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Autore: wolfymozart    02/02/2021    1 recensioni
La rivoluzione incombe su Parigi, restituendo dignità agli oppressi e presentando un conto amaro agli oppressori. Ma nei suoi giudizi perentori e tranchant, di condanna e assoluzione, non tiene conto delle sfumature, mai nette, tra innocenti e colpevoli, non tiene conto di sentimenti, paure, speranze di quanti, pur nella schiera degli oppressori, sono stati anch'essi vittime del sistema.
Un rivoluzionario integerrimo ma tormentato, una nobildonna infelice ma determinata, un amore impossibile, una condanna eterna.
Genere: Drammatico, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Rivoluzione francese/Terrore
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 In rue de Saint-Honoré l’aria era tesa quella sera, capannelli di persone assiepate sui banchi posti ad anfiteatro nella biblioteca del convento discutevano animatamente. “Vandea”, “dannato La Rochejaquelein”, “calmiere”, “insurrezione” erano le parole ricorrenti che si udivano ripetere a gran voce dai giacobini in attesa dell’inizio della seduta. La situazione era fortemente instabile, la rivolta non accennava a placarsi e il giorno precedente la roccaforte di Fontenay era caduta nelle mani dei vandeani. In Corsica Paoli minacciava di prendere le armi, le potenze europee si apprestavano ad attraversare i confini per muovere guerra alla Francia rivoluzionaria. Ma anche nello stesso cuore della Repubblica, Parigi, non c’era pace: il popolo invocava misure più decise, un calmiere sui prezzi, ed era stato placato solo in parte dall’istituzione di un prestito forzoso a carico dei cittadini più ricchi: l’arresto di Hébert e di altri Arrabbiati non aveva certo contribuito a gettare acqua sul fuoco della rivolta. La Convenzione tentava di resistere, di non scendere a compromessi con le istanze più accese e fuorvianti, ma questa situazione non era a lungo tollerabile. I Giacobini erano divisi tra loro, la maggioranza seguiva la linea dura di Robespierre, ma altri erano più concilianti nei confronti dei Girondini e auspicavano un accordo.
Tutt’un tratto il vociare si trasformò in un tenue brusio che poco dopo cessò del tutto. Nella luce fioca che illuminava la galleria, un uomo si avvicinò con passo deciso alla tribuna degli oratori. Il silenzio si fece pieno di rispetto quando venne riconosciuto l’avvocato di Arras, il cittadino Maximilien Robespierre.
L’appello alla rivolta contro la Convenzione scosse gli animi dell’assemblea: numerosi i deputati giacobini che si dicevano pronti a scagliarsi contro i loro colleghi della palude; gli uomini si infervoravano, si accapigliavano tra loro, lanciavano grida di giubilo all’indirizzo degli oratori che si avvicendavano in tribuna. L’energico medico Marat, acceso Montagnardo, aveva ripreso e rilanciato le invettive del collega contro i Girodini per convincere ancor più la platea: l’insurrezione, diceva, era necessaria e doveva essere tempestiva, altrimenti la palude avrebbe avuto la meglio, il rischio di un ritorno dei realisti non doveva poi essere così remoto, visto quel che tramavano Cathelineu e Bonchamps e i loro sostenitori d’Oltremanica.
-Ehi, Clermont, che ne pensi, deputato? – gli si rivolse tutt’un tratto l’amico che gli sedeva a fianco, David Bonnet, acceso in viso dalla foga che avevano scatenato i discorsi dei membri di spicco del Club. – Jacques, mi hai sentito? – ripeté qualche istante dopo non avendo ricevuto risposta. Clermont se ne stava con lo sguardo perso nel vuoto davanti a sé, il viso tra le mani, i gomiti appoggiati sulle ginocchia.
- Perdonami, David. Ero soprappensiero. – si scusò l’amico, impartendo una fraterna pacca sulla spalla di Bonnet, accennando un sorriso. Bonnet era l’amico più caro, quello che l’aveva sempre sostenuto, l’aveva ospitato in casa sua, ne aveva appoggiato la candidatura, ne conosceva i segreti e i pensieri più di chiunque altro. Eppure, al rubicondo e discreto amico qualcosa sfuggiva quella sera. Aveva compreso che qualche fosco pensiero occupava la mente di Clermont, ma non si spiegava quale. Temeva fosse coinvolto in qualche manovra politica, in qualche intrigo rischioso. Per questo aggrottò le folte sopracciglia e gli domandò a bruciapelo: - Non ti credo, Jacques. Dimmi la verità, sei implicato in qualche manovra con i Girondini?-
Clermont scosse la testa con un sorriso comprensivo. – Niente di tutto ciò, amico mio. Non tradirei mai la montagna per la palude. – ribatté con un guizzo fiero negli occhi scuri.
-Non ho mai dubitato della tua lealtà, amico mio. Ma il momento è convulso, non so più che pensare. La Convezione non prende una posizione a favore del popolo, sembra divenuta sorda e cieca. Che sta succedendo là dentro? -
- Oh, Bonnet, mi domandi qualcosa a cui non oso rispondere. Di certo la Convenzione si è molto indebolita dal mese scorso in avanti, ma rappresenta pur sempre il popolo francese, è un dilemma molto serio scegliere tra rispettare il mio dovere di deputato e il giuramento che ho fatto al popolo. Vorrei dirti che si giungerà ad un compromesso nel nome della Repubblica, ma prevedo scenari foschi: la Gironda non arretra di un centimetro e tiene in scacco la Convenzione.-
- Dio, Jacques, non abbiamo creato la Repubblica per restare ostaggio di questi servi della nobiltà.- esclamò risentito Bonnet, picchiando energicamente la mano sul ginocchio in un gesto di stizza.
- No di certo. Per questo dobbiamo batterci, per far sì che l’uguaglianza non resti soltanto una vuota parola. Ma sconvolgere la Convenzione, spargere del sangue…no, non credo sia la scelta più giusta. – ribatté Clermont scuotendo la testa e chiudendosi nuovamente in un mutismo pensieroso.
Gli ultimi oratori si avvicendarono sulla tribuna ribadendo in toni accesi le parole dei due illustri giacobini che li avevano preceduti senza aggiungere alcunché di interessante. Trita retorica alle orecchie di Clermont che, perso nei suoi pensieri, non ne ascoltò che qualche frase. Una volta in strada Bonnet, che per tutto il tempo era stato teso in avanti con un’attenzione spasmodica a quanto andavano professando dalla tribuna, al termine della seduta non stava nella pelle, si infervorava al pensiero degli sviluppi prossimi della situazione e voleva a tutti i costi condividere con l’amico le sue previsioni e le sue opinioni. Clermont, tuttavia, di solito interlocutore brillante e acuto, quella sera non aveva l’aria di volersi intrattenere in una dissertazione sulle ultime manovre che avevano in serbo Marat e Robespierre, pareva stranamente distratto, sfuggente, con la mente altrove. Bonnet se ne accorse ben presto e moderò il suo entusiasmo che pareva non trovare soddisfazione presso l’amico. Procedevano fianco a fianco senza parlare, mentre i loro passi risuonavano nelle strade semi deserte. Bonnet lanciava di quando in quando uno sguardo all’amico per cercare di intuire quali pensieri gli ronzassero per il capo, ma non riuscì a decifrare quell’espressione tesa e assorta che rabbuiava i bei lineamenti regolari del volto dell’amico.
- Jacques, quell’osteria è ancora aperta, che ne dici di un bel boccale di vino? – propose lungo il percorso, per invitare l’amico a sciogliere quel nodo che pareva opprimergli la gola.
La luce fioca della stanza, i canti sguaiati, l’odore di cibo e di vino che aleggiava nella stanza non rappresentavano certo l’atmosfera ideale per delle confidenze, o forse sì, pensò Bonnet, in un locale come questo certo nessuno sospetterebbe di trovare un deputato della Convenzione a quest’ora di notte. Preso posto ad un tavolaccio in legno grezzo in un angolo semibuio, lontano da orecchie indiscrete, davanti ad un boccale di buon rosso, Bonnet pose all’amico quella domanda che da tempo gli frullava per la testa:
-Che cos’hai questa sera, Jacques? C’è qualcosa di strano in te. Non vorrei che ti stessi mettendo in qualche guaio: non perdonano quelli, amico mio. Se ti dovessero sorprendere ad appoggiare gli avversari…- abbozzò subito interrotto.
- Ti ho già detto che non ho intenzione di ficcarmi nei guai. La mia opinione la conosci: non sono d’accordo con la necessità di un’insurrezione in questo momento, ma mai e poi mai scenderei a patti con i Girondini. – rispose con un tono insolitamente stizzito Clermont, sorseggiando senza tregua il vino che continuava a versarsi nel bicchiere.
- Sarà, ma qualcosa stai tramando, l’ho intuito. Di me ti puoi fidare, sai che non ti tradirei mai. Se stai preparando una manovra…- insinuò di nuovo l’amico.
- Basta, David. Non c’è nessuna manovra, nessun accordo segreto a cui sto lavorando. – tagliò corto, con un lampo di nervosismo negli occhi, che l’amico non gli aveva mai visto. Jacques Clermont era l’uomo più mite e pacato che conoscesse, affabile e cortese, arguto e brillante nella conversazione; non si spiegava quell’improvviso rabbuiarsi, quel tono secco e scontroso che non gli riconosceva. Bonnet decise di tacere e di continuare a bere silenziosamente, sollevando di tanto in tanto le sopracciglia perplesso, mentre l’amico si limitava a fissare un punto non identificato fuori dalla finestra.
- Sai chi mi ha mandato a chiamare questa mattina? – domandò a bruciapelo ad un certo punto Clermont.
L’amico scosse la testa e restò in attesa della risposta.
-La contessa Roqueville di Beaufort. La conosci? –
- Oh per Diana, la moglie del conte di Beaufort? – domandò incuriosito Bonnet, abbandonando rumorosamente sul tavolo il bicchiere che teneva in mano.  – Uno degli uomini più potenti di Parigi, un tempo, un pari di Francia, suo padre era amico personale di Luigi XV. Ed ora uno tra i più sfrontati che si ostina a rimanere in città sfidando la Repubblica!- soggiunse poi, sinceramente stupito della rivelazione avuto dall’amico.
- Mio caro Bonnet, non ti devi meravigliare di tanta audacia. Sappiamo bene quanta presunzione, quanta protervia si annidi tra gli aristocratici. Non credere che abbassino la cresta così facilmente. – ribatté Clermont.
- E così madame de Beaufort ti ha mandato a chiamare? Che diamine! Si sono umiliati a tal punto da convocare un medico plebeo? – sghignazzò quasi divertito Bonnet.
- Evidentemente gli esimi colleghi loro simili se la sono data a gambe. - constatò Clermont, senza riuscire a prendere parte al tono ridanciano dell’amico.
 - Amico mio, hai avuto un grande onore ad essere ammesso al cospetto della signora di un pari di Francia e non me lo volevi raccontare. – continuò imperterrito a ironizzare Bonnet, cogliendo il lato comico della situazione che aveva portato un medico rivoluzionario come il suo amico nel palazzo di una delle famiglie più potenti e più reazionarie della città.
- Si è fatto tardi, ora. Me ne torno a casa. Lascia però che ti offra da bere. – fece Clermont alzandosi e gettando alcune monete sul tavolo.
- Non avrei mai permesso ad un amico di offrirmi da bere dopo che l’avessi invitato io stesso; ma immagino che Beaufort ricompensi largamente e quindi per stavolta accetto, amico mio! Ma la prossima, sarai mio ospite. A proposito, mia moglie ti aspetta per pranzo uno dei prossimi giorni. –
- Non mancherò, Bonnet. – salutò frettolosamente, non vedendo l’ora di ritrovarsi da solo per strada.
 
 
 
La luce flebile della candela illuminava fiocamente la stanza, mentre il favonio scuoteva dolcemente le pesanti tende entrando dallo spiraglio della finestra. Juditte si era da poco addormentata, dopo aver diligentemente bevuto la medicina che il dottore le aveva ordinato di prendere, senza storie o lamentele. Il sudore le imperlava la fronte e le coperte le davano impaccio, per questo la madre aveva pensato di scostare la finestra per consentire all’aria fresca della sera di maggio di darle un po’ di sollievo. Solo pochi minuti, si era detta, per paura che alla bambina potesse nuocere troppa corrente. Si alzò dunque dal capezzale della figlia e si diresse alla finestra per accostare l’imposta. Gettò un rapido sguardo nella strada sottostante e scorse la carrozza del marito in attesa di fare il proprio ingresso nel cortile interno, dopo alcuni giorni di lontananza. Sospirò profondamente, non certo sollevata. Marianne Roqueville de Beaufort aveva allora trentun anni, ma se ne sentiva il doppio sulle spalle: gli obblighi di rappresentanza, l’etichetta rigida della vita sociale, l’intransigenza e il rigore del marito verso ogni più piccolo strappo alla regola, le avevano reso quei nove anni di matrimonio un lungo e penoso esame a cui numerose volte avrebbe desiderato sottrarsi. Eppure non si poteva certo dire che la sua famiglia d’origine non fosse avvezza alle consuetudini più ricercate, che la sua educazione non fosse stata rigorosa e raffinata, che lei stessa non fosse una donna naturalmente incline all’eleganza e al buon gusto. Tuttavia essere la consorte di un pari di Francia, di uno degli uomini più potenti dell’antico regime il cui padre poteva vantare una personale amicizia con il defunto re Luigi XVI, imponeva determinati doveri, un formalismo artefatto ma imprescindibile sul cui modello venivano organizzati tutti i rituali della vita quotidiana. Primo fra tutti non dar confidenza alla servitù. I domestici non avevano il diritto di essere messi a parte della vita dei padroni, delle loro confidenze, dei loro, seppur piccoli, segreti: un freddo contegno governava i rapporti tra il conte e i suoi dipendenti, i quali vivevano nell’ossequio e insieme nel timore reverenziale del padrone. Mai un alzare di voce, mai una scenata, mai un plateale rimprovero: chi si macchiava di qualche errore, piccolo o grande che fosse, veniva messo alla porta senza clamore, ma anche senza alcun appello. Un sacro terrore guizzava sui volti dei domestici all’arrivo del padrone, uomo alto, imponente, austero nei modi, dai capelli biondi e dai glaciali occhi verdi. La stessa apprensione si poteva leggere al suo cospetto negli occhi della moglie che, dopo nove anni passati accanto a lui, ancora non osava rivolgerglisi con il tu né contraddirlo in nessuna delle sue richieste. Marianne de Beaufort era una donna profondamente infelice che, dietro quell’aria mite e apparentemente distaccata, celava lacrime amare e profondi sospiri ogni volta che si fermava a riflettere sulla sua esistenza priva di ogni calore e affetto. Non ci si deve stupire dunque se, all’arrivo della carrozza del conte, il suo cuore iniziò a battere per la tensione e per l’angoscia, poiché temeva l’inappellabile giudizio del marito, i suoi freddi rimproveri per la malattia che aveva colpito la figlia. Marianne si riaccostò al letto di Juditte, sedendosi compostamente con lo sguardo fisso sulla porta, in spasmodica attesa. Per un attimo rivide davanti agli occhi la scena di quella mattina, l’ingresso del medico nella stanza di sua figlia. Quel nome le aveva provocato una dolorosa fitta al cuore, le aveva riaperto una ferita che immaginava ormai rimarginata, sopita. Un’altra fitta al cuore, seppur diversa, le provocò l’improvvisa apertura della porta. Con passo baldanzoso e fiero Guillame de Beaufort fece irruzione nella stanza della figlia, lo sguardo accigliato non sembrava tradire preoccupazione, solo un muto rimprovero.
-Buonasera, Guillame. – lo salutò la moglie con deferenza, alzandosi dalla sedia e accennando un inchino.
- Buonasera, Marianne. – rispose lui, avvicinandosi a lei per baciarle la mano. Il contatto con quelle labbra fredde la fece rabbrividire.
- Non vi aspettavo così presto. Com’è andato il viaggio nel Ponthieu? – domandò per rompere il ghiaccio di quella conversazione sospesa.
- Vostro padre vi manda i suoi saluti. – si limitò a risponderle: non amava svelare i suoi pensieri alla moglie, forse non ne aveva abbastanza fiducia per metterla a parte delle sue più intime confidenze, la teneva a debita distanza, limitandosi a pretendere da lei obbedienza e ossequio, in ogni momento.  – Tuttavia sono venuto a conoscenza del fatto che mia figlia Juditte abbia avuto bisogno delle cure di un medico. – aggiunse squadrandola dall’alto in basso con aria di rimprovero.
- Sì, è così. Non vi ho scritto perché pensavo che fosse un malanno passeggero, ma quando si è aggravata l’altra notte ho pensato che fosse necessario chiamare un medico. – si scusò lei, tradendo un lieve tremito nella voce. Poi tacque in attesa della sentenza del marito, che temeva non potesse essere assolutoria.
- Voi non dovete pensare. Non dovete agire, senza prima aver chiesto il mio parere. Tanto più quando si tratta della salute di mia figlia. –
- Di nostra figlia. – si azzardò a correggerlo. – Non crediate che non abbia a cuore la salute di Juditte più della mia stessa salute.-
- Mi riferivano che questo medico che avete mandato a chiamare non fosse il nostro medico di fiducia, il barone di Thoreau, ma uno sconosciuto, un medico dei bassifondi. –
- Il barone è fuori città, di certo non tornerà a breve… - spiegò, sottintendendo quello che era il destino di molti dei nobili, l’esilio. – Così ho mandato a chiamare un altro medico, ma non certo un medicastro dei bassifondi, non so chi ve l’abbia riferito, ma si tratta di un medico referenziato e…-
- Basta così, signora. Non voglio sentire più una parola su questa faccenda. Che il vostro medico faccia il suo dovere e guarisca al più presto mia figlia. – dopo avere messo a tacere con superbia la consorte, si chinò per imprimere un delicato bacio sulla fronte della figlia. Dopodiché, augurando una felice notte alla moglie, sfiorandole appena la mano con un algido bacio dettato dal protocollo, si ritirò nelle sue stanze, socchiudendo con gesto misurato la porta e lasciandosi dietro una corrente di aria gelida. Marianne lo guardò uscire senza accennare a fermarlo o a seguirlo; non poté fare a meno di ricordare quando poche ore prima da quella stessa porta era uscito quell’uomo che tanta parte aveva avuto nella sua vita e che lei non aveva esitato a seguire, a raggiungere in strada. L’amarezza di quel colloquio, tuttavia, non poté impedire ai suoi occhi di riempirsi di lacrime di rimpianto.
   
 
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