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Autore: Elsira    26/01/2021    2 recensioni
Gli antichi greci credevano che un tempo l’essere umano fosse un essere perfetto e, soprattutto, completo. Era formato da quattro braccia, quattro gambe, due volti. Ma un giorno, Zeus, temendo la perfezione umana, lo divise in due, rendendolo così imperfetto… Incompleto. Da quel momento, l’uomo cerca disperatamente la sua metà, per tentare di tornare al suo stato originario. Per tornare a essere completo.
Questa è la storia di Camilla e di Arkin, e del loro tentativo di metterla in tasca a Zeus.
Quand'ero piccola, mio padre e mio nonno mi dicevano sempre che non c'era nulla che non potesse essere risolto. Ci si può ammalare, si può perdere il lavoro, si può litigare con una persona cara... Ma le malattie si curano, i soldi si riguadagnano, i rapporti si ricuciono. A tutto c'è rimedio, tutto può essere affrontato serenamente e superato. Tutto. Tranne la Morte.
E come tutte le mie storie, anche questa comincia ad essere interessante dalla metà in poi. Giusto per non far perdere tempo.
Genere: Angst, Commedia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Brevissima prefazione: se non siete pratici di termini di canottaggio, in fondo avete le note.
Okay, ora vi lascio al capitolo... ciao manina!


 

Pagina 5.

 

Un ragazzo e una ragazza possono essere solo amici,
ma prima o poi, si innamoreranno l'uno dell'altra.
Forse temporaneamente, forse nel momento sbagliato,
forse troppo tardi o forse per sempre.

- 500 Days of Summer, Tom Hansen


 

Feci appena in tempo a chiudere a chiave la porta, che il cellulare iniziò a vibrare. Vidi il nome della mia migliore amica sullo schermo e risposi che ero ancora in caduta libera verso il materasso. Non feci in tempo a dire nulla, che la voce entusiasta di Aurora mi raggiunse l’orecchio: «Idraaaaaaaa!»

«Allora Elsa? Finiti gli allenamenti? Com’è andata sul caro amato remoergometro?»

«Non ne posso più! Odio quell’attrezzo!» Sbuffò lei, facendomi sorridere.

«Bugiarda… Hai sempre adorato quella macchina di tortura, tant’è che ti ci sei sposata.»

«Sì, ma oggi abbiamo divorziato. E stavolta sul serio. Definitivamente!» Non riuscii a trattenere una risatina. La conoscevo talmente bene che era come vederla: appena uscita di palestra, stava camminando verso casa, lo zaino sulla spalla sinistra, i capelli biondi ancora bagnati raccolti in una treccia alla bell’e meglio e la faccina offesa.

«Il test lo hai fatto stamani? Com’è andato?» Chiesi, sapendo che non aspettava altro che parlarmene. Finse indifferenza, ma l’eccitazione nella voce era palpabile anche dal telefono: «Mmh… Non è stato il mio miglior tempo… Vedremo come andrà…»

«Sono certa che ti chiameranno anche quest’anno.»

«Speriamo… Ho davvero voglia di Varese, mi manca il brio di barche come l’8+ o il 4-… Sono stufa di scendere in singolo.»

«Scendi in singolo perché sei la migliore.»

«Scendo in singolo perché la mia compagna di 2- mi continua a dare buca!» Ribatté, un velo di tristezza misto a rimprovero nella voce. Mi faceva male sentirla così, ma io ero stata chiara. Non risposi, perciò lei proseguì, quasi con un sussurro: «Immagino che quest’anno non potrò contare sul tuo appoggio, se mi chiameranno a Varese…»

«Ti chiameranno. Sei la stella nascente delle Fiamme Oro, che viene allenata da due medaglie olimpiche. Ti chiameranno.» 

«Non hai risposto alla domanda principale…» Ormai si era fermata, arrivata al sottopassaggio. Lo sguardo si era oscurato un attimo e le labbra si erano strette tra loro, così come le mie, mentre sussurravo l’ennesimo: «Mi dispiace…»

Aurora scrollò la testa, le ciocche di capelli bagnati della frangia che le si appiccicavano alla fronte, mentre il sorriso tornava padrone del suo volto: «Non importa dai… Mi basta di sapere che tifi per me, anche se da casa!»

«Ci puoi contare, tiferò sempre per te. Anche quando arriverai alle Olimpiadi!»

«Ah... Sarebbe un sogno! Non vedo l’ora di poter arrivare su quei campi gara… Voglio l'oro di Tokyo!»

«Beh, te l’ho sempre detto, le carte in regola le hai tutte.» Una risata orgogliosa e colma di aspettativa mi arrivò dall’altra parte del telefono. «Già. Soprattutto la testa dura!»

Udii il suono del passaggio a livello, il che significava che ormai la mia amica era quasi arrivata a casa. «Ehi, Idra, senti un po’. Stasera voglio festeggiare il risultato del test alla ventola, che ne dici di andarcene al pubbino?»

«Stasera?» Mugolai, non del tutto certa di voler accettare. Non tanto per lei, ma il luogo.

«Sì daiiii! Fallo per meeee!»

«Ma non vai con Leo? Non ho voglia di fare la terza incomoda, dai.»

«Okay, primo: quando mai sei stata la terza incomoda?» Un lieve cigolio: stava aprendo il cancello di casa sua. 

“Vero. Non mi hanno mai fatto sentire così. Anzi, semmai il terzo incomodo pareva proprio Leonardo…” Pensai, non potendo fare a meno di sorridere.

«E secondo: voglio festeggiareeee! Non mi dirai che non mi sono meritata una bella birra in compagnia della mia migliore amica!»

«Mmmh… Dipende… Che media hai fatto stamani?»

«1:53.7, signorina bella.» 

«E hai pure paura che la Federazione non ti chiami? Ma sei completamente impazzita?» Esclamai.

«Ho sentito le ragazze del 4+ e non è il tempo migliore… La Sara ha fatto 1:53.2.» La porta di casa venne chiusa sbattendo, il grido di sua madre che la rimproverava dicendo che doveva controllarsi perché sennò l’avrebbe ripagata lei, la sua scusa poco sincera e un mugolio che stava a significare “se la riparo io, almeno non la faccio rifare di legno marcio”.

«Elsa…»

«Dimmi.»

«Stasera ti giuro che ti spezzo le gambe se avrai il coraggio di dirmi una cosa del genere pure in faccia, così è davvero la volta buona che a Varese non ci vai.» Settenziai, seria. La sentii sorridere, uno di quei sorrisi che le arrivavano fino alle orecchie. «Ti voglio un mondo di bene anch’io Idra! Allora è fatta. Ci vediamo alle nove al pubbino, così stiamo anche un po’ insieme solo noi due, quell'altro tanto fa tardi.»

«Leo lavora in trasferta stasera?» Chiesi, giusto per far durare la conversazione quei dieci secondi di più e, soprattutto, accertarmi che tra loro due continuasse ad andare tutto a gonfie vele. Ci fosse stato qualche problema, lo avrei capito dalla sua prossima risposta.

«Yup!»

“Perfetto, tutto a gonfie vele.”

«Ma non hai l’allenamento domattina? Non è un po’ tardi le nove?»

«Domattina andiamo tutti un paio di orette dopo, stasera anche gli altri sono a festeggiare per dimenticarsi delle fatiche del test.»

«Capisco…» Mi sentivo un po’ in colpa nei confronti della mia amica, ma Aurora smorzò, o quantomeno provò, i miei sensi di colpa all’istante: «No, non voglio andare con loro. Vanno in spiaggia e io okay che voglio festeggiare, ma tanto oltre le due non riesco ad andare e non ho voglia di svegliarmi con tutti gli scherzi che mi farebbero in piena notte.»

Sogghignai, ringraziandola mentalmente. «Senti, io sono a casa di mio padre… Vado 5 minuti prima così ordino, okay? Il solito?»

Attimo di silenzio, poi la dichiarazione: «Ti amo.»

«Ti amo anch’io, ma stasera offri tu.»

«Ancora meglio, offre Leo!» Ribatté lei, come fosse la cosa più ovvia del mondo, mentre sentivo l’acqua del lavello scorrere, dove aveva messo il body e gli indumenti dell’allenamento.

«Mi pare giusto.» Mi alzai e iniziai a tirar fuori i libri dalla borsa.

«Tu stai bene?» La voce di Elsa era un attimo mutata, sapevo fosse dovuto al fatto che mi trovavo a casa di mio padre. Aurora sapeva bene che effetto mi facesse quel posto.

Chinai un attimo la testa, aprendo lo schermo del portatile davanti a me e accendendo i due schermi extra che avevo sulla scrivania. «Sì... Preferisco lavorare su due schermi per la tesi, mi torna meglio. Il mio portatile è troppo piccolo, poi mi fanno male gli occhi, lo sai. Stai tranquilla. Dovrò pur sfruttare quel che ho per fare bella figura, che dici?» La percepii tirare un respiro profondo dall'altra parte del telefono, tentativo di far svanire la preoccupazione “da mamma” che provava. 

Tirai un sorriso, ripensando a quanto fosse incredibile il modo in cui fossimo legate, senza sorprendermene poi tanto. Avevamo vogato talmente tanto insieme, senza costrizioni esterne, che il nostro legame non poteva annullarsi solo perché non scendevamo più in barca. Non avevo mai avuto ben chiaro cosa fosse il rapporto che si era creato tra noi, in modo così dannatamente naturale, ma non era semplice amicizia. Era qualcosa di molto più profondo, di questo ero certa, senza sfociare nel desiderio sessuale. Elsa per me era come una metà del mio corpo, se non l'avessi avuta al mio fianco probabilmente sarei sopravvissuta comunque ma... non sarebbe stato vivere

Avevo avuto paura, tanta paura, che qualcuno potesse portarmela via, che questa unione tra noi potesse svanire e andare nel dimenticatoio. Solo il pensiero mi faceva andare ai pazzi.

Scrollai la testa e tirai un sorriso, dicendo con voce leggera: «Non farti troppo bella stasera, okay?»

«Puoi stare tranquilla, sono talmente stanca che non ho voglia nemmeno di truccarmi!» Eccola lì. Era tornata di nuovo la mia Elsa, il mio tsunami di gioia ed energia. «Oggi pomeriggio ho già avvertito che mi faccio tre ore di fondo versione relax.»

“Fondo relax, eh…”

«Non andarti a sperd…» Non feci in tempo a finire la frase, che, già sapendo cosa le avrei detto, Aurora mi interruppe in difensiva, esclamando tutto d'un fiato: «Devo lavare il body, ci vediamo stasera! Bye bye!» 

“Sì, si andrà sicuramente a sperdere in singolo.” Pensai tra me e me con un sorriso, mentre aprivo il libro, indossavo le cuffie e mettevo la sveglia alle sette e mezza, per prepararmi ad uscire. 

 

«Bimbi, finalmente!»

«Certo che ce ne avete messo di tempo, eh? Eravate a un tête à tête?»

«Non ti ruberei mai l’amante, non è abbastanza dotato per me.»

«A proposito di amanti… Tommaso dov’è? Non doveva venire con voi?»

«Manca l’anima gemella?»

«Voglio organizzare una cosa a tre, vuoi unirti anche tu?»

«Bene che se ne stia lontano per un po’...» Sussurrai, per poi riprendere a bere. Francesco rispose agli occhi interrogativi del resto del gruppo: «Tommy e il vichingo hanno avuto qualche problema oggi pomeriggio… Troppi shottini prima di venire qui. Ora è a bere al balcone, tornerà dopo una birretta o due.»

«Ma… e da mangiare?» Chiese Alessandro, per far distogliere l’attenzione.

«Hai bisogno di mangiare con la birra?» Sogghignai. 

«Beh sai com’è, io non ho sangue vichingo nelle vene!»

«La volete smettere con sta’ storia del vichingo?» Risi, scostando la sua mano dall’arruffarmi i capelli.

«Ehi, norreno.» Si intromise Stefano, facendomi voltare verso di lui mentre il commento di Mirko gli giungeva in risposta: «Uh, questa è scolastica.»

«Deformazione professionale.» Sogghignò, mettendosi a sedere di fronte a me e prendendo una delle birre che erano sul tavolo. «Senti, perché non fai un’opera di carità e vai a prendere un hamburger e patatine per tutti?»

«Perché non alzi il culo e vai da solo?» Ribattei con un sorriso, versando altra birra nel mio bicchiere. Lui mi guardò con fare ovvio: «Perché tu qui sei l’unico in ferie.»

«Appunto, sono in ferie. E lasciatemele godere, no?» Sogghignai, prendendo un altro sorso di tedesca.

«Okay. Facciamo le persone adulte e mature.» Propose Daniele, per poi squadrarci tutti in modo serio. Attese che gli occhi fossero su di lui, dopodiché iniziò a fare la conta, partendo da sé, mentre noi altri ridacchiavamo: «Ambarabà ciccì coccò, tre civette sul comò che facevano l'amore con la figlia del dottore; il dottore si ammalò e la figlia si sposò, ambarabà ciccì coccò!»

«E ti pareva…» Mugugnai, mentre finivo la birra con un ultimo, lungo sorso. Mi alzai reggendomi al piano del tavolino, visto che l’indice del mio amico, al termine della conta, si era posato su di me. Avvertii un lieve giramento di testa, ma non ci feci caso. In fondo, erano almeno un paio d'ore che avevo oltrepassato il mio livello di resistenza, ma non importava: come avevo già detto, ero in ferie.

«Era destino, Arkin.» Sogghignò Emanuele, dandomi una patta sulla spalla.

«Non dirlo mentre te la ridi sotto i baffi…» La mia mano andò ad appoggiarsi sulla sua testa, spingendolo verso il piano del tavolo di legno, mentre gli passavo dietro e mi dirigevo barcollando verso l’entrata del pub. “Cazzo… Forse la vodka di oggi pomeriggio era da evitare…”

Mi appoggiai allo stipite della porta d’ingresso appena in tempo per non cadere, quando udii una voce familiare provenire dal balcone del pub: «No, guarda. Sto bene così, ti ho già detto che sto aspettando un’amica.»

“Cam… e Tommaso?”

«Beh, appunto! Anch’io sono con degli amici, unitevi a noi no?»

«No, grazie. Vogliamo starcene un po’ per conto nostro.» Vidi il sorriso sforzato di Camilla e mi ricordai della sua espressione mentre la lasciavo quella mattina. Mi avvicinai, come spinto da una forza invisibile.

«Capisco, capisco… Le ragazze devono avere il loro spazio da sole, per parlare delle loro cose…»

«Grazie.»

«Che ne dici di unirvi a noi dopo allora? Quando avete finito la vostra chiacchierata?»

«Io veramente… preferirei di no.»

«Eddai bambola, voglio solo…» Il mio pugno impattò con il suo naso prima che potesse finire la frase, facendolo cadere dallo sgabello. 

«Ma che cazzo ti prende, razza di imbecille! Mi hai rotto il naso!»

Mi chinai su di lui, gli presi il collo della camicia e portai il suo volto vicino al mio, con occhi di fuoco e un sussurro colmo d'ira: «Non osare mai più chiamarla “bambola”.»

«Hey hey, diamoci una calmata!» Un ragazzo dello staff del pub venne a dividerci, mentre un altro dava un sacchetto con del ghiaccio a Tommaso. 

«Se volete darvele di santa ragione, fuori da qui!»

Guardai negli occhi il ragazzo di fronte a me. «E tu che cazzo fai? Vedi uno provarci insistentemente con una ragazza non interessata e non muovi un dito?» Mi bloccai dal sputargli contro altra rabbia, solo perché percepii le braccia di Cam avvolgermi il dorso da dietro.

«Andiamo via.» Mi sussurrò, flebile.

Ubbidii, lasciando che mi prendesse per mano e mi precedesse. All’uscita, strappai di mano una bottiglia di birra a Edoardo. Era ammassato all’entrata con il resto del gruppo, incuriositi, come buona parte della clientela, dal trambusto che avevo fatto.

 

Trascinai Arkin a un parchetto poco distante dal pub. Un posto tranquillo, dove avrei potuto cercare di capire che diamine gli fosse preso.

Mi sedetti su una delle panchine che costeggiavano la fontana, per lasciargli la mano e fargli cenno di sedersi accanto a me. Lui mi guardò qualche momento, il volto spento, per poi sorridere e portarsi la birra alle labbra. Aggrottai le sopracciglia e feci un respiro profondo per mantenere la calma, visto che in quel momento avrei voluto spaccargli quella stramaledetta bottiglia in testa. Mi alzai e lo guardai dritto negli occhi, cercando di assumere il tono più autoritario che fossi in grado di fare: «Stacca immediatamente le tue labbra da quella bottiglia.»

Lui diede un ultimo sorso, dopodiché ubbidì, un sorrisetto di sfida che rispecchiava esattamente il tono degli occhi. Si avvicinò a me e, a una distanza troppo misera, con la punta delle dita a sfiorarmi il mento, mi sussurrò sulle labbra: «Dovrei posarle su di te?»

Rimasi un attimo di sasso, ma mi ripresi in fretta: non era lui a parlare, ma l’alcool che aveva in corpo. Per questo odiavo quella roba: faceva fare e dire alle persone cose che normalmente non sarebbero mai passate per la testa. Come il suo pugno al tizio di poco prima. 

Odiavo l’alcool. E, in quel momento, odiavo anche quella piccola parte di me che si sentiva felice del fatto che il mio amico avesse picchiato un altro perché aveva osato chiamarmi “bambola”, appellativo che avevo sempre odiato, sin da piccola. “Bambola” lo diceva mio zio alla sua ragazza e a me non piaceva già allora: nella mia testa, era un nome con il quale un uomo si riferiva a un giocattolo, un oggetto inanimato, non a una persona, una partner, per quanto potenziale questa potesse essere.

«Baciami, tanto siamo entrambi ubriachi!» Esclamò Arkin, superandomi e salendo tutto pimpante in piedi sulla panchina di metallo, mentre cercavo di togliergli la birra dalle mani.

«Io non sono affatto ubriaca.» Finalmente riuscii a prendere la bottiglia, che mi affrettai a gettare nel cestino più vicino, per poi tornare da lui sulla panchina. Scese con un piccolo salto e si mise a sedere, guardandomi dritto negli occhi. «Ma io sì!» Mi prese le mani e ne baciò il dorso canzonatorio, non distogliendo lo sguardo dal mio.

«Lo vedo, per questo sono qui, per evitare che tu ti ammazzi andando a sbattere contro qualche pino rientrando a casa!» Mi chinai per essere alla sua altezza, non riuscendo a trattenere un velo di rimprovero dalla mia voce. «Che ti è preso poco fa? Ti rendi conto che avresti seriamente potuto finire a botte con quel tizio?» Lui rispose ridendo sprezzante: «Eddai Cam, dillo che tanto non mi hai mai dimenticato!»

Non feci in tempo a ribattere, che mi tirò a sé e, tuttora non so come, mi intrappolò tra sé e la panchina. Avvicinò il suo volto al mio, di colpo completamente serio. «Prova a guardarmi negli occhi, e dirmi che non mi ami.» La sua voce aveva perso ogni traccia di ilarità, era divenuta grave, terribilmente sensuale.

Odiavo l’alcool. E odiavo quella parte di me che avrebbe voluto cedere agli zaffiri che avevo davanti.

Ingoiai il nulla, ma alla fine riuscii a sussurrare un flebile: «Tu stai sragionando.» 

«Sì. Sto davvero messo male…» Riuscivo a sentire il suo alito che sapeva di birra e chissà cos’altro, mentre la distanza tra i nostri volti diminuiva ulteriormente. «E indovina un po' di chi è la colpa... Dovresti darmi il mio risarcimento, non credi?» La sua fronte si unì alla mia, i suoi occhi blu potevano benissimo reggere il confronto coi lampioni accesi che in quel momento illuminavano la strada. «Arkin, riprendi il controllo di te. Che direbbe Manuela se ti vedesse ora?» Non mi rispose. Si intrufulò nell’incavo tra il mio collo e la mia spalla, iniziando a lasciarvi una scia di baci che sapevano d’alcool e desiderio. Era serio, era ubriaco; il pensiero di baciarlo per davvero mi accarezzò la mente, ma lo ricacciai indietro all'istante. 

Liberai le mani e, con non poca fatica, gli presi le guance, facendogli alzare il volto e guardarlo nuovamente negli occhi. «Devo riportarti a casa, hai bisogno di andare a dormire.»

«Casa mia è troppo lontana.» La voce era diventata incredibilmente lucida tutto d’un colpo, ma sapevo benissimo essere solo un effetto passeggero. Non feci in tempo a rispondere, che lui fece un piccolo sorriso compiaciuto: «Non hai detto che non mi ami.»

Tirai un profondo respiro, dopodiché dissi: «Andiamo a casa.»

Arkin si distanziò con un breve riso, iniziando a camminare - o meglio, barcollare - un passo dietro a me, senza però lasciarmi mai la mano. Aveva una presa dolce e bisognosa d’affetto, come quella di un bambino piccolo, allegra e giocosa. Non pareva per nulla la stretta di mano di un adulto, tantomeno ubriaco.

In quel momento mi odiai con tutta me stessa per non avere la patente e non poterlo riportare a casa sua. Non sapendo dove altro andare, ci dirigemmo a casa di mio padre, passando dal retro. Ringraziai mille volte le abilità che avevo acquisito negli ultimi anni nell’introfularmi in quella casa senza che nessuno mi vedesse, anche se lo avevo sempre fatto per non avere a che fare con chi lavorava là dentro, più che per il non farmi vedere in sé. Ed era vero che mio padre in quel momento era all’estero, ma in casa c’era il guardiano e non avevo nessuna intenzione che facesse la spia su chi portavo a casa di sabato sera.

Arrivati in camera mia, Arkin quasi svenne sul letto. Mandai una breve nota vocale a Gemma, prendendo il numero dal telefono del mio amico collassato, dicendole che Arkin stava bene e che si era addormentato dopo aver bevuto un po’ troppo, che sarei rimasta con lui, giusto per non farla preoccupare sul fratellino disperso. Mi rispose dopo pochi secondi, ringraziandomi e dicendomi di tagliargli le mani se avesse provato a fare qualcosa di indiscreto, chiedendomi di chiamarla se avessi avuto bisogno di qualsiasi cosa, sia durante la nottata che in mattinata. Mi scappò un sorriso di fronte a tanta dolcezza, e mi tornò in mente quanto dettomi da Arkin qualche giorno prima, sul fatto che, da quando era diventata mamma, Gemma trattava come un figlio anche lui, più che come un fratello. “A me piacerebbe avere una sorella o un fratello maggiore che si comporta così con me.”

Mandai un messaggio anche ad Aurora, dicendole semplicemente che andava tutto bene e che l'avrei ricontattata in mattinata, per poi augurarle una buona serata e mettere il cellulare sotto carica sul comodino. Mi passai una mano sul volto, lasciandomi andare in un sospiro, poi l’occhio mi cadde sul corpo del mio migliore amico e sulla sua espressione assopita. Restai ad osservarlo per un po’ e, senza pensarci troppo, mi venne da paragonarlo al bambino di anni addietro. Eravamo certamente cambiati entrambi, ma lui decisamente di più, quantomeno fisicamente. I tratti infantili si erano completamente trasformati in quelli di un adulto, lasciando invariati solo i pigmenti. “L'espressione serena di quando dorme però, è rimasta la solita.”

Stavo per chiedermi quanta muscolatura avesse sviluppato - giusto per deformazione sportiva, siamo chiari, mica per altro -, quando il miagolare di Grugra, entrata in quel momento dalla finestra, mi distrasse. La guardai, posando l’indice sulle labbra con un sorriso. Come se avesse capito, venne a strusciarsi un poco tra le mie gambe, dopodiché risalì sulla base della finestra e riprese il suo giro all’esterno. Fino a poco tempo prima mi chiedevo come fosse possibile che sapesse sempre se mi trovavo a casa di mio padre o di mia madre, ma poi avevo perso le speranze di avere risposta. Era un gatto, non c'era una risposta se non questa.

Mi avvicinai al letto e cercai di coprire Arkin con il lenzuolo, ma quando feci per rimboccargli la coperta lui si rigirò e mi fece perdere l’equilibrio, facendomi cadere sul materasso al suo fianco e stringendomi l’attimo dopo in un abbraccio. 

«Prova a dire…» Feci per guardarlo, ma con la testa sul suo petto e la sua mano sulla nuca che me la teneva ferma, non riuscii a vedere se fosse sveglio o meno. «Che non vorresti fare l’amore con me…» La sua voce era calda, colma di tanto affetto che quasi si incrinava; per nulla impastata da sonno, stanchezza o alcool. Se avessi dato retta solo a quella, probabilmente avrei creduto che fosse completamente cosciente e sobrio. «Perché io lo desidero da morire…» Chiusi gli occhi, rimanendo accoccolata tra le sue braccia, in silenzio, crogiolandomi nel piacevole calore di quel corpo a me sconosciuto, finché Morfeo non mi accolse nel suo mondo.

Quella notte sognai di fare l’amore con Arkin.


 


Okay, a 'sto giro sarò no breve, di più, per il semplice fatto che mi conosco troppo bene e se comincio a parlare di canottaggio e spiegarvi come funziona non smetterei più. Non per male, ma perché mi è davvero impossibile fermarmi... 
Quindi, breve informazioni base sulle barche (chiamatele "canoe" e vi spezzo le gambe. Le canoe si usano nello sport della canoa, nel canottaggio si usano le barche. B A R C H E.). 
Le imbarcazioni "base" (perché ce ne sono anche altre, tipo quelle storiche dello iole, ma stiamo sui dati di base che è meglio), suddivise in due serie , di punta e di coppia a seconda che ciascun vogatore disponga di uno o di due remi, sono denominate:



A. singolo (1x), con un vogatore di coppia;
B. due di coppia (2x doppio);
C. due di punta senza timoniere (2- due senza);
D. due di punta con timoniere (2+ due con);
E. quattro di punta senza timoniere (4- quattro senza);
F. quattro di punta con timoniere (4+ quattro con);
G. quattro di coppia senza timoniere (4x quattro);
H. otto di punta con timoniere (8+ otto). 

La barca più bella (e più difficile) di tutti è il 2-. E no, non accetto critiche costruttive in merito.

L'imbarcazione della canzone dei Take That - The Flood, è bellissima e sono d'accordissimo, ma il 5x è una tipologia che NON ESISTE. E' stata fatta solo per il video della canzone. Nulla, ci tenevo a precisare la cosa visto che siamo in argomento... Comunque la canzone è bella.

Nel canottaggio è importante, se non essenziale, che ci sia un rapporto tra i vogatori. Bisogna andare in sincrono assoluto: stessi moviementi, stessa forza in gambe-schiena-braccia, stessa posizione di ogni parte del corpo, altrimenti la barca non va. Se hai da correggere l'equilibrio, la direzione, la forza che metti nella vogata ad ogni singolo colpo, la barca non va, sprechi energie e basta. L'ideale sarebbe anche avere un fisico simile, un'altezza che varia di poco, così come anche il peso, una buona apertura di braccia e schiena dritta. Si è più persone, ma bisogna essere una sola... un po' come la fusione in Dragon Ball. Ah, e la tecnica è molto più importante della forza; uno sulla forza e la resistenza ci può lavorare in seguito, è a questo che servono le sei ore e passa di allenamento giornaliero, ma bimbo mio se non hai la tecnica è come andare a zappare la terra con la paletta giocattolo da mare, senza secchiello.

Il canottaggio è forza e armonia che diventano una cosa sola, è questa la sua magia. 

Ultima nota e poi giuro che mi zittisco: le Fiamme Oro sono una delle squadre sportive militari italiane. Di solito, se si vuole fare il lavoro di atleta, si entra in una di queste organizzazioni dove, una volta finita la carriera agonistica, si può scegliere se rimanere o meno. Quelle italiane sono:
- G.S. Fiamme Oro - Polizia di Stato
- G.S. Fiamme Gialle - Guardia di Finanza
- G.S. Forestale - Corpo Forestale dello Stato
- G.S. Fiamme Azzurre - Corpo di Polizia Penitenziaria
- G.S. Fiamme Rosse - Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco

Un ultimo appunto, quando Aurora  parla di "oro di Tokyo". Non so se lo sapevate/ricordate, ma nel 2020 le Olimpiadi si sarebbero tenute a Tokyo, solo che poi... beh. Lo sappiamo tutti quel che è successo. Questa storia si svolge a cavallo tra il 2018 e il 2019, quindi il Covid era un qualcosa che ancora non esisteva. 

 


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