punto, allungando un braccio gli indicò la porta e gli disse: “Va bene. Allora sarà mia premura controllare il vostro operato, domattina.”

Il francese se ne andò all'istante e così, rimasto solo con il padre, Cesare scoppiò: “Ma che cosa avete fatto?! Come avete...”

“Taci!” sbraitò il papa, dando uno spintone al giovane: “Ma non lo capisci in che situazione mi hai messo?! Quella donna dovevi ammazzarla subito, là alla rocca di Ravaldino! Lasciandola in vita, per vantarti di averla tua preda, ne hai fatto merce di scambio! Io non faccio invadere il Vaticano dai francesi per colpa di un tuo capriccio! Sei mio figlio, ma non sei più un bambino, e quella donna non è il tuo giocattolo!”

Schiumante di rabbia, al punto da mettersi quasi a piangere, il Valentino strinse i pugni lungo i fianchi e soffiò: “Pregate Dio che quella donna sia cocciuta come la credete, perché se dovesse cedere..!”

“Se dovesse cedere..?” lo incalzò l'uomo, torreggiando su di lui con la sua stazza ancora imponente: “Che faresti? Uccideresti tuo padre? Uccideresti te stesso?”

Il Duca masticò l'aria per qualche secondo e poi, sconfitto e avvilito, picchiò un piede in terra e se ne andò.

 

La cavalcata dal palazzo dei Borja a Castel Sant'Angelo fu breve, ma molto intensa, per Yves, che, in quel piccolo lasso di tempo, ebbe modo di ragionare su cosa dire e come alla Leonessa di Romagna.

Sapeva bene che era una donna ostinata, e, da nemico, immaginava di non essere la prima persona che lei volesse vedere, dopo una così lunga prigionia. Tuttavia credeva di aver colto i punti cardine su cui far leva per convincerla a cedere e avere salva, una volta per tutte, la vita.

Il francese arrivò davanti al portone del castello. Si fece riconoscere e, a sorpresa, gli venne aperto senza problemi. Si fece accompagnare, senza dar cenno di incertezza, alla cella di Caterina Sforza.

Anche se non aveva avuto la sicurezza, fino a quel momento, che la Tigre fosse davvero lì, il modo solerte in cui le guardie avevano subito detto di sì gli fece capire di aver indovinato: era detenuta davvero nel luogo peggiore che esistesse a Roma per un condannato.

“Volete la torcia?” chiese il carceriere, quando furono vicino alla porta, bassa e larga, di legno che celava la Leonessa al mondo.

L'Alégre stava per dire di sì, ma poi, ragionando sul buio di quei luoghi e sul fatto che la donna fosse lì da mesi, scosse il capo: “Basterà che mi facciate un po' di luce da fuori.”

Si accucciò per entrare, e poi, schiacciando gli occhi nella sottile striscia di luce che arrivava dal corridoio, cercò l'origine dei fruscii che avevano accompagnato al suo ingresso. All'inizio aveva pensato a dei topi, ma poi, appena i suoi occhi di erano un minimo avvezzati al buio, comprese che era stata proprio la prigioniera a produrli, rannicchiandosi in un angolo della cella.

“Mi riconoscete?” chiese l'uomo, a voce bassa.

Caterina, da quando aveva rivisto Cesare, era terrorizzata da ogni rumore, da ogni minimo cambiamento, perfino – e il suo fisico ne stava risentendo molto – dal cibo che le veniva portato, perché era sicura che il Valentino la volesse avvelenare. Eppure, nel sentire quelle poche parole, qualcosa nella sua memoria scattò.

Rilassando in parte i muscoli e costringendosi, infine, a guardare verso chi aveva parlato, chiese, con un filo di voce: “Siete Yves d'Alégre, il francese?”

Il condottiero rispose di sì e poi chiese di poter fare più luce nella cella. La donna disse di sì in modo automatico, come se si fosse abituata ad accettare di tutto. L'uomo fece voce al carceriere e si fece passare la torcia, lasciandola, però, in terra, in un angolo lontano dalla Tigre.

Ella lo fissava in silenzio, gli occhi spenti, forse resi quasi ciechi dalla fiamma che, per quanto lontana, doveva risultarle molto fastidiosa. Yves la osservò con attenzione, senza riuscire ad aprir bocca.

Ricordava molto bene la donna florida e possente contro cui i suoi soldati avevano combattuto nell'inverno del 1499. Stentava a rivedere quella guerriera nella donna magra e spaurita che aveva davanti. Per certi versi, gli sembrava una monaca, una di quelle dedite ai lunghi digiuni e alle veglie di preghiera. I capelli bianchi, sporchi e arruffati, assieme agli abiti consunti e luridi, contribuivano a fare di lei l'immagine perfetta di una suora avviata alla santità in vita.

“Sono qui per aiutarvi.” disse piano lui, accucciandosi, per essere con lo sguardo al livello di quello della donna.

Caterina lo ascoltava, mentre lui gli spiegava dell'incontro avvenuto coi Borja. Le sembrava tutto così astruso e lontano da far fatica a cogliere il senso di quelle parole. Solo alla fine riuscì a capire appieno ciò che l'uomo cercava di dirle.

“Quindi – gli chiese, la gola secca – se io accetto questi termini che mi dite, potrò uscire da qui?”

“E sarete protetta.” annuì lui.

“E da chi?” indagò la Leonessa.

“Da noi.” rispose prontamente Yves.

“Qui ci sono finita anche grazie alla protezione che mi hanno dato i francesi.” ribatté lei, ritrovando, per pochi istanti, l'animo battagliero che l'aveva animata prima della prigionia, ma sciogliendosi subito in lacrime: “Io me la sono meritata, questa gabbia.”

“Perché dite così?” chiese l'Alégre, accigliandosi e avvicinandosi appena un po' di più.

Gli occhi verdi della donna, arrossati già dopo una così breve esposizione alla luce e al fumo della torcia, saettarono verso di lui, mentre spiegava: “Non so da quanto sono qui, di preciso. Immagino siano passati mesi. In tutto questo tempo ho temuto il veleno, sono stata malata, ho creduto che volessero prendermi e buttarmi nel Tevere con una pietra al collo, e non mi stupivo, di pensare che sarei finita così.”

Siccome il condottiero appariva confuso, anche se continuare a parlare le costava fatica e mortificava il suo orgoglio, la Sforza volle essere esaustiva ed esprimere appieno il suo pensiero.

“Con le torture che infliggono a me, stanno ripagando quelle che ho inflitto io agli altri.” il suo tono era lucido, anche se a Yves, che la conosceva per essere una donna molto terrena e per nulla spirituale, quel discorso sembrava solo il risultato di oltre un anno di isolamento e follia: “Io ho ucciso degli innocenti. E ho infierito sui colpevoli. Ho fatto uccidere la mia cameriera personale, e ho ammazzato a calci e pugni un ragazzo. Io ho fatto molto peggio dei Borja. Quante creature infelici ho fatto sparire nelle viscere della mia rocca, così come il papa sta facendo con me in questo castello? Dalla terra, il loro sangue ha gridato vendetta a Dio e Dio ha colpito chi ha...”

“Queste cose le direte al prete.” la zittì il condottiero: “Adesso dovete accettare di firmare e basta, così avrete salva la vita.”

“Ma questa... Questa cella... Questa è la mia penitenza...” la Tigre si rendeva conto di quanto fosse sconnesso e insensato il suo discorso, in quel momento.

Aveva aspettato mesi che qualcosa cambiasse e ora che le veniva offerta una mano, invece di provare ad afferrarla, sembrava quasi volersi attaccare alla propria prigionia. La paura che le paralizzava la mente le stava facendo quasi preferire un supplizio certo a una salvezza incerta.

“Voi scottate...” sussurrò l'Alégre, toccandole un istante la fronte e trovandola calda come un tizzone: “Ecco perché straparlate... Ma adesso ascoltatemi, ascoltatemi per Dio! Firmate la rinuncia, accettate che vi sorveglino...”

“Perché? Perché? Perché?” chiese, ossessiva e di nuovo in lacrime Caterina.

“Perché avete un figlio di tre anni appena che rischia di non ricordarsi nemmeno il vostro volto!” la scosse l'Alégre, ricordandosi di quante volte avesse sentito nominare l'ultimo figlio della Leonessa, nato dal breve matrimonio con Giovanni Medici, e di come tutti dicessero che quel bambino fosse in costante pericolo per colpa dello zio Lorenzo, di Firenze: “Sapete quanto me che c'è chi lo vorrebbe morto, quel bambino. Che ne sarà di lui, se voi resterete qui?”

Le pupille della Sforza brillarono, tornando per qualche minuto vive e responsive, mentre Yves continuava a parlare, sicuro, ormai, di aver fatto breccia e di essere riuscito ad afferrare quel lembo dell'anima della Tigre ancora sensibile al mondo al di fuori di quella cella.

“Voi siete sempre stata una donna di monda, una donna politica, pratica! Gli Stati vostri, ormai, sono comunque perduti!” le disse, con tono concitato: “Il re di Francia ve li ha strappati, ma vi aveva garantito la libertà della persona, e, ora, per restituirvela, è pronto a mettere ora tutto a ferro e a fuoco, ma voi dovete collaborare! Il papa è vecchio, il suo regno instabile: che ne sarà di suo figlio, dopo la sua morte? Ci avete pensato? A chi andranno le terre che vi ha tolto?”

La Tigre non sapeva più come ribattere. Più il condottiero parlava, più le sembrava che i fumi della febbre svanissero e più sentiva di nuovo la vita scorrere nelle sue membra stanche e smagrite.

“La giustizia divina che ha punito i Riario – si infervorò a quel punto il francese, usando la stessa logica usata dalla sua interlocutrice poco prima – potrà forse dimenticare i tradimenti, i veleni e le scellerataggini di Cesare Borja?”

Quella domanda retorica trovò una risposta nel lento scuotersi del capo della Leonessa, e lì Yves capì di essere a un passo dal convincerla.

“Nel Collegio dei Cardinali avete uno Sforza, un Riario, un Della Rovere...” la incitò: “Per voi e per i vostri figli, ben potranno rinnovarsi i giorni di Sisto IV!”

“Portatemi il necessario per firmare e firmerò.” cedette all'istante la donna, asciugandosi a fatica le lacrime: “Ma voglio uscire di qui subito.”

“Vedrò cosa posso fare.” sorrise lui.

“E...” tentennò la donna, ricordandosi di frate Lauro, e non solo di lui.

Il condottiero intuì istintivamente cosa stesse per dire la donna, immaginando che in quelle segrete ci fossero altri prigionieri, buona parte dei quali legati a lei: “Una cosa per volta.” la zittì, quindi, prima che il carceriere allungasse troppo l'orecchio: “So che siete esausta, ma abbiate pazienza. Ora lasciatemi andare a prendere il necessario per la firma, e vedrete che, se non dal castello, almeno da questa cella uscirete subito.”

La Tigre lo guardò riprendere la torcia, gli occhi tanto irritati da indurla di nuovo a lacrimare, ma questa volta né per paura, né per dolore.

Rimasta sola, quando sentì scattare di nuovo la serratura della porta e si vide ritornare nel buio, non provò lo smarrimento consueto. C'era una piccola certezza, ormai, nel profondo della sua anima: avrebbe rivisto la luce del sole.

Non sapeva che momento della giornata fosse. Da quello che poteva intravedere dalle feritoie sul soffitto, doveva essere notte. Non le importava: le andava bene anche la luna.

Mosse appena le dita della mano destra, chiedendosi come avrebbe fatto a firmare, dopo così tanto tempo che non prendeva più tra le dita una penna. Si disse che la bella grafia era solo un orpello inutile, e si mise ad aspettare l'arrivo di Yves d'Alégre.

Ricordava quanto avesse odiato quell'uomo, ai tempi della prima guerra contro i francesi, e di come, pur detestandolo sempre per ovvi motivi, fosse arrivata a stimarlo come uomo, nel corso dei loro ultimi scontri a Forlì. Si era sentita tradita anche da lui, quando l'aveva lasciata al Balì di Digione e Cesare Borja, ma quella volta sapeva che non l'avrebbe venduta una seconda volta.

“Ecco qui.” disse piano l'uomo, quando tornò con un foglio già scritto e il necessario per apporre la firma: “Devo chiedervi di appoggiarvi in terra...” aggiunse, un po' imbarazzato.

Era già stato tanto riuscire a ottenere quel documento e a convincere il papa a lasciar uscire la donna subito, trasbordandola, almeno per i primi giorni, in una delle stanze di Castel Sant'Angelo, in una sorta di prima libertà vigilata, al fine di controllarne lo stato di salute e la buonafede delle intenzioni – come aveva detto espressamente Rodrigo Borja – quindi non aveva sottilizzato troppo, quando gli era stato negato di portare uno scrittoio nella cella.

La donna non fece complimenti e, con mano incerta, scrisse il suo nome in calce al foglio, senza nemmeno leggerlo, fidandosi ciecamente di quello che ormai le sembrava pari a un angelo liberatore.

Il francese osservò con un misto di umana pietà e tristezza la firma sghemba della Tigre, e il modo tremante in cui ritrasse la mano, dopo aver vergato l'ultima lettera.

“Va bene. Ora lo devo mostrare al pontefice. Dopodiché sarete libera.” le disse: “Abbiate ancora un attimo di pazienza, mia signora.”

La donna annuì e poi, appena prima che l'uomo uscisse di nuovo, con in mano il foglio ancora umido di inchiostro, gli chiese: “Che giorno è oggi?”

“Adesso è la notte tra il venti e il ventuno di giugno.” rispose lui e poi, a scanso di equivoci, aggiunse: “Anno del Signore Millecinquecentouno.”

 

   
 
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