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Autore: Ciuscream    15/01/2021    8 recensioni
Marius gridò, gettandosi a terra, il viso distorto dal dolore che mutava come quello che portava il suo nome sull’arazzo. Mentre quello del ragazzo sbiancava, quello impresso nella stoffa si imbruniva, la bacchetta incandescente che ci premeva sopra con sbuffi di fumo denso. Il suo viso, ora, era una sola macchia rovente; questa era la sua pena per la vergogna arrecata: depennato dalla memoria, condannato all’oblio.
[Questa storia partecipa al contest “Back to Black” indetto da parsefeni sul forum di EFP]
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Famiglia Black, Sirius Black, Walburga Black
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra, Malandrini/I guerra magica
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Damnatio memoriae
Mi vendicherò nel modo più crudele che tu immagini.
Dimenticherò ogni cosa.

(John Steinbeck - L'inverno del nostro scontento)

 
 
 
«Kreacher…» mormorò piano e l’elfo domestico comparve quasi all’istante, con un piccolo crack!
«Padrona! Oh, la padrona non sta bene?» squittì l’elfo, mentre osservava con attenzione il viso stanco e segnato di Walburga, balzellando sul posto d’impazienza e preoccupazione.
Lei lo fissò con uno sguardo di rimprovero, una smorfia di fastidio per tutto quel movimento che le premeva sulle tempie un senso di nausea e capogiro. Si costrinse a distogliere gli occhi da lui, abbassando leggermente le palpebre. Schiuse appena le labbra per rispondere ma una fitta di dolore le premette prepotente all’altezza del petto, inframmezzata fra le costole, piantata nella gabbia toracica con premura di coltello. Le mozzò il respiro e le parole e, per un attimo, la confuse. Quel senso di impotenza la rendeva irascibile; l’inutilità che leggeva ormai nelle sue membra scheletriche e rattrappite dal tempo le scavava le forze, le erodeva fin quasi ad azzerarle. Si sentiva un’anima lacera in un corpo ancor più derelitto, che era però decisa – da quelli che le sembravano lunghi e grevi anni, ormai – a non abbandonare ancora. Come se la morte fosse l’ultimo atto di resa che non era disposta a compiere, aggrappata tenacemente ad una vita che ormai abitava al chiarore di ricordi lontani; l’ultimo incantesimo di Adesione Permanente era quello alla sua esistenza.
Il dolore non accennava a chetarsi, al di sotto della seta e delle trine scure che disegnavano il profilo del colletto. Per questo allungò una mano ad acchiappare a tentoni lo straccio lacero dell’elfo, le dita a stringerne debolmente lembi di stoffa. Fece per attirarlo a sé, così che la sua voce lo raggiungesse anche se, ormai, ridotta a poco più di un sussurro. La creaturina si fece prontamente più vicina; gli occhi enormi annacquati del dolore che scorgeva in ogni movimento della padrona.
«Il mio ritratto, quello all’ingresso, non dovrà essere rimosso per alcun motivo. Chiaro?»
Kreacher annuì vistosamente ma lei non poté scorgerlo, con gli occhi semichiusi e le palpebre pesanti riversate sopra.
Stilettò, quindi, più impaziente la richiesta. Un sibilo sinistro nelle sillabe. «È chiaro?»
L’elfo s’irrigidì, quasi dovesse mettere su un saluto marziale, e si affrettò a rispondere, le mani che si contorcevano una contro l’altra. «Sì, chiaro, mia padrona. Chiaro, chiarissimo!» mugolò zelante, l’apprensione che ancora gli corrucciava il viso già invaso di pieghe.
«Non permetterlo a nessuno. Deve restare nella casa dei miei padri, deve difenderla. Nessun Sanguemarcio deve varcare la soglia ed insozzare queste mura, nessun traditore del suo sangue.» Le parole erano ormai flebili bisbigli, anche se il tono non aveva ancora abbandonato la perentorietà minacciosa che l’aveva contraddistinto nei lunghi anni in cui aveva saettato ordini in ogni dove, al 12 di Grimmauld Place.
«A nessuno, mia signora. Kreacher fa quello che chiede la sua padrona.» I grandi occhi saggiarono con inquietudine crescente il viso bianco della donna, segnato dal tempo e dal dolore che, anche nella vecchiaia, non aveva abbandonato la tipica altezzosità regale.
Era adagiata, infatti, su una grande poltrona dall’aria arcaica e logora, le braccia abbandonate mollemente sui braccioli, le dita libere dallo straccio che stavano strette e adese intorno al legno intarsiato. La schiena era dritta, il viso solcato dalla sofferenza puntato di fronte a sé, le palpebre abbassate a nascondere il grande arazzo che troneggiava in soggiorno. La stanza era avvolta nella penombra che, da tempo, albergava fra quelle mura, non più abituate alla luce del sole da quando lei era rimasta l’unica Black ad abitare la casa.  
Mollò la presa flebile dalla stoffa lercia e rialzò con fatica lo sguardo. Strascicò gli occhi sulla grande distesa di visi e nomi che spiccavano nella parete di fronte a sé, saggiando ad uno ad uno anche tutti quelli erosi e abrasi dalla forza del fuoco, di cui rimaneva solo una chiazza scura nel tessuto. In particolare, altalenò le pupille – l’unica parte del viso che sembrava ancora in vita – tra tre bruciature che serpeggiavano nel ramo della famiglia da cui discendeva. Esistenze, vissuti, ricordi, pensieri, carne e sangue, ridotti ad un buco, spazzati via dal calore bruciante – indegni. La fitta all’altezza del cuore si fece più pesante, caricata dall’onta di vergogna e disprezzo che quei nomi le provocavano, allagandola di un’ostilità che, a distanza di quasi dieci anni, mentre la vita la stava abbandonando, ancora faceva fatica a reprimere.
Nemmeno al traguardo della sua esistenza riusciva ad elaborare una sorta di rimorso, un conato di compassione e rammarico; non era stata creata col gene della pietà. Moriva così com’era vissuta: ferma, fiera, folle. Una Black dall’anima nera.
 
***

«Non c’è posto per feccia come te, per l’abominio che sei, nella nostra famiglia!» Pollux Black era ansante mentre le labbra di poco più che ragazzino tremavano di una rabbia primitiva e rigurgitavano parole che aveva sentito per tutta la vita aleggiare fra le mura ricoperte di tappezzeria scura. Un ritornello, un leitmotiv che lo inseguiva fin da quando era bambino, che aveva imparato ad interiorizzare ancor prima di imparare a parlare.
«Mai ci sarà. Mai
Lo ripeteva, come un mantra, da quando era stato capace di formulare delle parole. Ancor prima dell’alfabeto, degli incantesimi, prima di conoscere il suo nome o quello di sua madre e suo padre, la sua eredità era stata contrassegnata da un unico grande punto fermo: la casata dei Black doveva essere onorata. Chiunque si sottrasse a quell’onere instillato alla nascita, doveva essere punito. Doveva essere cancellato, doveva essere dimenticato. Il destino di traditori del loro sangue e di maghinò era uno ed uno soltanto: l’oblio.
Marius urlava disperato, in soggiorno, con le grida che rimbombavano e impregnavano l’aria di un dolore così denso da risucchiare l’ossigeno, da lasciarlo boccheggiante e confuso. Fissava suo fratello con gli occhi spalancati, iniettati di sangue, colmi di una disperazione così profonda che era arrivata dal cuore alle pupille e le aveva dilatate di terrore. Lo tirava per la veste, le dita strette sul suo mantello: fissava quel giovane diventato già padre, il fratello maggiore che aveva sempre ammirato con indubbia reverenza. Il preferito, il rampollo, l’inarrivabile primogenito maschio, di cui lui era sempre stato la macchietta sbiadita, impotente, banale. Le preoccupazioni di bambino geloso erano diventate poi una realtà sempre più solida, sempre più spaventosa: tra quelle mani di ragazzino smilzo e tremante, nel suo corpo secco e spaurito, la magia non era comparsa. Pollux, sua madre e suo padre lo avevano guardato mettere su i primi passi, farsi ragazzo, indurire i tratti delicati dell’età. Ma mai niente di speciale era successo attorno a quel bambino, niente che lui avesse causato. L’ipotesi era diventata preoccupazione, la preoccupazione impazienza, l’impazienza certezza. Dai geni dei Black e dei Bulstrode, impregnati di magia da generazioni remote, era nato un essere che sembrava esserne totalmente privo – straordinario nella sua ordinarietà, abietto, malato. Incredulità e sdegno erano stati la sola risposta quando, come suggello finale, la lettera da Hogwarts non era stata recapitata e aveva gettato sui Black la più cruda delle ignominie.
Pollux non aveva retto l’onta di quel disonore; una vergogna cieca, radicata e primordiale lo aveva invaso e avviluppato molto di più di quanto aveva fatto con suo padre e sua madre. Non c’era compromesso, nella sua idea; non c’era perdono per quella colpa incolpevole.
«Sai cosa sono quelli come te? Feccia! La peggiore!» gridava anche lui, sopra gli ululati di disperazione del fratello minore che ancora si aggrappava al suo mantello come all’ultima delle speranze.
«Ci dev’essere un errore, Pollux! È un errore, te lo giuro. Ti supplico, non farmi andare via, ti prego, Pollux…» Le parole erano sbrodolanti di lacrime e suppliche; Marius tossiva e gemeva preghiere, mentre il fratello scuoteva risoluto il capo, i connotati orribilmente distorti, la bacchetta puntata contro il minore.
«Cosa diremo in giro, eh? Cosa diremo alla gente, cosa diremo agli altri? Un magonò…» Un mugugno e le mani si tuffarono sul viso, a stropicciargli le palpebre, quasi volesse svegliarsi da un orrido sogno in cui si credeva immerso. «Ho sempre messo in guardia nostro padre su quello che sei! E lui diceva di aspettare, che non era possibile, che saresti guarito…» Una smorfia di disgusto gli arricciò il viso, strappando il mantello con un gesto brusco dalle mani del fratello.
«Devi andartene da questa casa. Non è più casa tua. Non sei degno di portare il nome dei Black!»
Marius gridò, gettandosi a terra, il viso distorto dal dolore che mutava come quello che portava il suo nome sull’arazzo. Mentre quello del ragazzo sbiancava, quello impresso nella stoffa si imbruniva, la bacchetta incandescente che ci premeva sopra con sbuffi di fumo denso. Il suo viso, ora, era una sola macchia rovente; questa era la sua pena per la vergogna arrecata: depennato dalla memoria, condannato all’oblio.  
 
Walburga era stata testimone inconsapevole della comparsa della prima macchia scura sul loro ramo; le grida di Marius le erano arrivate ovattate, dalla stanza al secondo piano in cui sua madre la cullava leggera. Quella macchia, scoprì presto, aveva bucato non solo l’arazzo ma pure il giovane, ma già così inflessibile, animo di Pollux. Lo aveva allagato di dubbi che si erano riversati sui tre figli, di cui Walburga era stata la prima spugna. Aveva seguito ogni passo della sua crescita con maniacale attenzione, pronto a scorgerne magia nella più pura casualità, nelle pieghe di un gesto qualsiasi, in una piuma mossa dal vento di uno spiffero. Il terrore di essere portatore sano di quella malattia, di quella maledizione che aveva depredato suo fratello della magia, lo lasciava spesso ad occhi spalancati, insonne, nella stanza da letto in penombra. Pensava al suo viso, al suo nome intarsiato di filo dorato, creparsi e diventare nero sotto la punta della sua stessa bacchetta. Pensava al dolore dei suoi genitori, a quella che ritenevano la più greve e dolorosa delle sconfitte, delle piaghe. Non era certo che sarebbe riuscito a farlo ancora, a sopravvivere ancora, con un altro tale fardello. Non se quella a gridare fosse stata sua figlia, appesa alle sue vesti come al filo di lana prima della fine. Sua figlia.
Walburga aveva ereditato il colore emaciato della madre ma portava il nero – dei suoi occhi e dei suoi capelli – fra le pupille che si distinguevano a fatica dall’iride e in una cascata di boccoli corvini che le ricadeva dritta sulle spalle. Aveva il portamento fiero e svettante dei Black, la superbia che le si insinuava nelle pieghe delle smorfie di bambina e premature ed evidenti doti da strega. Era cresciuta tra serpenti che addobbavano ogni angolo della casa e si era mimetizzata tanto bene tra di loro che aveva finito per diventarlo lei stessa – una serpe. Anche lei come suo padre – più di suo padre – era stata inondata, costantemente, dal vivido rimembrare degli onori e degli oneri che essere una Black comporta. Era stata persuasa di quanto la purezza del suo sangue fosse marchio di regale importanza, un dono da custodire gelosamente e un vessillo da portare, ritti e fieri, sopra la testa. Era stato inevitabile, quindi, scegliere di non mescolarsi con altri nomi che, seppur di antica e nobile stirpe, non avevano – ne era certa – la straordinaria stoffa dei suoi padri. Non per affetto e non per desiderio aveva, quindi, sposato Orion Black. Si era semplicemente fatta portatrice (in)consapevole di quella crociata che generazioni prima di lei avevano portato avanti; crociata esponenzialmente accentuata da una specie di cupo isterismo che aveva ereditato dalla figura ombrosa di Irma Crabbe, sua madre, che il padre riteneva – con la sua inettitudine – la responsabile prima per la devianza che il figlio mediano, Alphard, mostrava sottoforma di scanzonata riluttanza a tutta quella boria nobiliare che la famiglia ostentava con risolutezza.
Walburga e il fratello minore, Cygnus, condividevano un’indole tagliente e superba, in cui gli insegnamenti di Pollux erano penetrati con la forza di lunghe e profonde radici; Alphard si era mostrato meno fertile ai deliri della purezza, i grandi occhi grigi che brillavano di una luce innaturalmente più vivida di quella degli altri due fratelli. Le loro strade si erano divise appena terminata l’istruzione di quest’ultimo, il Serpeverde più atipico che Hogwarts avesse conosciuto; era finito a trafficare d’arte e cimeli lontano dalla cappa pesante dei Black e dalle atmosfere ostiche e lugubri del 12 di Grimmauld Place.
 
***

Walburga non aveva sentito la mancanza di quel fratello così stridente con i canoni che aveva imposto, come rigidi paletti, alla vita sua e della sua famiglia. Con terrore aveva ritrovato, quindi, quel chiarore e quello scintillio negli occhi del suo primogenito, Sirius, tanto simile ad Alphard da sembrarne il figlio. Tanto simile che quel fastidio malcelato nei confronti di uno, si era riversato con potenza di cascata sull’altro, che accoglieva quel fiume di disprezzo come si accoglie l’acqua fresca nella calura. Sirius si era dimostrato da sempre – a differenza di Regulus, suo fratello minore, il principe di sua madre – impermeabile ai diktat dei Black e al sempre più evidente malcontento di Walburga. Una maschera di strafottenza e distanza gli albergava perennemente in viso e si trasformava in eruzioni di rabbia solo di fronte alle urla – continue ed estenuanti – di sua madre, che sembrava scivolare sempre più rapidamente in uno squilibrio che le invadeva le vene e le macchiava quel sangue così puro. Era incredula di come la battaglia che aveva passato la vita a combattere, quei valori di cui si era fatta bandiera e testimone, non si fossero travasati nel sangue di quel figlio che aveva prodotto, svezzato, nutrito e cresciuto; di cui aveva voluto così ardentemente doppie radici nella famiglia Black.
Con suo sommo disdegno e dolore, quel figlio ogni giorno si allontanava sempre più dalla strada che aveva faticosamente a tracciato per lui. Ogni giorno, un’onta di vergogna si stendeva sul 12 di Grimmauld Place a causa di quegli occhi grigi, così stonati sulla divisa dorata e scarlatta di Grifondoro. Aveva appeso stendardi nella sua camera, in quella casa che era stata la dimora dei suoi padri; aveva osato far svettare leoni al posto di serpenti. Leoni che lei aveva tentato di strappare con la magia, con le unghie, con pugnali d’argento ma che rimanevano arpionati alle pareti con forza proporzionale al disprezzo di suo figlio.
Insieme a quelli, volti vacui, immobili, di ragazzuole e mezzi di trasporto babbani che, alla sola vista, le davano capogiri di incredulità e disgusto. Lì, tra le mura dove suo padre le aveva insegnato tutto quello che sapeva, dove le aveva mostrato sulla stoffa la magnificenza della Nobile e Antichissima Casata dei Black, lui portava i segni dell’abominio e del tradimento.  
 
Un giorno era rientrato nella stanza mentre lei, in preda ad uno dei suoi raptus, tentava di squarciare quei manifesti all’ignominia. Graffiava, tirava, sputava sulle facce babbane alle pareti, sulle motociclette, su quel gruppo di amici che disprezzava con tutta sé stessa. Su quelle mani ibride che toccavano ed insozzavano il suo primogenito, che lo avevano traviato, lo avevano condotto lontano – lontano da lei, lontano dal suo sangue, lontano dai Black.
Lui le aveva puntato la bacchetta addosso, dritta al petto e le aveva fatto un gesto rapido della testa, a farla scansare dai muri che aveva così minuziosamente agghindato per istigare la sua furia.
«Spostati, madre. Adesso.» aveva sibilato, con le parole che scivolavano tra i denti digrignati di una rabbia primordiale – da Felpato, da segugio –, alimentata dal disprezzo per quella stirpe che gli era toccata in sorte. Lo stesso disprezzo che vedeva riflesso negli occhi di quella donna che aveva perso quasi ogni barlume di lucidità: era scheletrica, sfinita ed un sentore di follia le velava di un’ombra opaca gli occhi pece.
Lei si allontanò con riluttanza dalle pareti ma mosse un passo verso di lui, l’indice che svettava, come una bacchetta, puntato dritto fra gli occhi di suo figlio.
«Osi portare le facce di questi ibridi, di questa feccia, dentro la mia casa, dentro la casa dei miei padri. Ti disfo come ti ho creato, traditore del tuo sangue. Ingrato!» I suoi non erano sibili, piuttosto rantoli, grida strozzate dentro la gola, aggrappate ad un nodo che l’avviluppava.
«Di cosa dovrei essere grato, mh? Dimmi madre!» La fece scivolare fuori dalla stanza con passo lento, quasi quello fosse un duello e i due si stessero studiando con attenzione, prima di passare a sferrare l’attacco. Scesero ancora, urlandosi addosso, giù per le scale; i ritratti che si destavano e seguivano con vivo interesse quello scambio al vetriolo, di insulti e rancore. Alcuni mormoravano tra di loro, additando Sirius con cupo disappunto.
«Sei un disonore, non hai idea di cosa voglia dire essere un Black!» Sottolineò l’ultima parola con quello che parve il primo vero cenno di cedimento mentale; l’insania che risaliva a scivolare fra le sillabe, a puntellarle con la sua forza. «Perché non sei come tuo fratello, perché? Cos’ho sbagliato con te?»
«Ho combattuto tutta la vita per non essere come voi! Voi…» rise, con la sua risata così simile ad un latrato, screziata di scherno e rancore. Erano arrivati nel salotto, in quel loro rincorrersi. Sirius si guardò intorno, come ad individuare qualcosa su cui scaricare la sua furia e, con un ampio movimento del braccio, indicò l’arazzo alle sue spalle con un gesto volutamente teatrale. «Voi, così convinti che quelle cinque lettere vi diano un qualche status particolare. Un biglietto di sola andata per il rispetto e l’invidia di quelli col sangue puro come il vostro. Ma siete solo dei fanatici, dei…» Non riuscì a finire la frase perché Walburga esplose in un grido così assordante che i vetri della credenza, cosparsa di cimeli di famiglia, tremarono appena.
«TACI!» sbraitò, interrompendolo; gli occhi spalancati di una rabbia violenta, folle. Le pupille e le iridi nere erano diventate un tutt’uno, il suo viso emaciato era quasi paonazzo, le vene alla base del collo erano spuntate a far risalire la sua pelle sottile. «Non ho idea di chi tu sia ma non sei mio figlio, sei uno schifoso sottoprodotto di sudiciume, uno scherzo della natura!»
L’ombra di Pollux e Marius, in quello scontro di molti anni prima, consumato nella stessa stanza – meno polverosa e meno tarmata – scese ad albergare come un monito nel salotto scuro. Walburga, come suo padre, paladina della sua stirpe, alienata nei suoi dettami; Sirius, come Marius, colpevole di aver infangato il nome dei Black ma, a differenza di questo, non disperato ma fermo, irato, animato da un contrapposto e speculare disgusto per la donna che lo aveva messo al mondo e per il nome che gli aveva affibbiato.
«No, tu… tu!» le gridò il figlio, il viso contratto in una smorfia che non differiva in alcun modo da un ringhio sbavante. «Tu non sei mia madre! Mi ripugna l’idea di essere venuto al mondo da quel tuo ventre tossico. Mi meraviglia che possa nascere la vita da tanto veleno!» Le sputò addosso quelle ultime sillabe, nauseato, prima di dirigersi verso la porta del salotto e spalancarla con un gesto rapido della bacchetta.
«Torna immediatamente qui, cane! Torna qui!» Gli strilli erano così acuti che ogni vocale sembrava trascinarsene dietro molte altre, in uno stridio.
«Me ne vado!» ululò Sirius e, con quest’ultimo finale avvertimento, sbatté la porta di Grimmauld Place dietro di sé, il cui tonfo fu sommerso dalle urla di sua madre che gli intimava di tornare indietro.
 
Se ne rese conto in un secondo, nel silenzio che aveva allagato improvvisamente la casa: non lo avrebbe fatto mai – non sarebbe mai tornato. E un finale, straziante, grido si levò dalla donna, così scheletrica che sembrava potersi spezzare da un momento all’altro dalla potenza dei decibel che lei stessa stava facendo esplodere. Kreacher, che si era nascosto dietro la porta del salotto per origliare, si tappò le orecchie con forza, premendole contro la testa, mentre il suono dell’onta del disonore deflagrava le mura tappezzate di scuro ed investiva i volti sulla parete.
Era un segnale di dolore talmente acuto che sembrava che la bacchetta che adesso puntava sull’arazzo e cancellava il viso del suo primogenito, fosse, invece, adesa alla sua carne e la stesse logorando di un’altrettanta, violenta, ustione; fuoco a scavarle la pelle, a corroderle l’epidermide – a corroderle l’anima.
Nell’eco di quel grido, con il corpo piegato a metà, si rese conto dell’unica, incontrovertibile, verità, che le pesò sulle spalle, facendole traballare pericolosamente le ginocchia.
I Black, se lacerati nell’orgoglio, erodono la memoria, inceneriscono i ricordi – condannano all’oblio.
Suo figlio l’aveva condannata all’oblio.
 
 
 
 
 
 
 

Nda: Come anticipato in introduzione, questa storia partecipa al contest “Back to Black” indetto da parsefeni sul forum di EFP. Il pacchetto da me scelto per sviluppare questa storia è il numero 9.
Ho preso la figura, controversa e misteriosa, di Walburga Black, per poter raccontare tre diverse generazioni: la sua, quella del padre – Pollux e quella del figlio – Sirius. Volevo andare a sondare le sue radici – quello che l’ha portata ad essere la folle donna ritratta all’ingresso di Grimmauld Place – e quella che è stata l’eredità dei suoi padri, prendendo come filo conduttore l’arazzo del salotto, screziato di bruciature che hanno cancellato i volti di coloro che hanno arrecato disonore alla famiglia. Ho volutamente tralasciato il racconto di come è stato cancellato il volto dello zio Alphard, che dev’essere avvenuto – per quel che deduciamo dai libri – in un tempo successivo al finale della mia storia. Ho immaginato, comunque, che, nemmeno prima del suo lascito a Sirius, Walburga fosse vicina a quest’ultimo e quanto questo fosse, invece, molto più simile al nipote a cui donerà denaro e per cui si ritroverà anch’esso depennato dall’arazzo.
Le informazioni sulla famiglia Black le ho estrapolate dall’albero genealogico reperibile nel magico mondo dell’internet; il fatto che Marius Black fosse un magonò, oltre che dall’albero genealogico, è confermato da Wizarding World. Il resto me lo so’ inventato – non me ne vogliate.
   
 
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