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Autore: B e t c h i    01/02/2021    1 recensioni
• Historical Hetalia - Il Risorgimento.
Dalla nascita dell’Impero Tedesco all'Unità d'Italia
|Dal testo|
«Tuttavia, ciò che dimorerà nel tuo cuore non sarà più la santità del tuo passato,» Gilbert si piegò sulle ginocchia, accovacciandosi sul pavimento pietroso. Il fascio di luce che penetrava dal soffitto eroso, illuminò il suo volto. «ma il mio più grande desiderio.»
Piccoli granelli di polvere brillarono nell’aria come frammenti di diamante, avvolgendo il corpo del bambino che giaceva a terra esanime. […]
Prussia allungò una mano sul suo viso. Le dita sfiorarono le palpebre ancora spalancate. Con un gesto delicato le abbassò.[…]
«L’antico e il nuovo testamento Tedesco.»
Il vento della vita si alzò, sollevando turbini di polvere e foglie secche.
---
Il ciuffo ribelle di Italia si agitò, mosso dall’improvvisa folata di vento gelido che gli sferzò il viso.
Alcune foglie ingiallite dall’autunno vorticarono attorno ai suoi piedi, leggiadre come piume.
Il suono delle campane coprì l’ululato che riecheggiò lungo il viale alberato. […] Feliciano si fermò e girò il capo verso il campanile.
Il tempo sembrò fermarsi.
Le ciocche castane gli accarezzarono il viso, gli occhi si inumidirono.
Genere: Angst, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Germania/Ludwig, Nord Italia/Feliciano Vargas, Prussia/Gilbert Beilschmidt
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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- Capitolo I -

✠ Träume von Federn 



Lily spalancò gli occhi, ansimò rumorosamente in cerca d’aria ed emise un piccolo singulto. Il volto cominciò a prender colore solo quando constatò di trovarsi nella sua stanza. 
Socchiuse gli occhi, infastidita dai timidi raggi solari che filtravano attraverso i vetri del balcone e cercò di riordinare i pensieri. La mente ancora assopita dal sonno.
Le ci vollero alcuni istanti per realizzare che ciò a cui aveva appena assistito era solo frutto della sua mente.
Solo uno stupido sogno, ripeté a sé stessa tastandosi il viso sconvolto.
Si mise a sedere, poggiò la schiena alla testata del letto e portò una mano all’altezza del cuore, stringendo tra le dita la stoffa della camicia da notte. 
Mai le era capitato di sognare una cosa del genere. Una situazione senza dubbio assurda, impensabile, eppure avrebbe giurato di aver sentito davvero le ginocchia bruciare e il vento soffiare contro la sua schiena, come a volerla spingere verso l’aquila degli Asburgo.
Lily rimase immobile, portò l’indice sotto il labbro inferiore e tenne lo sguardo fisso davanti a sé.
Gli occhi neri – penetranti –  dell’aquila si materializzarono nella sua mente.
Il suo cuore perse un battito.
Volevano forse comunicargli qualcosa?
Scosse la testa. No, che assurdità!
«È solo un sogno», mormorò questa volta strofinandosi le braccia, come a volersi dare conforto.
Si disse che, probabilmente , quel delirio poteva esser frutto dei discorsi origliati di nascosto dietro le porte della grande sala, tanto contorti e complicati che spesso neanche lei ne capiva il significato. 
Aveva sicuramente interpretato male le domande disperate della Signorina Ungheria e le parole affrante e demotivate dei soldati di rientro dal fronte. Quegli uomini, marchiati a vita dalla guerra, sospiravano sconfortanti e lamentavano la situazione critica in cui riversava l’Impero. 

“Spero possiate perdonarmi per quello che sto per dire, ma ormai penso che non ci sia nulla di Sacro in quest’Impero. Nostro Signore Gesù Cristo, sia sempre lodato il suo nome, l’ha abbandonato da tempo."

Non aggiungevano altro, semplicemente lasciavano ad Elizaveta una lettera da parte di Austria e se ne andavano.
“Ausztria úr è molto stanco”, aveva detto una volta Ungheria, mentre Liechtenstein la aiutava ad innaffiare i suoi tulipani “temo che possa accadere qualcosa di terribile”.
Quel giorno Elizaveta aveva deciso di dar voce alle sue pene e Liechtenstein, che non sapeva cosa dire, le sorrise rassicurante rimanendo in silenzio.
In fin dei conti, in quella grande abitazione,  il silenzio regnava sovrano da quando Austria era partito per raggiungere Sacro Romano Impero sul campo di battaglia. Non c’era più neanche l’allegro Italia che animava la casa con quella risata contagiosa e i suoi continui disastri. Francia l’aveva portato via con sé, dopo aver firmato un accordo con Austria, promettendo all’ingenuo Feliciano di aiutarlo a riunirsi al fratello.
Liechtenstein ricordava perfettamente il giorno in cui Italia lasciò le mura di quel  palazzo, lo sguardo furente di Roderich – fisso sulla finestra – osservava il calesse del francese allontanarsi. La sera non suonò il pianoforte.

Un’improvvisa fitta al basso ventre destò Liechtenstein dai suoi pensieri. Trasalì, non riuscendo a trattenere un gemito soffocato. 
Restò immobile, per un istante, impietrita sul materasso che parve diventare di pietra, ma dopo un attimo fu colta da una fitta più violenta.
Presa dal panico decise di alzarsi. Fece scivolare le coperte a terra scoprendo le gambe tremanti. La pelle lattea delle cosce era inumidita da un liquido viscido e viscoso. Sangue.
Il pianto disperato di Liechtenstein venne inghiottito dal silenzio.

 
***

Ungheria percorse l’ultima rampa di scale con una velocità inaudita. Quando fece per poggiare il piede sull’ultimo gradino, inciampò  nella lunga gonna verde,  ma riuscì a mantenere l’equilibrio reggendosi prontamente al corrimano.
Con il cuore in gola, si precipitò lungo il corridoio che portava all’unica stanza del piano. Aprì la porta con cautela, i cardini arrugginiti mandarono un lungo e fastidioso cigolio.
Ungheria rimase ferma sulla soglia. Una mano ancora stretta alla maniglia, l’altra poggiata allo stipite della porta.
« Liechtenstein?»
Il piccolo Stato Vassallo sollevò il capo mostrando il viso pallido di terrore. Fiotti di lacrime rigavano le guance paffute, raggiungevano il mento e scivolavano sulle ginocchia raccolte al petto.
Elizaveta si avvicinò con uno scatto al letto della ragazza, ma alla vista  delle lenzuola sporche di sangue si impietrì.
Sbatté le palpebre incredula e, presa dall’impulso, cominciò a scostarle come a volersi accertare che fosse tutto vero. Liechtenstein si strinse ancora di più a sé, lasciando sfuggire un gemito strozzato dalle labbra serrate.
Nascose di nuovo il viso tra le ginocchia, inghiottendo roventi bocconi di saliva e vergogna.
« Mi dispiace, i-io - singhiozzò premendo la fronte contro le ginocchia -  è tutto così s-sporco ».
Quelle parole sembrarono non arrivare alle orecchie di Elizaveta. Alla vista del sangue, un'ondata di panico l'attanagliò e fece da barriera, facendole scivolare addosso la tremante richiesta d'aiuto di Lily.
Elizaveta si piegò sulle ginocchia e raccolse da terra le lenzuola che la più piccola aveva fatto scivolare dal letto. Restò rannicchiata sul pavimento ad esaminarne le macchie, lasciando che il silenzio venisse interrotto solo dai singhiozzi incessanti di Liechtenstein.  
Per un momento una stretta allo stomaco le fece mancare l'aria, costringendola a rimanere in quella posizione. Sentì gravare sulle spalle il pesante macigno della realtà, e si chinò leggermente in avanti nel tentativo di provare sopportarne il peso.
Nella sua mente si materializzò il sogno che l'aveva tormenta nella notte, le parve di udire le grida gracchianti dell'aquila degli Asburgo e il corpicino inerme di Sacro Romano Impero, stretto tra i suoi artigli insanguinati.
Dalle labbra ancora dischiuse per la sorpresa, fuoriuscì un sospiro tremante « Oh, Lily »  strinse i pugni sulle lenzuola « credevo avessimo avuto più tempo ».
Lily trattenne il fiato nel sentir pronunciare quelle parole. Tirò su col naso e mandò giù l'ennesimo singhiozzo che le fece tremare le spalle, sollevò appena la testolina dalle ginocchia - il tanto che bastava per permetterle di incontrare lo sguardo di Ungheria - e le rivolse un'occhiata spaesata. Gli occhioni verdi di Liechtenstein anelavano parole dolci e confortanti, quelle  che Ungheria era solita rivolgerle quando le succedeva qualcosa di brutto; come quella volta in cui inciampò, facendo cadere a terra il vassoio con colazione appena consumata dal Signor Austria. I cocci di vetro e ceramica le avevano graffiato i palmi delle mani, e dopo aver ripulito tutto sotto lo sguardo silenzioso e ammonitore di Roderich, Ungheria le aveva medicato le ferite rassicurandola e ridendo di come il giorno seguente il Signor Austria avrebbe dimenticato quello sciocco incidente. 
Lily si morse il labbro, era evidente che questa volta neanche Ungheria sarebbe riuscita a trovare un rimedio a ciò che le stava succedendo, così tornò a tuffare il viso dietro le ginocchia e riprese a piangere, sperando con tutta se stessa di svegliarsi da un momento all'altro da quello che doveva essere sicuramente l'ennesimo brutto sogno. 
Elizaveta trasalì, il panico scivolò via dai muscoli irrigiditi facendola tornare alla realtà. Sbatacchiò le palpebre più volte, lasciando cadere il velo di ansia che aveva colorato tutto di nero, e notò finalmente il piccolo scricciolo che piangeva rannicchiata in un angolo del letto.
Elizaveta si sentì in colpa, lasciò scivolare le lenzuola dalle mani e si alzò, i passi ovattati dal tessuto delle coperte rimaste a terra colsero Lily di sorpresa quando sentì Ungheria sedersi sul bordo del letto.  
Liechtenstein sussultò, irrigidì la schiena e si strinse ancora di più le braccia attorno alle ginocchia. Sentì Elizaveta sospirare alle sue spalle, poi il tocco caldo e materno della sua mano accarezzarle la schiena « Va tutto bene, piccola » le aveva sussurrato dolcemente.
Lily alzò il viso, voltandosi appena verso Ungheria. Gli occhi arrossati dal troppo pianto, ridotti questa volta ad una fessura, restarono abbassati sul pavimento affianco al letto. 
« Stai tranquilla, sono qui » Elizaveta si sporse in avanti, nel tentativo di incontrare lo sguardo della più piccola. Con la mano libera accarezzo delicatamente la guancia bagnata di Lily, facendo scivolare le dita sotto il suo mento. Con una lieve pressione le fece alzare il volto e finalmente i loro occhi si incrociarono. Elizaveta sforzò uno dei suoi sorrisi rassicuranti, mentre con il pollice asciugò via l'ennesima lacrima che solcava il viso rosso di Lily. 
« Ti aiuto a lavarti, ti va? »
Lily annuì ed Elizaveta si alzò dal letto, invitando la più piccola a seguirla porgendole la mano. Liechtenstein si aggrappò ad essa, slacciando definitivamente la presa attorno alle ginocchia ma quando fu in piedi, lo sguardo di Ungheria cadde inevitabilmente sulla vestaglia bianca intrisa di sangue. Lily ne strinse i lembi con la mano libera e abbassò lo sguardo bruciante di vergogna al pavimento. Elizaveta si limitò a cingerle le spalle con un braccio, continuando a sostenerla con la mano che stringeva quella tremante di Lily. 
« Vieni, che ho tante cose da spiegarti »
Insieme uscirono da quella stanza che si stava facendo sempre più piccola e soffocante, lasciandosi alle spalle le lenzuola ancora gettate sul pavimento. 

 
***

Il gattino nero sfrecciò fra l'erba alta, lasciando un piccolo solco al suo passaggio. I soffioni, mossi da un flebile movimento d'aria, sprigionarono ciuffi di peli bianchi che si dispersero nella fredda aria mattutina. La sua corsa si arrestò ai piedi di un albero, ne scrutò per un momento la folta chioma alzando leggermente la testolina, poi con un balzo saltò sul primo ramo. Restò accovacciato su di esso, arricciando la lunga coda attorno alle zampette posteriori, sicuro dell'alto del suo rifugio, poi tese le orecchie:  il  rumore di passi più pesanti e affannati, di rameti spezzati sotto il peso di scarpette laccate, si fece sempre più vicino.
«Oh aspetta, ti prego!» ma il gattino incurante saltò su un ramo più alto, rivolgendo uno sguardo furtivo al prato sottostante.  Ai piedi dell'albero, giunse finalmente il suo inseguitore, che stremato dalla corsa  si prese un attimo per riprendere fiato, poggiando la schiena contro il tronco ruvido.
Il gattino restò in allerta, con la zampina ancora sollevata a mezz'aria, ma i suoi occhietti vispi e  giallastri erano fissi sul suo predatore.
Il ragazzino boccheggiò, poggiando i palmi aperti sulle ginocchia leggermente flesse, poi spinse il capo all'indietro mostrando gli occhi color nocciola al felino indispettito. 
Feliciano sorrise e si lasciò cadere a terra, facendo scorrere la schiena lungo la corteccia del tronco. La sua camicetta - diventata da bianca a beige nell'arco di poche ore - si impigliò strappandosi poco sotto le spalle. Non se ne curò.
Il gattino piegò la testolina di lato, interdetto dalle intenzioni del suo inseguitore. Lo vide sfilarsi le scarpette, scoprendo i calzini ancora bianchi e immacolati, poi lo vide alzarsi in piedi e saltellare sorpreso di come fosse morbido il terreno. Sembrò essersi quasi dimenticato di lui, ma appena il gattino fece per posare la zampetta sul tronco per mettersi più comodo, Feliciano cominciò ad arrampicarsi sull'albero. 
« MEOW » il gattino agitò la coda e gonfiò il pelo irritato dall'insistenza del ragazzino, ormai non ne poteva più, ma Feliciano sembrava non capire. 
« Voglio solo giocare un po' »  aveva detto aggrappandosi al ramo dove precedentemente si era accucciato il gattino. Fece pressione sulle braccia e si sollevò su di esso, riuscendo a mettersi a cavalcioni. Il ramo si inclinò leggermente sotto il suo peso e  l'italiano capì che doveva spostarsi il prima possibile su un qualcosa di più stabile. Diede uno sguardo veloce ai rami più alti e ne adocchiò uno molto più robusto poco sopra di lui. Sotto lo sguardo sospettoso del gattino, Feliciano tornò ad arrampicarsi sull'albero. I suoi movimenti erano silenziosi, lenti ma calcolati. Poggiava i piedi nei punti giusti, senza rischiare di cadere. Superò il ramo del gattino e solo lì si concesse un attimo di distrazione.  Lanciò uno sguardo triste al felino, avrebbe voluto giocare con lui ma non poteva fermarsi alla sua altezza, il ramo avrebbe sicuramente ceduto sotto il suo peso, così continuò la sua scalata e raggiunse finalmente il ramo più stabile . Appena riuscì a sistemarsi, si mise nuovamente a cavalcioni sul ramo, poggiando la schiena al tronco e, tutto contento, cominciò a far ciondolare la gambe avanti e indietro fischiettando un allegro motivetto che gli aveva insegnato Romano.
Dall'alto di quell'albero, si perse a scrutare gli immensi prati della campagna francese, immaginando i colori che avrebbe utilizzato per disegnarla una volta rientrato nelle sue stanze.
Aveva sicuramente bisogno del verde, che regnava sovrano in quel paesaggio incontaminato,  poi avrebbe mischiato il bianco con una punta di nero, per poter rievocare il grigio cielo invernale; "mi occorrerà anche del lilla" si appuntò mentalmente, la punta di diamante delle campagne francesi - che finora aveva visitato - era senz'ombra di dubbio la lavanda e i suoi immensi campi. 
Feliciano sospirò. Ricordò di non avere nulla per poter creare quel colore, avrebbe dunque chiesto al Fratellone Francia di poterglieli procurare.
Sorrise e batté le mani davanti al viso, che fortuna aveva adesso ch'era il francese a prendersi cura di lui.
Francis si mostrava sempre gentile e ben disposto nei suoi confronti, a patto che Feliciano si comportasse bene e rispettasse tutte le regole da lui imposte.
Proprio come il Signor Austria, anche Francia era un cultore delle buone maniere, ci teneva che Italia fosse presentabile ed educato sia in sua presenza, ma soprattutto a quella d'altri.
Ecco perché tutte le volte che rientrava in casa con i vestiti sporchi e le ginocchia sbucciate, i tratti dolci di Francis si indurivano e la sua voce melodiosa diventava improvvisamente ferma e imperativa.
Feliciano trasalì, un brivido freddo percosse la sua schiena, ricordandogli di aver strappato la camicetta giusto qualche instate prima.
Chissà secondo quale assurdo ragionamento, allora, pensò che potesse essere un'ottimo rimedio per sfuggire al rimprovero, quello di sfilarsela e far finta di non averla mai messa.
Eppure le punizioni di Francia non erano  neanche lontanamente dure come quelle del Signor Austria anzi!, Francis non riusciva ad essere arrabbiato con Feliciano più della durata del rimprovero stesso, difatti subito dopo seguiva una passeggiata al lago o una gustosa merenda a base di cioccolata calda e macarons. 
Certo era che non gli avrebbe concesso i colori, nonostante Francis amasse vederlo disegnare. Una punizione doveva restare tale e Francia su questo era inflessibile.
Il gattino sfrecciò sotto gli occhi di Feliciano, destandolo improvvisamente dai suoi pensieri. Con aria di sfida, il felino si posizionò all'estremità opposta del ramo, invitando il giovane Italia ad afferrarlo - se solo ci fosse riuscito, ovviamente.
Un barlume d'eccitazione illumino le iridi color nocciola dell'Italiano, che non ci pensò due volte fiondarsi verso di lui, dimenticando completamente il flusso di pensieri che poco prima lo aveva attanagliato. 
Questa volta, però, il gattino non riuscì a sfuggirgli: Feliciano aveva un'arma segreta, e non ci penso due volte a sfoderarla. Appena fu abbastanza vicino al gattino, lo avvolse con la sua camicetta impedendogli di scappare « Eheh, preso!» aveva esultato contento, ma la sua vittoria durò poco.
Successivamente, in una piccola  frazione di un secondo, il ramo cominciò a scricchiolare sotto il loro peso - Feliciano non aveva minimamente calcolato che muovendosi in quel modo, avrebbe rischiato di cadere rovinosamente a terra - e quando se ne accorse "Oh no!" fu troppo tardi. 
«Wahh!»
Il ramo scricchiolò, facendo inclinare la sua estremità verso il basso che - sotto il peso di Feliciano - cedette facendolo precipitare al suolo.
Durante la caduta, il gattino riuscì a liberarsi dalla morsa dell'italiano, riuscendo ad atterrare prontamente su tutte e quattro zampe. Stessa cosa si poteva dire per Feliciano.
Il giovane Italia cadde di pancia, sbattendo il mento su  un sasso nascosto dall'erba. Sentì il sangue colare dalla ferita appena aperta e le ginocchia bruciare, lì dove già vi era una crosta "avrò strappato anche i pantaloni?" si chiese.
Il miagolio del gattino, che vittorioso lo fissava a pochi centimetri dal naso di Feliciano, costrinse l'italiano a guardare davanti a sé.
Il felino arricciò il musino, sembrava quasi ridesse della sua caduta, e Italia si senti triste ed umiliato. Due grossi lacrimoni scintillarono tra le ciglia, e non sapeva se fosse per il dolore causato dalla caduta o per il gattino che non aveva intenzione di giocare con lui. In cuor suo sapeva che il motivo del suo pianto era ben distante da ciò che era appena successo, e più la consapevolezza si faceva sentire,  più le lacrime non esitavano a diminuire. 
Dietro quel pianto disperato e quell'improvvisa tristezza c'era Romano e il suo volto che a mala pena ricordava, c'era Sacro Romano Impero e tutte le promesse che aveva infranto, c'era Francia che ancora non era rientrato dal fronte, c'era la musica di Austria e c'era la risata di Ungheria.
 La vista si appannò, i singhiozzi diventarono più forti e costanti. Sarebbe rimasto lì finché non avrebbe buttato fuori  tutto quel dolore latente, finché qualcuno non sarebbe venuto in suo soccorso a medicare tutte le sue ferite.
« Italia! »
Qualcosa di caldo e morbido coprì il busto nudo e infreddolito del giovane Italia. 
Feliciano si immobilizzò. Sbatacchiò le palpebre incredulo, cercando di  mettere di nuovo a fuoco la vista. Strisciò le ginocchia contro il pavimento, poi puntellò le braccia sul terriccio ammorbidito dalla pioggia della notte precedente, fece pressione per issarsi e si mise  a sedere.
Appena la vista si fece più nitida vide prima il gattino,  il quale - spaventato da un altro possibile attacco di Feliciano - sgattaiolò via, facendosi largo tra  due paia di stivali in cuoio.
Feliciano alzò lo sguardo, stringendosi nella giacca azzurra che adesso gli copriva le spalle. Odorava di lavanda e povere da sparo.
«F-Francia?».
Francis si chinò all'altezza del ragazzino, visibilmente preoccupato per le sue condizioni. Gli tasto il viso chiedendogli se stesse bene e Feliciano ebbe appena il tempo di annuire. Lo aiutò poi ad alzarsi cingendogli la vita e passandosi un braccio attorno al collo per sostenerlo e aiutarlo a rimettersi in piedi.
«Sacrebleu, guarda come ti sei conciato!»  aveva esclamato inorridito quando, guardandolo meglio, aveva notato la ferita sotto al mento era messa peggio di quanto immaginasse.
Feliciano, però, sentendosi protetto dalla sua presenza, non badò più al dolore che sentiva. Gli si avvinghiò, stingendo la vita del francese e tuffando il viso nel suo petto.
«Che bello!» aveva detto, mostrandogli il viso «Che bello che sei qui».
Francis esitò prima di ricambiare. Gli accarezzò delicatamente i capelli, poi la sua mano scese sul viso. Evitò di guardarlo negli occhi.
Con la mano libera gli accarezzò la schiena, rassicurando - qualunque cosa gli fosse successa in sua assenza - perché ormai era tornato ed era tutto finito.
 « Andiamo a casa, Italie ».

 
***
 
Elizaveta sollevò l'ultimo secchio d'acqua e lo versò all'interno della tinozza ormai mezza piena. Posò il secchio vuoto su una pila di altri secchi in legno identici, poi a passo svelto si diresse dall'altro lato della stanza. Si inginocchiò a terra, ed aprì una vecchia panca in legno dalla quale cacciò un grosso telo di seta, una spazzola e una scatola in ceramica contenente saponette di ogni forma e colore.
Lily la seguì con lo sguardo, massaggiandosi le braccia infreddolite. Elizaveta si muoveva velocemente, con gli occhi persi e la mente altrove. Ogni tanto rivolgeva un sorriso rassicurante alla piccola Liechtenstein, che ricambiava esitante.
Non era la prima volta che Ungheria la aiutava a lavarsi. Si offriva sempre di insaponarle la schiena e spazzolarle i capelli, era un rituale a cui Ungheria teneva tanto. Mentre lo faceva, era solita raccontare qualche leggenda ungherese o qualche aneddoto divertente sul Signor Austria o sul Signor Prussia, ma questa volta sapeva benissimo che non sarebbe andata così.
Cominciò a spogliarsi, liberandosi  lentamente degli indumenti sporchi.  Aveva molta paura di scoprire cosa ci fosse sotto di essi, nonostante Elizaveta le avesse spiegato - durante il tragitto verso la sala da bagno - che quello che le era appena accaduto era uno dei fenomeni più naturali al mondo.

"Se solo sapessi come l'ho presa io, quando mi è successo la prima volta" aveva detto abbozzando un sorriso, probabilmente avrebbe addirittura riso in un'altra occasione "corsi da Prussia a chiedere aiuto, la persona più sbagliata, non credi? Lui che poteva saperne. Io ero convinta di morire e lui era convito che fosse contagioso" e Lily si era subito chiesta perché la Signorina Ungheria fosse andata da un uomo, trattandosi di un evento tanto delicato e personale. Ad immaginare la scena si sentì fortunata: lei almeno aveva avuto modo di confrontarsi con una donna piuttosto che con il Signor Austria. Solo a pensarlo era improvvisamente avvampata, ma Ungheria sembrò non essersene accorta, tant'era immersa nei ricordi. 
"Ma ti risparmio il resto, perderei sicuramente di credibilità ai tuoi occhi" aveva concluso accennando una piccola risata. Una di quelle che Lily sperava tanto di poter sentire in quel momento.

« Vuoi che ti aiuti a svestirti? »
La voce di Elizaveta destò Lily dai suoi pensieri. Sbatacchiò le palpebre e abbasso lo sguardo sulle sue vesti. Aveva sfilato le spalline della vestaglia e l'aveva fatta scivolare fin sotto l'ombelico, ma non era andata oltre. Rivolse una piccola occhiata ad Ungheria, una silenziosa richiesta d'aiuto, che la più grande accolse subito.
Insieme si liberarono degli indumenti sporchi, Elizaveta si premurò di toglierli subito dalla vista di Lily evitando di impressionarla ulteriormente, poi l'aiutò a sciogliere i capelli e ad entrare nella tinozza. L'acqua tiepida accolse la piccola Liechtenstein, dando finalmente un po' di sollievo ai muscoli irrigiditi dalla tensione e la paura. Anche i crampi e le fitte che le avevano trafitto il basso ventre sembravano averle dato una tregua, così chiuse per un attimo gli occhi lasciandosi cullare da quella piacevole sensazione di quiete. 
Elizaveta, aiutandosi con una brocca, le bagnò le spalle ancora asciutte, poi con una leggerà pressione sotto il mento invitò Lily ad inclinare il capo all'indietro in modo da poterle bagnare i capelli. 
Fu in quel momento che Liechtenstein riaprì gli occhi, incontrando lo sguardo assorto di Ungheria.
« Mi dispiace per prima, ho fatto tanto baccano per una sciocchezza simile. »
« Piccola Liechtenstein, » Elizaveta le accarezzò il volto e sorrise « sei cresciuta circondata da uomini, non potevi saperlo ».
Le mani di Ungheria tornarono a dedicarsi ai lunghi capelli biondi di Lily. Affondò le dita tra la folta chioma, permettendo all'acqua di scivolare meglio tra le ciocche, mentre con l'altra mano finì di svuotare la brocca. 
« Eri un tenero bocciolo e adesso sei finalmente sbocciata. »
Lily raddrizzò in capo e vide la sua immagine riflessa nello specchio posto di fronte alla tinozza. Alle sue spalle Elizaveta posava la brocca e prendeva la spazzola.
Guardandosi, aveva notato che effettivamente qualcosa in lei era cambiato negli ultimi mesi. Forse il  volto più sfinato, i lineamenti che per quanto delicati fossero, erano diventati leggermente più decisi - più adulti; e poi la peluria chiara che aveva cominciato a crescerle sulle braccia e sulle gambe, per non parlare del seno che sembrava essere diventato più gonfio e sodo. Nel constatarlo sentì di nuovo le guance andare a fuoco. Istintivamete si coprì, rannicchiandosi come aveva fatto poco prima sul letto. Neanche la prima volta che Elizaveta l'aveva aiutata a lavarsi si era sentita così tanto a disagio.
Alzò lo sguardo di nuovo sul riflesso di Elizaveta, come a volersi assicurare di non essere osservata, ma inaspettatamente si trovò ad incrociare nuovamente i suoi occhi che questa volta le sorridevano dallo specchio « Sei diventata un bellissimo fiore » le aveva detto. 
Lily si morse un labbro distogliendo lo sguardo, Elizaveta cominciò a spazzolarle i capelli « Danke, Signorina Ungheria » mormorò ancora rossa in volto.
« Sono pochissime le nazioni rappresentate da donne, tu al momento sei una delle più piccole » 
La spazzola accarezzava i capelli di Liechtenstein dolcemente, come una carezza materna. Ad ogni nodo contro cui le setole si scontravano, Elizaveta applicava qualche goccia d'olio, in modo da non farle male. 
« Per noi il fiume rosso comincia a scorrere quando ci viene riconosciuta la nostra sovranità. » 
Lily sussultò, interrompendo la magia e la dolcezza di quel momento. Si voltò di scatto verso Ungheria e le rivolse un'occhiata interrogativa.
Elizaveta cercò di evitare lo sguardo della più piccola, dandole le spalle. Prese la scatola con le saponette e cominciò a rovistare al suo interno, facendo più rumore del dovuto, come a voler coprire qualsiasi altro suono, rumore o magari domanda che in effetti non tardò ad arrivare.
« La nostra sovranità? »  la voce sorpresa di Lily arrivò inevitabilmente alle orecchie di Ungheria « Ma io sono uno Stato Vassallo, Sacro Romano Impero è il mio-» 
La scatola scivolò dalle mani di Ungheria, facendo rovesciare tutte le saponette per terra. Alcune di esse si frantumarono all'impatto, spargendo pezzetti di cera color pastello per tutta la sala da bagno. 
Elizaveta esalò un sospiro esasperato "accidenti, che stupida sono stata" aveva mormorato con voce tremante, tra il riso e il pianto, mentre si accingeva a raccogliere i cocci di ceramica e ciò che restava delle saponette. 
« Signorina Ungheria...? »  
Nel tentativo di ripulire il più velocemente possibile, si Ungheria si tagliò  con i cocchi "Ahi!" facendoli cadere nuovamente a terra. Si passò le mani sul grembiule bianco, macchiandolo di sangue e tentò questa volta recuperare almeno le saponette.
« Signorina Ungheria! »  
Non era mai successo, da che ne avesse memoria, che Lily alzasse il tono di voce in quel modo. Ungheria si bloccò, abbandonando l'idea di ripulire, e si sentì stupida. Non aveva senso nascondere a Lily il reale significato di ciò che era appena accaduto.
Si alzò da terra e si voltò, mostrando finalmente il suo volto pallido a Liechtenstein.
Dal canto suo, la più piccola, si era immediatamente pentita di essersi permessa di rivolta in quel modo ad Elizaveta, ma la voglia di sapere la stava divorando. Così senza indugiare molto, prese coraggio e la guardò negli occhi. 
« Cosa è successo a Sacro Romano Impero? »
Elizaveta le si avvicinò, si accovacciò affianco alla tinozza e prese tra le sue mani quelle di Liechtenstein. Ne accarezzò i palmi con i pollici, come a volerle dare forza, ma la speranza era di riuscire a trovare le parole più adatte. 
« Liechtenstein, tu sei uno Stato Sovrano » 
Lily sgranò gli occhi incredula, possibile che Sacro Romano Impero avesse deciso di renderla indipendente? 
Abbozzò un sorriso incerto, ancora non capiva realmente cosa stesse succedendo, e questo rese le cose ancora più difficili ad Ungheria.
« Sacro Romano Impero non esiste più, Lily. » 
Elizaveta vide morire quel sorriso appena accennato sulle labbra di Liechtenstein in una frazione di secondo. Lily sfilò le mani dalla presa di Ungheria, gli occhi assenti si persero in un vortice di ricordi che adesso sembravano sempre più lontani. Quanto tempo era passato dall'ultima volta che si erano visti? Dall'ultima volta che aveva aiutato Sacro Romano Impero ad indossare l'armatura o dall'ultima volta che aveva raccolto dei fiori per abbellire le sue stanze? 
Pianse, e con lei pianse finalmente anche Ungheria che senza preoccuparsi di bagnarsi l'aveva abbracciata. Restarono così finché l'acqua nella tinozza non divenne fredda, finché un pesante bussare alla porta non interruppe almeno il pianto di Ungheria.
La voce dietro la porta non attese risposte “Il Signor Austria è tornato" annunciò, dopodiché i suoi passi si allontanarono lasciando che il silenzio fosse interrotto solo dai singhiozzi di Liechtenstein.

***

« Etciù! » 
Feliciano tirò su col naso, ne strofinò la punta con il polso per asciugarsi il moccio, poi tossì.
Le guance brucianti di febbre, arrossirono ancora di più dinanzi al fuoco che scoppiettava nel camino. Gli occhi lucidi, rapiti fiamme danzanti, erano persi in pensieri confusi e contorti.
Poco prima, in prenda ai deliri della febbre, aveva spalancato la finestra della sua stanza credendo di aver sentito qualcuno chiamarlo da fuori. A Francia aveva detto di aver sentito - e visto, addirittura - Sacro Romano Impero, poi era scoppiato a piangere, perché ciò che gli aveva detto lo aveva spaventato. 
"Era diverso, Francia" aveva detto singhiozzando "aveva gli occhi di un colore così freddo".
Francis lo aveva rassicurato, aveva chiuso la finestra e lo aveva accompagnato nella la sala da pranzo. Di fronte ad un bicchiere di latte caldo e una fetta di torta al cioccolato, gli aveva spiegato che ciò che aveva visto e sentito non esisteva, che aveva immaginato tutto e ch'era sicuramente la febbre a giocargli qualche brutto scherzo. Feliciano se ne convinse, ma il pensiero continuava a tormentarlo.
Per questo adesso se ne stava nell'ufficio di Francia, seduto davanti al camino. Francis gli aveva concesso di fargli compagnia, mentre si portava avanti con la burocrazia. 
Italia rabbrividì, si strinse meglio nella coperta e spostò lo sguardo sul francese. Da quando era tornato, non avevano ancora avuto modo di parlare. Tra il rimprovero ricevuto per aver rischiato di rompersi la noce del collo e il picco di febbre improvviso che lo aveva colpito, erano arrivati alla sera senza aver avuto modo di comunicare. Francia, poi, sembrava quasi voler evitare il discorso "fronte" e questa cosa preoccupava molto Italia.
«Temevo ti saresti arrabbiato » esordì Feliciano, attirando l'attenzione del francese. Francis accennò un sorriso, lanciò una rapida occhiata a quel fagotto di coperte che era diventato Feliciano, poi tornò di nuovo sui suoi documenti.
« Quindi hai ben pensato di spogliarti e prenderti un malanno » disse sarcastico. La mano che reggeva la penna, scorreva veloce sui fogli.
Feliciano si morse un labbro  « Lì su è bellissimo - pigolò in cerca di una spiegazione - si vedono cose che non riusciresti a vedere stando a terra ».
Francia immerse la penna nel calamo, alcune gocce di inchiostro macchiarono il legno della scrivania. Non ci badò molto.
« Tant'è che non mi hai visto arrivare, a quanto pare » . 
Feliciano gonfiò le guance, effettivamente non aveva proprio fatto caso al francese, ma era stata una fortuna che si trovasse nelle vicinanze proprio in quel momento. Che fosse rientrato, proprio in quel momento.
Francis abbandonò la penna nel calamo, piegò il foglio in quattro rettangoli uguali e lo infilò in una busta. Prese poi un pezzetto di ceralacca rossa, la riscaldò aiutandosi con un cucchiaino sotto la fiamma di una candela e - appena fu sciolta - la fece colare sulla busta, chiudendola con il sigillo del Regno di Francia.
Attese qualche istante che la cera si asciugasse, poi riprese la penna e girò la busta scrivendo qualcosa sul retro. 
Feliciano, incuriosito, si alzò dal divanetto lasciandosi cadere le coperte alle spalle, iniziava a fargli fargli caldo.
Le ossa scricchiolavano ad ogni passo e i muscoli intorpiditi  dalla febbre tirarono, al punto da fargli venire un crampo al polpaccio "Ahi!".
Francia alzò il viso, vide Feliciano saltellare con la  "gamba buona" verso il suo scrittoio e aggrapparsi ai bordi una volta arrivato. 
Lo sguardo dell'italiano cadde sulla busta appena laccata. Strizzò gli occhi nel tentativo di interpretare la calligrafia di Francia e appena lesse  con voce incerta "Königreich Preußen" impallidì.
Leggendo quel nome gli parve di udire il cinguettio gracchiante di Gilbird, che annunciava l'arrivo dell'ennesima lettera da parte di Prussia per il Signor Austria. 
Era Feliciano ad occuparsi dello smistamento delle lettere ed ogni volta che tra le sue mani ne capitava una di Prussia, sapeva già che a distanza di pochi giorni Gilbert avrebbe fatto irruzione nella dimora di Roderich.
Italia non aveva mai avuto a che fare direttamente con Prussia, ma solo l'idea di averlo nella stanza affianco lo intimoriva, era spaventato dai suoi capelli argentati e da quegli occhi cremisi. Vaticano gli aveva detto che quelle erano le caratteristiche tipiche dei figli del demonio, e ricordando la risata sguaiata di Prussia, Italia non poteva che dargli ragione. 
Quando aveva confidato alla Signorina Ungheria i suoi sospetti sulla natura di Prussia, lei aveva riso - e di gusto! - poi aveva rassicurato Italia dicendogli che Gilbert  - a sua detta - era solo un povero idiota. 
Francis rivolse un'occhiata interrogativa ad Italia « C’è qualcosa che vuoi chiedermi, Italie? »domandò. 
Feliciano scrollò il capo cercando di togliersi dalla mente l'eco della risata di Prussia, poi torno in sé. Era finalmente arrivata la sua occasione.
Guardò Francia e aprì la bocca, ma da essa non usci neanche un filo di voce.
Francia inclinò il capo, i ciuffi biondi che gli coprivano il viso si spostarono, mostrando uno squarcio sulla guancia. Italia lo aveva già notato prima, ma adesso, guardandolo da vicino restò impressionato.
« Cosa c’è? »
Feliciano allungò una mano verso il volto di Francia, sfiorò con le dita la sua ferita, ma appena lo vide strizzare gli occhi per il dolore ritrasse subito la mano.
« Quelle ferite  » mormorò in un soffio. Francia ne aveva un'altra anche sotto il collo e una - che aveva visto mentre lo aveva aiutato a vestirsi - sulla schiena.
« Oui? »
Feliciano indugiò, adesso era lui ad aver paura di affrontare l'argomento. Inspirò e cercò di farsi forza.
« È stato Sacro Romano Impero a fartele? »
« No. »
« O-oh! »
Feliciano chinò il capo, neanche lui sapeva cosa voleva sentirsi dire realmente. La testa cominciò a girare, le tempie pulsarono. Pronunciare quel nome gli faceva sempre uno strano effetto. Oppure era la febbre? 
Sentì Francia alzarsi dalla poltrona e avvicinarsi alla finestra, Feliciano lo seguì con lo sguardo.
Fuori era calata la notte, l'oscurità aveva inghiottito i colori delle campagne francesi che tanto avrebbe voluto disegnare.
« Sai in guerra  - nella maggior parte dei casi - non tutto va secondo i nostri piani ».
La voce di Francia era calma. Le mani incrociate dietro la schiena, la schiena dritta, gli occhi azzurri fissi su un punto indefinito fuori la finesta.
Feliciano fotografò quell'immagine nella mente, certo che di lì a poco qualcosa sarebbe cambiato, al punto da stravolgere tutto. 
Guardò anche lui fuori la finestra, restando fermo accanto allo scrittoio, cercando di scorgere ciò che vedeva Francia. Non vide nulla. 
« La guerra, Italie, può essere mortale anche per noi. »
Italia sussultò. Pensò subito al Nonno e al loro ultimo saluto, ma il ricordo fu offuscato da un addio più recente. 
Nella sua mente, l'immagine di un bambino dai capelli dorati sostituì quella di Nonno Roma. Il mantello nero mosso dal vento, le guance arrossate e gli occhi azzurri che accennavano un sorriso.
« Devi perdonarmi, Italie. »
 Francia mosse un passo verso Italia, gli prese una mano e lo tirò verso sé abbracciandolo. Ancora una volta non aveva il coraggio di guardarlo negli occhi.
« Sacro Romano Impero non c’è più, è scomparso. »
L'immagine di Sacro Romano Impero si sgretolò in un mucchietto di cenere nera, una folata di vento la sparse ovunque oscurando la vista di Italia. 
Feliciano spalancò gli occhi e la bocca premuta contro la spalla di Francis. Soffocò un gemito contro la sua camicia, si sentì soffocare nell'abbraccio del francese.
Ansimò, le ginocchia cedettero, ma le braccia di Francis lo sostennero.
« Dimenticalo. Hai già sofferto abbastanza. »

 

"La mano che ti ha salvata, Italia, è la stessa mano che mi ha ucciso."
 
   
 
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