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Capitolo 46
La strage degli innocenti
Prima parte
- Quando l’alba si tinse di rosso -
“Carissimi
genitori la presente è per comunicarvi che sto bene come spero di voi tutti.
Domattina partirò da Fossoli la destinazione che vado non ne sono ancora a
conoscenza. Non appena arrivo a destinazione non mancherò di darvi mie notizie,
in tutti i modi non fatevi pensiero che sto molto bene, e spero sempre di
rivedervi tutti nella nostra cara casa.”
Dall’ultima
lettera di Felice Lacerra, la vittima più giovane dell’Eccidio di Cibeno.
Campo
di Fossoli, 11 luglio 1944
~
Un giorno all’Eccidio di Cibeno ~
“Sta
forse discutendo gli ordini, tenente Von Wildenberg?” Dall’altra parte del telefono,
l’insinuazione dell’SS-Hauptsturmführer riecheggiò
come un suono metallico e distante.
Nella
mano sinistra, Hermann stringeva la cornetta, mentre, con l’indice e il medio
dell’altra, allentava il colletto della camicia, bisognoso d’aria e
temporeggiando, alla ricerca di parole che non lo compromettessero.
“No,
signore”, rispose in tono riverente ma deciso, “mi domandavo soltanto quale
fosse il vero motivo, dato che l’attentato di Genova è già stato vendicato.”
La
brillantina trasudava dall’attaccatura dei capelli, facendo luccicare sulla
fronte cerea piccole gocce di sudore, una delle quali scivolò lungo la guancia
e la colpa non era da imputare unicamente al caldo che arroventava l’ufficio e
la divisa.
“Inoltre,
signore, credo che ci sia un errore, perché nella lista dei prigionieri
condannati c’è anche un minore di sedici anni”, aggiunse Hermann che, pur
udendo il suo interlocutore sbuffare in tono spazientito, temeva più la
reazione di Sarah che un provvedimento disciplinare.
“Nessun
errore, tenente. Esegua gli ordini senza farsi tante domande né scrupoli.” Poi
il capitano diede alla sua voce un’inflessione meno severa, mentre gli diceva:
“Tra i giovani ufficiali delle Schutzstaffel, lei è
uno dei migliori. Farò finta che questa conversazione non sia mai avvenuta.”
All’alba
dell’indomani, Hermann avrebbe dovuto guidare il plotone di esecuzione di
settanta internati politici e, presso il poligono di tiro di Cibeno, venti
prigionieri ebrei ne stavano scavando già la fossa.
“Danke, Hauptsturmführer.” Alle
orecchie di Sarah, la voce di Hermann parve stanca e rassegnata, come, del
resto, la sua espressione che poté scorgere attraverso la porta socchiusa
dell’ufficio. Il suo profilo era madido di sudore, mentre parlava al telefono
in piedi, vicino alla scrivania.
Ipotizzò
che avesse appena ricevuto notizie riguardanti l’avanzata nel centro-nord degli
Alleati che già, il 4 giugno, avevano liberato Roma, la capitale, la sua
patria.
Alla
bella notizia, Sarah, pur se una parte di sé desiderasse ardentemente la
sconfitta dei tedeschi nella mera speranza di ritrovare i propri cari, non era
riuscita a unirsi ai silenziosi festeggiamenti e agli abbracci commossi dei
suoi compatrioti, come lei prigionieri a Fossoli, ma aveva ricercato il
conforto tra le braccia di Hermann, conscia che, con l’avanzare delle truppe di
liberazione, si faceva sempre più vicina la possibilità di perderlo.
«Il
Großdeutsches Reich non si arrenderà mai», le aveva
detto sicuro e orgoglioso, sebbene gli occhi ne svelassero la preoccupazione,
ma non era questa la risposta che Sarah si aspettava, avendo lui intrecciato le
dita alle sue con disperata tenerezza.
“Heil Hitler.” Hermann salutò, senza neanche sforzarsi nel
consueto dinamismo, per poi riagganciare il telefono e volgere lo sguardo alla
porta, sentendovi bussare. Di Sarah aveva già scorto l’ombra di corpo sinuoso
nella divisa da cameriera, di braccia leggermente protese in avanti a reggere
il vassoio.
“Avanti.”
Al suo permesso a entrare – pronunciato in italiano, sapendo già che fosse lei
–, Sarah aprì la porta con la spalla, avendo le mani occupate dal vassoio e,
mentre ne contemplava il lento movimento trasudante fascino, per un momento,
sentì di odiarla, ritenendola colpevole della sua perplessità per gli ordini
ricevuti.
La
guardò poggiare il vassoio con il bicchiere di limonata sulla scrivania nella
silenziosa austerità imposta loro dai ruoli che ricoprivano, fin quando non
giungesse la sera per tornare a essere soltanto un uomo e una donna. Intreccio
di corpi, groviglio di emozioni.
Con
un fazzoletto, tirato fuori da una tasca interna della giacca dell’uniforme
sbottonata, Hermann si asciugò la fronte imperlata di sudore e, spostando lo
sguardo su un punto indefinito della scrivania, invano si sforzò di parlarle
con la tracotanza di chi comanda. “Domattina, all’alba, settanta internati
politici partiranno per la Germania”, le mentì con le stesse parole che, di lì
a poco, avrebbe destinato ai condannati, “e andranno in un campo di lavoro.”
Si
piegò leggermente per afferrare il pacchetto di sigarette poggiato sulla
scrivania, prima che i loro occhi potessero incrociarsi, rivelando
l’inquietudine dell’uno e lo sconforto dell’altra, poi aggiunse: “Dovrò alzarmi
presto e preferirei che non venissi da me stasera.”
A
tale richiesta, Sarah si stupì, giacché mai, né prima né dopo un trasferimento
di prigionieri, Hermann si era sottratto a trascorrere la notte con lei,
seppur, non sempre, data la stanchezza di entrambi, sfociasse nell’amplesso e,
dietro la nuvola di fumo della sigaretta, non fece in tempo a intercettare il
suo sguardo per accertarne la sincerità. Con passo greve e svelto e il consueto
saluto nazista, entrò nell’ufficio il sergente maggiore e lei, distolti di
scatto gli occhi dal suo amato e accennandogli un inchino, afferrò il vassoio e
uscì in fretta.
Una
notte di ansietà, fra insonnia e sudore, precedette l’alba che si tinse di
rosso, del sangue degli innocenti. Sotto il manto scuro del cielo notturno, uno
dei settanta condannati trovò la salvezza, altri due fuggirono verso
l’orizzonte dei campi, ma non prima di aizzare una rivolta al poligono di tiro.
Hermann sapeva che non sarebbe stato facile.
Calce
viva fu cosparsa sui sessantasette fucilati, mentre in lui, oltre la rabbia per
l’imprevista ribellione che aveva dovuto sedare e l’irrequietezza per
l’ulteriore mole di lavoro che ne sarebbe conseguita, covava il cruccio per
l’esecuzione di quell’ordine errato, ingiusto.
Portò
il pollice e l’indice sul labbro inferiore spaccato da un pugno. Anche della
mancanza di prontezza nei riflessi attribuì la colpa a Sarah e, intanto, nel
silenzio imposto ai venti prigionieri ebrei, ripose la speranza, affinché
nessuna voce arrivasse al campo a farle conoscere la verità.
Buio
si fece il mattino e, per lei, crepuscolo dell’amore, quando a Fossoli risuonò
sommessamente l’annuncio della strage di uomini innocenti.
Uscendo,
un brusio inquieto di persone riunite davanti alla baracca di fronte alla sua
la indusse a fermarsi stupita e preoccupata e vide un uomo tappare la bocca a
una donna per impedirle di urlare. Era il grido di madri, mogli, sorelle,
figlie a cui erano stati strappati figli, mariti, fratelli, padri.
Dibattendosi,
la donna fu trascinata nella baracca e non bastò la forza di un solo uomo.
“Li
hanno ammazzati tutti, ma state zitti, per carità.” La voce flebile e
tremolante passò di bocca in bocca, fino a raggiungere Sarah.
Con
lacrime silenziose, si unì al dolore della sua gente e non poté che provare
odio verso colui che ne era stato il responsabile.
“E non riesco più a sorprendermi.
E la pazzia che danza intorno a me.
E penso che dovrei difendermi,
ma è più difficile combattere,
se il pianto di una madre no,
non può salvare la notte.”
Nomadi, Dove si va