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Autore: Miss All Sunday    11/01/2021    1 recensioni
“Lei aveva famiglia?“
“Sì. Noi.”
“Dovevo andare io. Ha sacrificato la sua vita; ha messo la sua vita nella mani di quella maledetta gemma.“
[Post Avengers Endgame]
Genere: Angst, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Dawn

“Barton, questa sarà la ventesima chiamata senza risposta. Giuro che se non alzi questa maledetta cornetta...”

Isaiah Ross aveva ormai raggiunto anche la linea fissa messa a disposizione in ogni safe house dello S.H.I.E.L.D., nello specifico quella in cui Clint aveva fatto ritorno. L’avvocato aveva dato fondo a tutti i mezzi a sua disposizione per poterlo contattare. Stava ancora parlando alla segreteria quando Clint si era seduto sul letto di fronte al dispositivo.

“E va bene, questa sarà l’ultima chiamata che riceverai da parte mia.” L’aveva sentito borbottare qualcosa sul fatto che il tempo per il suo messaggio stesse per scadere. “Ti avviso solo che se entro un’ora non avrò riposta passerò a Murdock e sono certo che lui accetterà. Peccato, credevo che Natasha fosse più sveglia nello scegliere a chi affidare un compito del genere. Fossi stato al suo posto avrei chiamato subito Matt.”

Il biondo si era lasciato cadere supino sul materasso che aveva accusato il colpo cigolando. Era rimasto a osservare per qualche secondo le macchie di umidità del soffitto del vecchio monolocale. Aveva scelto quello perché da anni non veniva più usato e aveva potuto trovare un minimo di pace quando lasciava la sua vera casa per le missioni che lui stesso si commissionava.

Aveva sbuffato esasperato per l’insistenza dell’avvocato. 

Era rimasto ancora qualche minuto disteso sul letto in attesa di qualche segno che gli facesse capire cosa fare. Quando però si era accorto che nulla sarebbe accaduto si era arreso; solo Natasha sarebbe stata in grado di dargli filo da torcere persino da morta.

Aveva recuperato il telefono e composto il numero di Ross che, finalmente, al quinto squillo aveva risposto.

“Oh guarda chi si sente. Se avessi chiamato Matt...”

“Piantala Isaiah.”

“Immagino tu abbia preso una decisone.”

L’uomo, che a tutti gli effetti si era occupato degli affari legali dell’agente Romanova, aveva sentito un sospiro rassegnato dall’altro capo della linea.

“Va bene, accetto.”

“Sono contento di sentirtelo dire. Natalia ha dato istruzioni precise per il suo appartamento. Ogni mese, come da lei stabilito, una quota dei guadagni delle varie missioni o compiti assegnatele prima di essere un‘agente è destinata al proprietario dell’immobile. Le uniche cose che ha lasciato scritte oltre a questo riguardano la sua moto, ma questo già lo sai...”

“Ancora non capisco perché l’abbia lasciata a te.” 

“Questo non è un problema tuo. Per quanto ti riguarda ti basti sapere che ti ha riservato la possibilità di scegliere cosa fare dei suoi oggetti personali. Lascia solo le cose necessarie per permettere che la casa sia vivibile.”

Il biondo si era passato una mano sul viso stanco. Immaginava Nat mentre affidava le sue volontà al legale.

“Posso sapere quando è stato depositato il suo testamento?”

“Quasi quattro anni e mezzo fa.”

Il silenzio che aveva ottenuto come l’aveva fatto preoccupare.

“Clinton?”

“Sì è che... niente lascia stare.”

“Senti, so cosa stai pensando e posso assicurarti che Natalia non ti avrebbe permesso di fare altrimenti.”

“Come scusa?”

“Qualche anno fa, durante il periodo in cui si pensava avesse tradito lo S.H.I.E.L.D., sono stato rapito da Rashid e usato come esca per attirare Vedova Nera nella trappola di chi la voleva morta. Sapeva bene a cosa stava andando incontro; tutto era tranne che una sprovveduta.”
Aveva fatto una breve pausa ricordando ciò che era accaduto.
“Comunque, tornando alle sue volontà, le chiavi del suo appartamento sono al solito posto. Mi spiace, ma adesso ho altre faccende di cui occuparmi. Stammi bene Clinton.”

Aveva riagganciato senza lasciare tempo al suo interlocutore di replicare. Barton si era limitato a recuperare le chiavi della sua auto e aveva lasciato il nascondiglio.

 

 §

 

Trenta minuti dopo.
Little Ucraine.
New York City.

La porta in legno di quell’anonimo condominio di New York era sempre stato l’ultimo ostacolo fra lui e Natasha. Sia che avesse un problema o che volesse solo chiacchierare, lei c’era sempre. Spesso si erano ritrovati fra quelle quattro mura dopo una delle tante missioni in cui, senza troppi giri di parole, lo S.H.I.E.L.D. si giocava il tutto per tutto. Nessun piano B, nessuna possibilità di estrazione in caso di problemi e nessuna esposizione da parte dell’organizzazione.

Per un istante, tanto era stato sufficiente a riportarlo alla realtà, il pensiero di bussare l’aveva fiorato. Era sempre stato così, lui che bussava e lei, non importava che ora fosse, che stesse dormendo o meno, gli apriva per accoglierlo in quello che l’arciere aveva soprannominato ‘il nido della Vedova Nera’. 

Stava per recuperare la chiave, nascosta in una piccola rientranza della parte superiore dello stipite della porta. Aveva già iniziato a tastare la superficie in legno alla ricerca dell’oggetto argentato, quando aveva sentito una serratura scattare alle sue spalle. 

“Oh, Clint scusami, credevo fosse... non so nemmeno io chi credevo che fosse dopo che Natasha...”

Il biondo aveva serrato le labbra, formando una linea sottile, ed espirato dal naso. Si era poi voltato verso la donna di mezza età dai capelli scuri che si trovava sull’uscio del suo appartamento.

“Ana, non sapevo abitassi ancora qui dopo...”

“Dopo che Natasha ha impedito al mio ex marito di ammazzarmi di botte? No, sono rimasta qua, mentre lui, grazie all’aiuto di quell’avvocato amico di Nat, si trova a scontare la pena che gli spetta. Ross ha detto che quando uscirà si occuperà del suo ordine restrittivo. Non ringrazierò mai abbastanza Natasha... scusami, tu devi stare parecchio male e io sono qua a raccon-“

“Non ti preoccupare.”
L’arciere le aveva sorriso.
“Anzi, grazie per esserti occupata della palla di pelo. Tasha te ne sarebbe davvero molto grata.”

La sua interlocutrice gli aveva poggiato una mano sulla spalla per qualche secondo prima di salutarlo con un cenno del capo e rientrare in casa. Barton era quindi finalmente riuscito a recuperare la chiave, inserirla nella toppa e far scattare la serratura. Un brivido gli aveva percorso la spina dorsale. La porta di legno aveva scricchiolato.

Un raggio di luce che filtrava dalla finestra aveva rivelato la danza di qualche granulo di polvere nell’aria. Nonostante quelle quattro pareti non ricevessero visite da più di tre mesi, tutto era in ordine e pulito. 

‘Merito di Ana’, aveva pensato.

Si trovava ancora bloccato all’ingresso quando aveva sentito qualcosa passargli fra le gambe per poi superarlo e, silenziosamente, mettersi una sedia della cucina a lucidarsi il pelo color pece.

Il biondo si era avvicinato a Liho, ma appena aveva allungato una mano per accarezzarlo, questo, dando valore al suo nome, gli aveva soffiato indispettito. Infine aveva deciso di ignorarlo e tornare alla sua pulizia. Clint aveva scosso la testa; certe cose non sarebbero mai cambiate. 

Solo in quel momento si era reso conto di essere finalmente entrato e di aver chiuso la porta alle sue spalle. Un senso di oppressione l’aveva avvolto e aveva iniziato a soffocarlo nelle sue spire. Si era fiondato alla finestra del piccolo salotto, quasi ne andasse della sua vita, e l’aveva aperta facendo circolare l’aria nella stanza e nei suoi polmoni. 

Aveva iniziato a ispezionare la casa. Sembrava uno di quei film in cui il silenzio preannunciava una catastrofe o il finale in cui il protagonista si riunisce con la sua famiglia.

Invece la trama della sua storia si era fermata al silenzio.

Si era lasciato cadere a peso morto sul letto nella stanza, che una volta, era la camera di Natasha. Con un dito il biondo aveva distrattamente iniziato a seguire i segni ben evidenti sulla testata in legno. Gli stessi segni che Natasha aveva sui polsi, ricordi indelebili di ciò che era stata obbligata ad essere.

Quando le aveva chiesto cosa fossero, l’aveva vista abbassare lo sguardo seguito subito dopo dalle maniche del maglione che indossava. Gli aveva sorriso e scosso le spalle per poi deviare il discorso. Solo dopo mesi era riuscito a mettere insieme i pezzi di quel puzzle che era stata la vita della russa e capire cosa fosse accaduto; almeno in parte.

Si era obbligato ad alzarsi per raggiungere la cucina del piccolo appartamento. Senza pensarci troppo aveva aperto la credenza che si trovava di fronte. La bottiglia di vodka l’aveva attirato a sé; Natasha ne aveva sempre una di scorta. Uno dei pochi stereotipi della tua terra natale che non le dispiaceva mantenere, gli aveva detto una sera. 

Si era seduto al tavolo in legno.

Aveva versato un goccio di liquido trasparente per poi alzare il bicchiere. Un sorriso malinconico ad incurvargli le labbra.

“Dlja zdorov'ja!”

Se ci fosse stata Nat lì presente avrebbe sicuramente riso per la sua pronuncia. Quanto lei aveva imparato con nonchalance la lingua dei segni tanto lui faticava con la lingua nativa della ragazza.

Aveva svuotato qualche altro bicchiere, sempre sotto lo sguardo vigile del gatto seduto vicino a lui, per poi decidere di tornare nella camera da letto.

Aveva iniziato ad aprire cassetti e armadi nella disperata ricerca di qualcosa, qualunque cosa. Aveva trovato la felpa che lui le aveva lasciato, anche se in realtà gliel’aveva rubata lei una delle notti che era rimasto a dormire in quella casa; aveva ancora il profumo della russa intrappolato nella propria trama. 

Erano da un paio d’anni partner fissi nelle missioni e, inevitabilmente, si erano avvicinati. Avevano avuto una sorta di relazione, durata solo pochi mesi, fino a quando entrambi avevano capito che il loro legame andava ben oltre l’attrazione fisica. Non erano fatti per stare insieme come coppia. Una sorta di amore platonico che l’uno aveva per l’altra che li avrebbe spinti a morire pur di salvarsi a vicenda senza pensarci due volte. Un legame che Clint aveva rivisto nei gemelli Maximoff. I due erano come legati da un filo invisibile, soffriva l’uno, così l’altra. La stessa cosa valeva per loro nonostante non avessero alcun legame di sangue e inizialmente avessero cercato di uccidersi -letteralmente- a vicenda.

Quando aveva conosciuto Laura, una benedizione nella vita dell’arciere, Natasha aveva insistito affinché la donna capisse quale fosse il legame fra lei e Occhio di Falco. Aveva adorato la futura signora Barton dalla prima volta che l’aveva vista. Così gentile, semplice, senza una doppia vita o un duplice fine. Tutto quello che lei non era stata. Non voleva che la considerasse una minaccia e voleva che Clint fosse felice. Aveva così parlato nella maniera più schietta possibile con la donna e questa, sorprendentemente, l’aveva capita e persino accolta nella propria famiglia tanto che i suoi figli la consideravano una zia; una figura presente nella loro vita. Non aveva mai esitato ad accogliere in casa sua la russa e più di una volta l’aveva ringraziata per aver rischiato il tutto per tutto pur di riportarle Clint. Erano come sorelle, se possibile, e questo non aveva potuto che far piacere al biondo e aveva rafforzato il suo rapporto con Vedova Nera. 

Aveva smesso di perdersi nei suoi ricordi solo quando si era ricordato della piccola cassaforte nascosta dietro il comodino accanto al letto. Senza perdere altro tempo aveva spostato il mobile rivelando il suo obiettivo. Combinazione a cinque cifre.

Se Natasha era stata spinta ad adottare un’ulteriore misura di sicurezza nonostante si trovasse nel covo di una delle assassine più letali mai esistite, qualunque cosa contenesse doveva essere importante. Aveva provato a forzarla ma senza risultato. Probabilmente se si fosse messo messo a cercare, avrebbe trovato almeno una pistola nascosta in un’intercapedine e avrebbe provato con quella, ma sapeva sarebbe stato inutile. Stava per darsi per vinto quando una frase della russa gli era ritornata alla mente. 

Quella sera stavano scherzando tranquillamente, quando il biondo le aveva chiesto se non temesse che qualcuno potesse entrare in casa sua, dato che si trattava solo un appartamento in un condominio di New York e non della Stark Tower.

Gli aveva fatto l’occhiolino.

“Ho una cassaforte e non mi preoccupo. Ho fatto un patto con il Diavolo e affidato i miei segreti al più temibile dei demoni.”

Gli aveva sorriso prima di riprendere la conversazione sulla loro ultima missione e di come ci fosse mancato poco perché venissero scoperti. 

“Demoni... andiamo Natasha! Cosa vuol dire?”
Ora stava persino parlando da solo. ‘Di male in peggio’ si era detto.

Aveva continuato a ripensare a quelle parole, ma senza risultato. Aveva deciso di rinunciare. Si era quindi sdraiato sul letto a osservare il soffitto; stava diventando un’abitudine ormai. Dopo svariati minuti di silenzio aveva sentito qualcosa, o meglio qualcuno, salire sul materasso e accoccolarsi accanto a lui. Aveva sorriso.

“Manca anche a te, vero?”

Ricordava le serate in cui quel maledetto gatto, dopo aver soffiato appena l’arciere provava a toccarlo, si metteva tranquillamente sulle gambe di Natasha a farsi accarezzare. Gli aveva chiesto che nome avesse deciso di dare al suo inaspettato coinquilino che un giorno aveva deciso di entrare in casa da una finestra senza farsi troppi problemi. 

Aveva fatto spallucce.

“Non credo gli serva un nome. È solo un gatto.”

“Non è solo un gatto è il tuo gatto.”

La rossa si era messa a ridere coprendosi la bocca con una mano come quando rideva di gusto. Barton la conosceva abbastanza da capire quando stesse fingendo o meno.

“È un randagio...”

“Che ha scelto te come padrona. Quindi adesso ci mettiamo qua e pensiamo ad un dannatissimo nome.”

“D’accordo, se proprio insisti.”

Erano stati una mezz’ora abbondante a proporre nomi e a bocciarli, fino a quando la bestiolina aveva deciso che non sopportava più tutto quel rumore che non gli permetteva di dormire. Così, appena Clint aveva azzardato ad avvicinare una mano, per tutta risposta aveva tirato fuori gli artigli e graffiato il malcapitato.

“Basta! Non ne posso più! Cosa ti ho fatto? Ecco, chiamalo Lucifero! Sarebbe perfetto.”

Natasha aveva preso in braccio l’animale che con lei sembrava calmarsi tornando a essere un tranquillo gatto nero.

“Liho.”

“Cosa?”

“È una creatura della mitologia slava. È considerato l’incarnazione della sfortuna e di un destino avverso. In pratica la perfetta rappresentazione di ciò che hai detto.”

“Liho, eh? Sai che cosa? Mi piace! Un nome carino per un...”

Ancora sul letto, Clint si era subito messo a sedere. Una parola era sfuggita dalle sua labbra, sussurrata.

“Demone...”

Aveva preso in braccio Liho che si era limitato a miagolare infastidito, ma si era lasciato toccare. Il biondo aveva passato una mano sul collarino nero per poi slacciarlo.

4 1 9 6 4

Aveva inserito le cifre senza attendere nemmeno un istante. Febbricitante all’idea di scoprire cosa celasse Vedova Nera.

Aveva selezionato l’ultimo numero e accolto vittorioso il click che aveva preceduto l’apertura del piccolo nascondiglio. Era trascorso un istante prima che si decidesse a tirare lo sportello verso di sé. Si era obbligato a prendere coraggio; non sapeva cosa avrebbe trovato. Era rimasto perplesso. La sua attenzione era subito stata attirata da alcuni passaporti. Ne aveva preso uno.  

Mary Farrell.

Aveva sorriso ripensando quella missione sotto copertura. Le aveva detto più volte che non era credibile come Mary madre sigle dell’Iowa, eppure, come sempre d’altronde, Natasha si era trasformata. Era come se per lei cambiare modo di parlare, di atteggiarsi e persino di ridere fosse una sorta di semplice cambio d’abito. 

Aveva passato il pollice sulla fotografia sbiadita. Gli mancava tutto di lei. Aveva ripensato anche ai litigi che a volte scoppiavano tra loro due e, nel caso questo fosse stato particolarmente accesso, capitava che iniziasse a parlargli in russo. Una volta, non ricordava bene quando, gli aveva detto che solo nella sua lingua riusciva davvero a sfogarsi.

Aveva smesso di farsi trascinare dai ricordi, distratto da alcune buste tenute insieme da un elastico. Le aveva afferrate. Tutte, eccetto una, presentavano la medesima intestazione. Una sola parola.

Clint.

La grafia era stata subito riconoscibile. Ordinata e pulita. Almeno così era stato per le prime lettere. Su ogni busta spiccava in rosso il timbro che comunicava la riconsegna al mittente.

Aveva iniziato a leggere.

Ciao Clint,
Non so nemmeno cosa spero di ottenere con queste mie parole. Non ho idea di come iniziare questa lettera. Posso solo dire che non riesco immaginare come ti senta in questo momento. Quando ho saputo cosa fosse accaduto te ne eri già andato. Per due mesi ti ho cercato, chiamato e lasciato messaggi, ma tutto è stato inutile. Ho persino parlato con Barbara nella speranza, vana, che sapesse qualcosa. 
Dallo Schiocco non faccio altro che cercare un modo per risolvere la situazione. Steve e Rhodey dicono che dovrei staccarmi dal lavoro, ma ho giurato a me stessa che avrei trovato un modo per riportare indietro Laura e i bambini. So che nelle nostre missioni come agenti non abbiamo fatto nemmeno una volta una promessa all’obiettivo da salvare di turno o alla sua famiglia  perché il protocollo non prevedeva un coinvolgimento emotivo con le persone coinvolte nel nostro lavoro. Questa volta però è diverso. Ti giuro Clint che troverò una soluzione. Sono notti che non chiudo occhio. L’idea che se solo ti fossi stata più vicino ora saresti qui al mio fianco e non chissà dove non me lo permette. Spero potrai perdonarmi. 
Mi manchi.

Nat.

L’arciere aveva chiuso gli occhi che avevano iniziato a pizzicargli. Se n’era andato perché non riusciva a convivere con i sensi di colpa. Non aveva pensato a come potesse sentirsi la russa. Sapeva quanto fosse legata a Cooper, Lila e Nathaniel. Quando gli aveva raccontato cosa fosse accaduto nella Stanza Rossa aveva iniziato a capire cosa avesse dovuto affrontare la ragazza.

‘Una cosa in meno a cui pensare’, così l’aveva definito.

I figli di Clint erano stati un raggio di luce nella vita di Natasha. Gli aveva detto che avrebbe fatto di tutto per riportarlo tutto intero da quei bambini che la consideravano parte della famiglia. Lila l’adorava letteralmente e ogni volta che il biondo diceva di dover partire in missione, una frase era ricorrente: “Zia Nat verrà con te, vero?” e al cenno affermativo dell’uomo aggiungeva un sollevato ‘meno male’. La figlia gli aveva anche detto che da grande sarebbe voluta essere come Natasha e questo l’aveva fatto sorridere. 

Una lacrima aveva abbattuto le sue difese e si era lasciata cadere sulla lettera andando a creare una sbavatura sull’inchiostro.

“Dannazione.”

Le altre lettere erano state un susseguirsi di pugnalate al cuore. A ogni anno trascorso dallo Schiocco corrispondeva una lettera a cui era stata allegata una foto che ritraevano i ricordi a cui Natasha si aggrappava per non perdere la speranza. In quelle buste era raccontato tutto ciò che era accaduto durante quel periodo. Clint aveva potuto ricostruire tutta la frustrazione e la rabbia di Vedova Nera. Aveva scorto anche la sua tristezza. In un passaggio la russa gli aveva raccontato di essere stata a rendere omaggio ai caduti presso il monumento creato per non dimenticarli. Ogni anno ci andava. 

L’ultima lettera l’aveva colpito. Era più breve delle altre. 

Sono cinque anni che tu e la tua famiglia ve ne siete andati. Cinque anni in cui non mi sono arresa e, giorno dopo giorno, ho cercato una soluzione. Ho fallito.
Steve è preoccupato, sa che qualcosa non va e non potergli parlare apertamente mi fa male. Non capirebbe. Ho fatto cose di cui non vado fiera pur di provare ad ottenere qualcosa. Sono anche  tornata in Russia, nella Stanza o almeno quello che ne rimane. Sono accadute così tante cose in questi anni, alcuni segreti sul mio passato sono finalmente venuti a galla ed è meglio che rimangano sepolti insieme a chi ha provato a custodirli. Ho le mani grondanti di sangue; non smetterò mai di essere la Vedova Nera che sono stata addestrata ad essere. Non esiste redenzione, non per me. Credevo che capire cosa mi fosse stato realmente fatto e chi fossi mi avrebbe permesso di tornare almeno un po’ di sollievo. È stato inutile.
Sto crollando Clint.
Ho bisogno di te, ti prego torna. 

Il biondo aveva riletto quelle parole un paio di volte. Immaginava Natasha scrivere tutto ciò che non aveva l’occasione di dirgli di persona. Non aveva pensato a lei, se n’era andato senza pensarci due volte. L’aveva abbandonata. Aveva stretto fra le dita la piccola freccia argentata che una volta apparteneva alla russa. Quella collana che lui le aveva regalato senza pensare realmente che l’avrebbe indossata.

Il suo telefono aveva squillato strappandolo bruscamente dai suoi pensieri. Il numero sconosciuto era apparso sullo schermo solo per un paio di secondi prima che la chiamata venisse rifiutata. Stava per tornare alla sua precedente occupazione che in quel momento per lui era più importante di ogni altra cosa, quando il telefono si era nuovamente illuminato. Invece di limitarsi a premere sul tasto rosso, aveva spento il cellulare per evitare altre distrazioni. 

Aveva passato l’ora e mezza successiva e leggere e rileggere tutte le lettere a lui indirizzate, bevendo la vodka che aveva trovato appena entrato in quell’appartamento. Solo una busta non era stata aperta, non che non lo volesse, ma ciò che vi era scritto l’avevo fatto desistere.

Sestra

Natasha non aveva sorelle e di questo ne era più che certo. Aveva cercato nei cassetti della sua mente qualcuno che potesse corrispondere al destinatario di quella lettera. Era stato un buco nell’acqua. Nessuno fra gli agenti aveva quelle iniziali, ammesso si trattasse di un acronimo o cose simili, e lo stesso valeva per le persone vicine a Nat o che potesse corrispondere al nome in codice sestra. Clint aveva persino pensato a un qualche tipo di codice criptato che stava ignorando. 

Stava ancora cercando di dare significato a quel nome quando aveva sentito una suoneria giungergli ovattata. La sua attenzione era immediatamente stata rivolta al cellulare accanto a lui prima di ricordarsi di averlo spento. Aveva poggiato quindi le lettere per cercare l’origine di quell’ennesima distrazione. L’aveva seguita fino al muro che separava la stanza dal corridoio. Si era piegato sulle ginocchia picchiettando sulla superficie per cercare un’intercapedine nascosta, ma senza risultati. Aveva provato quindi sulle piastrelle del pavimento vicine alla parete. Dopo qualche secondo, sotto una queste, dato il rumore che aveva prodotto dopo essere stata colpita dalla sua nocca, aveva scoperto un piccolo nascondiglio. Il cellulare al suo interno ancora squillava, accanto c’era una pistola. Aveva risposto. Aveva sentito qualche parola in una lingua, molto probabilmente russo dato che aveva capito qualche termine, sovrastata da un rumore che non era riuscito a identificare. Chiunque fosse non sembrava tranquillo. Aveva provato a parlare, ma dopo un attimo di silenzio la chiamata era stata interrotta. Si era così trovato con quel telefono in mano. Nessun messaggio o contatto salvato, solo quell’unica chiamata in entrata e nessuna in uscita. Aveva messo il dispositivo accanto al suo deciso a chiedere a Ross se ne sapesse qualcosa. 

Aveva emesso un respiro profondo provato da quella giornata iniziata con l’intervento di Wanda per impedirgli di fare l’ennesimo errore e si era conclusa a casa di Natasha.

Si era avvicinato alla finestra per respirare un po’ d’aria. Spesso durante le loro conversazioni Natasha si sedeva sul bordo, con una tazza di caffè nero fumante in mano, ad ascoltarlo. 

Si era messo a osservare le auto che passavano di fronte alla casa della russa. Aveva sempre trovato strano che la ragazza avesse semplicemente deciso di vivere in un condominio e non in un luogo segreto come lui stesso aveva fatto. 

Aveva sentito il rombo di una moto disturbare la quiete del quartiere. Il pilota aveva accelerato per superare un’auto e il conducente, evidentemente scocciato, doveva avergli urlato qualcosa che però il rumore del motore della motocicletta aveva sovrastato prima che il motociclista svoltasse l’angolo proseguendo per la sua strada. 

Clint aveva richiuso la finestra, aveva  piegato la lettera non destinata a lui e l’aveva riposta nella tasca posteriore dei suoi pantaloni. Aveva infine aveva richiuso la cassaforte e fatto due coccole al gatto che lo osservava tranquillo dal letto. Aveva dato un’ultima occhiata alle stanze per controllare che tutto fosse in ordine. Stava per recuperare la bottiglia di vodka abbandonata sul tavolo della cucina, quando Liho si era avvicinato alla porta dell’appartamento quasi stesse chiedendo al biondo di farlo uscire. 

L’arciere aveva poggiato la mano sulla maniglia pronto ad aprire, ma dei passi provenienti dal corridoio del condominio l’avevano fatto desistere. Erano veloci e si stavano avvicinando. Aveva visto la maniglia abbassassi violentemente un paio di volte. Prima di prendere qualsiasi altra decisione era tornato a grandi falcate nella stanza di Nat non sapendo con chi avesse a che fare. Aveva recuperato la pistola vista poco prima e tolto la sicura. Si era poi appostato rasente al muro dietro alla porta della camera tenendo così sotto controllo l’ingresso grazie allo spazio creato dai cardini. 

Dopo qualche secondo la serratura era scattata, evidentemente chiunque fosse era stato in grado di scassinarla.

   
 
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