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Autore: valehina    25/08/2009    2 recensioni
Cadde un silenzio tombale. I due genin si fissarono a lungo negli occhi, cercando la risposta uno negli occhi dell’altra. Il bianco dentro il nero, il nero dentro il bianco.
Il ragazzo, quasi involontariamente, sollevò la mano libera e carezzò il nome di suo nonno, sulla roccia.
Sarutobi Hiruzen.
In quel momento entrambi capirono.
[KonoHana, lievissimo accenno NaruHina]["Nei giardini che nessuno sa", Laura Pausini]
Prima classificata e vincitrice del Premio Originalità al contest "SongFic...Naruto e la Pausini!" indetto da Krikke
Genere: Triste, Malinconico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Konohamaru
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A good deed 02

A good deed

Capitolo 2: Dolls and Slings

 

E' un rifugio quel malessere,
troppa fretta in quel tuo crescere.
Non si fanno più miracoli,
adesso, adesso non più.


Konohamaru procedeva spedito sulla via principale di Konoha, lo sguardo dritto davanti a sé.
Non voleva distrazioni. Non voleva fermarsi.
In mano, quella vecchia borsa logora che attirò lo sguardo curioso di parecchie persone.
Il ragazzo camminava, camminava, incurante della gente che lo salutava o che lo chiamava.
Aveva un obiettivo, quel giorno. E l’avrebbe raggiunto ad ogni costo.
Tuttavia, Konohamaru non poté non vedere le espressioni che gli abitanti della Foglia avevano in viso.
Sorrisi. Risate. Bronci. Aggrottamenti di sopracciglia. E di nuovo sorrisi.
Sentì una fitta al cuore. Ebbe l’orrenda sensazione che si fossero tutti dimenticati di quel giorno.
Che si fossero tutti dimenticati di lui.
A Konohamaru mancò per qualche secondo il respiro, ma non si fermò.
Ricacciò indietro le lacrime di amarezza e rabbia e continuò, cercando di catalizzare tutto il dolore che provava alla vista di quegli ingrati –solo così poteva chiamarli quel giorno, ingrati- insieme a quello che era risorto nel suo cuore quel giorno.
Se ci fosse stato lui, avrebbe sorriso e gli avrebbe arruffato i capelli dicendo: “Konohamaru, sono contento di vederli così. Preferisco vedere il mio villaggio sorridere, piuttosto che piangere”.
Un sorrisetto amaro comparve sul viso del dodicenne.
Certo, avrebbe detto così. Suo nonno era buono. Troppo buono.
Avrebbe voluto con tutto il cuore abbracciarlo, ma sapeva che era impossibile.
I miracoli non avvenivano. Perlomeno, non a lui.

 

Non dar retta a quelle bambole
Non toccare quelle pillole
Quella suora ha un bel carattere,
ci sa fare con le anime.

Passo dopo passo, Konohamaru si era allontanato sempre di più da casa sua.
Nella sua mente frullavano diversi pensieri, la maggior parte pressoché inutili.
Ricordò di non avere abbassato la tapparella in camera da letto: quando sarebbe tornato, avrebbe trovato un caldo asfissiante.
Si chiese se anche Udon e Moegi avevano i muscoli a pezzi, e promise che la prossima volta che avrebbe visto Ebisu l’avrebbe punito.
Lui era il nipote del Terzo Hokage, che diamine!
Mentre un sorriso malinconico appariva sulle sue labbra, un nuovo dolore gonfiava il suo cuore.
Era finito nel centro commerciale di Konoha, nel frattempo. Attorno a lui, decine di negozi aperti facevano a gara per accogliere più clienti. I commessi sorridendo eseguivano alla lettera le richieste dei clienti, com’era d’abitudine a Konoha.
Konohamaru non ci badò: d’altronde era la stessa scena che ogni giorno aveva sotto i suoi occhi. Tuttavia, si fermò davanti a un negozio di giocattoli, dal quale un bambino stava uscendo in lacrime.
“Uffa, mamma! Dai, per favore, prendimi la macchinina! Dai!”, singhiozzò il piccolo.
Dietro di lui apparve una donna, uno sguardo stizzito.
“Andiamo, Kazuo! Ti ho già comprato il pallone ieri. Questo regalo è per tua sorella Emi, quindi non lamentarti e pensa a lei, che ha la febbre!”, sbottò, sollevando in aria il sacchetto che teneva in mano.
Kazuo sembrò colpito da quelle parole, perché smise di piangere e dette la manina grassottella alla mamma, che gli sorrise.
“Ho capito, mamma. Andiamo da Emi, adesso?”, fece, gli occhi luminosi.
“Sì, Kazuo. E ho anche preparato una torta per lei! Sei contento?”
Un sorriso estatico apparve sul viso del bimbo.
“Urrà! Allora sbrighiamoci!”
I due si incamminarono verso la strada che portava all’ospedale. Konohamaru non poté fare a meno di preoccuparsi per la piccola Emi: doveva stare proprio male, se la mamma le comprava un giocattolo nuovo e le portava un dolce…
Sovrappensiero, il ragazzo si avvicinò alla vetrina del negozio, fino a sfiorarla con la punta delle dita.
Concentrò il suo sguardo sui bei giochi nuovi di zecca esposti, non senza pensare che lui non ne aveva avuti mai.
Aveva avuto solo armi, come d’altronde tutti i ninja presenti a Konoha.
Il suo unico gioco era stata una fionda, che aveva preso…proprio lì, in quel negozio.
La sua attenzione si catalizzò su una bambola, seduta al centro.
Aveva due occhi enormi, di un azzurro cielo innaturale. I boccoli rossi le cadevano fino alle spalle. La bocca rossa sorrideva immobile.
Portava un vestitino verde a fronzoli, che si intonava con la capigliatura rosso fuoco.
Konohamaru non aveva mai visto quella bambola. Eppure, appena incrociò quel viso di porcellana, il suo cuore fece ancora più male.
E la sua mente riprese a vagare nel passato.

 

 
“Quale onore, Hokage!”
Il commesso, un uomo con una pancia grossa e la faccia simpatica, si alzò in piedi non appena il vecchio fece il suo ingresso nella bottega.
“Stia seduto, la prego.”, rispose l’Hokage, sorridendo. “Non si scomodi.”
Konohamaru stava dietro il nonno, parzialmente coperto dalla lunga tunica bianca che il vecchio indossava ogni giorno.
Appena si rese conto del posto in cui era entrato, gli occhi gli si illuminarono e la bocca formò una grande o.
“Nonno…ma questo è il paradiso!”
Davanti a lui c’erano scatole e scatole di giocattoli, piene zeppe di macchinine, camioncini, palloni, pupazzi, animaletti di plastica, girandole, frisbee, corde, bambolotti, maschere, racchette, e ogni altra sorta di balocco.
Per poco non gli venne la bava alla bocca.
Il nonno rise alla vista della sua espressione. Poi si diresse verso le scatole.
Il commesso non si era ancora seduto.
Konohamaru corse verso il vecchio, che aveva infilato una mano in una delle decine di scatole lì presenti. Dopo qualche minuto, tirò fuori uno strano oggetto, mai visto prima dal nipotino.
“…che cos’è, nonno?”
L’uomo sorrise e glielo mise in mano. Konohamaru se lo portò davanti agli occhi, in modo da vederlo meglio: sembrava un rametto, la cui estremità si diramavano in due direzioni. Il bimbo si stupì dell’elastico lungo e spesso attaccato ai due
pezzettini separati.
“Si chiama fionda, Konohamaru.”
“Fionda…”, bisbigliò il bimbo, pronunciando per la prima volta quel nome nuovo. “…è un giocattolo?”
“Certo. Non l’avresti trovato qui altrimenti.”
Konohamaru annuì, capendo che la domanda che aveva fatto era proprio stupida. Poi chiese: “Come si usa?”
Il nonno allora cercò nella scatola una pallina, e dopo averla trovata la mise sull’elastico, tendendolo con l’indice e il medio della mano destra.
“Ecco, ti posizioni così…”, disse l’uomo. “…e poi lasci andare le dita. Hai capito cosa succede poi?”
“La pallina…viene lanciata via!”, esclamò il nipotino, fiero di esserci arrivato da solo. “Che forza! Posso provare?”
Il vecchio lanciò uno sguardo al commesso, che aveva assistito al dialogo. Costui annuì subito, senza un attimo di incertezza.
Allora lasciò la fionda e la pallina nelle mani del piccolo, che era entusiasta.
“Non mirare alla vetrina, mi raccomando. Potresti romperla.”, disse l’uomo, sorridendo.
Konohamaru si concentrò subito sulla porta aperta del negozio. Non avrebbe fatto danni, così.
Alzò esageratamente le braccia, chiuse un occhio per prendere la mira. Per la concentrazione tirò fuori perfino la lingua.

Tre, due, uno…
La pallina partì ronzando verso la porta. La traiettoria era perfetta, sarebbe finita esattamente contro il tavolino del bar a cui Konohamaru aveva mirato.
Se in quel momento non fosse apparsa lei.
La pallina le finì dritta in testa, facendola barcollare lievemente. Poi si massaggiò la parte colpita fissando prima la pallina, che rotolò ai suoi piedi, e poi colui che l’aveva lanciata.
 

La prima cosa che Konohamaru notò furono gli occhi.
Erano bianchi. Non azzurro chiaro, o di un violetto talmente tenue da somigliare al bianco.
Erano bianchi come la neve.
Erano sorpresi, lievemente infastiditi. Ed erano freddi come il ghiaccio.
Il bimbo non poté reggere quello sguardo e lo abbassò ai suoi sandaletti, vergognandosi come un ladro.
Il nonno, che aveva osservato tutto, non poté fare a meno di ridere.
La bimba entrò nel negozio, seguita da un uomo che era senz’altro il padre.
Stessi occhi bianchi. Stesso gelo in viso.
Non appena l’uomo entrò nella bottega, il vecchio smise di ridere. Si fece avanti e disse, cordiale: “Anche tu qui, Hiashi?”
L’interessato si accorse della presenza dell’uomo e chinò lievemente il capo. Si vedeva che non era abituato a farlo.
“Buongiorno, Hokage. Oggi è il compleanno di Hanabi, perciò siamo venuti a scegliere il suo regalo.”
La bimba, Hanabi, alzò lo sguardo e sorrise al nonno di Konohamaru. Poi tornò a fissare il bimbo, che si era messo a contare le mattonelle sul pavimento.
“Capisco. E quanti anni compi, signorinella?”
“Faccio sette anni, signor Hokage”, rispose Hanabi, senza incertezza nella voce.
“Ma davvero?”, mormorò il nonno, sorridendole affabile. “Allora hai la stessa età di Konohamaru! Vero, figliolo?”
Il bimbo, nel sentirsi interpellato, alzò la testa di scatto, arrossendo. Poi balbettò: “S-si, nonno…”
“Quando li compi, tu?”
Konohamaru inizialmente non si accorse che la domanda della bimba mora era diretta a lui. Infatti, quando lo capì, avvampò ancora di più.
“…i-il 30 di-dicembre…”, bisbigliò a bassa voce, così bassa che temette che non l’avesse sentito.
Invece Hanabi annuì e si avvicinò a lui. Lo guardò di nuovo con quegli occhi freddi e poi fissò le mensole sopra la loro testa.
Konohamaru non le aveva notate, forse perché quello che contenevano era solo roba da femmine.
Su quelle mensole c’erano una ventina di bambole, tutte seduta una accanto all’altra. Tutte con lo sguardo fisso in avanti. Tutte con un sorriso finto.
A Konohamaru misero paura. Si voltò verso la bimba, che le osservava con aria distaccata.
“Tu quale prenderesti?”, chiese Hanabi, a bassa voce.
Konohamaru tornò a fissarle. Poi tastò la fionda che aveva in mano.
“Io sinceramente”, fece, anche lui abbassando la voce, “prenderei questa fionda.”
Hanabi abbassò lo sguardo sul visetto di Konohamaru, per poi puntarlo sul rametto rosso che aveva in mano lui.
Lo fissò per qualche istante, incantata. Fece per prenderlo, ma poi scosse la testa, come se si fosse appena svegliata. E tornò a fissare le bambole, fredda.
“Non posso.”, bisbigliò la bimba.
Konohamaru in quel momento la trovò più stupida che mai: perché non poteva prendere una cosa che voleva nel giorno del suo compleanno? Lui avrebbe fatto i capricci, avrebbe pianto e strepitato, pur di avere quella fionda.
“E perché no, scusa?”, chiese lui, con tono infastidito.
Hanabi se ne accorse, e si voltò verso di lui. Il suo viso ora era triste.
“Perché il papà non vuole…”
Konohamaru rimase di sasso.
La bimba continuò: “Lui dice sempre che è tradizione del nostro clan essere eleganti e superiori agli altri. Per questo non mi farebbe mai prendere un giocattolo che appartiene alla…”, pensò alla parola giusta, “…alla plebaglia.”
Il bimbo in quel momento non seppe se sentirsi offeso o dispiaciuto. Quella strana bambina aveva usato delle parole che lui non conosceva –clan, superiori, plebaglia-, e gli sembrava tanto triste.
Konohamaru ci pensò su, poi tese la fionda verso Hanabi, che lo fissò stupita.
Il bimbo sorrise a quello sguardo interrogativo, e le mise il rametto in mano.
“Buon compleanno, Hanabi. Questo è il mio regalo per te.”
La bimba lo fissava a bocca aperta. Le sue guance pallide erano arrossite, lo sguardo si era fatto lucidi.
Fissò Konohamaru dritto negli occhi, ma stavolta il bimbo non li abbassò.
Era troppo fiero di sé, per farlo.

 

 
Tornando a casa, mano nella mano con il nonno, Konohamaru fissò la fionda che teneva tra le mani.
Poi finalmente parlò al vecchio.
“Nonno…”
“Dimmi, Konohamaru.”
Il bimbo esitò qualche istante. “Perché Hanabi non ha preso il mio regalo?”
Ricordava ancora lo sguardo di scuse che gli aveva rivolto, mentre usciva dal negozio con il padre.
Aveva sottobraccio una bambola bionda.
Konohamaru non capiva. Avrebbe voluto tanto, ma non lo capiva.
L’uomo sorrise: sapeva che il nipote era sveglio.
“Dunque, Konohamaru…devi sapere che Hanabi appartiene a un clan…”
“Cos’è un clan, nonno?”, interruppe Konohamaru, ricordandosi che Hanabi aveva usato quella parola.
L’uomo sospirò: ci sarebbe voluto parecchio tempo, per spiegarglielo…
Si sedette su una panca, seguito immediatamente dal piccolo. Prese un lungo respiro.
“Vediamo…sai bene che noi, Konohamaru, siamo ninja, mentre altre persone non lo sono.”
Al bimbo venne in mente il commesso del negozio di giocattoli: con quella pancia, non sarebbe mai potuto diventare un ninja.
“Konoha”, riprese il nonno, “è abitata perlopiù da ninja, che si occupano di difenderla e proteggerla. E io, Konohamaru…”
“Tu sei il più forte di tutti, nonnino!”, esclamò il nipote, gli occhi luminosi come stelle. L’Hokage sorrise.
“…io ho il compito di difendere e proteggere anche i ninja. Facciamo parte di un’unica grande famiglia.”
Il bimbo pensò che se era così, in un certo senso doveva essere imparentato anche con Hanabi. Subito ebbe un moto di stizza, anche se non capì perché.
“Dentro la nostra famiglia, chiamiamola così, ce ne sono molte altre, più piccole. Tuttavia, alcune spiccano in particolare, vuoi perché hanno un’origine antichissima, vuoi perché sono ninja fortissimi, vuoi perché hanno un’abilità innata.”
Konohamaru annuì, serio: ricordava che Ebizu aveva accennato qualcosa alle abilità innate, ma in quel momento non gli venne in mente cosa significassero e a cosa servissero.
“Questo tipo di famiglia si chiama clan.” Il nonno si sistemò il cappello rosso e bianco, sorridendo.
“Ho capito…e com’è il clan di Hanabi, tra quelli che hai detto prima?É forte, è vecchio oppure è speciale?”, chiese Konohamaru, pensando che forse quegli occhi bianchi servissero ad altro, oltre che a congelare la gente.
“Il clan di Hanabi appartiene a tutte e tre le categorie che ti ho elencato prima, Konohamaru.”, disse l’uomo.
Il bimbo rimase senza fiato.
“Devi sapere che la famiglia della tua amica ha un’abilità innata invidiatissima: con i loro occhi bianchi possono vedere ogni cosa. Si chiama Byakugan. Inoltre hanno uno stile di combattimento molto particolare, che unisce la forza all’eleganza.”
Il nonno notò l’espressione concentrata del bambino, che sicuramente tentava invano di ricordare il nome dell’abilità degli Hyuga.
Quindi riprese: “Gli appartenenti a questo clan sono molto orgogliosi di questa loro abilità, perciò hanno un’altra stima di loro stessi e tendono a sopravvalutarsi. I genitori vogliono che i loro figli siano all’altezza delle aspettative che gravano sulle loro esili spalle. Ora comprendi perché Hanabi ha rifiutato la tua fionda? Sicuramente suo padre si sarebbe arrabbiato. Lo capisci, Konohamaru?”
L’Hokage temeva di aver usato troppe parole difficili, e guardava preoccupato il nipote, che fissava il suo giocattolo nuovo.
Quando alzò lo sguardo, Konohamaru aveva un’espressione dolorosa in viso.
“Allora, nonno…vuoi dirmi che Hanabi diventerà antipatica come il suo papà?”, mormorò, la voce pronta a incrinarsi.
L’uomo lo guardò, incredulo che un bimbo di appena sei anni potesse formulare un pensiero tanto profondo.
Poi ripensò ai componenti della famiglia Hyuga: in effetti, tutti sembravano ritenere di essere superiori al mondo intero…
Tutti…tranne una dodicenne.
Hyuga Hinata, la primogenita odiata da Hiashi.
L’Hokage sorrise.
“Stai tranquillo, Konohamaru. Lei non diventerà mai come gli altri.”
Il bimbo piegò la testa di lato, in attesa di spiegazioni.
“Vedi…Hanabi ha una sorella, Hinata. Ho avuto occasione di conoscerla, quando è stata ammessa all’accademia. E posso assicurarti che è la bambina più dolce del mondo.”, sorrise il vecchio.
“…davvero?”, mormorò stupito il bimbo: lui non ne aveva di fratelli. Però aveva sempre considerato quello come tale…
L’uomo parve leggere nei suoi pensieri, perché disse: “Tu non consideri Naruto come un fratello, Konohamaru?”
Il nipotino avvampò: ci aveva azzeccato in pieno.
L’uomo ridacchiò soddisfatto. Poi scompigliò i capelli del bambino.
“Tu vorresti diventare come lui, vero? Lo consideri un modello da seguire, no?”
Konohamaru, imbarazzatissimo, fece sì con la testa. Allora il nonno continuò: “Anche Hanabi, nonostante non lo darà mai a vedere, avrà sempre Hinata come punto di riferimento. E poco a poco, anche se i loro caratteri non saranno uguali, la minore prenderà la semplicità e la dolcezza della maggiore. Posso giurartelo, Konohamaru.”
Il bambino sorrise, rassicurato dalle belle parole del nonno. Si alzò in piedi ed esclamò: “Bene! Allora a dopo, nonno!”
“Cosa?! Konohamaru, dove stai…?”
Al posto del bambino, c’era una nuvola di polvere che fece tossire l’uomo.
“Coff…quel bambino è incredibile…”

 

“Posso entrare?”
Hanabi non si mosse dal letto. A pancia in giù, osservava il suo nuovo regalo con aria annoiata, dondolando in aria i piedi scalzi.
“Entra, Hinata.”
La sorella maggiore di Hanabi, una ragazzina esile di dodici anni, con i capelli neri a caschetto e gli stessi occhi della minore, entrò silenziosa, un sorriso timido sulle labbra.
“Così è questo il tuo nuovo giocattolo?”, chiese cortesemente, come se stesse parlando ad uno sconosciuto.
Hanabi annuì, senza levare i suoi occhi da quelli azzurri della bambola. Hinata si avvicino, sedendosi sul letto.
“Davvero molto graziosa…sei soddisfatta?”, domandò la maggiore, accarezzando la chioma bionda del giocattolo.
Hanabi avrebbe voluto rispondere di no. Avrebbe voluto dire che odiava quei boccoli surreali, quegli occhi dipinti, quelle labbra disegnate. Però si limitò ad annuire ancora.
Non che non volesse confidarsi con la sorella. Anzi, ne sentiva un gran bisogno.
Solo non ce la faceva. L’orgoglio degli Hyuga non le permetteva di mostrarsi debole, nemmeno in questa situazione.
La mano di Hinata, dalla testa della bambola, si spostò sulla testa della sorellina. Mormorò tristemente: “Lo so che non ti piace, ma devi accettarla comunque. Forse questo sarà l’ultimo regalo che nostro padre ti farà.”
Hanabi sbiancò: le vennero alla mente le sfuriate e i rimproveri che Hiashi rivolgeva a sua sorella. Per un secondo si vide al posto di Hinata, la testa china e gli occhi lucidi.
Come per scacciare quel pensiero dalla testa, Hanabi si alzò dal letto e corse fuori dalla stanza, non senza aver rivolto un sorriso malinconico a Hinata, che le rispose allo stesso modo.
Hanabi corse fuori dalla casa, fino a giungere al portone di villa Hyuga. Qui si fermò indecisa: non sapeva nemmeno perché era corsa via.
Molto probabilmente per non mostrare a Hinata le lacrime che le scendevano sul viso.
Tirando su con il naso, si diresse a passo deciso verso il portone. Lo spalancò, faticando non poco, e uscì dalla proprietà del clan. Stava per dirigersi verso il parco, dove avrebbe potuto distrarsi, quando per poco non inciampò su un pacchetto per terra.
Stupita, lo prese in mano; era piccolo, schiacciato e lungo. Non pesava molto, anzi riusciva a reggerlo con una mano sola.
Sulla carta che avvolgeva l’oggetto all’interno, c’era scritto a lettere chiare e tremolanti “HANABI”.
La bimba ebbe un tuffo al cuore, e scartò in fretta e furia il pacchetto.
Non appena vide il regalo, nuove lacrime caddero sulle sue guance, che raggiunsero una tonalità rosso fuoco.
Un dolce sorriso le si spalancò sulle labbra, mentre il suo corpicino esile veniva scosso dai singhiozzi.
Nelle sue mani stringeva una fionda.

 

Ti darei gli occhi miei
per vedere ciò che non vedi.
L'energia, l'allegria,
per strapparti ancora sorrisi.
Dirti sì, sempre sì,
e riuscire a farti volare,
dove vuoi, dove sai,
senza più quel peso sul cuore.

Il commesso del negozio fissò preoccupato il ragazzino che si era incantato a fissare la vetrina piena di giocattoli.
Erano ormai due ore che stava fermo in quella posizione.
L’uomo stava per uscire ad accertarsi dello stato di salute del ragazzo, quando questi entrò nella bottega.
“Salve…”, mormorò, un sorriso malinconico sulle labbra. “Non è che per caso avreste una fionda?”

NdA

Ed eccoci con il secondo capitolo di "A good deed". Hanabi è apparsa, come promesso, insieme a Hinata.

Nel secondo capitolo invece, quando si dice che i ninja durante la loro infanzia non hanno giocattoli, ho inventato.
Non so se è vero, però ipotizzo sia così.
O armi vere, oppure dei kunai e degli shuriken di plastica.
Ah. Kazuo, Emi e sua mamma sono miei OC. Come il commesso.

Ho scritto così nelle note in fondo all'ultimo capitolo.

Ringrazio tantissimo chi ha inserito la storia tra le seguite e le preferite.

Shizue Asahi: grazie mille, neechan. ^^ Sono felice che ti sia piaciuta la parte della borsa: una strofa della canzone parla di una valigia, ma non penso avrebbe reso l'idea. ^^° Probabilmente a Konoha c'è una diversa forza di gravità: solo per questo i suoi abitanti hanno dei capelli così...strani. xD Spero che anche questo capitolo (che in tutta sincerità è il mio preferito) ti sia piaciuto e ti abbia tenuta appesa. xD A presto, un bacio! (P.S. in realtà non so se Konohamaru è orfano: i suoi genitori non sono mai apparsi, proprio come quelli di Sakura. Mah. Comunque concordo con te: questo bimbo ha tutte le sfighe del mondo. ç_ç)

MiCin: neechan, grazie mille! Sono felice che tu sia felice per me. xD Per me la KonoHana è come la NaruHina: se ci pensi, sono collegati. +_+ Ok, basta con le mie ipotesi. xD Anche a me piace tantissimo Konohamaru....povero bimbo. ç_ç Spero ti sia piaciuto anche questo capitolo! ^^ Baci

LalyBlackangel: sensei ** Grazie davvero. Come sopra, sono contenta che tu sia contenta. Ho visto che hai messo la storia tra le seguite: grazie ** Un bacio Laly! ^^

Bene, ho concluso.
Spero vi sia piaciuto. ^^°

Bye.
Vale

   
 
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