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Autore: Hoel    03/02/2021    4 recensioni
Nell’agosto del 1511, gli esploratori veneziani intercettano una lettera scritta dal governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours e indirizzata al maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, in cui l’informa di come il Re di Francia Louis XII stia inviando rinforzi per aiutare l’Imperatore Maximilian I. von Habsburg nella sua “impresa di Treviso”, ovvero la conquista dell’ultimo ostinato baluardo veneto che separa la Lega di Cambrai dalla laguna di Venezia. Da ben due anni Treviso resiste irriducibile, così come la Serenissima, ripresasi in fretta dallo shock di Agnadello, ha ben dimostrato il suo fermo proposito di non lasciarsi cancellare tanto facilmente dalle pagine della Storia, rivelandosi un avversario più tenace di quanto prefiguratosi dai Collegati.
Su questo sfondo dell’assedio di Treviso si snoderanno le vicende di un giovane e misconosciuto patrizio veneziano, destinato però a diventare più grande di re e imperatori, di valenti condottieri e del Papa stesso.
[Vietati la riproduzione e il plagio; questa storia è tutelata]
Genere: Guerra, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Rinascimento
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Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il 27.10.2021

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Capitolo Ventiseiesimo

Confiteor

(Non desiderare la donna altrui; Non desiderare la roba d'altri.)

Parte 1

 

 

 

 

Era molto facile, quasi inevitabile, desiderare la donna altrui, anche quando in miniatura. Dal giorno della loro nascita, le nobildonne veneziane non appartenevano mai a se stesse, preziosissime pedine di un sottile gioco sociale, economico e politico, destinate o a qualche ancora incognito patrizio o a Domine Iddio.

A Ca’ Miani l’elemento femminile s’era rivelato piuttosto carente: tranne per Madre – al vertice della gerarchia - zia Maddaluzza e le mogli dei cugini, si poteva ben dire che in quel palazzo si respirasse un’aria quasi da quartier militare. Crestina non aveva lasciato una sufficiente impressione per mitigare quello spartano rigore maschile, né in casa né tantomeno nel fratellastro Momolo, essendosi sposata quando lui aveva appena tre anni. Non significava certo che per il piccolo Miani ella fosse morta, tuttavia quando voleva vedere Crestina, Momolo doveva recarsi a Ca’ da Molin alla Maddalena, in un ambiente a lui estraneo e relazionandosi con la sorellastra alla stessa maniera con cui interagiva con le matrone di Ca’ Miani, rispettoso e serio, niente frivolezze.

Al contrario, a Ca’ Morexini si respirava una più muliebre leggerezza, tra risate civettuole, delicati profumi floreali e fruscii di cottole. Similmente alla tavolozza del pittore, Momolo si destreggiava tra le variegate personalità delle sue cugine germane, scoprendo quanto tutte possedessero almeno una virtù a lui gradita.

Anzola Morexini di sier Ferigo, tanto per incominciare, era la più buona delle fanciulle; domestica, timida e molto devota, prendeva sempre le difese del cuginetto e se lo coccolava al petto, riempiendolo di baci e parole affettuose, sia di conforto che d’incoraggiamento quando Momolo faticava a capire le sue lezioni o si lamentava dei suoi compagni a scuola. Anche la sorellastra di Anzola, Maria Bolani, era molto gentile e nulla prima della morte di Padre aveva reso più felice Momolo di recarsi in chiesa con le cugine, mano nella mano, e di riempire di fiori l’altare della Madonna in primavera, pregando assieme.

Magdalena Morexini di sier Hironimo possedeva come la cugina Anzola un carattere introverso, ma la sua non corrispondeva ad una timidezza soave, bensì a quella guardinga di chi s’era vista orfana di madre e quasi subito figliastra di una donna giovane, graziosa e decisamente più nelle grazie del padre rispetto a lei. Unica sopravvissuta dei fratelli, Magdalena sapeva che sier Hironimo avrebbe di gran lunga preferito al posto suo un erede maschio (soprattutto per dargliela sui corni all’odiato fratello Batista) e che l’apparente sterilità di madona Agnese Erizo Morexini non la sollevava da certe occhiate deluse, come se, con lo sguardo, i seni della ragazza potessero svanire e crescerle un pene tra le gambe. Per questo motivo, Magdalena aveva l’abitudine di starsene per i fatti suoi, mal sopportando la presenza maschile e di fatti Momolo notò come, non appena la pubertà aveva incominciato a virilizzare il suo corpo, sua cugina avesse incominciato a trattarlo più freddamente, specie quando sier Hironimo aveva preso a regalargli doni su doni, ignorando la figlia.

Maria, Querina, Marina e Donata di sier Batista erano indubbiamente le principesse di Ca’ Morexini. Querina a Momolo era sempre apparsa piuttosto scialba, la brutta copia di sua sorella maggiore Maria: qualsiasi cosa ella facesse, la minore la copiava, suscitando non poche preoccupazioni in zia Morexina, il cui carattere esuberante di Maria le provocava mille apprensioni, temendo in una corruzione della sua secondogenita femmina, più ingenua ed indifesa. In realtà, aveva scoperto Momolo, sua cugina Querina altro non era che una gattamorta fatta e finita: Maria era bella e impavida come una Diana cacciatrice col cuore però di una generosa Venere. Querina, al contrario, con quell’aria fragile e verginale, con il suo perenne pigolare delle sue sfortune e la vocina sottile e cantilenante, pareva una Vesta ma sotto-sotto era più ambiziosa d’una Giunone. Se gli uomini adoravano Maria per la sua arguzia e briosa spigliatezza, l’aria dolce, vulnerabile e bisognosa di protezione di Querina li imbizzarriva. Marina e Donata, le più piccole, grazie a Dio erano libere e selvagge come Amazzoni, non curandosi ormai più i loro genitori d’educarle tanto rigorosamente quanto le maggiori. Marinella e Donatella (com’erano chiamate in famiglia per distinguerle dalle omonime parenti) ridevano, scherzavano, giocavano spensierate con i fratelli e cugini d’ambo i sessi ed erano talmente spontanee nella loro vivacità da scaldare i cuori e Momolo se le issava in braccio a turno e le faceva roteare tutto contento, specie perché le cuginette erano le prime che gli correvano incontro durante le visite.

Però, però … era Maria la sua preferita. La splendida Maria, dalla pelle bianca come la spuma del latte, i capelli scuri e morbidi, le iridi nere, vivaci e liquide. Agli occhi di Momolo ella incarnava l’ideale perfetto di femminilità e nulla al mondo gli recava più piacere, d’appoggiare la guancia sulla sua spalla mentre lei leggeva ad alta voce o di scorrere le dita tra i suoi lunghi capelli sciolti con la scusa di pettinarglieli oppure, nell’altalena improvvisata, di stringersi stretto a lei, sincronizzando il battito dei loro cuori, mentre si sussurravano segretucci alle orecchie. S’era, insomma, scoperto innamorato e gli scocciava di sentire Maria parlare ammirata e sognante di cavalieri e condottieri, volendo essere lui l’unico oggetto dei suoi sospiri.

Ma erano soltanto sogni, i suoi.

Momolo aveva sempre saputo che le sue cugine germane, in primis Maria, terminata la loro educazione in convento, sarebbero state maritate a qualcuno, figlie femmine troppo utili da venir sacrificate sterilmente alla vita religiosa, come affermato in più occasioni dallo zio Batista. Nella sua mente di bambino ciò significava che Maria e le altre sue cugine non avrebbero più giocato con lui, il che lo rattristava un poco: anche se capricciosa al limite del tirannico, Maria non lo prendeva mai in giro e gli insegnava  tanti passatempi interessanti, quali giochi di carte sia con le trevisane che coi tarocchi (inventandosi talora all'improvviso nuove e strampalate regole per vincere a discapito sia di Momolo sia delle sorelle). L’idea di doverla cedere ad un altro compagno di giochi innervosiva il fanciullo, arrovellandosi su come impedirlo. Perfino nei confronti dei fratelli di Maria nutriva una certa gelosia, poiché condividevano più tempo con lei rispetto a lui.

Inoltre, l’essersi suo malgrado ritrovato a spionciare ciò che marito e moglie combinano nell’intimità del proprio talamo aveva aperto a Momolo un mondo nuovo, pieno zeppo di mille domande sugli uomini e sulle donne, dalle faccende tra di loro alle differenze corporali. La sua innocenza e genuina curiosità gli guadagnavano tuttavia risposte vaghe e un poco imbarazzate, oppure sghignazzanti dai maliziosi fratelli e cugini maggiori, i quali non resistevano alla tentazione di scioccare il minore tramite dettagli crudemente scabrosi, i quali però sortivano l’effetto di rafforzare quell’inconscia diffidenza che Momolo nutriva verso di loro, giudicando le loro verità scherzi di pessimo gusto.

E sempre perché i bambini studiano, assimilano e scimmiottano i grandi senza però giudizio alcuno, ecco che uno dei giochi preferiti di sua cugina Maria consisteva nel sposarsi e fingere che le sue piavole fossero i suoi puttini. Ovviamente, la materia prima, ossia il marito, rimaneva un vago concetto a destinarsi e se un piccato Momolo chiedeva alla Morexini dove si trovasse il sior marido, lei rispondeva con nonchalance “in mare, patron di galea”.  

Sicché, stufo marcio di star lì a fare sempre lo “zio”, un giorno Momolo  osò metter in pratica quella cosetta ch’aveva di nascosto visto far Padre a Madre.

I due cugini stavano giocando in giardino a Ca’ Morexini quando Momolo, di punto in bianco, aveva afferrato Maria per le spalle e le aveva stampato un bacio sulla bocca, davanti alla sorella Querina, che subito corse a fare la spia, gelosa più che scandalizzata. Anzola e la sorellastra Maria Bolani s’erano messe a ridere di cuore e pure Magdalena, scuotendo affettuosamente il capo. Quanto a Maria, immediatamente ella storse le labbra e cacciò fuori disgustata la lingua, appioppando al cuginetto un sonoro ceffone.

“Ma perché?”

“Che schifezze fai?”

“Ciò, quel che fanno marito e moglie!”

“Non è vero, te lo sei inventato!”

“E invece sì: il sior mio Pare lo fa sempre alla mia siora Mare, quando esce per lavorare, quando rincasa, quando è in studio e prima di andare a letto!”

“I miei siori genitori non lo fanno mai, quindi stai mentendo!”

“E’ la verità, ti dico! E se vuoi giocare alla moglie, devi baciare tuo marito!”

“Sei un bugiardo!”

“Non sono bugiardo!”

“E pure porcello!”

“Non è vero!”

“E poi tu non sei manco mio marito!”

“Allora sposami e poi ti bacio ancora!”

Al che Maria lo schiaffeggiò di nuovo e corse piangendo da sua madre, madona Morexina, accusando Momolo di comportarsi da lascivo Tarquinio. Ne conseguirono una tirata d’orecchi e un solenne sermone da parte della zia, laddove ella ricordava pedantemente al nipote della reputazione della cugina, la quale doveva rimanere impeccabile se desiderava trovare un buon partito, e in generale l’ammoniva di rispettare ora e per sempre il pudore delle putte onorate, che mai andava violato sì impunemente. “Sii grato, bestiaccia, che il tuo sior Barba ti concede di frequentare le tue zermane! In alcune famiglie soltanto i fratelli posso interagire con le sorelle nubili!” Pur arrossendo furiosamente dall’umiliazione, Momolo non si considerò affatto colpevole per il suo gesto, in fin dei conti lui aveva proposto a sua cugina di sposarlo e poi manco ci credeva ch’avesse un fidanzato, figurarsi un marito! Inoltre – e qui il fanciullo sorrise tra sé e sé perfido – qualcosa gli diceva che sua zia Morexina sotto-sotto stesse crepando d’invidia, poiché anche a lei sarebbe piaciuto esser baciata più spesso dallo zio Batista e a nulla valeva quel suo rimproverare Madre e Padre per le loro effusioni amorose, da lei giudicate inappropriati atteggiamenti d’adolescenti al primo amoretto estivo. Sicché il piccolo Miani, al rientro in casa dello zio Batista, gli era andato dritto incontro e, mani sui fianchi, aveva chiesto: “Sior Barba, posso sposarmi vostra figlia, sì o no?” e il Morexini, ch’aveva capito che più s’ostacolava il nipote e più quegli remava contro, aveva risposto falsamente solenne: “Quanto diverrai Missier Capitan Generale da Mar, te la darò in moglie”.

Furbo lui.

In ogni modo, la cottarella verso la cugina scomparve tanto velocemente quanto era nata, stroncata dalla morte di Padre, la quale coincise col trasferimento di Anzola, Magdalena, Maria e Querina al convento, là dove per cinque anni avrebbero migliorato le loro competenze di matrone, in un ambiente esclusivamente femminile e al sicuro dalle insidie degli uomini e dalle tentazioni carnali.

O almeno si sperava.

Il 26 ottobre 1502 scoppiò infatti l’ennesimo scandalo dietro le mura conventuali, stavolta al Monastero di Santa Maria delle Vergini, nel sestiere di Castello. L’Avogador sier Francesco Foschari si vide arrivare in Quarantia Criminal una banda di munegini, tra cui sier Vicenzo q. sier Ziprian Morexini, il nipote di Maria Morexini Miani cugina di Madre. Nessuno dei Morexini di San Cassian si sorprese di tale arresto, ben avvezzi alla sua consolidata fama di puttaniere impenitente; eppure, nella disgrazia sier Anzolo, fratello maggiore di Vicenzo, vi scorse una ghiotta possibilità per imbrigliare finalmente quel cavallo pazzo del minore e al contempo punirlo ad perpetuam della sua sfrenata lussuria. Al culmine di un processo durato ben quindici mesi, sier Anzolo aveva costretto Vicenzo a dire che sì, egli aveva in più occasioni conosciuto carnalmente la giovane monaca Franceschina Boldù di sier Alvixe, ma in quanto spinto dall’immenso amore che nutriva nei suoi confronti e pertanto era prontissimo a riparare, sposandola. Ai Boldù non parve vero di stringere tale vantaggiosa alleanza e l’Avogador si ritenne soddisfatto. Vicenzo scontò dunque prima la condanna emanata dalla Quarantia Criminal e poi quella da suo fratello Anzolo. Perché madona Franceschina Boldù Morexini mica era una agnellina di primo pelo, oh no! Oltre ad essere l’amante di Vicenzo Morexini, costei aveva condiviso per anni il suo letto con sier Zorzi Contarini e con sier Bernardo Pixani, rendendo quest’ultimo padre di più d’un figlio.  

“E come se non bastasse”, se la rideva la cantante e la cortigian honorata Luzia Trivixan, “il caro sier Bernardo, oltre a madona Franceschina, se la spassava anche con madona Benedicta Lego sua consorella! Sapete come s’introducevano? Usando scale e le piante rampicanti! Addirittura, codeste monache non soltanto intrattenevano commerci carnali con patrizi e cittadini veneziani, ma pure da fuori: tre loro amanti se le sono portate a Vicenza per sollazzarsi allegramente, con la scusa di un pellegrinaggio al santuario di Monte Berico” e prese fiato, asciugandosi le lacrime agli occhi. “Santa Cecilia mia! Neppure a casa mia c’è tutto questo viavai di uomini!”

“Ma neanche alle Carampane!”, sbottò invece sier Batista, sorprendendo Momolo per il tono stranamente perentorio dello zio. “L’ho sempre detto, che Le Vergini non è un luogo onesto: sin dai tempi del Doge Francesco Foschari è sempre stato invischiato in turpi negozi, con le sue monache più in calore delle gatte ed una di queste adesso ce la ritroviamo pure in famiglia! Ma che diavolo è saltato in testa al mio cugino Anzolo d’ammogliare suo fratello a quella mamola?!”

“Personalmente, lo trovo un raffinato contrappasso, roba che il sommo Dante applaudirebbe: poiché sier Vicenzo è un disonesto dunque si sposi una disonesta!”

“Momolo, ti ho forse detto di smetterla d’esercitarti col liuto? Non far perdere tempo alla Luzietta!”

“Oh, mo’ via, sier Batista”, corse Luzia in aiuto di Momolo, accarezzandogli la zazzera indomita e provocandogli un attorcigliamento di budella. “Il vostro nezzo ha ragione: una puttana per un puttaniere, il castigo perfetto!”

“Ma il Pixani? Il Contarini? Chi c’assicura che quella svioldra cesserà d’intrattenerli? Bone Jesu, ha avuto dei figli dal primo! Non finirà che Vicenzo la mantiene e gli altri se la galdono? (godono, ndr.)”

“Bah, per me a loro non farà differenza: in inverno, vedrete, si scalderanno in quattro in letto!”,  gettò indietro il capo la Trivixan, ilare. E facendo un occhiolino a Momolo, si sedette sulle ginocchia dello zio, ticchettandogli la punta del naso, l’apostrofò giocosamente: “La verità è che voi siete invidioso, perché sier Bernardo, sier Vicenzo e sier Zorzi hanno tutti avuto gratuitamente accesso alla mona di madona Franceschina, mentre voi per la mia …” e come terminò la frase Momolo non l’apprese, sia perché la cortigiana honorata l’aveva sussurrata maliziosamente all’orecchio dello zio, sia perché l’intera conversazione unita a quell’effusione amorosa gli stava provocando una certa tensione dentro la braghetta, costringendolo ad appoggiare il liuto e a correre via dalla stanza, le gote in fiamme.  

Pettegolezzi a parte, effettivamente Momolo aveva in più occasioni sentito su di sé lo sguardo voglioso di educande, novizie e perfino delle monache da dietro le grate del parlatorio, quando si recava in visita alle sue cugine onde portare loro di nascosto un libro o per ciacolare del più e del meno. Occhiate di fuoco che lo spogliavano strato dopo strato, confessandogli desideri della più ormonale lascivia e non si poté dire che il ragazzino non le ricambiasse, avvicinandosi magari al ferro e appoggiando sopra d’esso la mano, intrecciando “casualmente” le dita ora con educante e ora con postulanti o novizie, desiderandole tutte e nessuna in particolare, ninfe ridenti e maliziose anche se nero o biancovestite. Gli anni a seguito di Madre e di tutte le sottane di casa gli avevano insegnato una rara arte, declamata dal medesimo Ovidio, ossia di saper ascoltare le donne: qualsiasi confidenza e conversazione, anche se banale e noiosa, Momolo le ascoltava serio e attento, commentando vivacemente e anzi, pure incoraggiando quelle recluse a fornirgli maggiori dettagli. Sicché, estasiate da cotanti riguardi nei loro confronti, le signorine si contendevano la sua compagnia e gli sussurravano all’orecchio paroline infuocate.

Tali visite cessarono per un breve periodo, quando le sue germane ritornarono nel mondo e vennero piazzate sul mercato, in attesa che i signor padri pescassero l’anguilla giusta per loro, come avvenne per Maria, la quale tre anni dopo si sposò in sier Zuanne Querini di Stampalia e Amorgo. Le visite al convento ripresero invece nel momento in cui sua nipote Dionora da Molin seguì le orme delle parenti, divenuta la giovinetta amica di Marina Morexini, figlia ed erede universale dell’ognora vituperato e ricco sier Orsato Morexini.

Pur divisi dall’età, la fanciulla sin da piccola aveva dimostrato un’incredibile precocità di pensiero, forse per difendersi dalle follie di sua madre madona Pellegrina Nani relicta Morexini, la quale se avesse potuto più che in convento l’avrebbe rinchiusa nella più alta torre fortificata della Serenissima, tanto temeva l’unica figlia finire vittima di cacciatori di dote senza scrupoli. Prima di venir bandito dalla sua presenza, giudicato appunto una delle sopracitate canaglie, lei ed Hironimo avevano condiviso una delicata amicizia, accomunati da un lutto inconsolabile, la morte precoce dei rispettivi padri, e pertanto conversando in sintonia perfetta. Il giovane Miani l’aveva rivista in via straordinaria al matrimonio di Maria, stentando di riconoscere l’antica amichetta in quella donnina: a confronto, la dodicenne sua nipote Dionora pareva  fisicamente ancora una bimbetta, spigolosa, piatta e dai fianchi stetti, tutta gambe lunghe; al contrario la sua amica, di un anno più anziana, era maturata in fretta, prosperosa ma non troppo di seno, morbida e sinuosa.

Ma la cosa più straordinaria era che Marina non s’era affatto scordata del loro legame, per quanto platonico esso fosse stato, supplicandolo con sospettosa arte di venirla a trovare più spesso in convento, così da scacciare la noia e se non per amor suo, per la povera Dionora lì tutta sola soletta.

Hironimo s’era prestato volentieri a quello che, in fin dei conti, per lui si trattava di un gioco: non gli dispiaceva ridacchiare a questo o quell’aneddoto di vita conventuale assieme alle tre educande, né di divertirle invitando dei burattinai ad improvvisare uno spettacolino, del quale si giovavano anche le altre fanciulle, sempre al sicuro dietro la grata. Aveva accettato volentieri i fazzoletti ricamati da Marina, così come lei divorava i designi allegorici che Hironimo le passava, decifrando talvolta rebus contenenti qualche battuta di spirito o la risposta ad un indovinello che lui le poneva. Ben presto però Marina iniziò a replicare con altrettante allegorie amorose e Hironimo rispose con cavalleresca leggerezza, rammentandosi che si trovava dinanzi ad una bambina che giocava alla donna. Non l’incoraggiava né scoraggiava, poiché sapeva che l’incanto sarebbe sfumato non appena Marina avesse terminato gli studi.

“Oggi è il mio compleanno e non mi avete portato neanche un dono: sappiate, che sono molto in collera con voi”, gli confessò la quattordicenne fanciulla, deambulando felina dietro la grata e seguita parallelamente da Hironimo, che ridacchiò:

“Non vi piace il nastro di seta, che v’ho regalato?”

Marina alzò la lunga e pesante manica, rivelando la pregiata stoffa fasciante il polso e chiusa in un elaborato fiocco. “Non la posso mostrare a chicchessia”, storse la boccuccia. “Inoltre, l’ho trovato un regalo assai freddo.”

“Freddo?”

La giovinetta si fermò all’improvviso, afferrando le sbarre con ambedue le mani. “Se voi m’amaste sul serio, m’avreste donato un bacio!”

Il patrizio rise di cuore, scuotendo ilare il capo. “E come?”, disse, alludendo alla grata, che impossibilitava tali effusioni, ideata forse apposta.

“Avreste trovato il modo!”, replicò cocciuta ed imbronciata Marina. “Vi odio, Hironimo Miani, non vi parlerò mai più in vita mia!”

“Mo’ via, quante storie! Non fate i capricci!”, la rimproverò il ragazzo scherzosamente, pur avvicinandosi alla grata.

“E voi non fatemi morire di dolore!”, piagnucolò la fanciulla.

“Cosa dirà il vostro novizzo?”

“Non ho alcun novizzo; amo soltanto voi, l’unico che desidera me e non i miei soldi!”, sbottò Marina, asciugandosi le lacrime che incominciavano ad inumidirle i grandi occhi allungati.

Un po’ per colpa, un po’ per curiosità, un po’ perché dinanzi ad una bella ma piangente ragazza il cuore dell’uomo tende a sciogliersi in fretta, Hironimo cedette alle insistenze della giovinetta e si portò due dita alle labbra, prontamente imitato da lei. Ambedue schioccarono un sonoro bacio sui polpastrelli e in contemporanea infilarono il braccio dalla parte opposta della grata, accarezzando la rispettiva bocca, sennonché all’improvviso Marina gli catturò l’indice coi denti, mordendolo a mo’ di punizione per la sua insensibilità e poi suggerlo languidamente, provocando un’inaspettata scarica di caldo e freddo nel ragazzo, di mollezza e durezza di membra. D’istinto, mandando al diavolo (con ogni rispetto per il luogo) le conseguenze, Hironimo ghermì la mano di Marina e s’infilò in bocca il sottile medio di lei, accarezzandole la falange con la lingua, avvolgendola in un umido abbraccio. Senza accorgersene i due giovani si spinsero contro il muro e la grata e congiunsero in sincronia perfetta le loro bocche, intrecciando le mani mentre Marina afferrava quella destra d’Hironimo per porsela sul seno sinistro e massaggiarselo in movimenti circolari, il sangue ribollente nelle vene.

Quand’ecco che l’eco dei passi li gelò, portandoli a staccarsi rapidissimi, il fiato mozzo e irregolare, fissandosi increduli e complici negli occhi.

“Verrete domani?”, ansimò Marina, sorda al richiamo lontano della suora responsabile delle educande.

Hironimo non si recò più al convento, inviando soltanto lettere alla nipote e  senza mai menzionare la Morexini. La consapevolezza di quanto compiuto gli era crollata addosso più pesante d’un macigno: era sbagliato, sbagliatissimo, com’aveva potuto cedere a quella debolezza? D’approfittarsi sfacciatamente dell’ingenua infatuazione di Marina? Lui le era maggiore, avrebbe dovuto comportarsi da responsabile e impedirle di compromettersi per un capriccio temporaneo. Non aveva un novizzo, vero, ma si trattava di questione di tempo. Sua madre madona Pellegrina Nani relicta Morexini non si sarebbe certo piegata dinanzi ai sentimenti acerbi della figlia e il giovane Miani non l’avrebbe trascinata nel lussurioso adulterio per soddisfare le sue brame. Lei non era sua, quell’ereditiera cui a tutta Venezia faceva gola.

In tali colpevoli pensieri e agitazione d’animo lei l’aveva scovato e corteggiato, lasciandosi Hironimo sedurre anche per dimenticare lo schifo che provava verso se stesso. Inoltre, s’era ripetuto la prima volta in cui i due novelli amanti s’erano appassionatamente congiunti, la sua amante era vedova e un morto non corrispondeva ad un granché come rivale. Anzi, al dì del funerale, onde sottolineare il concetto,  era usanza che il compare dell’anello o un parente del morto sfilasse pubblicamente la vera nuziale dal dito della vedova, segno che ogni legame terreno e spirituale col defunto veniva reciso, che la donna ritornava libera di sposare chiunque ella desiderasse.

(Madre a tal riguardo aveva fatto il diavolo a quattro, rifiutandosi categoricamente di sottostare a quel rituale tra lo sconcerto generale e rimproveri di melodrammaticità, stringendosi invece caparbia la fede e sostenendo che, da viva come da morta, ella sarebbe sempre stata la donna di Anzolo Miani e di nessun altro.)

 

***

 

In fin dei conti, per motivi di spazio fisico e di storia, Venezia aveva sempre vissuto in un mondo tutto suo, con le sue regole e la sua morale, infischiandosene dell’altrui opinione, semmai traendo diletto dallo stupore ed indignazione dei foresti, adorando semplicemente sconvolgerli e così ridicolizzarli. 

Tra i suoi molti atipici costumi, i visitatori stranieri avevano spesso notato come mai in nessun luogo si fossero visti tanti devoti e tanta poca devozione come a Venezia e ciononostante, i suoi abitanti possedevano una religiosità da riuscire ugualmente a stupirli: ad esempio, i veneziani potevano tranquillamente donare ingenti somme di denaro nei loro testamenti a questo o quell’ordine religioso e magari un attimo dopo schernivano pesantemente e strapazzavano il loro parroco o qualche pio monsignore; bestemmiavano perfino i morti eppure recitavano con sincero fervore i loro Paternostri e Avemarie; baciavano le sante reliquie e con la stessa bocca quella di una ragazzotta compiacente; un patrizio manteneva pubblicamente e senza alcun biasimo una cortigiana honorata, anche in casa al limite di un concubinato da harem, ma allo stesso tempo egli non avrebbe mancato la sua Messa per nulla al mondo.

D’altronde, riguardo a quest’ultimo punto, la qualifica di “cortigiana” non disonorava nella città lagunare, bensì dava credito e per una di queste donne di partido, sier Zuan Moro era uscito da una rissa sfregiato sul volto, malgrado a casa sua e dei due suoi rivali li attendessero mogli molto avvenenti. E se per le cortigiane di lume gli uomini erano disposti a bagarrare, figurarsi allora l'effetto delle cortigiane “honorate” su di loro, ricercatissime e degne eredi della greca Aspasia. I nobili si disputavano accanitamente i loro favori e il popolo la loro mano, mentre i pittori le tallonavano per immortalarne il vago volto in una qualche santa o dea. Costoro si trovavano al vertice della gerarchia delle amiche di letto e permettersi la loro compagnia confermava in società l’importanza, la ricchezza e la cultura dei loro clienti, nonché un’ottima opportunità d’intrecciare utili amicizie politiche e sociali, con la scusa di frequentare gli eventi mondani organizzati da quelle moderne eteree.

Stanchi delle fatiche della politica e magari delle lagne delle mogli o il chiasso dei figli, se maritati, o vogliosi di compagnia, se celibi, i patrizi veneziani spesso e volentieri si abbandonavano alle piacevoli festicciole preparate ad arte dalle cortigiane honorate, invitati a cene raffinate nei loro stravaganti e ricchissimi appartamenti, in cui non esistevano né censori né saggi, né ambasciate né guerra, bensì un mondo segreto creato esclusivamente per loro e fatto di sola effimera bellezza, dove codeste dee  incantatrici cantavano, danzavano, suonavano il liuto, improvvisavano versi e donavano quel pizzico di sensualità che, vuoi per pudore, mancanza di slancio o semplicemente l’età, la sposa non poteva offrire.

Qualora la cortigiana honorata (od onesta) fosse diventata un’estensione della famiglia del suo protettore, non era strano che si trasferisse in un piano del suo palazzo né che chiamasse il suo protettore (o protettori) "Mio signor" né che la moglie legittima ci pranzasse assieme, spesso divenendo amiche intime e ciò non per cristiana e muliebre bontà della patrizia, bensì per puro e gretto tornaconto personale e inoltre la mantenuta, se sveglia, ben le conveniva non discutere sulla gerarchia domestica. L’amante serviva ad intrattenere in ogni senso il marito, distraendolo dalla moglie che rimaneva finalmente libera dalle gravidanze e di gestire la casa a suo piacimento. Secondo, la cortigiana era la sua spia perfetta, la quale le riferiva ogni spostamento del consorte. Terzo, garantiva più possibilità all’intera famiglia d’evitare di contrarre il malfrancese. Quarto, la patrizia avrebbe visto più spesso in casa il marito, risparmiando inoltre sulla tariffa visto che vitto e alloggio erano già inclusi.

Ulteriore meraviglia per gli stranieri era, poi, come i patrizi veneziani non tendessero a riservarsi il godimento esclusivo delle amanti: pur mantenendo una cortigiana honorata, onesta o di lume, il nobile se la divideva allegramente con tre o quattro dei suoi amici o parenti, la donna il loro collante e portavoce. Tale liberalità però non doveva esser scambiata per incauto laissez-faire: anche in questi piccoli e intimi gruppi vigevano regole non scritte, laddove la mantenuta, pur seguitando pubblicamente ad intrattenere con musiche e conversazioni brillanti, s’impegnava a cedere i suoi favori solo alla sua ristretta cerchia, nessun intruso ammesso. Contrariamente alle cortigiane di lume, oneste e honorate a briglia sciolta, la mantenuta poteva ben rifiutare i suoi servigi a chi non le andava o a chi le veniva proibito e a suo modo sentirsi “fedele” al protettore e/o protettori.

Di sicuro non si faceva di un’erba un fascio e anche a Venezia esistevano mogli gelose e mariti fedeli, che personalmente non condividevano tali pratiche, ma neanche le giudicavano, semmai scherzandoci sopra.

Rimaneva comunque una situazione ambigua, specie per gli esclusi dal cerchio, poiché in un certo senso la mantenuta rappresentava il suo gruppo e un suo sbaglio si ripercuoteva anche sulla loro reputazione, associarsi a lei significava essere ammesso nel circolo, uno sgarbo da un estraneo equivaleva ad un insulto a chi la proteggeva.

Quando Hironimo conobbe per la prima volta Luzia Trivixan, egli aveva appena sette anni ma ci sarebbero voluti altri anni e un secondo incontro ufficiale per capire meglio, chi ella fosse e che ruolo avesse nella loro famiglia. Nella sua ingenuità l’aveva creduta una favolosa cantante, una nobildonna ospite della Regina di Cipro, ingannato dal cognome patrizio della cortigiana, uno dei molti misteri della Diva, del cui passato ella si dimostrava stranamente gelosa.  

Di quel lontano maggio del 1493, il Miani si sovveniva a spezzoni, spesso sconnessi tra di loro e della Trivixan uno stralcio di conversazione origliato tra lei e il suo barba.

All’epoca, sier Batista Morexini stava completando il suo mandato come provveditore sopra il Polesine di Rovigo, assieme ai colleghi sier Lucha Trum di Antonio e sier Francesco Bragadin q. sier Jacomo. Purtroppo, un qualcosa di quelle terre gli aveva raffreddato lo stomaco e in seguito a molto vomitare ed evacuare più acqua che feci, il Morexini aveva scritto alla Signoria, chiedendo e ottenendo un breve rimpatrio onde curarsi meglio, non confidando nella bravura dei medici rodigini né di far da cavia a quelli padovani. A sua moglie madona Morexina, che l’aveva accompagnato, non pareva vero di poter finalmente ritornare alla civiltà, lamentandosi con la cognata madona Leonora e domandandole il suo segreto, su come avesse fatto a sopravvivere quando sier Anzolo aveva ricoperto la medesima carica nel 1488. Madre le aveva raccontato che all’epoca c’era molto da fare ed erano sempre stati impegnati in mille attività, tra opere di bonifica, di potenziamento urbano e stradale, di smantellamento di ogni traccia del dominio estense da Rovigo e dalle altre città del Polesine. Praticamente il fratello viveva di rendita del lavoro del cognato e di sier Agustin Barbarigo, ora Doge ma primo provveditore delle nuove terre annesse alla Serenissima.

“Il loro accento è così terribile, come facevi a capirlo?”

“Dopo due anni a Feltre, dove si parla un misto tra veneto-trevigiano e ladino, nessuna parlata all’interno della Signoria m’ha più spaventata!”, scherzava madona Leonora dinanzi alle perplessità della cognata.

Le era dispiaciuto moltissimo lasciare Feltre, così come i suoi abitanti avevano pianto commossi il dì della partenza del loro beneamato podestà e capitano e della sua famiglia. Leonora si era affezionata a quella gente montanara; al vecchio monaco della basilica-santuario dei Santi Vittore e Corona che le preparava deliziose tisane, talvolta solo per il gusto di bere qualcosa di gradevole al posto del vino. Le sarebbe mancato il sole forte e caldo e l’aria frizzante e tersa, nonché quel perpetuo odore d’erba fresca e di latte appena munto. Perfino all’ululato dei lupi in inverno s’era abituata, non terrorizzandola più come la prima volta. Inoltre – e qui Madre arrossiva per quella sua piccola vanità – rimpiangeva un poco non trovarsi più al centro dell’attenzione: in conformità al titolo e al grado del marito, a Feltre la si chiamava madonna podestaressa e capitana e in quanto tale doveva mostrarsi in pubblico vestita sontuosamente, le vesti di diversi colori di broccati, seta, d’oro ed argento ed i capelli racchiusi in un’elaborata acconciatura ricca di perle e d’altre gioie, a malapena celata da un velo di seta bianco con trine d’oro. Quando usciva dal palazzo pretorio in visita o per recarsi nelle varie chiese, conventi e monasteri di Feltre per questa o quella devozione, Leonora era sempre accompagnata da un variopinto e civettante corteo di nobildonne locali e da una moltitudine di serve, tenendo così la sua piccola corte.

Trasferirsi a Rovigo non era stato facile, l’ambiente tutt’altro che amichevole, malgrado fossero trascorsi ben quattro anni dalla Pace di Bagnolo; forse troppo pochi per far dimenticare a certuni irriducibili, come sier Anzolo fosse stato capitano di galea durante la Guerra del Sale e rivederselo ritornare assieme ai colleghi sier Andrea Venier q. Lion e sier Domenego Zorzi q. Francesco, non doveva aver evocato graditi ricordi. Forse quella sottile ostilità aveva spinto i tre provveditori ad’intraprendere una linea politica particolarmente dura, stufi marci di quell’ostinatezza da muli: la Signoria s’era dimostrata paziente e tollerante, conservando in parte alcuni statuti estensi ma guai a chi scambiava la sua diplomazia per debolezza, sperandola di gabbare. Sicché, all’ennesima provocazione, i tre provveditori erano scesi col piede guerra e ogni simbolo degli Este era stato abbattuto e rimpiazzato da quelli della Serenissima, incominciando dall’antico castello, bruciato prima e smantellato poi.

Inutile dire quanto madona Leonora fosse stata contenta di rimpatriare a Venezia l’anno successivo, sorridendo di gioia pura alla vista della Torre delle Bebbe, l’antico segno di confine veneziano. Di conseguenza, un po’ biasimava la mancanza di stoicismo nella cognata madona Morexina, la quale stava risiedendo in una Rovigo totalmente diversa, più venezianizzata rispetto a quella di cinque anni addietro.

E parlando del diavolo – cioè gli Este – una settimana dopo il rientro di un sofferente sier Batista Morexini, a Venezia si festeggiava la Festa della Sensa cui avevano partecipato anche il marchesi di Mantova, Francesco Gonzaga ed Isabella d’Este, giunti separatamente, prima la moglie e poi il marito, entrambi “domesticamente” , ovvero senza un comitato di benvenuto ad accoglierli. I Marchesi avevano assistito in bucintoro allo Sposalizio del Mare e alla sera cenato a Palazzo Ducale assieme al doge Agustin Barbarigo. Madona Crestina Miani da Molin, scelta per il corteo di patrizie che doveva accompagnare ovunque la Marchesa per l’intera durata del suo soggiorno, aveva raccontato ai curiosissimi parenti ogni minimo dettaglio di quella visita, provocandone il riso specie quando descriveva le differenze comportamentali tra i due coniugi mantovani, tanto raffinata al limite dell’affettato lei, quanto terra a terra e assai volgare lui.

“Siccome ho dato una buona impressione, mi hanno poi confermata per far parte del seguito delle nostre prossime ospiti”, confessò Crestina a Madre, eccitatissima. Approfittando degli ultimi strascichi della Festa della Sensa, la Signoria stava lavorando puntigliosamente per accogliere al meglio Eleonora d’Aragona duchessa di Ferrara; suo figlio don Alfonso e la nuora Anna Maria Sforza e la secondogenita Beatrice d’Este duchessa di Bari, moglie di Ludovico il Moro, nonché un corteo di quasi 1200 persone, tra nobili milanesi e ferraresi. “Purtroppo non avrò tempo per ordinare gioielli nuovi e si sa che la Ducissa di Bari ne ha una sfilza di bellissimi …” e chissà dei 900.000 ducati spesi annualmente solo dalla città di Milano a Venezia (contro il milione e mezzo dell’intero Ducato) quale fosse la percentuale di contributo personale della giovane e insaziabile Beatrice d’Este, i cui ordini includevano rubini di Pegù, diamanti di Deccan, zaffiri, topazi e giacinti di Ceylon, smeraldi dall’India, turchesi del Khorassan e del golfo Persico, onice, corniola d’Arabia, cristallo di rocca del Zabulistan e del Badakhshan, occhi di gatto del Malabar, lapislazzuli della Tartaria. I vizi costano e la Serenissima si dimostrava solerte e generosa nel coccolare spudoratamente i suoi clienti, trasportando le sue agili galee ogni genere di bendiddio.

“Sì, la Ducissa ne avrà di costosi, ma nessuno regalato dall’Imperatrice in persona!”, la consolò madona Leonora, abbandonando momentaneamente il suo ricamo e, ritornata dalla sua stanza, le cedette una scatola laccata, dove la figliastra trovò avvolto in un panno di velluto due giri di pingui perle con un grosso pendente di zaffiro, incastonato in un cerchio di nove perle dalle dimensioni di nocciole. Era stato un regalo di D. Leonor d’Avis di Portogallo, defunta Imperatrice, venuta in visita a Venezia nel maggio del 1452 e madrina della Morexini. “Ti presto questa collana più che volentieri, ormai per me le occasioni d’indossarla stanno diminuendo”, asserì ad una commossa Crestina, la quale dimentica del suo lavoro indossò celere il vezzo e si ammirò allo specchio, tra i complimenti delle altre nobildonne lì presenti.

“Vi ringrazio, siora Mare: s’accompagnerà benissimo alla mia coroncina di perle!”

Sua zia Morexina, lì seduta accanto, non volle esser da meno e le mise a disposizione i suoi veli di seta talmente trasparenti, morbidi e lucenti, da sembrare vaporosi spicchi di nuvole. Inoltre, le erano appena giunte dal sarto delle manichette in panno d’oro, che col vestito cremesino della nipote sarebbero state d’incanto. Madona Barbara Moro Morexini, moglie di sier Hironimo Morexini, invece s’offri di imprestarle uno dei suoi ventolini, esotiche bizzarrie portatale da suo fratello sier Christofal Moro dal Levante.

“Quale preferite, mia cara, quello dal manico d’avorio e dalla striscia di damasco o quello d’ambra dalla striscia fatta di penne di pavone bianco?”

“Quello di pavone! Quello di pavone!”, le suggerì Ysabeta Zen relicta di sier Alvixe, biscugino di sier Anzolo, che viveva in casa con loro. “Giusto per vedere che faccia fa la Ducissa di Frara!”

E le donne risero forte fino a piegarsi quasi sui rispettivi ricami, divertite di rara perfidia allo scherzo e inquietando parecchio Momolo, lì seduto in un cantuccio della stanza in attenta osservazione di quel gineceo, che con la scusa di ricamare e merlettare spettegolavano su tutto e tutti, più informate delle medesime spie della Serenissima.

“An, quanto siete fortunata, sorela”, sospirò madona Marina Morexini Vituri, moglie di sier Piero Vituri, alla sorella madona Ysabeta Morexini Corner, moglie del cavaliere sier Zorzi Corner. “Avrete la possibilità di merendare a tu-per-tu con le Ducisse a casa della Reyna”, disse, alludendo alla festa che domina Catharina Corner stava organizzando nel suo palazzo e giardino a Murano. “Morexina, cara sorela, perché v’ostinate a rifiutare l’invito?”

Essendo suo amico intimo nonché suo socio nella mutua, il cavaliere aveva esteso l’invito al cognato, sier Batista Morexini, il quale ancora non s’era deciso se accettare o meno l’invito, idem per sua moglie.

“Vi pare consigliabile portare lì quel mezzo-cadavere del mio poaro sior marido, cussì che vomiti sul bel panno morello della Ducissa di Bari? Inoltre, oramai la luna qui va crescendo e ogni vestito già mi sta stretto ...”, storse la bocca, allundendo al ventre che si stava ingrossando del suo settimo figlio.

“Conoscendo il vostro sior marido, più probabile sulla scollatura!”, scherzò madona Ysabeta, provocando l’ennesima fitta di risolini e un piccolo broncio nella sorella, la quale mai aveva digerito la natura farfallona del consorte.  

“Se lo fa, lo debbono eleggere a prossimo Missier el Doxe”, rincarò la dose madona Barbara, falsamente solenne. Poi, alleggerendo il tono: “Di sicuro si preannuncia una guerra all’ultimo sfarzo, che la nostra Reyna e domina d’Axolo potrebbe ben vincere: insomma, possiede gioielli appartenuti alle Reyne di Jerusalem, Cypri e Armeniae! La Ducissa di Bari potrà comprarsene dei più costosi, ma cos’è un vezzo nuovo, se paragonato ad uno antico, indossato da grandi sovrane?”

“Di sicuro si preannuncia un trionfo dell’ipocrisia”, commentò al contrario cupamente Madre, il viso ben puntato sul ricamo e la fronte aggrottata. “Per me, io non so come reagirei se mi dovessi trovare dinanzi alla figlia e alla nipote, di colui che ha ordinato tramite congiura l’assassinio del mio sior barba e del mio zerman, per di più davanti ai miei stessi occhi, per poi strapparmi via dal seno il mio unico figlio!”

Un gelido silenzio s’impose nella sala, disorientando Momolo, non capendo cosa avesse rabbuiato le nobildonne, le quali, contrariamente a lui, ben si ricordavano del triste passato della loro parente. Ma domina Catharina pur nell’isolamento e prigionia s’era dimostrata di tempra ben più forte dei suoi nemici, dei commissari ciprioti ed esponenti del partito filo-napoletano fomentato da re Ferrante d’Aragona, i quali avevano creduto di spezzarne lo spirito, piombandole in camera di notte e massacrandole lo zio sier Andrea Corner e il cugino sier Marco Bembo, accorsi a proteggerla, e sottraendole il figlio, il piccolo Jacques de Lusignan.

Adesso domina Catharina dimostrava doppio coraggio a voler fronteggiare, senza provare alcun prurito alle mani, la figlia e la nipote del Re di Napoli, la fonte primaria dei suoi lutti familiari, nonché causa della forzata abdicazione e perdita del suo regno, annesso alla Serenissima a seguito dell’ennesimo complotto, nonché delle dichiarazioni di nuove nozze da parte della regina.

Togliendosi il vezzo di perle e riponendolo nella scatolina, madona Crestina tossicchiò un attimo, cercando di ravvivare la conversazione. “Siora Amia Morexina, pensate almeno d’accettare l’invito della Reyna alla colazione di domani?”

Grata di quel cambio di discorso, la patrizia convenne. “Un po’ d’aria fresca gioverà a mio marido, così anche da capire se sarà o meno in grado di resistere alla festa in onore delle ducisse!”

“Posso venire anch’io, siora Mare?”, s’intromise ad un tratto Momolo, stufo d’ascoltare e attirando su di sé ogni muliebre sguardo.

“Ma certo, tesoro, la Reyna stessa ha insistito!”, l’assicurò Madre, la cui cognata acquisita possedeva un rapporto un po’ ambivalente nei confronti dei bambini: se da una parte li adorava e le piaceva circondarsi della piccola truppa di nipotini, dall’altra le davano sui nervi, ricordandole il figlioletto premortole, il suo Jacques. Evidentemente, in quel momento la Regina e signora di Asolo si sentiva più incline al primo umore.

“Ho sentito che mia cognata ha invitato anche Luzia Trivixan, per un concerto dopo la refezione”, aggiunse madona Ysabeta, puntando l’ago e, alzatasi dallo sgabello, inarcando e stiracchiando la schiena irrigiditasi.

“Trivixan?”, ripeté madona Marina. “La moglie di chi?”

“Di nessuno. Di qualcuno. Di tutta Veniexia”, le rispose maliziosa madona Barbara, il cui fratello sier Christofal apparteneva alla medesima categoria di cottoloni del cognato sier Batista. “E’ una cortigiana honorata e, dicono, a soli diciott’anni la migliore cantante della Signoria!"

Il viso di madona Morexina sbiancò. “Una cortigiana? Alla presenza dei bambini? Ma è impazzita mia cugnada? Se voleva delle cantanti, poteva invitare quelle eccellenti monache agostiniane!”

“Oh, mo’ via, barbosa pizzocchera! È un concerto diurno, di cos’avete paura? Che la Trivixan s’abbassi la scollatura e mostri il seno? È una cantante, una professionista, mica una concubina turca del Topkapi! Inoltre, cara cugnada, vi ricordo che in fatto di lasciva reputazione, quelle monache di gran lunga superano la Trivixan!”

Momolo si ritrovò d’accordissimo con sua zia madona Barbara: aveva già visto le grosse poppe bianche delle balie di sua nipote Dionora e dei suoi altri cugini, ergo non ci trovava nulla di strano se anche questa cortigiana (cos’era poi?) gliele avesse mostrate, specie in caso ci fossero stati fantolini da allattare.

“Possiede già un protettore? O protettori?”, inquisì madona Marina, al contrario intrigatissima.

“Questione di tempo”, commentò allusiva madona Barbara.

“Io l’ho già vista a Palazzo”, rivelò Crestina, associando finalmente un volto al nome della cantante. “Missier el Doxe, dopo la cena, l’ha invitata a cantare prima del ballo e vi assicuro che nulla del suo aspetto appariva indecente! Di più: vestiva in maniera talmente sobria e delicata, da scambiarla per un vergine appena uscita dal convento!”

“Senti, senti …”

“E com’è lei? Fisicamente, intendo.”

Il settenne Momolo, in retrospettiva, più che del viso di Luzia Trivixan si sarebbe ricordato del suo abito e non perché fosse un frivolo damerino, bensì perché si era immaginata quella femena publicha, come l’appellava sdegnosamente sua zia Morexina, una sorta d’odalisca o di concubina del serraglio, non dissimile dall’esotiche schiave turche, arabe o circasse che sbarcavano a Venezia e poi vendute a Rialto.

Piuttosto gli era parsa più stravagante la zia acquisita domina Catharina Corner, vestita di velluto nero con un velo di seta trasparente orlato d’oro e fermato da una corona di perle e gioie, sopra una scuffia in panno d’oro trapuntato di perline, secondo l’uso cipriota, così come alla moda di Cipro la Regina indossava un paio d’orecchini di perle e rubini e l’intero petto era una ragnatela di sottilissime collane d’oro e di perle. A confronto, Luzia Trivixan, giunta in compagnia del compositore Alexandro Demophon Venetus, si poteva benissimo confondere tra le altre gentildonne lì presenti, indossando anche lei una veste di velluto dalle maniche lunghe e strette fino ai piedi che s’apriva in un triangolo perfetto, da dove s’intravedevano la zupa e le manichette di differente colore, le spalle coperte pudicamente da un trasparente velo di seta. L’unico elemento che accomunava le due donne rimanevano gli orecchini, sfoggiando la cortigiana un paio di filza d’oro di tre perle.

Giovane, più giovane della sua sorellastra Crestina, eppure Momolo la vedeva deambulare a suo agio tra gli ospiti, conversandovi rilassata neanche si trattassero d’amici di vecchia data. Rideva alle battute, scherzava arguta, onnipresente senza però rubar la scena alla padrona di casa, domina Catharina, semmai reindirizzando l’attenzione degli uomini sulla Regina di Cipro e signora di Asolo.

Interesse che però ricatturò quando iniziò a cantare e a Momolo era venuto da piangere ascoltando quella sua voce celestiale, sprigionata da un corpicino così fragile e minuto. Anche il maestro Alexandro Demophon la guardava in estasi, mentre l’accompagnava col liuto e conduceva gli altri musici e il coro. Sicché, preso coraggio, durante una pausa per il rinfresco il fantolino era partito alla ricerca della ragazza per complimentarsi di persona, pizzicandola in un angolo acquattato del giardino, seminascosta dalle fronde profumate di piante e fiori esotici.

“Come sono andata?”, chiedeva ansiosa Luzia al maestro Alexandro, il quale, circondandole il bel viso tra le mani, mormorò orgoglioso e roco:

“Sublime”, e la baciò impetuoso, mordicchiandole goloso le labbra, di tanto in tanto accarezzandosi le punte guizzanti delle rispettive lingue. Le mani dell’uomo, tanto agili e rapide sul liuto, manipolavano con altrettanta destrezza la gonna di lei, infilandosi sotto, scoprendo una morbida e lattea coscia.

“Oh, amore mio”, sospirò la cantante, infondendo ugual trasporto nelle sue effusioni, strusciandosi vogliosa contro il corpo del compositore e accarezzandogli tra le gambe, sul petto, tra i capelli fino a spettinarlo e fargli cascare accidentalmente la bereta. “Quea gran vacha di la Marchesana, ch’el diaol s’ea manzi!”, digrignò i denti, mentre accompagnava la testa dell’amante sulla scollatura la cui linea s’abbassava pericolosamente a ciascun famelico bacio di lui, “il modo in cui ti guardava! Ti voleva portar via da me, per collezionarti tra i suoi bamboli! Chi si crede d’essere, quea cancara de betonega?!”

“E il Marchese?”, replicò a tono l’artista, seppur più leggero e scherzoso. “Manco s’era reso conto d’aver finito il vino nel bicchiere, tanto ti divorava cogli occhi! A momenti scodinzolava!”

“Perdio, mi farebbe meno impressione l’idea scaldare il letto di Sua Serenità el Doxe, piuttosto di star sotto a quel cinghiale antropomorfo!”, gettò ilare Luzia il capo all’indietro e Momolo s’unì al lazzo, immaginandosi quel Francesco Gonzaga con la testa d’un cinghiale al posto di una umana.

Scoperti, i due amanti si separarono in un balzo, guardandosi attorno apprensivi e la cantante si sciolse in un tintinnante sorriso alla vista di Momolo, ancora piegato a metà dalle risate.  “Ben, ben … non lo sai che è maleducazione origliare i discorsi altrui?”, lo rimbeccò giocosamente Luzia, portandosi le mani ai fianchi e sgonnellando verso il fantolino.

“Siete sposati?”, chiese di rimando il giovinetto, ergendosi sulla punta dei piedi per sembrare più grande.

La cortigiana honorata si coprì la bocca dietro la mano, ridacchiando. “Sì, siamo sposati nella musica!”, gli spiegò allegra, facendo l’occhiolino al maestro Alexandro che a sua volta abbassò la testa, ridendosela alla grossa. “Ora però ti riporto dal tuo sior Pare, va bene?”

“Il mio sior Pare non c’è oggi, è a Palazzo per conto della Signoria. Sapete che è stato nominato provveditore a Zacinto?”, le annunciò impettito Momolo, orgogliosissimo. “E presto ci trasferiremo lì, dove il sior mio Pare e i miei fratelli combatteranno contro i pirati saraceni e i Turchi! Ed io, da grande, farò lo stesso! Voglio divenire un valente comandante, come fu il mio trisavolo sier Zuanne Miani che combatté nella Guerra di Chioggia con i magnifici sier Vetor Pisani e sier Carlo Zen; che espugnò Alessio, Corfù, Argo e Napoli di Romania e che catturò nel Castello di Trevixo il tiranno Francesco da Carrara! Diverrò Capitan Generale da Mar, così mi sposerò mia cugina Maria. Il mio Barba me l’ha promesso e lui mantiene sempre le promesse!”

“Bravo, così parla un vero veneziano: sono sicurissima, che supererai le gesta del magnifico sier Piero Loredan!”, convenne decisa Luzia, senza però alcuna traccia né di sberleffo né di sarcasmo, come se lo ritenesse sul serio un progetto realizzabile. “Ti accompagno dalla tua siora Mare? Oppure” e i suoi occhi brillarono birbanti, “andiamo a mangiarci qualche dolcetto?”

Momolo neanche lottò contro la tentazione, saltellando felice alla prospettiva. “Posso prendervi la mano, madona Luzia?”, bofonchiò poi d’un tratto timido.

“Naturalmente”, gliela cedette la cantante, “anzi: oggi t’eleggo mio cavaliere e da nessun altro mi lascerò condurre!” e lanciata una scrollatina di spalle all’amante – Cossa vuostu far? Xé on puteo! – la strana coppia si diresse al tavolo del rinfresco.

Luzia, previdente, si sedette poco distante e incaricò Momolo di scegliere i dolciumi anche per lei; ritornato in fretta dalla missione, il fantolino s’impietrì e assottigliò geloso gli occhi alla vista del barba Batista seduto accanto alla cortigiana, parlottando fitto-fitto con lei. Che poca creanza! Lei era la sua dama, che lo zio sfarfallasse attorno a qualcun’altra, preferibilmente sua moglie!

Al che … “La vostra siora mojer e mia Amia, se vi vede bere tutto quel Recioto della Valpolicella, prima vi ammazza e poi vi resuscita e poi vi ammazza di nuovo!”, fu il Servo vostro, patron! del bambino, ponendosi bellicosamente in mezzo ai due adulti e pronto ad usare il piatto ricolmo di dolci a guisa d’arma.

Scrutandolo con la medesima aria accondiscendente di una mamma gatto, che permette ai micini di giocherellare con la sua coda, sier Batista sottrasse allo sdegnato nipote un tortino dal piatto, ficcandoselo a mo’ di sfida in bocca. “Ed io riferirò alla tua siora Mare mia sorela, come tu ti sia strafogato di dolci, cosicché finirai in punizione da oggi fino al tuo ritorno da Zacinto!”, lo ricattò senza tanti giri di parole. “Sicché pascola altrove o vai a giocare coi tuoi zermani.”

“No vojo!”, batté un piede per terra Momolo, sentendosi assai territoriale e protettivo verso la sua dama. Lui aveva visto per primo Luzia e, regola fondamentale, chi trova prende.

“Non ti preoccupare, dopo torno da te”, gli promise la cantante, aggiungendo complice: “E t’insegno a suonare il liuto!”

“Dasseno?”

La cortigiana honorata annuì solenne. “Ora però vai, il tuo sior Barba ed io dobbiamo fare discorsi da grandi.”

Momolo grugnì il suo disappunto, trascinando enfaticamente i piedi. Ma alla prima curva egli ritornò sui suoi passi, sistemandosi alle spalle dei due congiurati e ben celato dietro un cespuglio, curioso proprio d’ascoltare cosa avessero da raccontarsi di così importante, da escluderlo dalla loro conversazione.

“Che puto prezioso!”, commentò dolcemente Luzia, addentando appena un biscotto.

“E’ un piccolo Mazariol” [1], replicò tuttavia affezionato il Morexini, paragonando il nipote al dispettosissimo folletto rossovestito che scorazzava per i boschi della Marca Trevigiana, burlandosi degli ignari uomini e delle stesse vispette fate.  “In ogni modo”, riprese, sistemandosi meglio sulla panchina di marmo, “volevo complimentarvi con voi per l’eccellente concerto, lo stesso, immagino, che ha stregato i Marchesi di Mantoa!”

“An, non vi giurerei”, arcuò scettica Luzia il sopracciglio, “la siora Marchesana mi sembrava più interessata al magister Alexandro, mentre il sior Marchese al mio petto”, sentenziò mordace e sier Batista si morse l’interno della guancia per non ridere. “Dubito abbiano apprezzato me”, aggiunse indispettita, pigliando un secondo morso di biscotto.

“Forse i nostri futuri ospiti saranno meglio capaci di riconoscere il vero talento, quando li si manifesterà innanzi.”

La cortigiana honorata assottigliò gli occhi, sospettosa. “Siete per caso venuto in ambasciata per conto della Reyna? Perché la mia risposta non cambia: io rimango agli ordini della Signoria e non suoi.”

Scombussolato da quel cambio di tono, da cortese a battagliero, il provveditore alzò in alto le mani. “Vi assicuro la mia più assoluta ignoranza e neutralità, in qualsiasi divergenza abbiate nei confronti della mia siora cugnada.”

Luzia abbassò le spalle, tormentando il dolce e spezzettandolo fino a ridurlo in briciole. “La Reyna mi ha domandato di cantare durante la refezione in onore delle tre pie donne”, e lanciò i granelli per terra, attirando qualche uccellino affamato. “Comprendete la mia umiliazione? Durante la refezione non la festa! Appena l’ho appreso, ho subito declinato l’offerta e soltanto perché il magister Alexandro ha insistito, ho accettato di cantare oggi per la Reyna. L’ingiustizia del mondo! Monsieur Cordier canterà da solista, ammirato e lodato da tutti, mentre io debbo farlo di nascosto, alla stregua d'un panno sporco da lavare! Siorno! In nulla differisco in bravura da lui e o canto in concerto o non se ne fa nulla!”

Sier Batista si girò in direzione opposta e da lontano osservò a lungo il compositore, impegnato ad accordare il liuto e ad istruire i suonatori ed i coristi per la seconda parte del concerto. Dopodiché studiò il volto imbronciato di Luzia e di nuovo quello del maestro Alexandro e la bocca gli s’arricciò in un sogghigno malizioso.

“Non sono una menestrella, che s’abbassa a cantare per un pubblico distratto durante i banchetti, men che meno per quella grassa nanerottola della Ducissa di Bari, la quale più che ascoltarmi preferirà rimpinzarsi di dolci fino a scoppiare!”, sbottò infastidita la cantante, battendo i pugni sulla panchina, associando a quell’Este sconosciuta il medesimo carattere di quella a lei più nota, giudicandole ambedue capricciose, egoiste, ognora pronte a pigliarsi ciò che non le apparteneva.

“Se la Ducissa di Bari ci morisse in casa per via di un’indigestione, l’affare ci causerebbe non pochi grattacapi: il nostro povero ambasciatore a Millan lo vedo e lo piango a riferire la notizia al Moro”, sdrammatizzò il Morexini, afferrando il pugno della ragazza ed invitandola a schiuderlo, massaggiandole l’interno del polso col pollice. “Forse per ugual motivo, neanch’io ho tutta questa voglia di partecipare alla festa. V’immaginate la faccia della Ducissa di Frara, al momento delle presentazioni? Bentrovata, o illustrissima madonna Duchessa, io sono il provveditore di quelle terre, che vi abbiamo conquistato nove anni fa! In fede mia, non desidero assumermi alcuna responsabilità d’eventuali incidenti diplomatici!”

“Al contrario, voi dovreste assolutamente partecipare!”, gli suggerì Luzia, il buonumore ritrovato, sorridendogli monellescamente, la mano chiusa a quella del “da Lisbona” come due metà di una conchiglia. “Già la Ducissa domina Leonora friggerà d’imbarazzo nel ritrovarsi dinanzi ad una sovrana perseguitata e deposta per colpa degli intrighi di suo padre il Re di Napoli; la vostra presenza, a memento della sconfitta di Frara, renderà la refezione ancor più gustosa.”

“Voi. siete. davvero. tremenda!”, scosse il capo sier Batista e i due se la risero a lungo, complici, toccandosi quasi le loro fronti e l’uomo aveva portato la mano della  Trivixan al petto, invitandola ad avvicinarglisi. “In verità, non vi nascondo che la decisione di mia cugnada mi ha davvero sorpreso. Ci vuole una grande forza d’animo per affrontare faccia a faccia la famiglia, che le ha rovinato l’esistenza … Ma il passato è il passato e non possiamo sottrarci al futuro”, citò cinicamente l’uomo il proverbio, finendo il suo vino. “Un futuro però che assomiglia pericolosamente troppo al passato.”

Ogni traccia di civetteria scomparve dal viso sveglio della cortigiana honorata, sostituito da un’espressione attenta, intrigata. “V’ascolto”, lo incalzò, sedendosi sulla panchina in modo da avere di fronte il patrizio.

Sier Batista anch’egli aveva perduto la sua affettata nonchalance per un tono serio, analitico. “Don Ferrando è vecchio e come tale non ha imparato nulla dai suoi errori”, esordì, roteando nel vuoto il bicchiere. “Dopo la morte del Roy di Cypri, si è voluto immischiare nella questione dinastica dei Lusignan. Il risultato? Don Ferrando ha perso ogni influenza politica sull’isola, ogni fondaco e accordo commerciale, sua nuora Ciarla e per poco il suo stesso figlio naturale don Alfonxo. Adesso, sta ripetendo il medesimo sbaglio, cogli Sforza di Millan. C’è da chiedersi che cosa perderà, stavolta.”

“Credete certa una sua sconfitta?”

“Ogniqualvolta dalla Franza è sceso in Italia un esercito, un casato cade e un altro ascende. È matematico, inevitabile.”

“Il Re e il Duca di Calabria avrebbero, quindi, dovuto ingoiare in silenzio l’umiliazione d’Yxabela d’Aragona? Dell’attuale Ducissa di Millan?”

“Se gli Aragona fossero stati dei patrizi come noialtri, la questione sarebbe stata portata in Quarantia Criminal e il Moro condannato per appropriazione indebita. Siccome però parliamo di sovrani e capi di Stato … Quando danno via una figlia, o una nipote, l’hanno perduta per sempre in favore di un’alleanza, che durerà finché farà comodo alle parti coinvolte. Non tutte le spose sono devote o influenti o entrambe da fungere da mediatrici.”

“Un figlio senza un padre è facile preda delle altrui ambizioni”, mormorò grave Luzia, accarezzando pensosa la morbida stoffa della sua gonna, “quella degli Sforza era una tragedia annunciata, così come quella della domina Catharina, straniera e vedova, priva della protezione del Roy suo sposo. Sapete”, reclinò all’indietro il capo, osservando un punto indefinito del cielo, “forse ho indovinato perché la Reyna vuole incontrare quelle tre donne.”

“Dasseno? Le leggete la mente, ora?”

Il sorriso della cortigiana honorata assunse una piega malevola. “Per vendicarsi degli Aragona, scagliandoli contro una maledizione, acciocché distrugga Re Ferrando, come lui ha distrutto lei; affinché lui perda il regno, come lei ha perduto il suo; affinché egli seppellisca il suo sangue, come lei ha seppellito il suo. E quale miglior occasione di questa festa, dove parteciperanno la figlia e la nipote amatissime del Re? Più il tramite è vicino alla vittima, più potente ed efficace è l’anatema.”

Un brivido freddo scese lungo la spina dorsale di sier Batista, il quale, pur di natura cinica e razionale, non si sottraeva al profondo spirito superstizioso tipico della sua gente. “Stando così le cose, oltre a don Ferrando dovrebbero morire anche domina Leonora d’Aragona, e magari anche le domine Beatrice d’Este e Anna Maria Sforza, o chiunque presenzi a quella dannata festa …”, provò debolmente a minimizzare, fallendovi, semmai aumentandogli in petto una certa angoscia, come all’Italia intera da quando era incominciato quel braccio di ferro tra Milano e Napoli.

“Chissà”, scrollò incurante le spalle Luzia, “si vocifera che chi sia stato maledetto, o non passi l’anno dal momento esatto dell’anatema oppure non superi i trentatré anni, l’età di Domine Jesus Christo”, si scostò un ricciolo ribelle dalla fronte. “Ma si trattano senz’ombra di dubbio di storielle da balia, altrimenti la popolazione si ridurrebbe drasticamente, se ogni uomo maledetto dall’altro dovesse morire!”

“Vi dico solo questo: se entro l’anno dovesse morire anche un solo Aragona, non oserò mai più in vita mia contraddire la siora cugnada”, le confessò semiserio il Morexini, massaggiandosi lo stomaco, il quale aveva incominciato nuovamente a rigirarsi proditoriamente, serrandogli la gola. Dannata golosità sua unita ad inquietanti discorsi sul sovrannaturale! “A meno che domina Catharina non m’abbia già maledetto, al che mi scuso, bellissima Luzia, se mi congedo anzitempo da voi”, si pose traballante l’uomo in piedi, sudando freddo e ficcando la mano dietro il cespuglio dove estrasse, issandolo quasi di peso, Momolo, che si pigliò lesto sottobraccio.

“Vi prego di riguardarvi, sier Batista Morexini, e v’auguro una pronta guarigione: mi dareste una gioia immensa se decideste un giorno di venire a visitarmi, così da continuare la nostra conversazione. Suonerò e canterò per voi, dimostrandovi che non sono per nulla una vanesia”, allungò il braccio languidamente Luzia, acciocché il patrizio le baciasse la mano, sotto lo sguardo truce e geloso di Momolo. “Vi ringrazio per il piacevole tempo trascorso assieme e soprattutto per la vostra pazienza, prestando caritatevolmente orecchio alle mie sciocche lamentele.”

“Non possedete ancora nessuno, che le ascolti?”, colse sornione il “da Lisbona” la palla al balzo e suo nipote aggrottò la fronte, confuso: da quando in qua il suo barba s’offriva di fare volontariamente il confessore? Sempre che sbuffava perché doveva sopportare le lamentele della moglie ed ora era disposto ad ascoltare quelle della Trivixan? E poi, perché la cantante non aveva invitato anche lui a casa sua? Non gli aveva promesso d’insegnargli a suonare il liuto?

“Uno ce l’ho sempre, gli altri … finché non mi stufano”, alluse Luzia scaltramente e sier Batista s’inchinò deferente, capendo subito il sottotesto. “E’ stato un piacere conoscerti, Momolo. Spero di rincontrarci in futuro” e gli schioccò un casto bacio sulla fronte. “Fai il bravo, veh!”

Il bambino si girò verso lo zio, sorridendogli perfidamente trionfante come per dirgli: hai visto? Ha baciato me e non te! Quindi è la mia dama, non la tua!

Peccato che l’uomo non gli diede alcuna soddisfazione, anzi, trascinandoselo appresso, si diresse rapido alla ricerca di madona Morexina, onde supplicarla di ritornare quanto prima a Ca’ Morexini o di trovargli un posto tranquillo dove vomitare senza un fastidioso pubblico.

“Che orba la Marchesana di Mantoa”, commentò ad alta voce il provveditore, durante il viaggio di ritorno, gli occhi chiusi e artigliandosi le ginocchia, ingollando giù acida saliva. “Orba proprio …”

“Perché sior Barba?”

“Hé, Momolo, perché non ha capito, che bisogna tenere giù le mani da ciò che non le appartiene …”

Il giovinetto strabuzzò gli occhi, battendo pensoso il dito sul mento. “Chi? Il magister Alexandro?”

“E tu come lo sai, piccolo Mazariol?”

“Me l’ha detto Luzia: sono sposati nella musica!”

Sier Batista rise di cuore, arruffando la zazzera indomita del nipote tra le sue mille indignate proteste. “Benedetta sia la tua anima pura e innocente, nezzo mio, benedetta sia in saecula saeculorum!” e detto questo, scoprì il drappo della felze e vomitò in acqua, tra i gridolini schifati delle sue donne di casa.

 

***

 

Ovviamente, per Momolo l’amore era sempre corrisposto indissolubilmente al matrimonio e per questo motivo la scoperta di concetti quali “amante”, “concubina” e “cortigiana” l’avevano sconvolto, incapace di credere nell’esistenza di altri tipi di amori, definiti dal biscugino sier Zuan Francesco “immorali.”

“E come li evito?”

“Il peccato entra attraverso l’occhio: evita di guardare e non vacillerai!”

Prova assai ardua, essendo infatti Hironimo di natura vivacissima e curiosa. Inoltre, di occasioni per “guardare” le sfaccettature meno onorevoli dell’umanità Venezia ne offriva in gran copia, incominciando dallo zio Batista quando divenne uno dei protettori di Luzia Trivixan, la cui bellezza riempiva di strani pensieri il ragazzo, che non sapeva spiegarsi il motivo per il quale percepisse l’impellente necessità di poggiare la testa sul seno della cortigiana honorata.

La seconda volta che la vide, infatti, non fu l’abito bensì il suo aspetto a colpirlo.

Riccioli rossi tempestati di perle, grandi occhi turchesi, languidi e orgogliosi insieme, labbra sensuali e bocca ridente, pelle dalla delicatezza e candore d’un giglio, la voce un mormorio di frusciante seta, ecco chi era Luzia, l’usignolo di Venezia. Partito con l’idea di dover disprezzare la fonte dei crucci di sua zia Morexina – malgrado la simpatia suscitatale da bambino -  al giovane patrizio era bastato un solo suo concerto per cambiar rapidamente d’avviso, vittima del suo fascino similmente agli altri esponenti del suo sesso.

La cantante aveva saputo, tramite particolari amicizie, della presenza a Venezia del compositore, cantore e suonare di liuto Marchetto Cara da Verona, stipendiato della Marchesa di Mantova e in eccezionale visita nella città lagunare, ospite graditissimo dei Bembo. Il veronese non s’era lasciato tanto pregare, anzi, vuoi per la fama della Trivixan, vuoi per le sue civetterie irresistibili, vuoi per la presenza del famoso editore musicale Ottaviano Petrucci e del suo collega Bartolomeo Budrio, dell’organista Francesco D’Ana, del compositore e maestro di cappella Francesco Patavin, nonché dell’ex-collega e concittadino Bortolamio Trombonzin (insomma di tutta o quasi la comunità musicale di Venezia), ecco che l’entusiasta maestro Marchetto si presentava nell’elegante appartamento della cortigiana honesta, lodato e vezzeggiato e da lei trattato alla pari di un principe.

Hironimo s’era inaspettatamente aggregato a questo Parnaso, poiché suo zio sier Batista aveva confidato all’amante della sua passione musicale e di come non fosse disprezzabile al liuto. Al che la giovane donna aveva di buon grado esteso l’invito e quando il sedicenne Miani la vide scendergli incontro lungo le scale di marmo, alla fioca e tremula luce dei candelabri, gli parve la medesima Venere discesa dall’Olimpo per condividere cogli uomini il concetto di divina bellezza.

“Gran mercé, vi siede vestita da gentildonna rodia! Potevate avvertirmi e mi sarei presentato a voi da cavaliere gerosolimitano”, esclamò sier Batista, riferendosi all’Ordine dei Cavalieri di San Giovanni presenziante a difesa dell’isola greca. Baciò ambedue le guance della cantante, la quale replicò giocosa:

“Oh, mio signor, il vostro sprezzo per la loro regola di castità vi avrebbe guadagnato un arresto per blasfemia! Quanto all’abito … siamo a Carlevar e mi voglio divertire! Anche a vostro danno, se necessario!”

“Perfida!”

“E voi mi amate esattamente per questo, mio signor!”

Luzia quella sera aveva optato per gli abiti tipici dell’isola di Rodi, smaniosa di scacciare alcun tristi suoi pensieri nell’euforia sregolata del Carlevar. La cantante s’era dipinta di rosso le mani, le unghie e, da quel poco che s’intravedeva dalle scarpette, anche i piedi. I capelli del medesimo colore li aveva rinchiusi dentro una rete d’argento, sopra la quale stava un’altra di velluto e coperta da un bellissimo velo di tela vergata, appuntato sopra la fronte da una gemma e da cui ricadeva all’indietro, donandole un’aria un poco sbarazzina. Sopra la semplice sottana di raso cremesino, Luzia indossava una veste di tela d’argento, corta fino a mezza gamba, aperta ai lati e legata con nastri d’oro. Una variopinta cinta di seta e una d’oro le circondavano la vita. Al collo pendeva una grossa collana di perle con al centro un pendente di smeraldo, abbinandola agli orecchini di ugual squisita fattura.

“Spero che vi sentiate meglio”, le sussurrò sottovoce il Morexini, adesso Savio di Terraferma, scrutando accorto ogni movimento del viso di Luzia e cingendole protettivamente le spalle.  .

“Grazie, molto meglio”, gli confermò in fretta la cortigiana honorata, pur evitando di guardarlo dritto negli occhi, accarezzando la mano del senatore. “Suvvia, raggiungiamo i nostri illustri artisti: non sia mai si sparli sulla nostra poca professionalità!”, scherzò, accettando il braccio offertole dal patrizio, la mente sicuramente altrove ché neanche s’era accorta della presenza d’Hironimo.

Il quale la perdonò senz’indugi non appena la sua voce gli scaldò il cuore: malgrado il coro talora di tre o di quattro, pur ridotto ad un contrappunto di nota contro nota, Luzia spiccava monodicamente sulle altre parti, conferendo alle varie frottole un che di vivo. Ella, infatti, ora socchiudendo gli occhi, ora lasciandosi trasportare dall’accompagnamento del liuto, ora storcendo il viso e modulando il tono fingeva rabbia, malinconia, desiderio e inscenava tramite un’accorta mimica i versi poetici su cui il compositore aveva musicato. Languì col Petrarca, scherzò col Boiardo, s’infiammò con Giovanni Filoteo Achellini, si trasformò in un loquace uccellino nell’inedita frottola a quattro Mentre io vo per questi boschi del maestro Marchetto Cara, il quale la fissava trasognato, le agili dita scivolanti per conto proprio sulle corde del liuto. Il fosco Trombonzin pareva trasfigurato di nuova luce, il Petrucci se ne stava lì con la bocca aperta, Francesco d’Ana dondolava a ritmo il capo, il pallido Francesco Patavin si perdonò quel suo piccolo capriccio d’aver voluto viaggiare da Padova fino a Venezia per conoscere la cantante, lo zio Batista aveva gli occhi lucidi e come lui gli altri invitati contemplavano estatici e devoti Luzia Trivixan, quasi si trovassero inginocchiati innanzi l’Eucarestia sull’altare.

“Il concerto di stasera, signori miei, lo vorrei dedicare ad un grande vostro collega e compositore, ch’Apollo dalla lira dorata ha voluto rapire per tenerlo accanto a sé, nel suo seguito immortale! Questo è il mio personale brindisi in sua memoria”, annunciò enfaticamente la cortigiana honorata, sorseggiando dell’acqua per rinfrescarsi l’ugola. Si bagnò poi le dita e sparse delle gocce per terra; dopodiché gettò sul pavimento il bicchiere, i cocci prontamente spazzati via dalla solerte fantesca. “Ora comprendete il perché dei miei abiti di Rodi, l’isola sacra al dio della musica e delle arti!” e un applauso riempì la sala, mescolandosi a piccoli commenti sorpresi o divertiti. Tipico della Trivixan di stupire i suoi ospiti tramite rebus e sciarade. Soltanto sier Batista batteva poco convinto le mani, un sorriso triste sulle labbra.

“Magister Marchetto, posso chiedervi l’immenso favore di suonare, per amor mio e del magister Alexandro Demophon Venetus, Vidi hor cogliendo rose ?”, pregò civettuola Luzia il veronese, congiungendo vezzosa le mani.

Marchetto Cara convenne in un grave e reverente inchino, difficile affermare se in onor del defunto collega o della cantante. Le sue dita serpeggiarono sinuose nell’aria, in un mentale conteggio del tempo musicale, pizzicando infine le tese corde del liuto e seguito dal preciso attacco della cantante:  

 

Vidi hor cogliendo rose, hor gigli, hor fiori

Una leggiadra, bella e vaga ninfa

Credo discesa dai celesti cori …

 

Come biasimare la generale fascinazione degli spettatori nei confronti di Luzia, nonché la sconfinata ammirazione degli artisti musicali? Hironimo medesimo, un dilettante profano, era scosso anch’egli nel più intimo dalla rara potenza e perfezione canora della donna, imbrigliate magistralmente in quel corpicino dall’apparenza fragile.

La cortigiana honorata saltava da un’ottava all’altra con estrema facilità e non improvvisava mai delle pause per riprendere fiato, tenendo ogni nota anche quelle più lunghe e alte, alternando acuti e gravi in lenta discesa o vertiginosa salita a seconda della melodia, mantenendo un’emissione sempre morbida dei suoni ed omogeneità del registro. Gorgheggiava seguendo gli eleganti arpeggi senza trascurare la dizione del testo, le parole comprensibili e infuse di grande sentimento, rinforzando o stemperando le note secondo necessità, come se stesse recitando un soliloquio.

 

… Hor schiude l’auree labbra, hor con la cetra

Supera le sirene e il dolce Apollo;

hor posa in terra sua bella faretra

hor se rinfresca braccia, volto, collo;

hor mostra il vago petto, hor l’ha coperto

e lassa stare il paradiso aperto

dove se leva la luna col sole …

 

Pareva che un dio o un angelo stesse cantando, attraverso il sottile e lungo collo della Trivixan, l’arcana voce del mondo e che ogni gamma d’umana passione vi si potesse incontrare e modulare, entrando nel cuore e nell’anima stessa dell’ascoltatore, accarezzandola o straziandola a suo piacere. Come poteva tal divina grazia risiedere in una persona considerata immorale, impura? Era proprio vero che dal fango nascessero i fiori più belli?

 

… Hor sagitta con gli occhi ardenti sguardi;

Hor parla, hor ride, hor balla, hor salta, hor canta,

hor col duro arco tira i suoi dardi;

hor con la man sfronda qualche giovin pianta

hor vien la nocte e di riposare ha gran desire …

 

 

Hironimo si sovvenne all’improvviso dei baci appassionati tra Luzia ed il maestro Alexandro e per un attimo, credette di scorgerlo lì, tra le braccia tese della cantante, vivo, ardente d’amore, Luzia che gli regalava il suo respiro e una nuova voce, che gli permetteva di vivere ancora e ripetutamente nella sua musica, per sempre, immortale. Le sarebbe stato accanto, non l’avrebbe mai abbandonata finché al mondo sarebbero esistiti  musicisti e cantanti, veramente i due amanti sposati nella musica, inseparabili.

Dispersi nell’aria gli accordi finali, nessuno osò muovere un sol muscolo né proferire parola, finché Luzia, uscendo dalla sua trance, riaprì gli occhi ed elargì al suo pubblico un timido sorriso di fanciulla innamorata, indifeso.

Uno scroscio d’applausi la investì e lei s’esibì in un profondo e deferente inchino, nutrendosi avida di quell’entusiaste ovazioni e raccogliendo da terra le rose e i gigli accoratamente lanciatigli.

La cortigiana honorata appellò poi il suo scalco, ordinandogli di servire la raffinata e abbondante cena, acciocché, dopo il pane astratto dell’arte, i suoi ospiti si nutrissero di uno più materiale. Fu divertente per Hironimo osservare la reazione confusa e un poco intimidita dei compositori e solisti, non avvezzi malgrado il loro ingegno e talento a compartire da pari la tavola e il pasto con l’aristocrazia, così giusto per rimanere in allegria e in amicizia, in un rapporto totalmente egalitario. Si scherzava spesso quanto soltanto Luzia Trivixan fosse capace di tali follie, permesse e accettate tuttavia all’unanimità, senza protesta alcuna.

Una musica leggera e disimpegnata accompagnava il sontuoso banchetto, una carrellata di gustosissime prelibatezze in curiosi connubi agrodolci, serviti gli ospiti da giovani moretti dai brillanti e variopinti turbanti. Tra una portata e l’altra, delle ballerine turche deliziavano i commensali con le loro danze esotiche, in un continuo tintinnare dei sonagli d’argento ai polsi e alle caviglie. S’arcuavano e si molleggiavano sinuose peggio dei serpenti, i fianchi generosi ondulati in maniera circolare e spingendo il bacino in avanti, mettendo così in risalto lo scollo profondissimo, il quale arrivava fino all’ombelico riempito da una gemma, dividendo a metà il petto seminudo, la semitrasparente camiciola di lino a malapena coprente i turgidi seni e da cui s’intravedeva l’ambrato dei capezzoli.

Straordinariamente non interessato al conturbante spettacolo, Hironimo si concentrò su Luzia, seguendola cogli occhi nel suo deambulare da ospite ad ospite, sedendoglisi accanto, chiacchierandoci e scherzandoci assieme dietro al ventaglio di piume di struzzo e dal manicolo d’oro, talvolta accettando un bicchiere di vino, offertole galantemente. Infine, la cortigiana honorata raggiunse suo zio Batista, prendendo posto sulle sue ginocchia. Luzia intinse un pezzettino di pane caldo in una salsa cremosa ai ceci, limone, semi di cumino e, tenendo una mano sotto per non gocciolare, imboccò l’amante, porgendogli del vino non appena questi ingollò il bolo, lo sguardo ognora ancorato su di lei. Il savio di Terraferma le offrì poi di bere dal medesimo bicchiere, invito accettato dalla cortigiana, chinata su di lui onde ascoltare ciò ch’aveva da dirle. E a giudicare dall’espressione ora mesta ora rincuorata della giovane donna e incoraggiante e tenera di sier Batista, non dovevano trattarsi di focose promesse d’amore. Quand’ecco, ricordatasi della presenza degli invitati, la Trivixan s’accomiatò dal suo protettore e si diresse dagli altri suoi amanti/clienti, o riprese il giro di saluti e conversazioni tra gli ospiti ed Hironimo, ch’aveva osservato ogni cosa, si chiedeva primo, come facesse lei a non svenire dalla fame, poiché non aveva toccato una briciola di cibo; secondo, quale cruccio la tormentasse, da ricercare di tanto in tanto supporto morale in suo zio, adesso completamente assorbito dall’ombelico ingioiellato di una turca a qualche spanna dal suo naso.

“Noto ch’apprezzate la cultura levantina, mio signor”, scherzò ilare la cantante, piazzatasi in piedi tra sier Polo Capelo, di recente rimpatriato da Roma, e sier Marco Antonio Morexini q. Ruberto, fratellastro dell’attuale visdomino di Ferrara, sier Christofal Moro, purtroppo assente da Venezia da quasi due anni. La donna teneva una mano appoggiata sulla spalla di sier Marco Antonio, mentre l’altra giocherellava coi capelli dietro la nuca di sier Polo Capelo, il quale a sua volta la cingeva per i fianchi.

“Per carità, troppo agguerrita!”, commentò ridendo il “da Lisbona”, tastando non visto il sedere carnoso e sodo della ballerina, con la scusa di spingerla altrove. Se soltanto la zia Morexina avesse potuto vederlo, l’avrebbe appeso per un piede come la Signoria puniva per l’appunto i traditori. Se da una parte sua moglie s’era rassegnata alle continue infedeltà del marito, dall’altra seguitava ad arrabbiarsi, in un’altalena contraddittoria d’umori e opinioni.

“Dite d’esser stracco e stufo per via degli impegni a Palazzo, ma appena cala la sera correte via ben vispo dalla Trivixan e non dormite più con me neppure per un’ora!”

“Torno tardi e non vi voglio svegliare.”

“Spiritoso! Se continuerete di questo passo, mi piglierò un amante!”

“Cioè il vaso del miele?”

In ogni modo, per quanto tentasse d’incrociare il suo sguardo o di farsi notare, la cortigiana honorata non s’accostò mai ad Hironimo, né per salutarlo né per riempirgli la coppa di vino, sicché il ragazzo si ritrovò costretto dalla noia a discutere di musica sacra assieme al maestro di cappella Francesco Patavin, appassionandosi straordinariamente all’argomento.

Ma mai entusiasmante quanto la sfida preferita dei veneziani a Carlevar: due servi, inginocchiatisi per terra e le mani congiunte dietro la schiena, si sfidavano ad acchiappare con la bocca delle anguille da un catino, l’acqua intorbidita dal nero di seppia. Un fanciullo moretto girava e porgeva un piatto d’argento tintinnante di lire, mocenighi e ducati e la padrona di casa incoraggiava gli ospiti a fare le loro scommesse, su quale dei due uomini fosse riuscito ad estrarre per primo il muscoloso pesce.

“Fortuna nel gioco, sfortuna in amore, eh sier Hironimo?”, lo sfotté il Trombonzin, la cui bravura eguagliava la sua stronzaggine. C’era da chiedersi il motivo per il quale la Marchesa di Mantova stravedesse per lui, comportandosi alla stregua di un’amante tradita – pazza proprio, pure coinvolgendo il Marchese -  quando il veronese aveva disertato all’improvviso la sua corte. Talento o meno, per il sedicenne patrizio la sua fuga sarebbe equivalsa ad una liberazione, tanto gli stava antipatico.

“Toh”, sputò dietro le sue spalle il giovane Miani, scacciando la malasorte.

“Gran catarro, patron!”

“Il prossimo è per voi!”, mugugnò minaccioso il ragazzo, intascando però in scarsella la vincita.

A fine serata, il maestro veronese Marchetto Cara baciò le mani di Luzia con un trasporto talmente sincero, che di sicuro mai aveva riserbato ad Isabella d’Este, ringraziandola commosso dell’indimenticabile concerto e dell’ottima cena. Nelle sue prossime composizioni avrebbe indubbiamente pensato a lei e alla sua divina voce -  fu la sua solenne promessa. Il signor Ottaviano Petrucci, non volendo sentirsi da meno, le assicurò una copia gratuita del suo Odhecaton, una raccolta di 96 chanson franco-fiamminghe [2], tra cui alcune inedite del fiammingo Johannes de Stokem, compositore ufficiale della corte di Beatrice d’Aragona ex-regina d’Ungheria e della cui scomparsa il mondo musicale s’era assai doluto.

Hironimo si stava ancora sistemando il mantello, quando la cantante lo raggiunse inaspettatamente, accompagnata da suo zio Batista.  E alla sua cortese domanda di circostanza, su cosa gli fosse parso del concerto, il ragazzo esclamò col cuore in mano, la voce tremula dall’emozione: “Patrona, voi non siete un’artista: voi siete un’opera d’arte vivente, creata dal medesimo Apollo!”

Chissà cosa commosse la smaliziata Luzia Trivixan, che di complimenti ben più complessi e poetici ne aveva uditi oramai a bizzeffe, fino alla nausea. Forse la purezza di sguardo nel sedicenne, forse il timbro sincero della sua voce, forse il fatto che l’avesse lodata senza doppi fini. In ogni modo, la cortigiana honorata gli sorrise dolcissima e, appoggiando lievemente la mano sulla sua guancia, gli schioccò un bacio sulla fronte. “Sarà un piacere, farmi da te accompagnare al liuto.”

Hironimo avvampò, arrossì, ebbe caldo e poi freddo; le gambe gli divennero di ricotta e la testa gli girò per qualche istante. Se si ricompose e non si gettò ai piedi della giovane donna fu per rispetto verso suo zio Batista, che stava lì a guardarli con ambigua bonarietà.

“Patrona”, soffiò al limite del collasso, ma serio in volto. “Volevo porvi, anche se in ritardo, le mie sincere condoglianze per la morte del magister Alexandro: mi ricordo del vostro matrimonio nella musica e posso capire il vostro dolore.”

Luzia aprì la bocca, disorientata, poi la serrò, gli occhi improvvisamente gonfi di lacrime. Sier Batista, resosi conto del guaio combinato, fece per rimproverare la mancanza di tatto da parte del nipote, quand’ecco che la cortigiana honorata s’inchinò, sospirando in un tremulo sorriso: “Tu sei l’unico, assieme a tuo zio, ad esserti sinceramente dispiaciuto della sua morte …” e detto questo s’allontanò assieme al Morexini, il quale si sarebbe trattenuto qualche oretta con lei, mentre Hironimo si diresse verso l’imbarcadero, dove l’attendeva la sua gondola per rincasare.

Il giovane patrizio riprese così a studiare con doppio intento il liuto, pur conscio di non raggiungere mai i livelli d’un professionista (figurarsi del fu Alexandro Demophon Venetus)  ciononostante determinato a non sfigurare né far sembrare alla cortigiana honorata di perdere il suo tempo. Per compiacerla, ingoiò un bel po’ del suo orgoglio virile e domandò soccorso a sua cugina Maria, libera infine dal giogo del convento, cui non parve vero di giocare al Pigmalione e inculcare una sana dose di galanteria in quel selvaggio del suo cugino, torturandolo impietosa tramite robuste letture di poesie, poemi epici, novelle, romanzi cavallereschi e altre stramberie tanto apprezzate dalle donzelle e letterati.

In giardino, sotto la pompeiana di Ca’ Morexini, la ragazza lo costrinse a migliorare il suo latino e volgare italiano, arrivando a pigliarlo a librate in testa quando commetteva errori di pronuncia. In compenso, Hironimo aiutava Maria nel suo greco corrente (l’unico che conosceva, figurarsi quello antico!) essendo infatti la fanciulla promessa sposa al futuro conte di Stampalia e Amorgo, sier Zuanne Querini. Anche se terre dello Stato da Mar, era giusto che lei un po’ di greco lo conoscesse, specie quando avrebbe dovuto seguire il marito qualche volta in quelle isole alla sua famiglia infeudate.

“Mi piacerebbe un giorno poterle dedicare qualche sonetto …”

“Puoah, non saresti capace di poetare manco se la tua vita dipendesse da ciò!”

“Sempre piena di complimenti nei miei confronti, eh? Guarda di non far tanto l’acida, sennò il Querini t’abbandona a Nixia come Ariadne!”

“Meglio: vorrà dire che da contessa di Stampalia diverrò la duchessa di Nixia, ho-oh, ha-ah!”, lo schernì Maria.

"Non puoi, il sior duca Francesco Crispo è già sposato a madona Thadia Loredan e suo figlio Zuanne è troppo piccolo per te!", la corresse petulante Hironomo e notando lo sguardo imbronciato del cugino, la ragazza addolci l'espressione e la voce in tono più conciliante: “La Trivixan è piena di zerbinotti che le inviano poesie. Forse per questo le stai simpatico: perché non la tarmi con le tue velleità artistiche. Lei è una vera artista e mal sopporta i mediocri. Affermo il vero, magister?”, si rivolse la novizza al giovane pittore che la stava ritraendo, un piccolo dono per il suo fidanzato, acciocché sier Zuanne Querini pensasse a lei e a lei soltanto fino al dì delle nozze, cuocendolo a fuoco lento nel suo brodo d’aspettative.

Deambulando irrequieto per l’intero perimetro della stanza, Hironimo giunse a spionciare dietro le spalle dell’artista, contemplando i lineamenti vispi della Morexini prender forma e vita sullo sfondo scuro. Invero il giovanotto aveva colto appieno l’espressione vivace e al contempo sensibile di Maria, ritraendola di trequarti e colta in un’acuta osservazione di un fantomatico oggetto oltre il dipinto. Su di uno sfondo verde scuro, la veste scarlatta e foderata di pelliccia, di foggia assai orientale, cozzava col biancore del velo di seta, il quale le scendeva morbido dietro la schiena. Nessun vezzo, nessun ornamento, tranne il rosato delicato della pelle alabastrina e la levigata lucentezza della gioventù. Hironimo sgranò gli occhi, piacevolmente impressionato: l’autore si dimostrava a malapena suo coetaneo, eppure la mano già delineava una fermezza da veterano ed emergeva timidamente un gusto nuovo, moderno, differente da quello di Zentil Belini, suo maestro.

“Troppa buona, patrona. Non sono ancora un magister, bensì un allievo”, si schermì modesto il pittore e le sorrise sibillino, intingendo e roteando il pennello nel colore, per poi punteggiare appena un piccolo dettaglio. “I veri artisti esigono la perfezione, altrimenti nulla ha senso. L’arte è la loro vita e la vita e ciò che accade tra un’opera d’arte e l’altra”, dichiarò conciso, ampliando ora la pennellata. “Detto questo, patrona, se posso chiedervi di rimanere per cortesia ferma, sarebbe per me cosa gradita”, la rimproverò scherzosamente, con quel suo duro accento montanaro.

Maria convenne vezzosamente, ripigliando la posizione abbandonata. “O forse”, non desistette però dal tormentare suo cugino, “forse tu le piaci perché non l’opprimi coi tuoi desideri carnali.”

“Prego?!”, boccheggiò Hironimo, incredulo di tanta sfacciataggine, dinanzi ad un estraneo, poi!

“Suvvia, Momolo, adori la Trivixan alla stregua d’una dea, non negarlo! Però scommetto che, se lei ti chiedesse d’infilarti nel suo letto, tu scapperesti via alla stregua d’un leprotto!”

“Ma che dici?!”, arrossì il ragazzo, imbarazzato da quel pubblico attacco alla sua virilità. “Perché, i tuoi fratelli già hanno goduto dei suoi favori?”

“Tutti quanti tranne i piccoletti”, replicò semiseria la giovane donna, per poi scoppiare in una cristallina risata dinanzi all’impappinamento dello scandalizzato cugino. “Mo’ via, Momolo! Che credulone! Ovvio che no, la Trivixan è roba del sior Pare e degli amici del sior Pare, senza il cui esplicito consenso i miei fratelli non oserebbero sfiorarla neppure con la punta delle dita.”

“Manco mal che le suore dovevano tenerti ignorante del mondo e crescerti nella modestia!”, bofonchiò il Miani, piccato della talora eccessiva vivace schiettezza della cugina. “Rincaso, prima che tu mi scocci con altre scabrose assurdità!”

Maria rise doppiamente di gusto, gettando indietro la fluente massa di capelli scuri, d’identico colore a quella di Hironimo, e seminascosta dal velo di seta. “Vien qua, razza de rustego, dammi un bacio e facciamo pace: ti voglio troppo bene per lasciarti andar a casa arrabbiato!”

Non visto, il giovane Tician intanto appoggiava cauto il pennello, pigliando il suo taccuino e scarabocchiando furtivo i due cugini, lei ch’afferrava da dietro la recalcitrante testa di lui, abbassandolo al suo viso. Venere che bacia Marte per farsi perdonare, elaborò in fretta il cadorino un titolo provvisorio, sognando pieno d’ambizione il giorno in cui sarebbe stato finalmente indipendente e non più a bottega, né chiamato a rimpiazzare il maestro Zentil Belini quando questi si ritrovava troppo impegnato per accettare commissioni di minor conto.

“Sior pitor!”, la voce birbante di Maria lo fece sobbalzare e il ragazzo s’affrettò a nascondere il quadernetto, farfugliando qualche sconclusionata scusa. “Poiché mi ritraete vestita all’orientale, cosa ne dite s’aggiungessimo anche il mio seno nudo?”

Il povero Tician avvampò purpureo per poi sbiancare fino allo slavato, più che altro per il timore di finire gettato alle Orbe da sier Batista in persona, reo di volergli concupire la figliola, rovinandosi di conseguenza la reputazione e di perdere la ghiotta occasione di lavorare per domino Jacopo Pexaro, vescovo di Pafo e capitano vittorioso nella battaglia navale di Santa Maura contro i Turchi, il quale stava giusto cercando qualcuno di bravo ed economico per realizzare una pala per un ex-voto. Dinanzi al palese disagio del balbettante cadorino, i due giovani sghignazzarono perfidi, congiungendo le forze e focalizzando i loro lazzi sul loro indifeso quasi-coetaneo.

Rincasando verso tardo pomeriggio e riflettendoci sopra, sua cugina però aveva ragione: Hironimo aveva posto Luzia Trivixan su di un piedistallo, elevandola ad amor sacro, stimando infatti più le emozioni che lei gli suscitava tramite il suo talento, nonché la sua vivace e stimolante compagnia. Il timido desiderio sensuale ch’aveva all’inizio provato egli si costringeva ad affievolirlo e sublimarlo in ammirazione e una parvenza d’amicizia, non giudicando opportuno insidiare colei ch’apparteneva a suo zio, il quale si fidava di lui al punto di cessare, dopo una dozzina di visite, di presenziare ai loro piccoli concerti. Sarebbe stato da infami tradirlo per un tal capriccio.

Certo, Hironimo non s’ingannava sulla professione di Luzia e sapeva che di protettori ne aveva altri (pochi ma buoni, contrariamente alle cortigiane di lume o alle comuni meretrici) e che non era inusuale tra amici scambiarsi la medesima cortigiana. Ciononostante, per il ragazzo un conto era battersi per i favori della Trivixan contro degli estranei, un conto in famiglia. Piuttosto di minare il sacro equilibrio della sua gens, preferiva tirarsi indietro.

Anche perché, oggettivamente, in che cosa poteva competere lui con lo zio? Cosa poteva offrire di meglio a Luzia?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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E con questa domanda esistenziale, ci si vede alla seconda parte!

Il mondo delle cortigiane a Venezia è davvero affascinante nella sua contraddizione: artiste poliedriche e prostitute; idolatrate e disprezzate; talora concubine e madri di figli illegittimi; mecenati e benefattrici; amanti di tutti, di nessuno o di qualche circolo esclusivo; donne indipendenti e al contempo dipendenti dagli uomini.  Una mia ipotesi sul perché le mantenute (il massimo cui si potesse aspirare) fossero condivise, era sia per motivi economici, così da dividersi le spese visto che le cortigiane menavano una vita molto costosa all’insegna dello stravagante e sia un po’ perché fungevano da piattaforma sociale dell’epoca, in una sorta di salotti letterari ante litteram.

In mancanza di fonti sulla vita “privata” dei personaggi, gli eventi narrati, come più volte ripetuto, sono frutto di una nostra licenza poetica e spero che dall’Aldilà mi si perdoni. Tuttavia la fama di cantante di Lucia Trevisan era davvero talmente grande, che Marin Sanudo, in occasione della sua morte nell’ottobre del 1514, annoterà: “In questa matina, fo sepulta a Santa Catarina Luzia Trivixan, qual cantava per excellentia. Era dona di tempo tuta cortesana, e molto nominata appresso musici, dove a caxa sua se reduceva tutte le virtù musicali. Et morite eri di note, et ozi 8 zorni si farà per li musici una solenne Messa a Santa Catarina, funebre, e altri officii per l’anima sua.”

Purtroppo, della sua vita non si sa moltissimo, in particolare come mai possedesse un cognome patrizio – figlia illegittima? Moglie di un nobile decaduto? Donzella senza dote? Monaca mancata? Certamente doveva esser stata un’autorità presso la comunità musicale di Venezia, se tutti i suoi musicisti l’hanno così onorata, suonandole una Messa funebre degna di una regina.  

Di nostra immaginazione – ma non improbabile considerato il mestiere di Lucia – è la sua relazione con Alessandro Demophon Venetus, compositore di frottole veneziano, attivo tra il 1480 e il 1500, probabilmente l’anno della sua morte. Nulla si conosce della sua vita privata (ma va?), tranne che fosse o un appassionato di mitologia greca – Demophon = Demofoonte di Eleusi? – o di origini greche. Della sua produzione musicale non ci è giunto moltissimo, tra cui “Vidi hor cogliendo rose” dalla poesia dell’umanista bolognese Giovanni Filoteo Achellini.

Vi proponiamo questa versione su YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=2u9G-OFZXSk

Piccolo cameo anche di Tiziano Vecellio, qui ancora in veste di allievo presso Gentile Bellini. Che il pittore cadorino fosse un talento precoce, lo dimostra che appena sedicenne gli venne commissionato il primo suo dipinto ufficiale ed autografato “Jacopo Pesaro presentato a san Pietro da papa Alessandro VI” – iniziato nel 1503 e terminato nel 1506. Nulla esclude che però avesse già dei lavori alle proprie spalle, insomma non si commissiona un dipinto così importante ad uno sbarbatello dalle qualità totalmente sconosciute. Ecco dunque la nostra licenza poetica circa l’immaginario ritratto di Maria Morosini.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

 

[1] Mazariol = “El Mazariol” è un folletto rossovestito e dalle scarpe a punta, appartenente al folklore trevigiano-bellunese, il quale si aggira per boschi e vallate assieme al suo gregge oppure in zattera sul Piave nelle notti di luna piena, facendo scherzi a destra e a manca, in una versione veneta dello shakespeariano Robin Goodfellow “Puck”, il valletto di Oberon  re delle fate in “Sogno di una notte di mezz’estate”. Infatti, all’elenco dei dispetti di Puck, mi sembrava proprio di rileggere le “imprese” del Mazariol!

La tradizione popolare ricorda ai viandanti di non calpestare le orme del Mazariol, le quali fanno dimenticare la memoria e la strada di casa. Un’altra vicenda che l’ha reso famoso è stato lo scompiglio che avrebbe portato coi suoi dispetti nel campo di Attila, salvando la città di Oderzo dagli Unni.

[2] Odhecaton = o per intero Harmonice Musices Odhecaton è la prima raccolta di musica polifonica (o d’armonia come definita all’epoca) completamente stampata a caratteri mobili. La prima edizione venne pubblicata nel 1501 a Venezia dall’editore Ottaviano Petrucci, il primo stampatore musicale italiano, e dedicata all’umanista veneziano ed ambasciatore Girolamo Donà “dalle Rose” (lo zio materno di Marco Contarini), definito dal Petrucci “suminus patronus" delle arti. Una seconda edizione uscirà nel 1503 ed una terza del 1504.

 

 

  
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