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Autore: muffin12    25/01/2021    3 recensioni
Uno studente in cerca di lavoro, un neo ristoratore che vuole avviare la sua attività, tre panchinari in attesa di un'occasione per svoltare entrano in un bar. Solo che il bar è Onigiri Miya e la barzelletta è troppo vicina alla realtà per essere veramente divertente.
Finite le superiori si entra nel mondo reale. E il mondo reale è pronto per ucciderti.
Storia di come Sakusa sia riuscito a superare l'università, di come Osamu abbia messo in piedi il suo marchio e di come Atsumu, Suna e Komori siano diventati titolari.
Pairing: SakuAtsu, OsaSuna e accenni di inizio OsaSunaKomori.
Genere: Commedia, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Kiyoomi Sakusa, Motoya Komori, Osamu Miya, Rintarō Suna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Golden Age

Anno zero 


Sakusa afferrò per un pelo il giornale prima che toccasse la panchina del parco. Alcuni fogli sfuggirono alla sua presa frettolosa e caddero dritti per terra con un fruscio derisorio, ma la maggior parte rimase nel suo pugno stretto. Storcendo il naso, piegò il giornale rimanente e se lo mise nello zaino, prese dalla tasca del giubbotto un sacchetto di plastica da cui tirò fuori dei guanti di gomma e li infilò velocemente, chinandosi poi per raccogliere i fogli sfuggiti.
 
Valutò con occhiata critica la panchina. Quanto poteva essere sporca? Era all’aperto, sotto un albero. Delle foglie dal colore discutibile erano cadute chissà quanto tempo prima e si erano seccate direttamente sulla seduta, lasciando briciole sparse in maniera odiosa dappertutto. Sembravano incrostate in maniera indelebile. In alcuni punti il legno era decisamente più scuro e si ricordò della pioggia del giorno prima. Non era ancora asciutta, quindi.
 
Decidendo che sarebbe morto prima di avvicinare il suo sacro sedere su una superficie la cui unica possibilità di sterilizzazione totale erano le fiamme dell’inferno, si fermò lì accanto e cominciò a leggere.
 
Politica, attualità e pubblicità. Perfetto, non gli serviva. Gettò il tutto nel cestino e si tolse i guanti con uno schiocco soddisfacente, stando ben attento a non toccare alcuna parte contaminata, rimettendoli poi nel sacchetto originario e camminando alla ricerca del cesto dei rifiuti adeguato.
 
Il cellulare cominciò a vibrare. Con un sospiro afferrò il disinfettante da una tasca laterale dello zaino e ne sparse il gel tra le mani, prese il telefono da quella dei pantaloni e, dopo aver visto il nome lampeggiare sullo schermo, accettò la chiamata.
 
“Ci siamo sentiti venti minuti fa.” Salutò in tono secco, rimettendo a posto con cura la sua unica ragione di vita.
 
“Mi sei mancato ogni secondo.” Rispose Motoya teatrale, il tono di eroina d’altri tempi. Poteva sentire il rumore echeggiante delle palle che venivano sbattute a terra con violenza bruta, il che stava a significare che si era preso una pausa dall’allenamento. “Allora? Com’è andata?”
 
“Perché ti pagano per cazzeggiare e io non riesco ad essere assunto?”
 
“Sento l’invidia.” Cinguettò suo cugino. “Qual era il problema stavolta?”
 
“Troppo qualificato.”
 
“Che cazzata.”
 
“Lo penso anche io. Non esiste ‘troppo qualificato’.” Pronunciò quelle parole come fossero una maledizione.
 
“Considerando che hai iniziato l’università da poco meno di un anno, dovrebbero cercare una scusa migliore.”
 
“Era un posto per cassiere. Avessi un dottorato in astrofisica capirei.” Borbottò contrariato. “Non che siano affari loro comunque.” Se voleva sprecare i suoi talenti per servire la gente era una decisione soltanto sua, alla fine.
 
“Forse è la faccia.” Mugugnò Motoya pensoso. “Hai sorriso?”
 
“Non essere ridicolo. Perché avrei dovuto?”
 
“Kiyoomiiiiiii, ti ho detto che devi sorridere! Sei un albero dalla faccia truce, spaventi la gente!”
 
“Non sorrido senza motivo.” Con un’occhiata scorse il cestino della plastica. Cominciò a puntarlo con passo deciso.
 
“Tu non sorridi proprio. Un’espressione gioiosa aiuta!”
 
“Avevo la mascherina.” Buttò il sacchetto e riprese a camminare verso i dormitori. Sentì suo cugino imprecare.
 
“Non puoi presentarti con la mascherina.”
 
“L’ho fatto. È un mio diritto.”
 
“Sì, ma poi non ti lamentare delle conseguenze!”
 
Come se fosse stato quello il problema. Lo sapevano entrambi.
 
“Non puoi chiedere agli zii di aiutarti?”
 
No, non poteva. Stupido Motoya che lo chiedeva ancora.
 
“Troverò qualcos’altro.” Rispose invece, attraversando la strada. “Ci sarà un morto di fame qualsiasi a cui posso servire.”
 
“Cuginetto mio, il morto di fame sei tu in questo caso, lo sai vero?” Oh, quanto aveva ragione. “E poi detta così suona proprio male.”
 
“Non voglio saperlo.”
 
“Sembra tu stia cercando un magnaccia.” Cinguettò Motoya. Sentì il ghigno nella sua voce come qualcosa di fisico. “Hai mai pensato di darti alla prostituzione?”
 
“Continua così e non arriverai a domani.” Lo avvertì, schivando un bambino decisamente iperattivo sfuggito dalla presa della madre.
 
“Vivo solo per il brivido.” D’un tratto una voce lontana chiamò suo cugino. Doveva essere bella forte per riuscire ad arrivare alle sue orecchie. “Ehi, ci sentiamo dopo, mi cercano.”
 
“Non voglio parlarti mai più.”
 
“Ti voglio bene anch’io!” E riattaccò dopo un bacio schioccante.
 
Sakusa, sospirando, rimise in tasca il cellulare. I sospiri allontanavano la felicità, ricordò con una parte della sua mente. Eh.
 
Aveva affrontato il quinto colloquio in tre settimane. Ovviamente era andato uno schifo.
 
Non biasimava nessuno, sapeva di avere un problema. E per una volta non erano le sua idiosincrasie.
 
I suoi genitori non erano più molto giovani quando lo avevano avuto. Lui era il terzo figlio, la sorpresa, il non programmato. C’era da dire che, con il primo ritardo, sua madre stava già festeggiando in grande una meritata menopausa e invece no, si era trovata nove mesi dopo tra le braccia un pargolo musone che avrebbe solo complicato la vita di tutti.
 
Sua madre e suo padre lo amavano tantissimo, non gli avevano mai fatto pesare nulla. Quando la sua avversione si scatenò, di punto in bianco, come un interruttore acceso, lo convinsero ad andare insieme in terapia accorgendosi di non essere preparati alla situazione di fronte a loro. Lo incoraggiarono ogni giorno a cercare il suo posto nel mondo e non potevano essere più fieri di ciò che era diventato.
 
Ma.
 
Non erano una famiglia ricca. I suoi fratelli erano avevano già diciotto e quindici anni quando era nato e se all’inizio facevano a gara per stare con il loro Ki-chan quando i loro genitori mancavano anche giornate intere per lavorare, crescendo avevano inevitabilmente cominciato a vivere le loro vite.
 
Non aveva avvertito la solitudine. Non aveva un carattere tale per cui sentiva il bisogno di compagnia, quindi su quello era stato fortunato. I suoi non la pensavano così.
 
L’avvicinamento di Motoya era stata una manna del cielo per cui sua madre e suo padre ringraziavano ancora oggi, in colpa per la loro assenza e per la convinzione di essere la causa del carattere chiuso del loro bambino; la decisione di praticare la pallavolo li liberò dall’angoscioso pensiero fisso di lui che tornava ogni giorno in una casa vuota e quando la zia Haruki propose di portarselo a casa dopo la scuola e gli allenamenti per giocare con Motoya e Maki-chan, erano sollevati dall’assicurarsi che Kiyoomi mangiasse pasti caldi effettivamente appena cucinati, non solo preparati la mattina ed in attesa di una riscaldata nel microonde, e che soprattutto lo facesse in un ambiente familiare.
 
Ma a Kiyoomi mancavano i suoi genitori. Quindi cominciò a studiare sodo per ottenere i premi e le borse di studio necessarie a non pagare le rette della scuola, cercando di guadagnarsi una serata in più da passare sul divano a guardare documentari sugli animali con suo padre o in cucina a pelare le carote per aiutare sua madre a preparare il Nikujaga da mangiare tutti insieme. Quando capì che la pallavolo era un raggio di sole in una giornata buia durata tutta una vita, la sua mania di perfezionismo e di completezza lo spinse ad eccellere, sfruttando appieno caratteristiche fisiche che fino a quel momento reputava un peso o, al massimo, una stranezza con cui cercare di fare amicizia. La sua tenacia lo portò ad essere reclutato per Itachiyama, rinomata scuola privata, una scuola per ricchi. L’orgoglio negli occhi di suo padre lo incoraggiò a dedicarsi con maggior fervore alle sue passioni.
 
Aveva cercato comunque di trovarsi dei lavoretti nei finesettimana per non pesare sull’economia di famiglia non appena si ritrovò con l’età giusta ed era andato tutto bene, una favola un po’ faticosa ma appagante.
 
Fino all’università.
 
Lui non voleva andarci. Aveva ricevuto tantissime proposte da rinomate squadre della V1 e voleva diventare un professionista, voleva continuare a giocare, voleva effettivamente togliere il suo peso ingombrante dalle spalle dei suoi. Suo padre gli propose di rimandare di qualche anno, il tempo di una laurea.
 
“Hai bisogno di un piano B, Kiyoomi.” Gli disse seriamente prendendolo da parte. “Sono preoccupato per gli infortuni, i tuoi polsi … Fammi solo questo favore, hai bisogno di un piano B. Pensaci.”
 
Lo accettò. Non perché gli fosse stato imposto, alla fine era un consiglio, la decisione rimaneva a lui, ma aveva senso. Nella pallavolo gli infortuni erano all’ordine del giorno, le dita venivano costantemente scotchate, combatteva con gli insaccamenti giornalmente, bastava un atterraggio sbagliato per mandare all’aria tutta una carriera.
 
Poteva stare attento quanto voleva, ma poteva capitare in qualunque momento. Iizuna-san ne era la prova.
 
Fu fortunato da essere preso in considerazione anche da molte università prestigiose, alla fine il suo curriculum era decisamente stellare anche per quanto riguardava l’andamento scolastico e la sua bravura nella pallavolo faceva gola a molti. Doveva solo scegliere.
 
Non fu facile, quindi, spostare la sua attenzione dalla Waseda di Tokyo, vicina a casa, comoda, rinomata, alla Handai, l’università di Osaka. Fu una bella botta pure per la sua famiglia.
 
La Handai era terza a livello nazionale, un’università con i controcazzi, ma era lontana. Decisamente lontana. L’aveva scelta per quello.
 
La borsa di studio copriva l’iscrizione, la retta e anche la stanza del dormitorio, singola, un sogno. Ovviamente aveva dovuto passare l’esame di ammissione, uno decisamente tosto vista l’importanza dell’università, e studiare così a fondo frequentando comunque le classi di preparazione e gli allenamenti ogni giorno non era stato semplice.
 
Sua madre non lo voleva accettare e non passava giorno che non cominciasse a discutere della sua scelta. Anche suo padre era contrario ma lo nascondeva meglio, scrutando la situazione ogni volta che si alzava l’argomento e cercando di capire i silenzi di quel figlio dal carattere così simile al suo. Lui, d’altro canto, sentiva il bisogno di lasciarli liberi di godersi finalmente la loro vita e l’unico modo che riusciva a trovare era andarsene altrove.
 
Quando arrivò a Toyonaka l’anno prima con i pochi averi che aveva deciso di portare, dopo sei ore di auto passati a sentire con un orecchio gli improperi di sua madre e con l’altro le osservazioni sagaci di suo padre, passò la giornata a fare un giro con i suoi prima di accompagnarli ad un bed&breakfast che avevano prenotato per passare la notte. Sarebbero ripartiti la mattina dopo, lasciandolo per la prima volta veramente da solo.
 
E si era trovato bene. Le lezioni gli piacevano, la squadra di pallavolo dell’università era più che accettabile, lo studio andava alla grande. I bagni in comune erano l’unica sfida che si era trovato ad affrontare fino a quel momento, insieme al pensiero dell’effettiva sicurezza igienica di lavatrice e asciugatrice della lavanderia universitaria, ma anni di terapia e di esposizione costante ad atleti sudati dalla dubbia educazione sanitaria lo avevano preparato meglio di quanto credesse. Sentiva i suoi genitori a giorni alterni, i suoi fratelli almeno una volta a settimana e Motoya, acciuffato dalla EJP Raijin, anche troppe volte al giorno.
 
Non aveva calcolato, però, che i suoi risparmi si sarebbero prosciugati come una pozza d’acqua nel deserto. Uno schifo.
 
Non era propriamente povero, seriamente. Aveva un conto in banca piuttosto cospicuo, i suoi genitori lo aiutavano costantemente, nonostante le sue lamentele di godersi i soldi con qualche viaggio, ed era stato bravo sin da subito a centellinare ogni singolo yen, ma non riusciva sempre a mangiare nella mensa o nella caffetteria del campus e le sue scorte di disinfettante erano messe a dura prova ogni giorno. Si era trovato ad affrontare spese che non aveva mai neanche preso in considerazione prima. Aveva bisogno di un lavoro e non aveva intenzione di chiedere ulteriore aiuto.
 
Tuttavia tra le lezioni, lo studio e gli allenamenti per una squadra che era la favorita a vincere il campionato collegiale e a giocare al Kurowashiki All Japan Volleyball Tournament trovare il tempo non era semplice. O, meglio, non era semplice trovare un lavoro nelle sue ore libere.
 
Fino a quel momento i rifiuti erano sempre girati intorno alla sua disponibilità. Giustamente. Lui per primo non si sarebbe fidato di una matricola universitaria (perché era ancora al primo anno, sebbene mancassero poco più di due mesi alla fine dell’ultimo semestre) alta come un lampione con la mascherina perenne che, oltre a dare problemi per la pulizia, rompeva anche le scatole per l’orario di lavoro. Avevano sempre alluso ad altri motivi – avevano già assunto, non erano interessati a studenti, troppo qualificato – ma erano tutti arrivati dopo che li metteva davanti ad una disposizione che cozzava con la loro fascia lavorativa.
 
Il suo problema non erano solo le giornate piene: doveva prendere in considerazioni partite d’allenamento, campionati, trasferte, inviti. I preavvisi c’erano, ma non era economico per nessuno assumere un soggetto come lui. Men che meno ad un passo dalle vacanze.
 
Con l’ennesimo sospiro aprì la porta della sua camera e, dopo essersi cambiato le scarpe, tirò fuori il giornale dallo zaino.
 
Prese un pennarello e cominciò a sfogliarlo, fino ad arrivare alla colonna delle proposte di lavoro. Era ora di ricominciare a cercare qualcosa.
 
 
*
 
 
Osamu stava vibrando. Aveva inserito le chiavi nella serratura con mani tremanti e si era fatto strada nel buio ovattato del locale con una riverenza che di solito riservava alle crocchette omaggio che riceveva con gli ordini da asporto. Lingue di luce pallida trapassavano i vetri opachi delle finestre, i granelli di polvere impalpabili galleggiavano pigramente nel vuoto.
 
Atsumu lo seguì più cauto, guardando quella stanza con una smorfia sul viso.
 
Suo fratello osservava il suo futuro. Lui vedeva solo mucchi di roba in giro su un pavimento grigio – oh, aspetta, no era un giallo strano. Quanto cazzo era sporco quel posto?
 
“Quindi.” Disse soltanto, decidendo di non toccare nulla. Le spalle si chiusero inconsciamente.
 
Girando la testa, valutò la distanza con la parete. Fiocchi di polvere erano attaccati all’intonaco bianco e non voleva in nessun modo essere nel loro raggio di azione. Guardando in basso mosse il piede e sì, c’era un tappeto sporco sotto di lui. Doveva bruciare, assolutamente.
 
“È perfetto.” Mormorò Osamu estatico. Poteva letteralmente vedere le stelle nei suoi occhi e non aveva proprio il cuore di dire quello che pensava.
 
Sì, come no.
 
“Da quanto è rimasto chiuso?”
 
“Una trentina d’anni.” Ah, ecco perché l’affitto era basso.
 
“E come sono, che ne so, i tubi? Funzionano?”
 
Osamu gli lanciò un’occhiata derisoria. “Da quando ne capisci qualcosa?”
 
“Ti ho accompagnato ad ogni appuntamento, ho visto tutti i buchi di questa città, ormai so tutto di pareti portanti, possibilità di ampliamento e cazzate varie.” Quanto era vero. Era riuscito a rimorchiare anche l’agente immobiliare, una brunetta dolce come il miele. Fortuna che era finita dopo il contratto di Samu. Era stata una buona nottata, ma le zuccherose non facevano proprio per lui. E poi, a quanto aveva capito, aveva un ragazzo. O ex. O qualcosa di simile, sinceramente di lei ricordava solo quella quarta assassina che non lo faceva pensare chiaramente.
 
“Allora perché lo chiedi?”
 
“Ero occupato con Yumiko-chan, non stavo ascoltando.”
 
“Porco.” Lo informò tranquillamente. Atsumu fece spallucce. “Hanno fatto manutenzione costante, potevano permetterselo. Ha valore sentimentale. Lo hanno tenuto come fosse di cristallo.”
 
“Sei serio?” Domandò poggiando un dito su una vetrata serigrafata. La scia di vetro pulito che seguì l’azione lo informò che si trattava di una normale vetrina trasparente e che la polvere era riuscita ad impossessarsi di qualsiasi cosa. Cominciò a cercare urgentemente un rubinetto con una smorfia schifata. “Dov’è l’acqua?”
 
“È perfetto, non rompere.”
 
“Ci stiamo rotolando nello sporco.” Si avvicinò ad un qualcosa coperto inutilmente da un lenzuolo che una volta doveva essere stato bianco e scoprì che si trattava di un bancone. “Samu, dimmi dov’è l’acqua.” Lo pregò, pulendo il dito su un angolo di tessuto leggermente più chiaro.
 
“Ho preso le chiavi ieri, devono venire ad informarmi dei particolari in giornata, non so dov’è la valvola.” Suo fratello tolse lo straccio con lo stesso ampio movimento che aveva visto fare ad un mago. Nuvole di polvere si alzarono impetuose finendogli addosso.
 
“Che cazzo fai!” Urlò Atsumu. Fu un errore. Sentì granelli di roba innominabile ficcarsi in gola e cominciò a tossire come un matto.
 
“Guarda che bel legno!”
 
“Passa l’acqua!” Riuscì a gracchiare. Sentiva i polmoni pieni di polvere e voleva morire.
 
“Oh mio Dio, è massello!”
 
Capendo che suo fratello era entrato nel magico mondo dell’inutile, si buttò sul borsone che si era portato dietro per poter raggiungere direttamente la palestra e si attaccò alla bottiglietta come se ne andasse della sua vita. Quando fu sicuro di non rischiare più di morire, si risintonizzò su Osamu. “Non c’è un bagno in questo posto?”
 
“Certo che sì, sta là dietro insieme a magazzino e ufficio.” Lo informò indicandogli una porta. “Allora? Che ne pensi veramente?”
 
Atsumu cominciò a guardarsi attorno con aria più seria. Era una stanza grandicella, un bancone centrale circondava la zona di lavoro con le vetrine espositive fissate sul piano più alto, governando il posto. Era bello, maestoso, attirava immediatamente l’attenzione. Quella che doveva essere la cucina era ben in vista, limpida agli occhi dei clienti. I lampadari caratteristici scendevano dal soffitto con grazia. Anche così spoglia dava comunque il calore tipico di un ristorante della tradizione. Era esattamente quello che cercava Osamu.
 
Senza alcun preavviso sentì gli occhi pizzicare. Cazzo, era fiero di suo fratello.
 
“È da pulire.” Disse soltanto, perché sarebbe morto prima di dire qualcosa di piacevole.
 
Osamu si limitò a guardarlo con le palpebre pesanti su quegli occhi giudicanti che sapevano leggerlo come un’insegna al neon particolarmente eccentrica. Sospirando, prese la scopa che si era portato dietro e cominciò a spazzare per terra. “Domani viene una ditta di pulizie, avrò bisogno di passare la giornata al telefono per sollecitare l’attacco della luce. Mi stanno dando un sacco di problemi, ma ora finalmente c’è il cazzo di numero di contratto, il pod e tutti i dannati dati catastali che cercano. La pratica per l’allaccio del gas è già avviata ma adesso mi interessa ben poco, ho appuntamento con loro alla fine della settimana.”
 
“Sembra che sai quello che dici.” Lo prese in giro. “Quante di queste parole sono inventate?”
 
“Almeno la metà.” Rispose con un sorriso storto. “Voglio iniziare il prima possibile, stanno volando via troppi soldi.” Capendo che la scopa stava facendo ben poco per quello strato di polvere, si arrese poggiandola sulla parete  e si sedette su uno sgabello. “Cazzo Tsumu, ho un locale.” Sussurrò con sguardo sognante.
 
“Hai una baracca.” Ghignò Atsumu.
 
“Ricordati di queste parole quando verrai a mendicare del cibo.” Lo avvertì. Aveva ancora il sorriso in bocca e gli occhi si poggiavano su qualunque cosa velocemente, come le ali di un colibrì. C’era troppo da ammirare, non riusciva a farlo tutto in una volta. “Appena ho la luce devo mettermi d’accordo per la linea telefonica e internet. Devo trovare il posto giusto per mettere il modem, non voglio che si veda.”
 
“C’è un sito?” Atsumu lo vide scuotere la testa. “Perché?”
 
“Non so creare un sito da zero e non conosco nessuno che possa farmelo gratis. Aspetto fino a che il tutto non è avviato bene, intanto punto sugli ordini telefonici.”
 
“E come farai? Non puoi stare qua e in giro contemporaneamente.”
 
“Certo che sei un rompiballe.” Lo informò alzandosi in piedi e sistemando lo sgabello. “È un problema per il futuro, ci metterò un po’ prima di cominciare anche con l’asporto. Senza un sito dovrò farmi conoscere con altre vie e sto pensando a volantini e sconti, tessere fedeltà, cose così. Ma non ora: ho bisogno di aiuto nell’immediato e ho disponibilità solo per un dipendente e nient’altro, per il resto mi arrangerò.”
 
“Ci hai pensato parecchio.”
 
“Ho stilato un business plan decisamente dettagliato. Ho studiato le mie finanze, gli aiuti di mamma e papà, i tuoi prestiti senza rimborso …”
 
“Sogna.” Ma sapevano entrambi che era solo grazie al suo intervento se Osamu era riuscito a prendere in affitto il locale, convincendo il proprietario con una lauta cauzione e un anticipo di tre mesi. Non era riuscito ad ottenere alcun prestito, la sua start-up non aveva convinto: era considerato un azzardo troppo grosso investire in quel tipo di ristorazione quando la concorrenza era così agguerrita, senza considerare l’ovvia esperienza dei suoi cosiddetti rivali.
 
Atsumu non rivoleva indietro nulla, suo fratello lo avrebbe mantenuto a suon di onigiri.
 
“… da qualche parte devo iniziare. Ho parlato anche con Kita-san, sembra che abbiamo raggiunto un accordo per il prezzo iniziale.”
 
“Come hai fatto a fregare Kita-san?” Gli domandò, il dubbio nella voce. “Devo parlare con lui.”
 
“A differenza tua, lui crede in me.” Gli disse Osamu con tono scocciato. “Stai facendo lo stronzo e mi stai stufando.”
 
Atsumu ridacchiò. “Sono solo contento per te. E sono contento per me, perché sto vincendo alla grande.”
 
Osamu sbuffò. “Siamo pari. Sto iniziando un attività, non sono capace e non so come andrà; stai scaldando la panchina dei Jackals, non sei capace e non sai come andrà.”
 
“Non sarai capace tu, testa di cazzo. Sto lavorando con Barnes-san, ora rosica.”
 
“Lavorando significa che ti devi sintonizzare e non puoi fare come facevi a Inarizaki. Ti voglio proprio vedere girarti verso di lui e dirgli con la tua solita aria da cazzone ‘se non riesci a colpire la palla il problema sei tu’.” E, davvero, riusciva a imitarlo alla perfezione. Non lo avrebbe mai ammesso.
 
“Non ho bisogno di dire niente perché sono fan-ta-sti-co!” La risata derisoria di Osamu lo fece infuriare. Quindi si avvicinò e gli spinse la spalla con cattiveria, perché evidentemente aveva cinque anni.
 
Osamu si bloccò, si girò con occhi spalancati e rispose allo spintone mettendoci il doppio della forza, non volendo essere da meno. “Che cazzo fai?” Gli disse anche, come se non fosse ovvio.
 
Per tutta risposta Atsumu lo spinse con entrambe le mani, facendolo indietreggiare di qualche passo. “Sei uno stronzo!”
 
Osamu ritornò alla carica. “Sei tu lo stronzo!” Prese qualcosa da terra e, con una precisione diabolica, lo tirò addosso a suo fratello, prendendolo sul naso.
 
“Cazzo, fa male!” Era una spugna dura, di quelle abrasive. E Osamu era stato un spiker, continuava ad allenarsi nel tempo libero, aveva muscolo. Inoltre era distante tipo un metro e si era impegnato decisamente. “Sei scemo?”
 
“Hai iniziato tu!”
 
Un cellulare cominciò a squillare. Era il tema degli Avengers. Atsumu, una mano sul naso graffiato, prese il cellulare dai pantaloni. “Cazzo, è Meian-san.” E corse fuori per rispondere.
 
Osamu, ora più libero, si guardò lentamente attorno. Non gli sembrava vero.
 
Poteva già vedersi dietro a quel bancone di legno a tagliare il pesce e le verdure e a modellare il riso sul piano di lavoro bianco pulito, in piena vista dei clienti.
 
Chiuse gli occhi. Poteva sentire l’eco del chiacchiericcio della gente che sedeva a quei tavolini che aveva scelto mesi prima, in attesa solo di essere consegnati. Il vapore del riso cotto che gli inebriava i sensi, l’acqua del lavandino che scorreva per pulire migliaia di piatti sporchi lasciati vuoti da clienti soddisfatti, il campanello della porta che avvertiva dell’arrivo di un nuovo flusso di persone, le risate, il calore della contentezza che lo avvolgeva.
 
Aprì lentamente gli occhi, ammirando la sua tela tutta da dipingere.
 
Alzò la testa verso il soffitto e sorrise fiero.
 
 
*
 
 
“Che vuoi ancora?”
 
“Eeeeeh Kiyoomi, dovresti trattarmi meglio. Veramente, voglio solo il tuo bene.”
 
Lo scherno di Sakusa risuonò chiaramente nell’etere. “Non mi fido di te.”
 
“Senti, è successo solo una volta. Non pensavo ti sedessi proprio in quel momento o non avrei tolto la sedia. Giuro!” Motoya chiaramente non sapeva il significato del verbo ‘giurare’. Lo aveva ripreso con il cellulare e non ci si organizzava per fare video se non c’era premeditazione. Era stato veloce a scappare.
 
“Vigliacco.” Lo insultò quindi con sentimento.
 
“E poi avevamo tredici anni, è ora di smetterla di rinfacciarmelo, no?”
 
“Hai continuato a riprovarci per anni, non mi fido di te.” Sakusa si sistemò un riccio selvaggio dietro l’orecchio, poi riaccostò al cellulare. “Cosa vuoi?”
 
“I miei sensi di ragno mi dicono che stai pensando di fare qualcosa di malvagio.” E quello era davvero l’eufemismo del secolo. Era intenzionato a fare qualcosa di malvagio, non sapeva ancora a chi. Aveva bisogno di qualcuno di fisico con cui prendersela. Insultare le sopracciglia a bruco di Motoya al telefono aveva perso il suo fascino da parecchio tempo.
 
“Come diavolo fai a sapere sempre quando voglio uccidere qualcuno?” Chiese comunque, una scintilla di interesse.
 
“Ho messo un microchip dentro quel Tranello del Diavolo che chiami capelli anni fa. Mi dice quando sei vicino a diventare un supercattivo e intervengo.”
 
A volte Sakusa non capiva perché ancora parlava con suo cugino. Moriko-kun poteva essere molto più utile con meno sarcasmo, non erano molto vicini ma lo avrebbe difeso a spada tratta da quel gremlin di suo fratello. Maki-chan lo adorava e lui stravedeva per lei, sarebbe stata una scelta più logica e la sua pura bontà lo avrebbe rimesso al mondo con un solo sorriso. Invece no, aveva scelto Motoya. Come un idiota.
 
“Oggi sparlerò di te con Maki-chan.” Lo informò secco. Era niente se non onesto.
 
“Chibi-Maki ha un ragazzo, penso tu debba evitarla per un po’ di tempo.”
 
Quell’informazione lo destabilizzò. “Non lo accetto.” Borbottò contrariato.
 
“Oh, siamo in due, fidati. Appena torno a casa acchiappo lo stronzetto e lo appendo al muro per lo scroto.”
 
“Aveva detto che avrebbe sposato me.”
 
“Quando aveva cinque anni. Doveva sposare pure il tizio dei gelati, che francamente era una cosa inquietante, ma sai com’è, la pubertà ha colpito e tu sei suo cugino.”
 
“È piccola.”
 
“Ha quindici anni. È piccola, ma è quella l’età.”
 
“I maschi sono porci. A tutte le età”
 
“Quando avevo quindici anni non riuscivo a togliere le mani dalle mutande, ogni momento era buono.”
 
Sakusa fece una smorfia. “Dividevamo la camera a volte.” Sperava davvero, davvero che non aveva fatto quello che pensava durante i loro pigiama party obbligati.
 
“Sì, era un po’ complicato, hai l’udito dei pipistrelli, sai com’è. Ma cazzo se era soddisfacente.”
 
“No, Motoya.” La sua voce era sofferente. Sentiva un mal di testa da record minacciare si scoppiargli dietro le orbite. “Solo … no. Che schifo.”
 
“Era per avvalorare la tua tesi.” Ridacchiò Motoya. “Senti, dobbiamo organizzarci. Ho visto che hai fatto delle spalle da paura, quando torno vieni con me e spaventiamo il segaiolo.”
 
Una risata leggera scoppiò dalla parte di suo cugino. Ci fu un mormorio. “Suna ha già cominciato con sua sorella.”
 
Sentì un “portati dietro i gemelli” del centrale dei Raijin che da solo era un insulto. Era dalla parte buona del metro e novanta, bastava e avanzava per qualche teppistello col pensiero fisso. Comunque, ancora doveva capire l’utilità di questa chiamata improvvisa.
 
“Mi spieghi perché hai chiamato?” Chiese quindi sospirando.
 
“Vedo che non è giornata. Andata male pure stavolta?”
 
C’era da dire che la signora del konbini era stata anche dispiaciuta di mandarlo via. Gli aveva fatto i complimenti per il curriculum, gli aveva offerto una caramella fortunatamente confezionata singolarmente ma gli aveva detto chiaramente che le sue disponibilità non erano convenienti per lei.
 
Sakusa sentì un fiotto di stima per quella donnina energica che gli arrivava a malapena al petto. Finalmente qualcuno che diceva le cose come stavano.
 
Il risultato però non cambiava: lui rimaneva senza lavoro.
 
“Fare il gigolò paga bene?” Domandò oziosamente. Perché davvero, era l’unica cosa che gli era rimasta da pensare.
 
“Kiyoomi, cucciolo, venderesti anche bene ma non fa per te.” Oooh, avrebbe ucciso Motoya. Sentì Suna ridere più forte, ancora vicino a suo cugino.
 
“Non devo fare per forza sesso con i clienti.”
 
“Devi solo far finta di essere qualcosa di più di un estraneo. Che ci vuole? Sei così estroverso e tattile.”
 
“Arriverà il giorno in cui sarò abbastanza vicino da farti seriamente del male.”
 
“Finirai in galera.”
 
“Ne vale totalmente la pena.” Almeno avrebbe avuto un tetto sopra la testa, pasti gratis. Poteva laurearsi, poteva trovare un lavoro se si comportava bene. Batté gli occhi, stupito. Perché non ci aveva pensato prima?
 
Ah, la pallavolo.
 
Sakusa sospirò mesto. Le cose che faceva per la pallavolo.
 
“Senti, qua c’è Suna che vuole parlarti. Ti comporterai bene?”
 
Che cazzo di domande erano? “Non ho tre anni.”
 
“Ce l’avevo con lui.” E sentì un brusio confuso, un serie di tonfi, un “cazzo” nemmeno troppo soffocato e di nuovo brusio.
 
“Yo.” La voce apatica di Suna Rintarou uscì tranquillamente dal telefono dopo un lunghissimo minuto.
 
“Tutto ok?”
 
“Il cellulare è rotolato un paio di volte, ma va bene. Ha visto di peggio.” Sì, la proverbiale attenzione di Motoya per i cellulari. Non si sapeva come ma riusciva a spaccare tutti i suoi telefonini con una velocità allarmante. Il fatto che li lanciasse a caso e pretendesse di aver calcolato bene le distanze forse poteva spiegare quest’anomalia.
 
“Senti, ho saputo che cerchi lavoro.”
 
L’irritazione cominciò a colpire Sakusa. Aveva saputo. Stava vicino Motoya il 90% delle volte che lo sentiva, interveniva nelle conversazioni, poteva evitare di girarci attorno e dirgli esattamente cosa voleva da lui.
 
“Quindi?”
 
“Quindi cosa, cerchi lavoro o no?” Sentiva i nervi cominciare a scattare come molle. Non aveva mai capito Hulk come in quel momento. E aveva vissuto con Motoya contro la sua volontà, sapeva cosa diceva.
 
“Suna-san, non vorrei risponderti male, ma qual è il punto?” Bella frase, gentile, pacata. Non aveva sibilato, non aveva insultato nessuno, la sua voce era normale. Era fiero di sé stesso.
 
“Oh oh oh, ti sei alzato dal lato sbagliato del letto?”
 
Ok, doveva lavorarci su. Forse doveva usare un altro tono, un po’ più piacevole. Ma aveva avuto l’ennesima giornata di inferno, era nervoso e mancava veramente poco affinché buttasse la sua proverbiale calma dalla finestra e uscisse fuori dalla sua stanza per fare una strage.
 
“Cerco lavoro.” Ammise. E se gli uscì un ringhio con quelle parole non era da biasimare, davvero.
 
“Beh, il caso vuole che io sappia perfettamente dove puoi andare.” Sakusa fece una smorfia. Suna dovette avvertirla perché ridacchiò piacevolmente.
 
Ci fu un lungo momento di silenzio statico. “Ci sei?” Chiese Suna, il divertimento della voce.
 
Sakusa aprì leggermente la bocca, poi la richiuse. Aveva paura a chiedere.
 
“Non vuoi sapere dove?”
 
Si fece coraggio, chiuse gli occhi e preparò la voce più stanca del suo repertorio.
 
Pregando che non rispondesse qualcosa di osceno, perché in quel caso avrebbe preso il treno per Tokyo e i Raijin si sarebbero trovati con due panchinari in meno e lui con un numero osceno di ergastoli alle spalle, domandò un “Dove?” che aveva il sapore e il suono della sconfitta.
 
“Sakusa-kun, un po’ più di vita.” E lo disse con voce così profondamente apatica che lo spinse a prendere il telefono e a terminare la chiamata. Al diavolo lui e suo cugino, avrebbe fatto da solo.
 
 
*
 
 
Numero sconosciuto
 
ti inoltro l’indirizzo non serve appuntamento
 
 
Numero sconosciuto
 
mi devi un favore
 
 
 *
 
 
Sakusa lottò con tutto sé stesso per non cedere al richiamo della sirena.
 
Nominò il numero sconosciuto come SUNA-PERICOLO e continuò per la sua strada. Non avrebbe dato un’occhiata a quell’indirizzo, non gli interessava alcuna proposta, avrebbe contato solo sulle proprie forze, su internet, sui giornali e sugli annunci in bacheca. Era decisamente terrificante la prospettiva dover essere in debito con qualcuno del calibro di Suna Rintarou e lui non si sarebbe abbassato a compiere quell’errore. Assolutamente. Mai.
 
Durò esattamente tre ore, ventisette minuti e cinquantaquattro secondi.
 
Era andato alla caffetteria dell’università per consolarsi con uno degli snack prescritti e certificati come illegali dal nutrizionista della squadra (illuso) prima dell’allenamento, qualcosa di non troppo pesante che avrebbe potuto andargli su e giù per l’esofago durante una corsa assassina (perché col cavolo che lo avrebbe vomitato), ma nemmeno così triste da avere la sensazione e la certezza di assaporare l’aria. Aveva voglia di cioccolato con il sale marino, ma non poteva permetterselo e la cosa non gli andava assolutamente a genio.
 
Si rese conto presto che si trattava di paturnie inutili: nel momento di controllare la propria disponibilità monetaria scoprì che era praticamente evaporata.
 
Rimase per un po’ di tempo fermo come un soprammobile, il portafoglio aperto e gli occhi persi nei meandri della tasca vuota. Il fatto che si fosse immobilizzato esattamente davanti il reparto frigo, senza la benché minima intenzione di volerci stare viste le spalle girate, portò ondate di gente a spazientirsi con quel palo della luce lì piantato, cercando di convincerlo a sloggiare con secchi colpi di tosse, brontolii e insulti a voce neanche troppo velata.
 
Quindi, dopo un allenamento estenuante e una doccia bollente in cui aveva tentato di annegarsi più volte, si ritrovo davanti al desktop del suo portatile.
 
Il canto delle sirene era quasi impossibile da raggirare, si giustificò cliccando con il mouse.
 
Ulisse aveva dato ai suoi compagni cera da mettere nelle orecchie, ma se Ulisse era un deficiente che aveva convinto un folto gruppo di persone a legarlo per non cedere alle tentazioni perché era curioso, lui era da solo. Non legato. E non curioso, decisamente. Non gli fregava niente di Suna e dei suoi contatti francamente terrificanti, voleva solo avere la libertà personale di disponibilità liquida senza intaccare il suo conto bancario.
 
Cedette. Inserì l’indirizzo nella barra di ricerca del browser e cercò la strada segnata dal centrale dei Raijin.
 
Era a Osaka, osservò aggrottando le sopracciglia. Circa un quarto d’ora di treno e qualche minuto di cammino.
 
Curioso, aprì google maps per capire di cosa si trattasse effettivamente. Gli venne riportata l’immagine di un locale decisamente sprangato, posto al piano terra di una palazzina di tre piani.
 
Avvicinò l’inquadratura e sì, non era in attività. A che gioco stava giocando Suna? Controllando la data della foto, scoprì che risaliva a tre anni prima.
 
Decise velocemente che non aveva niente da perdere (tranne l’anima, ma l’aveva già salutata da un pezzo. Suna avrebbe dovuto litigarsela con Motoya), era una possibilità come un’altra. Magari andava bene.
 
Controllò l’orario dei treni e ne fece una foto per ogni evenienza. Aveva gli allenamenti di mattina presto, una lezione di un’ora verso le dieci, ma poi era libero fino alle quattro di pomeriggio.
 
Ridusse a icona la pagina web e aprì il pdf della lettura in programma per la materia del giorno dopo. Non si sarebbe dato per vinto in nessun modo.
 
 
*
 
 
 Sakusa affondò il mento dentro la sciarpa pesante che gli avvolgeva il collo, le mani inguantate infilate nelle profonde tasche del cappotto, gli occhi che guardavano fissi davanti a lui.
 
Era una giornata particolarmente fredda, sentiva le gote e le orecchie congelate ma aveva deciso di non mettere il cappello. Voleva fare bella figura, almeno sperare di instillare un minimo di interesse e indossare un copricapo qualsiasi lo avrebbe fatto sembrare sciatto. Aveva anche scelto di non indossare la mascherina o, meglio, di toglierla appena arrivato a destinazione, perché non avrebbe affrontato il viaggio in treno con niente di meno del suo kit di protezione personale.
 
Il locale sembrava in allestimento. Aveva visto alcune persone entrare e uscire con buste, ma non aveva ancora capito di cosa si trattasse. Aveva uno stile tradizionale, legno scuro e luce morbida, ma dove avrebbe dovuto esserci l’insegna era presente solo una copertura di tela cerata bianca.
 
Inspirando fortemente fece qualche passo verso l’entrata. Di sfuggita vide un cartello di un colore rosa evidenziatore con un annuncio di ricerca del personale in pesante inchiostro nero e sperò tanto che fosse la volta buona.
 
Quando aprì la porta, la sua entrata venne annunciata da uno scampanellio odioso.
 
Il locale non era per niente piccolo, ma neanche troppo grande. Il pavimento era di grandi lastroni di un bel giallo aranciato, brillante di pulizia. Poteva avvertire il sentore leggero di un detergente che conosceva, uno di cui aveva avuto riscontri positivi e che non era troppo floreale per il suo naso sensibile.
 
Neanche un secondo dopo, gli arrivò alle narici il profumo familiare del riso cotto, accompagnato da quello stuzzicante della carne succosa e delle verdure grigliate e lo stomaco brontolò leggermente. Quindi era un ristorante.
 
Il tradizionale bancone centrale, insieme ai fumi leggeri del cibo in cottura, oscurava la vista del cuoco. Sentì un “Arrivo subito!” da una voce che gli parve di riconoscere, ma non ci badò. Due donne attendevano sedute sugli sgabelli chiacchierando tra loro, un uomo in un angolo sbucciava degli edamame con sguardo concentrato sul televisore fissato in alto, il baffo impregnato della schiuma della birra.
 
Sakusa fece alcuni passi all’interno, togliendo le mani dalle tasche e sfilandosi i guanti. La mascherina era ben protetta dentro il taschino sul suo petto. Stranamente, non avvertiva il bisogno di prendere il gel disinfettante. Cominciò a svolgere la sciarpa dalla faccia avvicinandosi lentamente al bancone quando il cuoco si alzò per passare delle buste piene di cibo da portar via alle signore con un sorriso sincero sul volto e parole di ringraziamento nella parlata morbida tipica del Kansai. Scambiò convenevoli con le clienti e poi si girò verso di lui.
 
Vide immediatamente il lampo di riconoscimento in quegli occhi marroni dopo un attimo di presa a fuoco.
 
Si chiese quanto fosse rancoroso Miya Osamu, perché quello era chiaramente lo spiker, o meglio ex, si vedeva lontano un miglio, capelli che aveva deciso di far tornare del colore originario a parte. Si chiese se ce l’avesse con lui per l’ultima partita di Interhigh. Si chiese se avesse conservato i tratti peggiori dell’animo maligno del suo gemello.
 
Si chiese anche se non fosse una vendetta particolarmente complicata di Suna Rintarou, e se la complicità di Motoya non fosse l’ennesima presa in giro da parte di suo cugino. Ormai non si stupiva più di niente.
 
Miya, quindi, lo riconobbe. E sorrise. “Sakusa! Ciao!”
 
Sakusa era leggermente destabilizzato. “Salve.” Mormorò, inchinandosi leggermente.
 
“Che ci fai qua? Ah, già, fai l’università qua a Osaka, Tsumu me l’aveva detto che ti aveva visto al Kurowashiki.” Si girò leggermente verso i fornelli. “Aspetta un attimo, torno subito. Mettiti seduto.”
 
Davvero non voleva. Si sentiva un po’ a disagio, ma decise di seguire il consiglio e si sedette, dritto come non era mai stato e teso come una corda di violino, sullo sgabello. Non sapeva proprio che fare.
 
“Non mi aspettavo di vederti qui, giuro.” Disse Miya muovendosi rapido tra la vaporiera e la griglia, girando le verdure spesse con una pinza e tagliando il cavolo in quelli che poteva solo pensare fossero coriandoli con una velocità mostruosa. “Non hai gli allenamenti?”
 
“Stamattina.” Sakusa lo guardava affettare ipnotizzato. “E oggi pomeriggio.” Osamu Miya aveva una scintilla negli occhi che non gli aveva mai visto se non quando lui e il suo degno gemello improvvisavano veloci diaboliche durante una partita combattuta. La differenza, però, era palese.
 
Impiattò con maestria, degli onigiri caldi che non aveva notato in una stoviglia a parte, e portò il tutto al tavolino del signore che guardava la televisione. Chiacchierò leggermente, una risata sincera e ritornò in cucina.
 
Prese del riso, delle strisce di alga, quello che pensava fosse polpo e si mise davanti a lui.
 
“E allora? Che mi racconti? Come hai saputo di questo posto?” Chiese, tagliando il nori con scioltezza.
 
Non voleva dirgli di Suna, almeno non adesso. “È tuo?”
 
“Sì.” E strabordava orgoglio da tutti i pori. Era accattivante vedere una passione così profonda, la capiva perfettamente. Era lo stesso per lui con la pallavolo. “Ti piace?” Domandò, dandogli le spalle per mettere a posto della soia e lavandosi le mani nel lavandino.
 
“È bello.” E lo era davvero. “Da quanto ce l’hai?”
 
“Poco più di quattro settimane, ma ho iniziato veramente a fare qualcosa di produttivo una ventina di giorni fa.” Si girò verso di lui, un asciugamano a strofinare le mani. “Cosa ti posso portare? Il menù è qua da qualche parte, aspetta che lo prendo.”
 
Sakusa boccheggiò leggermente. “Non sono venuto qua per il cibo.”
 
Osamu si fermò, battendo le palpebre. “È un ristorante.” Spiegò condiscendente.
 
“Posso vederlo.” E davvero, doveva smetterla di rispondere così. Osamu, però, sembrò divertito. Lo vide appoggiarsi al bancone davanti a lui.
 
“Sicuro di non volere nulla da mangiare?”
 
Lo stomaco brontolava, ma il suo portafoglio nella tasca, fastidiosamente leggero, gli ricordò delle priorità. “Mi hanno consigliato di venire qua per un lavoro.”
 
Osamu piegò la testa leggermente. “Non credo di aver capito.”
 
“Stai cercando personale. Ho bisogno di un lavoro. Mi è stato detto di provare qua.”
 
“Chi te l’ha detto?”
 
Non stava andando bene. “Suna Rintarou.”
 
“E perché Sunarin ti ha detto di venire qua?”
 
“Sto cercando un lavoro.” Ripeté lentamente. Non sembrava difficile. Miya gli era sempre sembrato sveglio, non capiva da dove venivano tutte quelle domande.
 
“Sì, ma perché?”
 
Sakusa lo guardò con la sua solita espressione neutra. Non stavano andando da nessuna parte.
 
Osamu si sentì leggermente imbarazzato. “Senti, non voglio farti il terzo grado …”
 
“Dovresti. È un tuo diritto, fa parte del colloquio.” Rispose Sakusa fermamente. “Ma le domande dovrebbero essere intelligenti.”
 
E con quello, Sakusa poté dire addio al lavoro. Qualcuno doveva pur dirlo ma la sua bocca sputasentenze decise autonomamente per lui. Con sua sorpresa, Miya ridacchiò.
 
“Sì, hai ragione. Ma mi hai destabilizzato. Hai bisogno di un passatempo?”
 
“Ho bisogno di soldi. Non capisco sennò perché avrei dovuto cercare lavoro.”
 
Osamu lo guardò con pena. “I tuoi ti hanno tagliato i fondi? Che hai combinato?”
 
Fondi? Quali fondi?
 
“Cosa?”
 
“Seriamente, deve essere roba grossa. O roba piccola? Non so come funziona il cervello di voi ricchi, devi farmi uno schema.”
 
“Noi ricchi?” Oddio no, non ancora.
 
“Sì, voi ricchi. Non pensavo che avrei mai visto Sakusa Kiyoomi qua nel mio locale, men che meno per chiedere un lavoro, devi aver fatto incazzare i tuoi veramente tanto.”
 
Non era la prima volta che veniva scambiato per uno con i soldi. Gli avevano detto che il suo atteggiamento snob lo faceva sembrare un arricchito della peggior specie. Nessuno voleva capire che non avrebbe toccato anima viva perché era una sua precisa volontà e non perché non avevano un pedigree lungo tre chilometri.
 
Avrebbe voluto far sentire Miya uno schifo, ma non lo fece. Gli serviva il lavoro.
 
Contando sulla buona educazione, cosa che sembrava non insegnassero nel Kansai, cercò di chiarire. “So perfettamente perché potresti pensarlo, ma ti assicuro che è quanto di più lontano dalla verità.” Non voleva entrare nei dettagli. Non l’avrebbe fatto.
 
“Senti,” Disse Osamu con aria sicura. “vieni da Itachiyama. Sappiamo tutti di che razza di scuola si tratta. Per non parlare della Handai.”
 
“Borse di studio.” Sputò velocemente Sakusa, stufo. Era un livello di presunzione che non accettava nemmeno da suo cugino, figurarsi da un tizio che aveva visto sì e no due volte l’anno.
 
Miya aprì leggermente la bocca, stupito. “Cosa? Ma per avere una borsa di studio per quei posti devi essere, tipo, un casino intelligente.” Sembrava non fosse una cosa facilmente assimilabile per lui. “Cioè, devi avere il massimo dei voti, condotta perfetta e … e attività extracurriculari sopra la media, e questo ci sta, cazzo, sei tu e … e … e non so nemmeno cos’altro, seriamente, il sangue blu? Può servire il sangue blu?”
 
“Decisamente no. Cosa ti fa pensare che io non sia intelligente?”
 
“Il fatto che scendi al livello di mio fratello appena te ne dà l’occasione, facendolo costantemente nero e credimi, hai la mia stima per quello.”
 
Sì, beh, essere intelligenti non limitava un sacco di cose. Come il fatto che aveva studiato come un matto per avere quei risultati. Essere intelligenti non era un requisito, lo era farsi il culo sui libri. Tutti erano intelligenti, pochi avrebbero lottato per ottenere quello che volevano.
 
“Quello non c’entra niente.” Rispose, un po’ meno piccato. “Tuo fratello sembra chiedere di essere pestato ogni volta che apre bocca.”
 
“Non hai tutti i torti.” Convenne, guardandolo a lungo. “Come posso crederti?”
 
“Non capisco perché dovrei mentire, ma se la mia parola non basta ti ho portato il mio curriculum.” Prese un foglio piegato dalla tasca, porgendoglielo. Miya lo prese e lo aprì. “È completo di referenze e, se non sei ancora convinto, ci sono i numeri di telefono dei miei precedenti datori di lavoro. Saranno contenti di rispondere ad ogni domanda, visto che non c’è modo di farti capire che non è uno scherzo elaborato.”
 
Osamu si sentiva un po’ male per lui. Forse aveva un po’ esagerato. Un po’ troppo. “Davvero, non ho niente contro di te ma non capisco perché sei venuto qua. Non ci sono altri posti in cui lavorare?”
 
“Ho provato. Ma ho un … problema.”
 
“La cosa dei germi? Tutto il non toccare?”
 
Magari potesse essere così semplice. “La disponibilità.”
 
“Come scusa?”
 
Sakusa sospirò. “Nessuno vuole rischiare assumendo un atleta. Ho una disponibilità varia che non coincide con i soliti orari, i tornei portano via giornate intere e decisamente non convengo.” Cazzo, quello non avrebbe dovuto dirlo.
 
“E sei venuto da me perché?”
 
“Non sapevo nemmeno fosse il tuo locale.” Chiarì velocemente Sakusa. “Suna mi ha dato l’indirizzo, io sono venuto e qua ho scoperto che c’eri tu. Non so nemmeno come si chiama questo posto.”
 
“Onigiri Miya.”
 
Beh, se fosse stato scritto fuori forse avrebbe riflettuto un attimino di più prima di entrare. “Manca l’insegna.”
 
“La devono consegnare la settimana prossima.”
 
“Non avrebbe dovuto esserci prima dell’apertura?”
 
Osamu strinse gli occhi. “Stai criticando i miei metodi di mantenere il mio ristorante?”
 
“Vedo che ti scaldi parecchio quando ti mettono in dubbio.” Sakusa sostenne lo sguardo, la sfida negli occhi. “È piacevole? È quello che hai fatto con me fino ad ora.”
 
Vide Osamu boccheggiare leggermente. Poi si riprese. “Aspetta un attimo, prima chiedi un lavoro e poi mi insulti?”
 
“Non ho insultato nessuno. A differenza tua.”
 
“Cosa ti avrei detto?”
 
“Che sono un bugiardo, che sono stupido, che visto che secondo te sono ricco ho bisogno di un lavoro per passare il tempo …”
 
“Ok ok ok, ho esagerato.” Lo bloccò, le guance rosa di imbarazzo. “Mi spiace, seriamente. Cazzo, a risentirti sono stato proprio stronzo.”
 
“Che poi, avessi voluto un passatempo non sarei certo venuto qui.” Spiegò Sakusa tranquillamente.
 
“Effettivamente.” Concordò Osamu. Buttò un’occhiata sul foglio nelle sue mani. “Hai fatto un sacco di cose.” Constatò curioso. “Commesso, cassiere, cameriere in un café, addirittura contabile?” Lo guardò con un sopracciglio alzato.
 
“Mio zio mi ha insegnato la contabilità gli ultimi quattro mesi del mio terzo anno, prima di trasferirmi. Tenevo traccia delle spese e delle scorte del magazzino del suo negozio, me la sono cavata bene. C’è scritta la data.”
 
“C’è scritto anche che sai usare il computer.”
 
“Il pacchetto Office, precisamente. Excel e Access sono particolarmente utili per organizzare i dati di un’attività, per fare confronti o qualunque cosa ti possa venire in mente. Ho usato quelli per mio zio.”
 
“E se chiamassi tutte queste persone che direbbero?”
 
Sakusa fece spallucce. “Non ne ho idea, che ho lavorato bene penso. Nessuno si è mai lamentato.”
 
“Ma hai cambiato parecchio.”
 
“Me ne sono andato io.” Sperò che non continuasse su quel filone. Aveva lasciato quei lavori ogni volta che i suoi genitori riuscivano a ottenere un’ora in più a casa, aveva cercato qualcosa che non precludesse passare il tempo con loro, ecco perché alla fine aveva chiesto aiuto a suo zio.
 
Osamu lo valutò con occhio pigro ma sembrò accettare tranquillamente quella risposta. “Qua sopra c’è anche il tuo numero?”
 
“E la mia mail. La preferisco.”
 
“Sì, otterrai quello che voglio io.” E quel ghigno era proprio marca Miya. “Senti, spiegami del problema. Che disponibilità hai?”
 
A quello, Sakusa non sapeva proprio come rispondere. Per fortuna Osamu lo anticipò. “So che significa essere un atleta del tuo livello, ci sono stato e c’è Tsumu che piange costantemente al telefono.” Ne dubitava, a meno che le lacrime versate dal Miya cafone non fossero la rappresentazione fisica delle anime dei bambini cattivi. “Quindi, parlami delle giornate. C’è una fascia oraria in cui è sicuro che sei libero?”
 
“La sera, tutti i giorni. E posso alternare mattina e pranzo. Per le lezioni.”
 
“Oh!” Osamu batté le palpebre. “Da come parlavi pensavo peggio. Penso che il problema più grande siano partite, tornei e cose così, no?”
 
Sakusa annuì. “Il preavviso minimo fino ad ora è stato di una settimana.”
 
“E se ti assumessi adesso” Cominciò Miya incrociando le braccia. “come ti comporteresti? Tra pochi giorni ci sono le vacanze estive e a maggio c’è il Kurowashiki.”
 
“Non torno a casa per le vacanze.” Si fotta Motoya e il suo piagnisteo inutile, non lo avrebbe trascinato in un parco acquatico schifoso come tentava di fare ogni anno. “Il Kurowashiki si fa a poca strada da qui, posso correre ogni volta che ho finito con le partite.”
 
“Non devi stare con la tua squadra? Non devi riposare?”
 
“Non dobbiamo allenarci, posso fare i briefing e poi venire a lavorare. Siamo una squadra universitaria, difficilmente riusciremo ad arrivare alla fine.” Alzò le spalle. “Il riposo non è un problema, sono bravo a prendermi cura di me stesso.”
 
“Non hai fiducia nelle vostre capacità?” Gli chiese Osamu aggrottando le sopracciglia. “So che siete bravi.”
 
“Abbiamo vinto il torneo collegiale.” Spiegò Sakusa con calma. “Ma non lo facciamo di lavoro. Battere i Raijin, i Falcons, gli Hornets è impensabile. Per non parlare dei Jackals e degli Adlers. E sono solo quelli della V1.”
 
“Non ti avrei mai preso per uno che getta la spugna.”
 
“Il nostro libero titolare ha saltato una partita perché aveva litigato con la sua ragazza.” Qua, Osamu scoppiò a ridere. “Dico solo le cose come stanno. Alla mia squadra piace vincere, ma è solo quello che li spinge. Non bastano due atleti che ci mettono l’anima se il team non è sulla stessa lunghezza d’onda.” Scosse la testa, un po’ risentito. “Non sentono la pallavolo come dovrebbero.”
 
Osamu ebbe la fugace sensazione di avere a che fare con uno della stessa pasta di Atsumu. Quante volte aveva sentito quelle parole dalla bocca di suo fratello? Non conosceva Sakusa, si erano visti solo attraverso una rete, ma ricordava perfettamente l’aria appassionata con cui effettuava le sue giocate, la libertà di azione e movimento che perdeva completamente una volta al di fuori del campo. Era un amore viscerale che poche persone avrebbero potuto capire.
 
Sospirò leggermente. “Va bene, guarda. Ti faccio sapere. Prometto.” Lo rassicurò. “Ora però ti mangi qualcosa perché sono le due e sento il tuo stomaco brontolare da qui. Dammi le istruzioni su come vuoi che prepari i tuoi onigiri, devo usare dei guanti?”
 
 
*
 
 
 “Sakusa? Seriamente?”
 
“Senti, sono tre mesi che cerca un lavoro. Mi ha fatto un po’ pena. E sai quanto ci vuole.”
 
Effettivamente Suna Rintarou era famoso per essere l’unico di Inarizaki a non aver pianto per la morte della madre di Bambi. O di Mufasa. O per Ellie di Up.
 
Stranamente non voleva sentir parlare di Koda fratello orso. Voci misteriose (Jun-chan) raccontavano che era scoppiato a piangere rantolando tra i singhiozzi cose come “Era la mamma, cazzo, era la mamma!” e era stato sentito giurare di non ascoltare più neanche una canzone del film per il resto della sua vita. Suna negava con energia, ma la veemenza con cui tirava fuori materiale di ricatto appena si sfiorava l’argomento convinse tutti che un fondo di verità ci doveva essere per forza.
 
“E poi Komori mi ha fatto leggere il suo curriculum.”
 
“L’ho visto. È impressionante.” Acconsentì Osamu.
 
“Finiti gli allenamenti del weekend non avevo neanche la forza per prendere in giro Atsumu e lui riusciva a fare tutta quella roba. È un mostro.”
 
“Tsumu era convinto fosse un robot.”
 
“Un robot non gli avrebbe mostrato il dito medio mentre si preparava alla battuta all’ultimo Interhigh.” Disse Suna. Un secondo di silenzio e cominciarono tutti e due a ridere come matti. “Te la ricordi la faccia di tuo fratello?”
 
“È stato fantastico.” Convenne, asciugandosi una lacrima dall’occhio. “Avrei potuto innamorarmi di Sakusa in quel momento se solo non avessi rischiato di morire malissimo.”
 
“Per il fatto che era di Itachiyama? O per il suo essere piacevole come Kita-san incazzato nero?”
 
“Per il fatto che Atsumu si lamenta ancora adesso così tanto di Sakusa che non capisco come fa a non rendersi conto che vuole solo saltargli addosso e avere la sua strada con lui. Tra le altre cose.”
 
“Ci arriverà.” Mormorò Suna pensoso. “E quando lo farà sarà insopportabile.”
 
“Decisamente.” Osamu sistemò l’ultimo sgabello sul bancone, sistemandosi il cellulare tra orecchio e spalla. “Komori ha qualcosa di cui avvertirmi?”
 
“Che vuoi dire? Vuoi dargli una possibilità?”
 
“Perché non dovrei? Mi sarà decisamente utile, non farà orario pieno e sa un sacco di cose. Ho sentito i suoi ex datori di lavoro e dal punto di vista lavorativo era impeccabile. L’atteggiamento era un po’ freddo ma si dava decisamente da fare.”
 
“Solo un po’ freddo? Che faceva di strano?”
 
“Lavorava con guanti e mascherina.” Spiegò Osamu. “Non capisco perché considerarlo un problema, se si trova a suo agio così ben venga. È certamente igienico, non mi lamento.”
 
“Ma guardati.” Chiocciò Suna. “Tutto imprenditoriale.”
 
“Finiscila.”
 
“Perché? Mi piace imprenditoriale.” La voce di Suna si abbassò di qualche tono. “Ce l’hai una scrivania?”
 
“Rin, no. Non cominciare, sto chiudendo ora e diventare duro in mezzo alla strada non è eccitante come pensi.”
 
“Bugiardo.”
 
Sì, decisamente, ma non avrebbe ceduto. “Come vanno gli allenamenti?”
 
“Bel modo di sviare il discorso.” Lo giudicò Suna. “Gli allenamenti.”
 
“Volevi sapere di Tsumu che rimorchia la mia agente immobiliare?”
 
“Che schifo, certa gente non ha standard.” Mugugnò facendolo ridere. “Abbassarsi ad Atsumu.”
 
“Non lo ammetterei mai davanti a lui ma siamo uguali, Rin.”
 
“Decisamente no. Posso fare un libro sulle vostre differenze. Tu sei molto meglio.”
 
La totalità delle persone non sapevano distinguerli. Suna e stranamente Komori erano l’eccezione.
 
“Devo chiamare Sakusa.”
 
“Non ha una mail?”
 
“Certo, e lo preferirebbe. Ma la vita è piena di delusioni.”
 
“Che stronzo.”
 
 
*
 
 
“Pronto?”
 
“Sakusa, sono Osamu. Salva il numero come ‘Capo migliore del mondo’.”
 
“Non lo farò. Deduco che mi hai assunto.”
 
“Mandami un messaggio con i tuoi orari, domani sera ti voglio al lavoro. Prima di chiudere ci mettiamo d’accordo con le specifiche e il tuo stipendio, non preoccuparti.”
 
“Verso che ora?”
 
“Le sette. E mettiti a tuo agio, mettiti mascherina, guanti, quello che ti pare.”
 
“Davvero?”
 
“Hey, sei una delle persone più pulite che conosco, devi stare a posto con te stesso. Mi fido. Ci vediamo domani.”
 
 


Note

Salve a tutti!
Se siete arrivati fino a qua avete un coraggio e una resistenza per cui pagherei soldoni, quindi innanzitutto complimenti!
Scherzi a parte, spero vi sia piaciuto il primo capitolo. Mi ha sempre incuriosita quell’arco di tempo tra la fine delle superiori e la partita del secolo.
E poi, ragazzi, Sakusa ricco è l’headcanon un po’ di tutti, compreso il mio: disinfettanti, alcool e quant’altro costano un casino! Ho voluto pensare a come si sarebbe comportato se avesse avuto una famiglia normale, con entrate normali e, sfortunatamente, spese normali. Perché la scuola e l’università costa, crescere e mantenere tre figli costa. E fare l’università da fuori sede, soprattutto se lavoratore, è drenante.

Anche se, angolino delle curiosità, l’università giapponese è famosa per il fatto che è difficile entrare ma è facile uscire. Il vero ostacolo sono i test di ingresso, sono più difficoltosi maggiore è il prestigio dell’università, e tutto perché una volta laureati se ne sbattono tutti dei voti e ci si basa sull’università di provenienza.
Puntano al fatto che, se sei così testardo, tenace e tosto  da riuscire a entrare in università del genere, allora lo stesso atteggiamento avrai nel lavoro. E piovono offerte.
Gli esami sono molto blandi, alcuni si passano solo per la presenza alle lezioni, molti richiedono una tesina finale.
Quindi Sakusa non avrà mai troppi problemi legati all’università. Bastardo fortunato.

E poi sono un casino curiosa di sapere di Osamu e come ha tirato su Onigiri Miya. Ho conoscenza minima di queste cose, vado avanti per sentito dire, se ne sapete di più, se ho sbagliato qualcosa, datemi una strigliata! Provvederò a modificare!

Per alcune cose ho usato le mie esperienze (tipo con gas e luce. Non so assolutamente come funziona in Giappone, anche qua se c’è qualcuno di più informato è ben accetto!)

Canonicamente Komori ha due sorelle: una più grande e una più piccola.
Canonicamente Suna ha una sorella più piccola.
Non si capisce che cacchio di parentela abbia Sakusa: nel manga c’è scritto che ha fratelli più grandi, Furudate ha detto che è figlio unico. Prendo per buono il manga.

Ora, ho detto tutto. Mi sembra.
Grazie per aver letto!

 
   
 
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