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Autore: Ciuscream    30/01/2021    8 recensioni
L’incubo voluto da Voldermort – Harry aveva ragione – stava per concludersi. Il sangue avrebbe spurgato a breve tutto il male. Quello che riservava a sé stesso, però, colmo degli errori di un passato che non poteva cancellare, di promesse che non poteva né onorare né infrangere, era ancora lì, adeso alla sua scatola cranica, pronto a dilaniarlo appena avesse allentato le difese. Quegli occhi erano impressi, letali, di fronte ai suoi. Lo sapeva. La colpa era lì, in agguato, e ci sarebbe stata sempre. Per sempre.
[Questa storia partecipa al contest “Che bella parola ‘per sempre’” indetto da Pampa313 sul forum di EFP; premio "Miglior storia"]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aberforth Silente, Albus Silente, Ariana Silente, Gellert Grindelwald, Harry Potter | Coppie: Albus/Gellert
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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Sorsi di colpa
 
 
Silente affondò il calice di cristallo nel liquido smeraldino ed i suoi occhi, per un istante, furono screziati da una nota di curiosità e paura. Lo fissò e se lo rigirò fra le dita della mano sana, i polpastrelli a aderire morbidi allo stelo. Esitò ancora per un secondo, poi prese un piccolo, finale, respiro e portò il vetro verso le labbra, strette di vecchiaia e apprensione.
 
«Alla tua salute, Harry.»
 
Mentre avvicinava il bicchiere al viso, un vago sentore di quello che lo attendeva, oltre la soglia del non-detto e del dimenticato, lo fece vibrare di un tremito impercettibile. Le labbra si poggiarono sull’orlo del calice con una breve, brevissima esitazione e poi – con quella celerità che batte e vince la paura – azzerò in un solo sorso l’intero contenuto dello stesso. Il liquido scivolò, pastoso ed ingombrante, lungo la sua lingua e la gola, franando dentro l’esofago fino ad allagargli lo stomaco, che lo accolse in attesa che il sangue assorbisse la potenza di veleno che vi era celata all’interno.
Le voci che seguirono, sorsero quasi istantaneamente: dapprima, erano soltanto vaghi lamenti, un brusio indistinto e lontano, flebile. Ma man mano che i secondi trascorrevano e man mano che immergeva il calice nel bacile ed il liquido dentro di sé, queste si facevano più nette, taglienti e prementi all’altezza delle tempie. Sembravano sibilargli nella mente, da orecchio ad orecchio, a serpeggiare su strade invisibili ma scandite chiaramente fra le curve del suo cervello. Sapevano dove andare a scavare, dove cercare, avevano direzione precisa. È come se la pozione, con premura di bussola, avesse individuato, senza esitazione, i tasti dolenti della sua intera esistenza e si fosse affrettata a premerli con deliberata crudeltà.  
Harry, il lago e la caverna sbiadirono pian piano alla sua vista. Pareva che gli occhiali a mezzaluna si fossero improvvisamente appannati, così come lo sembravano i suoi timpani, a cui la voce di Harry arrivava fioca, distante. Una nebbiolina fitta aveva invaso i contorni delle cose che lo circondavano. Il tempo sembrava aver rallentato, arrancante come i suoi movimenti, lenti ed intorpiditi. Quando la neonata foschia si fu dissolta, si trovò immerso nel buio di una stanza sotterranea, adorna di poche suppellettili, esalante odore di muffa e abbandono.
La riconobbe all’istante: era la cantina della sua vecchia casa di Godric’s Hollow. Lanciando un’occhiata rapida nella penombra, scorse sul pavimento il corpo immobile di una ragazzina bionda, nascosto fino al collo da un mantello da viaggio pesante, trapunto di toppe. Sembrava stesse dormendo con le coperte rimboccate ma, sul viso, aveva un’aria spaventata, le labbra leggermente schiuse, le palpebre strette. Albus si ritrovò, quasi meccanicamente, ad avvicinarsi a quel corpo esile e sfinito. Riusciva a compiere soltanto passi pesanti, che si trascinavano dietro la zavorra di quelli che sembravano i suoi nuovi femori di piombo. Si mosse soltanto di pochi centimetri, prima di realizzare – anche con gli occhi, non solo con il primordiale timore che lo allagava – di chi fossero le membra esanimi poco lontano. Saggiò con lo sguardo quel profilo di donna ancora acerba, i tratti gentili di pochi anni vissuti ma scavati sotto le palpebre, in occhiaie profonde, da una follia incontrollata, che aveva macchiato per anni la sua innocua gentilezza.
Ariana era a terra, morta.
Corse verso di lei, con la velocità che gli permetteva quel suo muoversi ingolfato. Un dolore gli scoppiò, letale, all’altezza del cuore, a risucchiarlo all’interno del suo corpo, a farlo sprofondare dentro la veste e la carne; un dolore che non sembrava nuovo ma piuttosto riscoperto ad affiorare dagli anfratti del cervello in cui aveva tentato di rilegarlo, con una potenza centuplicata dagli anni e dalla prigionia. Adesso poteva pulsare, scoppiare, tendersi libero lungo tutte le sue terminazioni nervose, a scuoterlo come se fosse una sofferenza fisica, quella di una cruciatus o di un’altra maledizione raccapricciante ed antica. Urlò.
“Ariana! Ariana!” Le grida erano disperate ma mute; somigliavano a respiri pesanti, a bocca spalancata, quelli che adesso aprivano nuvole di condensa fuori dalle sue labbra. Si accorse solo in quel momento del freddo che lo circondava; gelido come il viso della ragazzina che, finalmente, raggiunse, a cui tastò il collo con speranza sprecata, in cerca di un minimo e qualsiasi accenno di vita. Le voci nella sua testa s’inseguivano e lo inseguivano, accavallandosi una all’altra, tanto da risultare una cacofonia incomprensibile. Sentiva soltanto che erano voci di dolore, di accuse, di suppliche ma non riusciva a distinguerne i percorsi né i toni. Sembrava fossero quelle a schiacciarlo a terra, a permettergli solo quei movimenti goffi e ingombri, quelli con cui adesso tentava di sollevare il viso della sorella mentre la testa continuava a ricaderle, inerme, all’indietro. Lacrime di fuoco gli fiottarono dietro gli occhi azzurri, privi di occhiali; questi si posarono sulle sue mani, entrambe sane e non divorate dal male, giovani. Accarezzò di nuovo le gote della ragazza, bagnò il mantello da viaggio di chiazze di sale e si voltò di scatto solo quando, alle sue spalle, dall’angolo opposto della sala, una voce, familiare ma lontana mille ere, parlò.
“È inutile versare lacrime adesso, Albus.” Lo ammonì Kendra, sua madre. Voltò il viso rigato di lacrime verso di lei. La donna sedeva composta su una piccola poltrona di chintz a stampe floreali. Aveva una crocchia sulla parte bassa della nuca, l’espressione severa colma di rammarico e rimprovero.
“Avevi promesso di proteggerla, di proteggerla per sempre. Lo avevi promesso, Albus.” Proseguì mentre lui strinse involontariamente il corpo esile e gracile di Ariana fra le braccia, non riuscendo a distogliere lo sguardo da sua madre, che saettava in risposta occhiate cariche d’astio e di disprezzo per quel genio di suo figlio. Per quel ragazzo che aveva lasciato indietro coloro che rappresentavano il suo sangue, le sue radici alla vita ed alla terra, per donarsi alle follie del dominio, agli stendardi di rivoluzione con uno qualsiasi, arrivato dal nulla, destinato a tornare nel nulla.
“Eri troppo impegnato a tentare di conquistare il mondo. Così assorto da dimenticare la tua famiglia, i tuoi fratelli, i tuoi obblighi. L’obbligo di proteggere Ariana, per cui io ho pagato con la vita. Una vita piagata in cella, ad Azkaban.” Un’altra voce si alzo vicinò a sua madre. Su una poltrona identica, suo padre – vestito come il giorno in cui era stato portato via e con lo stesso viso di allora – lo guardava con espressione che tradiva lo stesso malcelato disgusto, mentre se ne stava ricurvo sul corpo della sorella, a difenderla adesso dal suo stesso dolore.
Alla sua voce roca, si sommavano ancora i bisbigli uditi in precedenza; li aveva ignorati per un po’, alla vista di quel corpicino esangue. Ma adesso erano tornati a premere e sibilare, ronzare e guizzare sulle pareti, rimbalzando da una all’altra, a mescolarsi alle voci di suo padre e sua madre che, come una nenia mortifera, ripetevano ora soltanto tre parole: “È colpa tua”. Lo ripetevano e ripetevano ancora, sommandosi ai bisbigli, aumentando di volume e intensità. Tutte quelle sillabe sembravano mangiare l’aria, rubargli l’ossigeno, mentre lettere confuse di accuse si mescolavano intorno a lui e lo premevano e schiacciavano contro il corpo gelido e morto che aveva tra le braccia. Si ripiegò su questo, soggiogato dall’angoscia e dal tormento, dalla verità di quella colpa che gli martellava in petto e gli fiumava dagli occhi, mentre la stringeva e chiedeva perdono.
È colpa mia.” Farfugliò lui stesso, come sperando che quell’ammissione facesse chetare quel rumore sempre più assordante e premente. Ma non uscì alcun suono. Sembrò, piuttosto, che le altre parole, quelle che rimbombavano intorno, gli fossero scivolate direttamente nelle narici, ai polmoni, a incastrarsi anche lì, togliendogli l’ultimo accenno d’aria e di voce. Boccheggiava, mentre le accuse diventavano sirene indecifrabili.
All’improvviso, semplicemente, si sentì scivolare via, abbandonato dal coraggio.
 
In silenzio, bevve tre bicchieri colmi di pozione. Poi, a metà del quarto, barcollò e cadde in avanti, contro il bacile. Aveva ancora gli occhi chiusi, il respiro affannoso.
«Professore» esclamò Harry, la voce tesa. «Mi sente?»
Silente non rispose. Il suo volto si contorceva come se fosse addormentato ma in balia di un sogno orribile.
 
La voce di Harry era soltanto una fra le tante di quelle che ancora gli serpeggiavano sui timpani, carezzandoli, mordendoli, ferendoli, strusciandovi sopra una melodia crudele – quella della sua colpa. Strinse ancora il corpo di Ariana fra le braccia, distrutto da un dolore così opprimente che si sentì compresso, a diventare un tutt’uno con la stoffa di quel mantello da viaggio liso che la copriva. Sentì che questa le sfuggiva via dalle mani, però. La sentiva diventare sempre più piccola, scivolosa, volatile e mosse le mani per aria, tastò rabbiosamente, disperatamente le dita contro la superficie. Per tenerla, per non lasciarla andare via di nuovo. Si accorse, però, che quella che tastava non era più la stoffa infeltrita che faceva da coperta a quel sonno eterno; era un tessuto molto più fluido, quasi impalpabile. Si costrinse ad aprire gli occhi gonfi e si trovò tra le braccia, al posto della sorella, quello che sembrava essere il Mantello dell’Invisibilità di Ignotus Peverell, quello che James Potter gli aveva prestato, quello che aveva tanto a lungo anelato di possedere e che adesso apparteneva ad Harry.
Una voce alle sue spalle, glaciale e lontana, gli arrivò a trapanargli la nuca di una sorpresa e di una paura così taglienti, da sentirla raggiungere direttamente la sua mente, ad allagarla, sferzando la carne. Sorpassava qualsiasi altro brusio, era regina incontrastata delle altre voci che, adesso, si erano fatte sorde e servizievoli, la lasciavano passare indisturbata. La riconobbe senza sforzo e il suo cuore prese a martellare impazzito, sbattendo contro la gabbia toracica e fuori dalla stessa, ferendo i polmoni, mozzandogli il respiro.
“Hai trovato l’ultimo Dono, Albus. Lo hai trovato, senza di me.” Convenne l’uomo alle sue spalle, con tono amaro. “Mi hai dimenticato, come se fossi uno qualsiasi.”
Silente era congelato sul posto, incapace di muovere un qualsiasi muscolo, al di fuori di quelli delle sue palpebre che sbattevano incontrollate. Il corpo era smosso da tremiti leggeri, dovuti alla pozione che corrodeva di bruciante dolore le pareti del suo stomaco, aggrappandovisi tenacemente, a ferirlo dall’interno. Riuscì con fatica, quindi, dopo vari e vani tentativi, a ruotare la testa, con calma esasperante, quella che permettevano i movimenti a rallentatore che era in grado di compiere in quell’incubo ingolfato.
Le pupille, dilatate di terrore, si trovarono ad incocciare la figura di un giovane Gellert Grindelwald: bello, spavaldo e fiero come all’alba dei suoi sedici anni, quando era stato ospitato dalla prozia Bathilda e aveva conosciuto Albus. Gli riconobbe in viso, con dolente ripugnanza, quello scintillio che aveva amato, che lo aveva trascinato verso di lui in uno sdrucciolevole magnetismo, con un’attrazione che era stata incontrastata – e incontrastabile. La stanza del salotto era sparita ed era circondato di nuovo dal buio. Pian piano, questo iniziò a plasmarsi e contorni flebili, ghirigori di luce, si innalzavano e vorticavano, si liquefacevano costruendo un paesaggio nuovo. Batté le palpebre mentre tornò a distinguere sagome sempre più nitide intorno a lui. Grindelwald era poco lontano ed entrambi poggiavano, il primo in piedi, il secondo in ginocchio, su un isolotto di pietra liscia, al centro di un grande lago nero, la cui acqua scura e placida sembrava un letto d’inchiostro densissimo. Riconobbe la caverna in cui stava bevendo la pozione e, con un’apprensione che ancora gli mozzò il respiro, prese a chiamare a gran voce – quella che avrebbe voluto usare, almeno – il nome di Harry. “Harry? Harry? Dove sei? Che gli hai fatto?” Si rivolse a Grindelwald ma era muto e questo non lo sentì o lo ignorò deliberatamente, avvicinandosi a lui con fare sinistro. Man mano che azzerava la distanza fra i loro corpi, scorgeva con più chiarezza quello che il ragazzo stringeva nella destra: era la bacchetta di sambuco, la sua bacchetta di sambuco. Si rese conto solo in quell’istante, con una disperazione sorda a crivellargli le tempie, che era disarmato, di fronte all’uomo che aveva sconfitto e fatto rinchiudere a Nurmengard. La faccia di Gellert, però, non era quella dell’uomo con cui aveva duellato ma ancora quella del ragazzino con cui aveva scambiato speranze e aspirazioni, tanto simile a sé stesso da sentirlo legato, indissolubilmente, fin dentro le viscere, nel DNA, tra le vene, nel sangue.
Fu solo quando Gellert lo ebbe raggiunto, i connotati piegati da un desiderio di trionfante vendetta, che questo si chinò su di lui. Occhi dentro occhi, pupille contro pupille, Albus riconobbe in lui lo splendore dei loro desideri, le fiamme che li avevano spinti ad immaginare un mondo plasmato, stretto dentro i loro palmi. Lo fissava e, come se fosse lui a fiottargliele addosso, sparse immagini dell’estate del 1899 comparvero di fronte ai suoi occhi, occupando ingombranti la sua visuale.
Lo vide, si vide. Questa volta dall’esterno, come se riemergessero ricordi da dentro il Pensatoio. Erano nel giardino dietro casa sua, a Godric’s Hollow; parlavano sottovoce, concitati, fremendo di un’eccitazione palese e sgraziata, a contrastare con l’indole carismatica e aristocratica di cui entrambi beavano farsi forza, quando la situazione lo richiedeva. Aberforth li fissava da lontano, mentre gettava un po’ di torsoli alla sua capra, scuotendo la testa di un malcontento di cui non si sforzava nemmeno di celare la presenza. Le parole di quei giorni erano tumulti di euforia, cascate di grandi teorie, tesi di dominio. Uno aggiungeva parole all’altro; le mescolavano e se le accrescevano a vicenda. Non c’era istante in cui le menti di uno e dell’altro non fossero dirette e concentrate verso il grande progetto della loro ascesa, della loro vittoria, del loro trionfo. Studiavano le fiabe di Beda il Bardo, la tomba di Ignotus Peverell nel vecchio cimitero e tutto sembrava un mistero, una sfida – possibile.
Non riusciva a parlare ma sentiva le sue parole di quei giorni. Le pupille saettanti del Grindelwald ancora sopra il lago, lo trascinavano ad osservare ricordi da lui scelti, selezionati, quelli in cui doveva scorgere tutto il suo tradimento, le promesse che aveva così ignobilmente infranto.
Gellert era nella sua stanza, la notte era scesa imperiosa ad accecare il cielo privo di stelle. Leggeva qualcosa da un libro piuttosto malconcio, raccolto in uno dei tanti scaffali che riempivano casa di Bathilda. Erano stipati di ricordi e tracce di magia antica e nuova, in cui lui s’immergeva come in un fiume di sapienza da cui adesso si faceva trasportare ma che sognava di dominare, con Albus al suo fianco, per un’eternità liscia e prospera. Nel silenzio intorpidito di fine estate, due piccoli colpi risuonarono come spari contro il vetro della finestra socchiusa: un gufo stava picchettando con forza, nella prospettiva, forse, di dover svegliare il destinatario di quella pergamena arrotolata alla sua zampa destra. Gellert s’alzò in fretta, lo raggiunse e srotolò la carta ingiallita. Lesse celermente quelle righe di giovanile entusiasmo, di idee in cui il Bene superiore doveva essere perseguito con la sola violenza necessaria, non più di quella che richiedevano le circostanze e le resistenze che avrebbero incontrato sul loro cammino. Una smorfia indurita gli aggrottò le sopracciglia al centro della fronte – Quanta morbidezza! Ci vuole il bastone, non la carota! – ma le parole con cui Albus terminava quella sua dissertazione, sciolsero i tratti duri. Un sorriso morbido, carezzevole, ben lontano da quello dello scapigliato e carismatico giovane, sorse ad animargli le labbra. Se non fossi stato espulso, non ci saremmo mai incontrati. Coglieva in quelle righe la gratitudine per il dono che la vita gli aveva così inaspettatamente offerto; la stessa che provava lui, gemella. Quella che accresceva il desiderio che Albus mollasse il fardello che gli era toccato in sorte. Quel fratello ottuso, quella mina vagante della sorella. Non avevano tempo per pensare alle cose di una quotidianità fangosa, alle sabbie mobili di un’esistenza ordinaria. Dovevano cercare i Doni della Morte, dovevano dominarla, dovevano sconfiggere e plasmare l’eternità. Loro due, insieme. Per sempre.
 
I ricordi dietro le sue pupille sbiadirono e pian piano ricomparve il viso di Gellert di fronte al suo, in quell’isolotto al centro del lago, scollegato dalla terra ferma. Era sparita la barcarola, era sparito Harry, era sparito il bacile. Erano solo loro due, nelle tenebre nuove che li circondavano, uno davanti all’altro, vicini come molti anni prima. L’espressione con cui lo ritrovò non fu quella distesa ed emozionata con cui aveva letto le ultime righe di quella lettera, l’unica che rendeva il suo viso mite ed umano. Era, invece, piuttosto sgraziata, di rabbia e delusione e tormento, lo stesso che sapeva – Albus lo sentiva, nella sensazione di allarme che gli allagava le viscere e le bruciava, insieme con la pozione – volergli infliggere, per punirlo, per tormentarlo, per fargli espiare la sua colpa.
“Te lo ricordi, Albus?” Gli domandò, questa volta più serico, quasi malinconico. “Avevamo giurato di conquistare il mondo. Di creare un nuovo ordine magico: sottomettere i babbani, smettere di nasconderci. Se fossimo partiti per la nostra rivoluzione, il mondo sarebbe diverso, adesso. Ci pensi? Tua sorella sarebbe qui, se non ti fossi messo ad ascoltare le lusinghe del sangue, quel richiamo a quella parola che ti piace tanto usare. Amore. Quanto te ne riempi la bocca adesso, eh? Eppure lì, eppure lì… l’amore era quello per il potere, per la potenza delle cose che avremmo potuto – e dovuto – fare insieme. Se non avessi ascoltato Aberforth, adesso saremmo sulla vetta più alta della magia. Noi due insieme, Albus. Avremmo schiacciato ogni resistenza. Voldemort non sarebbe mai riuscito ad arrivare dov’è adesso. Avrebbe dovuto soccombere. Quanta gente avremmo risparmiato, quanto dolore. Quel ragazzino che tanto ami, Silente, sarebbe al sicuro. Avrebbe un padre ed una madre. Un padre a cui non desidereresti di sottrarre quello…” Indicò il mantello che ancora Silente teneva stretto, strizzato contro di sé. A quelle parole, come se fosse arroventato o maledetto, lo allontanò con un gesto nervoso, lanciandolo. Gellert lo acchiappò al volo.
“Grazie” ironizzò, ripiegandolo sotto la sua spalla. “I Doni spettano a me. Tu sei troppo debole, troppo incline ad ascoltare i bisbigli della coscienza. Non ha bisogno di una coscienza, chi domina la Morte.”
E così dicendo, mentre Albus tentava di replicare parole mute – “Io ti ho sconfitto! Tu sei finito! Non avrai mai tutti i Doni, non riuscirai mai a vincere! La bacchetta di sambuco è mia!” –, Grindelwald allungò la stessa per posargli una specie di carezza sulla guancia pallida di diciassettenne, gli occhi ancora immersi in quelli di un azzurro tanto vivido da illuminare la penombra. Era una carezza usuale, come se – nascosta agli occhi di altri – se ne fossero scambiate tante, uguali, in un'altra epoca. Anche gli occhi erano piegati in un’espressione docile, suadente, mentre avvicinava la punta della bacchetta al suo viso. Le parole che frusciò fuori erano morbide, colme di un sentimento che si era incrostato di rancore ma che rimaneva fulgido, sotto quelle scorie.
“Avevi promesso, Albus. Io e te, per l’eternità.” Il legno raggiunse la sua pelle e, come lama incandescente, la solcò di uno squarcio profondo, mentre la carne fumava di quello sbrego rovente. Albus urlò muto quel dolore accecante, le mani che si portarono al viso che si rimarginava in fretta, mentre i suoi movimenti, ingolfati ed al rallentatore, non gli permettevano di divincolarsi. Gellert fece lo stesso sull’altra guancia. Scoppiarono nuove urla sorde mentre Silente si contorceva per quel calore di frusta che gli invadeva e gli bucava la carne, in quell’incubo senza fine. La pozione ribolliva di una stessa, cocente, ustione, dentro di lui, sulle pareti rotte del suo stomaco.
 
«Va tutto bene, professore» replicò Harry, con la mano che tremava. «Va tutto bene, sono qui…»
«Fallo smettere, fallo smettere» implorò Silente.
«Sì… sì, questo lo farà smettere» mentì Harry. Gli versò in bocca il contenuto del calice pieno.
Silente urlò; il rumore echeggiò per la vasta sala, sulla nera acqua morta.
 
Quando un nuovo calice di pozione scese ad annacquarlo di rinnovato dolore, Harry sparì ma lui era ancora lì, sull’isolotto di pietra liscia al centro del lago. Gellert non lo stava più sferruzzando con fantasie di lame e fuoco ma si era allontanato e adesso stava sul bordo, quasi al limitare dell’acqua. “Non la toccare!” Tentò di avvertirlo, ma le parole come al solito erano solo animosi sospiri privi di sillabe.
L’altro riprese a parlare mentre metteva avanti e indietro qualche passo, in procinto dell’acqua cosparsa di inferi. Questa era ancora piatta, una tavola placida e nera, senza nemmeno una minima increspatura ad ondeggiarla.
“Vedi, Albus. Ci sono riuscito anche senza di te. Ora che tu hai deciso di lasciarmi avere l’ultimo Dono.” Alzò il mantello, a mostrarglielo. “Ho sognato per mesi le nostre statue per le strade, inneggiate da canti di rivolta. I nostri visi, belli, ritti, fieri, simbolo della rivoluzione, osannati dalle masse, temuti dai babbani. Unici, veri, detentori del mondo. Invincibili padroni della morte. E invece…” Si zittì, con tono amaro. “La morte di quella pericolosa di tua sorella…” Albus rantolò un insulto ma nessuno lo udì. “Ha cambiato tutto. Hai deciso che aveva ragione Aberforth. Non potevi scegliere con me la via della gloria perché ti dovevi immergere nella penitenza, per la promessa infranta a tua madre di proteggerla. E così facendo, hai infranto anche quella che avevi fatto a me.” Alzò la mano sinistra, che fino a quel momento aveva tenuto stretta in un pugno, e gli mostrò una pietra nera, perfettamente intatta, non incastonata in alcun anello. La strofinò fra i polpastrelli e il lago, come se avesse preso improvvisamente a bollire, fece emergere parecchie mani, rattrappite e pallide – morte – che anelavano di acchiappare qualcosa sopra di loro e trascinarselo dietro, tra le loro schiere.
Con un colpo della bacchetta, Gellert fece apparire Aberforth sopra le stesse, i piedi che ballonzolavano a pochi centimetri da quelle falangi putride. Sembrava addormentato, gli occhi chiusi, la testa riversa all’indietro.
Che gli hai fatto? Lascialo stare! Lascialo, Gellert! Lascialo andare! È me che vuoi punire, lascia stare lui!” Anche se la voce era muta, sembrò che Grindelwald lo avesse sentito.
“È colpa sua se non siamo partiti insieme. Lui ha stuzzicato la tua coscienza. Farò quello che avrei dovuto fare quel giorno, se non me lo avessi impedito. Crucio!” Puntò la bacchetta contro il corpo a mezz’aria che prese a contorcersi e a gridare di urla colme di lancinante dolore, che rimbombarono nella caverna, spargendosi in ogni dove. Erano tante e tali che sembravano frecce che laceravano la carne di Albus, che si conficcavano dentro la sua epidermide, a bucargliela di un identico dolore.
Smettila! Smettila! Lascialo! È me che vuoi, è me che vuoi!”
Albus fece per alzarsi in quel modo molle e rallentato ma Gellert strusciò ancora la pietra tra le dita e dal lago sorsero quattro inferi, avanzando sui gomiti, putridi, sgocciolanti, che si avviarono verso di lui con una velocità doppia di quella dei suoi movimenti. Lo circondarono e lo fissarono; erano laceri, aggrappati di alghe, gli occhi vuoti e vitrei come quelli di un pesce, le membra cadenti e rammollite. Albus tentò di ripararsi, di scostarsi all’indietro ma si mosse di pochissimo e riuscì a far raggiungere il viso giusto dalle dita. Le urla di Aberforth ancora straziavano l’aria. Lui gli faceva eco senza decibel, mentre tentava di protendersi oltre lo scudo degli inferi che lo ricacciarono indietro.
Alla voce del fratello, però, ben presto se ne aggiunse un’altra. Una voce delicata, morbida, di ragazzina. Tentò di chiamarlo, di proteggere lei stessa il fratello che le urlava accanto, come aveva fatto quel giorno di molti anni prima.
“Aberforth! No! Lascialo stare! Albus, Albus, aiutaci! Fallo smettere, è tuo amico, fallo smettere!” Silente la vide: Ariana era di nuovo viva e galleggiava a mezz’aria, la punta delle scarpette stringate vicina alle mani degli inferi che ancora si protendevano in una frenesia entusiastica.
Crucio!” Urlò Gellert e Aberforth scoppiò in un nuovo latrato di dolore terribile, lo stesso che Albus sentiva sopra la sua pelle, a grattarla, a ferirla, dilaniarla come la punta della bacchetta di sambuco poco prima. Urlò di quelle grida silenziose. Si tuffò in avanti, tentò di spingere gli inferi che, immancabilmente, si avvicinavano a loro volta, lo respinsero indietro. Si gettò a terra, straziato dal dolore, dalle urla di Aberforth che gli perforavano i timpani, insinuandosi come lame dentro le pieghe del suo cervello.
 
«È tutta colpa mia, colpa mia» singhiozzò, «ti prego, fallo smettere, so che ho sbagliato, oh, ti prego fallo smettere e io mai, mai più…»
«Questo lo farà smettere, professore» rispose Harry con la voce spezzata, versandogli in bocca il settimo bicchiere di pozione.
Silente si rannicchiò come se invisibili torturatori lo circondassero; agitando la mano fece quasi cadere il calice colmo dalle dita tremanti di Harry e intanto gemeva: «Non far del male a loro, ti prego, ti prego, è colpa mia, fai male a me, invece…»
 
Aberforth ancora urlava, straziato, straziante e Albus non riusciva a superare quella barriera che gli si parava davanti. Era solo, impotente, disarmato, di fronte alle due persone che amava di più, appese sopra un letto di inchiostro e morte. Uno gridava di dolore, l’altra di sgomento perché voleva liberare il fratello, salvarlo, proteggerlo come lui aveva fatto con lei.
“Albus, fai qualcosa, fai qualcosa! Aiutaci!” Ariana gridava a tutta voce, ancora sospesa. Gli strilli di entrambi occupavano ogni centimetro d’aria di quella vasta caverna. Quando Gellert parlò, però, tutto il resto sembrò acquietarsi e la sua voce rimbombò gelida sopra ogni decibel di strazio.
“Devi pagare per la tua colpa, Albus. Le promesse che non hai mantenuto sono qui di fronte ai tuoi occhi. Non puoi aiutarli, non puoi fare nulla per loro. Questo è il fratello che sei, l’amico che sei, l’uomo che sei. Potrai aver avuto la gloria, quella che senza il tuo aiuto mi hai sottratto, ma non ti lascerò mai andare. Io onorerò la mia parte di promessa.” Sentenziò, con un ghignetto che si tagliò appena verso sinistra, nella pelle pallida del viso.
Mosse leggero la bacchetta e Ariana cominciò a perdere centimetri, avvicinandosi alle mani putride che adesso si muovevano impazzite. Parecchie impattarono contro la pelle candida e morbida della sua caviglia, a stringerla e trascinarla verso di loro. Ariana cacciò un grido lacerante, di puro ed autentico terrore, che fece il paio con quello di Albus, che tentava di respingere con movimenti molli i mostri che lo circondavano. Urlava, a perdifiato ma silenzioso.
Ariana! Ariana! Ti prego, lasciala andare, ti prego! Non farlo, quello no. Dimmi che devo fare, dimmi che devo fare!” Copiose lacrime scendevano ad inondargli le guance, mentre ormai le scarpette avevano toccato la superficie del lago e più dita arrivavano a stringerla e a trascinarla verso il basso. “NO, ARIANA! NO!”
 
«Ecco, beva questo, beva questo e starà bene» lo incalzò Harry disperato, e ancora una volta Silente gli obbedì, aprendo la bocca ma tenendo chiusi gli occhi, in preda ai brividi da capo a piedi.
E poi cadde in avanti ed urlò, picchiò i pugni a terra, mentre Harry riempiva il nono calice.
«Ti prego, ti prego, ti prego, no… quello no, quello no, farò tutto quello che…»
«Beva professore, beva…»
Silente bevve come un bambino che muore di sete, ma quando ebbe finito urlò di nuovo come se avesse le viscere in fiamme.
 
Mentre Ariana si immergeva nell’acqua, sulla sua corrispondente parte di corpo esplodeva la potenza di fiamme invisibili. Bruciava. Sentiva la pelle delle caviglie scarnificarsi, anche se alla vista rimaneva perfettamente intatta. Le sue urla di dolore erano inascoltate; quelle di supplica, ancora di più.
Ti prego, lasciala andare!”
Pregava, ardeva e soffriva, mentre alle grida della sorella e del fratello iniziarono ad aggiungersene molte altre. Prima solo come un brusio di rumore bianco poi sempre più alte, frementi, lamentose. Erano voci di uomini e donne, perlopiù in lingue diverse dalla propria, ma che lui conosceva e comprendeva. Li sentiva invocare pietà, piangere di supplica e spavento. Gli si riversavano addosso senza rimedio mentre lui ci mescolava le proprie. Ariana scendeva e le gambe di Albus prendevano a bruciare in modo dolorosamente incontrollato.
Gellert sorrise di nuovo e parlò, con quella voce serica che superava tutte le altre, senza sforzo.
“Sai di chi sono queste grida? Di tutte le persone che hai permesso morissero, a causa della tua codardia. Non mi hai fermato. Non lo hai fatto per non metterti davanti all’evidenza di quanti errori hai commesso, quante vite hai permesso si spezzassero. Quella di Ariana, quella di queste persone. La mia, per la tua assenza. La mia, per la tua condanna.” Il supplizio che saliva su per le sue gambe era lancinante, insopportabile. Ma lo ignorava, gli occhi fissi sulla sorella che man mano spariva e chiamava il suo nome, che si mescolava, perduto, a quello di tutte le altre voci. “NO, ARIANA! ARIANA!”
Il dolore era tale che sentiva la vita volerlo abbandonare, fuggire via da lui, rintanarsi altrove. Sentiva gli arti intorpiditi dalla speranza di una morte rapida.
 
«Beva questo, professore, beva questo…»
Silente bevve e ancora non aveva finito che urlò: «UCCIDIMI!»
«Questo…questo la ucciderà!» ansimò Harry. «Beva solo questo… e sarà finita… tutto finito!»
Silente vuotò il calice fino all’ultima goccia e poi, con un enorme sospiro rantolante, cadde in avanti.
 
L’incubo voluto da Voldermort – Harry aveva ragione – stava per concludersi. Il sangue avrebbe spurgato a breve tutto il male. Quello che riservava a sé stesso, però, colmo degli errori di un passato che non poteva cancellare, di promesse che non poteva né onorare né infrangere, era ancora lì, adeso alla sua scatola cranica, pronto a dilaniarlo appena avesse allentato le difese. Quegli occhi erano impressi, letali, di fronte ai suoi.
Lo sapeva. La colpa era lì, in agguato, e ci sarebbe stata sempre. Per sempre.
 
 
 

 
Nda: Come anticipato in introduzione, la storia partecipa al contest “Che bella parola ‘per sempre’” indetto da Pampa313 sul forum di EFP. Ho scelto di utilizzare un pacchetto del fandom di Harry Potter, genere angst, riguardante Albus Silente (Limitazione: deve essere presente Ariana Silente).
Inizio queste mie brevi note spiegando che questo è voluto essere un esperimento, non so se riuscito o meno, ambientato durante Harry Potter e il Principe Mezzosangue. Harry e Silente scendono nella caverna e si dirigono al centro del lago nero in cui credono sia nascosto un Horcrux di Voldemort. La pozione che Silente sarà costretto a bere, lo farà (ri)vivere, nell’immaginazione della mia storia, i due grandi dolori e rimpianti della sua vita, due grandi promesse (e due “per sempre”) infranti, con protagonisti diversi. La prima, è quella che aveva fatto a sua madre, di proteggere Ariana per tutta la vita, venuta meno con la morte della sorella dovuta allo scoppio di una lite e di un duello a tre, tra lui, Aberforth e Gellert Grindelwald. La seconda è la promessa che aveva fatto a quest’ultimo, nei due mesi passati dallo stesso a Godric’s Hollow, in cui avevano coltivato sogni, desideri e progetti di un nuovo ordine magico, di dominio sui babbani e di raccolta dei Doni della Morte. Promessa di cui poi si era irrimediabilmente pentito, nonostante per quel giovane provasse un sentimento talmente forte e puro da essersi trovato irresistibilmente attratto da lui e dalle sue idee. Ho voluto lasciare volutamente vago se questo sia mai sfociato in qualcosa di più di un rapporto di profonda amicizia e stima.
La pozione di Voldemort che Silente beve, mescola, nella sua mente, fatti realmente accaduti e immagini frutto del dolore e del delirio, che lo trascinano in un incubo senza fondo in cui ogni sua colpa torna a tormentarlo, fondendo i piani di realtà e macabra fantasia.
Le frasi scritte in corsivo ed allineate a destra sono tratte testualmente da Harry Potter ed il Principe Mezzosangue, Cap. "La caverna".
Ho usato le virgolette francesi per le parti estratte dal libro, quelle italiane per i dialoghi nell’ “incubo”.
In ogni caso, anche dovessero piovere pomodori dagli spalti, vi ringrazio per essere arrivati fino a qui.
A presto!
   
 
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