Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 27.10.2021
***********************************************************************************************************************
Capitolo
Ventiseiesimo
Confiteor
(Non
desiderare la donna altrui; Non desiderare la roba d'altri.)
Parte 1
Era molto
facile, quasi inevitabile, desiderare la donna altrui,
anche quando in miniatura. Dal giorno della loro nascita, le nobildonne
veneziane non appartenevano mai a se stesse, preziosissime pedine di un
sottile
gioco sociale, economico e politico, destinate o a qualche ancora
incognito
patrizio o a Domine Iddio.
A
Ca’ Miani l’elemento femminile s’era
rivelato piuttosto carente:
tranne per Madre – al vertice della gerarchia - zia
Maddaluzza e le mogli dei
cugini, si poteva ben dire che in quel palazzo si respirasse
un’aria quasi da
quartier militare. Crestina non aveva lasciato una sufficiente
impressione per
mitigare quello spartano rigore maschile, né in casa
né tantomeno nel
fratellastro Momolo, essendosi sposata quando lui aveva appena tre
anni. Non
significava certo che per il piccolo Miani ella fosse morta, tuttavia
quando
voleva vedere Crestina, Momolo doveva recarsi a Ca’ da Molin
alla Maddalena, in
un ambiente a lui estraneo e relazionandosi con la sorellastra alla
stessa
maniera con cui interagiva con le matrone di Ca’ Miani,
rispettoso e serio,
niente frivolezze.
Al
contrario, a Ca’ Morexini si respirava una più
muliebre
leggerezza, tra risate civettuole, delicati profumi floreali e fruscii
di
cottole. Similmente alla tavolozza del pittore, Momolo si destreggiava
tra le
variegate personalità delle sue cugine germane, scoprendo
quanto tutte
possedessero almeno una virtù a lui gradita.
Anzola
Morexini di sier Ferigo, tanto per incominciare, era la più
buona delle fanciulle; domestica, timida e molto devota, prendeva
sempre le
difese del cuginetto e se lo coccolava al petto, riempiendolo di baci e
parole
affettuose, sia di conforto che d’incoraggiamento quando
Momolo faticava a
capire le sue lezioni o si lamentava dei suoi compagni a scuola. Anche
la sorellastra
di Anzola, Maria Bolani, era molto gentile e nulla prima della morte di Padre aveva reso
più
felice Momolo di recarsi in chiesa con le cugine, mano nella mano, e di
riempire di fiori l’altare della Madonna in primavera,
pregando assieme.
Magdalena
Morexini di sier Hironimo possedeva come la cugina
Anzola un carattere introverso, ma la sua non corrispondeva ad una
timidezza
soave, bensì a quella guardinga di chi s’era vista
orfana di madre e quasi
subito figliastra di una donna giovane, graziosa e decisamente
più nelle grazie
del padre rispetto a lei. Unica sopravvissuta dei fratelli, Magdalena
sapeva
che sier Hironimo avrebbe di gran lunga preferito al posto suo un erede
maschio
(soprattutto per dargliela sui corni all’odiato fratello
Batista) e che
l’apparente sterilità di madona Agnese Erizo
Morexini non la sollevava da certe
occhiate deluse, come se, con lo sguardo, i seni della ragazza
potessero
svanire e crescerle un pene tra le gambe. Per questo motivo, Magdalena
aveva
l’abitudine di starsene per i fatti suoi, mal sopportando la
presenza maschile
e di fatti Momolo notò come, non appena la
pubertà aveva incominciato a
virilizzare il suo corpo, sua cugina avesse incominciato a trattarlo
più
freddamente, specie quando sier Hironimo aveva preso a regalargli doni
su doni,
ignorando la figlia.
Maria, Querina, Marina e Donata di sier Batista erano
indubbiamente le principesse di Ca’ Morexini. Querina a Momolo era sempre apparsa piuttosto scialba, la
brutta
copia di sua sorella maggiore Maria: qualsiasi cosa ella facesse, la
minore la
copiava, suscitando non poche preoccupazioni in zia Morexina, il cui
carattere
esuberante di Maria le provocava mille apprensioni, temendo in una
corruzione
della sua secondogenita femmina, più ingenua ed indifesa. In realtà,
aveva scoperto Momolo, sua
cugina Querina altro non era che una gattamorta fatta e finita: Maria
era bella
e impavida come una Diana cacciatrice col cuore però di una
generosa Venere.
Querina, al contrario, con quell’aria fragile e verginale,
con il suo perenne
pigolare delle sue sfortune e la vocina sottile e cantilenante, pareva
una
Vesta ma sotto-sotto era più ambiziosa d’una
Giunone. Se gli uomini adoravano
Maria per la sua arguzia e briosa spigliatezza, l’aria dolce,
vulnerabile e bisognosa
di protezione di Querina li imbizzarriva. Marina e Donata, le più piccole, grazie a
Dio erano
libere e selvagge come Amazzoni, non curandosi ormai
più i loro genitori
d’educarle tanto rigorosamente quanto le maggiori.
Marinella e Donatella (com’erano chiamate in famiglia per distinguerle dalle omonime parenti) ridevano, scherzavano,
giocavano spensierate
con i fratelli e cugini d’ambo i sessi ed erano talmente
spontanee nella loro
vivacità da scaldare i cuori e Momolo se le issava in
braccio a turno e le faceva
roteare tutto contento, specie perché le cuginette erano le
prime che gli correvano
incontro durante le visite.
Però,
però … era Maria la sua preferita. La splendida
Maria, dalla
pelle bianca come la spuma del latte, i capelli scuri e morbidi, le
iridi nere,
vivaci e liquide. Agli occhi di Momolo ella incarnava
l’ideale perfetto di
femminilità e nulla al mondo gli recava più
piacere, d’appoggiare la guancia
sulla sua spalla mentre lei leggeva ad alta voce o di scorrere le dita
tra i
suoi lunghi capelli sciolti con la scusa di pettinarglieli oppure,
nell’altalena improvvisata, di stringersi stretto a lei,
sincronizzando il
battito dei loro cuori, mentre si sussurravano segretucci alle orecchie. S’era, insomma, scoperto innamorato e
gli scocciava di
sentire Maria parlare ammirata e sognante di cavalieri e condottieri,
volendo
essere lui l’unico oggetto dei suoi sospiri.
Ma erano
soltanto sogni, i suoi.
Momolo
aveva sempre saputo che le sue cugine germane, in primis
Maria, terminata la loro educazione in convento, sarebbero state
maritate a
qualcuno, figlie femmine troppo utili da venir sacrificate sterilmente
alla
vita religiosa, come affermato in più occasioni dallo zio
Batista. Nella sua
mente di bambino ciò significava che Maria e le altre sue
cugine non avrebbero
più giocato con lui, il che lo rattristava un poco: anche se
capricciosa al
limite del tirannico, Maria non lo prendeva mai in giro e gli insegnava
tanti passatempi
interessanti, quali giochi di
carte sia con le trevisane che coi tarocchi (inventandosi talora
all'improvviso
nuove e strampalate regole per vincere a discapito sia di Momolo sia
delle
sorelle). L’idea di doverla cedere ad un altro compagno di
giochi innervosiva
il fanciullo, arrovellandosi su come impedirlo. Perfino nei confronti
dei
fratelli di Maria nutriva una certa gelosia, poiché
condividevano più tempo con
lei rispetto a lui.
Inoltre,
l’essersi suo malgrado ritrovato a spionciare ciò
che
marito e moglie combinano nell’intimità del
proprio talamo aveva aperto a
Momolo un mondo nuovo, pieno zeppo di mille domande sugli uomini e
sulle donne,
dalle faccende tra di loro alle differenze corporali. La sua innocenza
e
genuina curiosità gli guadagnavano tuttavia risposte vaghe e
un poco
imbarazzate, oppure sghignazzanti dai maliziosi fratelli e cugini
maggiori, i
quali non resistevano alla tentazione di scioccare il minore tramite
dettagli
crudemente scabrosi, i quali però sortivano
l’effetto di rafforzare
quell’inconscia diffidenza che Momolo nutriva verso di loro,
giudicando le loro
verità scherzi di pessimo gusto.
E sempre
perché i bambini studiano, assimilano e scimmiottano i
grandi senza però giudizio alcuno, ecco che uno dei giochi
preferiti di sua
cugina Maria consisteva nel sposarsi e fingere che le sue piavole
fossero i
suoi puttini. Ovviamente, la materia prima, ossia il marito, rimaneva
un vago
concetto a destinarsi e se un piccato Momolo chiedeva alla Morexini
dove si
trovasse il sior marido, lei rispondeva con nonchalance “in
mare, patron di
galea”.
Sicché,
stufo marcio di star lì a fare sempre lo
“zio”, un giorno
Momolo osò metter in pratica quella
cosetta ch’aveva di nascosto
visto far Padre a Madre.
I due
cugini stavano giocando in giardino a Ca’ Morexini quando
Momolo, di punto in bianco, aveva afferrato Maria per le spalle e le
aveva
stampato un bacio sulla bocca, davanti alla sorella Querina, che subito
corse a
fare la spia, gelosa più che scandalizzata. Anzola e la sorellastra Maria Bolani
s’erano messe a ridere di
cuore e pure Magdalena, scuotendo
affettuosamente il
capo. Quanto a Maria, immediatamente ella storse le labbra e
cacciò fuori disgustata
la lingua, appioppando al cuginetto un sonoro ceffone.
“Ma
perché?”
“Che
schifezze fai?”
“Ciò,
quel che fanno marito e moglie!”
“Non
è vero, te lo sei inventato!”
“E
invece sì: il sior mio Pare lo fa sempre alla mia siora
Mare,
quando esce per lavorare, quando rincasa, quando è in studio
e prima di andare
a letto!”
“I
miei siori genitori non lo fanno mai, quindi stai mentendo!”
“E’
la verità, ti dico! E se vuoi giocare alla moglie, devi
baciare tuo marito!”
“Sei
un bugiardo!”
“Non
sono bugiardo!”
“E
pure porcello!”
“Non
è vero!”
“E
poi tu non sei manco mio marito!”
“Allora
sposami e poi ti bacio ancora!”
Al che
Maria lo schiaffeggiò di nuovo e corse piangendo da sua
madre, madona Morexina, accusando Momolo di comportarsi da lascivo
Tarquinio.
Ne conseguirono una tirata d’orecchi e un solenne sermone da
parte della zia,
laddove ella ricordava pedantemente al nipote della reputazione della
cugina,
la quale doveva rimanere impeccabile se desiderava trovare un buon
partito, e
in generale l’ammoniva di rispettare ora e per sempre il
pudore delle putte
onorate, che mai andava violato sì
impunemente. “Sii grato, bestiaccia,
che il tuo sior Barba ti concede di frequentare le tue zermane! In
alcune
famiglie soltanto i fratelli posso interagire con le sorelle
nubili!” Pur
arrossendo furiosamente dall’umiliazione, Momolo non si
considerò affatto
colpevole per il suo gesto, in fin dei conti lui aveva proposto a sua
cugina di
sposarlo e poi manco ci credeva ch’avesse un fidanzato,
figurarsi un marito!
Inoltre – e qui il fanciullo sorrise tra sé e
sé perfido – qualcosa gli diceva
che sua zia Morexina sotto-sotto stesse crepando d’invidia,
poiché anche a lei
sarebbe piaciuto esser baciata più spesso dallo zio Batista
e a nulla valeva
quel suo rimproverare Madre e Padre per le loro effusioni amorose, da
lei
giudicate inappropriati atteggiamenti
d’adolescenti al primo amoretto
estivo. Sicché il piccolo Miani, al rientro in
casa dello zio Batista, gli
era andato dritto incontro e, mani sui fianchi, aveva chiesto:
“Sior Barba, posso sposarmi vostra
figlia, sì
o no?” e il Morexini, ch’aveva capito
che più s’ostacolava il nipote e più
quegli remava contro, aveva risposto falsamente solenne: “Quanto diverrai Missier Capitan Generale da Mar, te
la darò in moglie”.
Furbo lui.
In ogni
modo, la cottarella verso la cugina scomparve tanto
velocemente quanto era nata, stroncata dalla morte di Padre, la quale
coincise
col trasferimento di Anzola, Magdalena, Maria e Querina al
convento, là
dove per cinque anni avrebbero migliorato le loro competenze di
matrone, in un
ambiente esclusivamente femminile e al sicuro dalle insidie degli
uomini e
dalle tentazioni carnali.
O almeno
si sperava.
Il 26
ottobre 1502 scoppiò infatti l’ennesimo scandalo
dietro le
mura conventuali, stavolta al Monastero di Santa Maria delle Vergini,
nel
sestiere di Castello. L’Avogador sier Francesco Foschari si
vide arrivare in
Quarantia Criminal una banda di munegini, tra cui sier Vicenzo q. sier
Ziprian
Morexini, il nipote di Maria Morexini Miani cugina di Madre. Nessuno
dei
Morexini di San Cassian si sorprese di tale arresto, ben avvezzi alla
sua
consolidata fama di puttaniere impenitente; eppure, nella disgrazia
sier
Anzolo, fratello maggiore di Vicenzo, vi scorse una ghiotta
possibilità per
imbrigliare finalmente quel cavallo pazzo del minore e al contempo
punirlo ad
perpetuam della sua sfrenata lussuria. Al culmine di un processo durato
ben
quindici mesi, sier Anzolo aveva costretto Vicenzo a dire che
sì, egli aveva in
più occasioni conosciuto carnalmente la giovane monaca
Franceschina Boldù di
sier Alvixe, ma in quanto spinto dall’immenso amore che
nutriva nei suoi
confronti e pertanto era prontissimo a riparare, sposandola. Ai
Boldù non parve
vero di stringere tale vantaggiosa alleanza e l’Avogador si
ritenne
soddisfatto. Vicenzo scontò dunque prima la condanna emanata
dalla Quarantia
Criminal e poi quella da suo fratello Anzolo. Perché madona
Franceschina Boldù
Morexini mica era una agnellina di primo pelo, oh no! Oltre ad essere
l’amante
di Vicenzo Morexini, costei aveva condiviso per anni il suo letto con
sier Zorzi
Contarini e con sier Bernardo Pixani, rendendo quest’ultimo
padre di più d’un
figlio.
“E come se
non bastasse”, se
la rideva la cantante e la cortigian honorata Luzia Trivixan, “il caro sier Bernardo, oltre a madona
Franceschina, se la spassava anche con madona Benedicta Lego sua
consorella! Sapete
come s’introducevano? Usando scale e le piante rampicanti!
Addirittura, codeste
monache non soltanto intrattenevano commerci carnali con patrizi e
cittadini
veneziani, ma pure da fuori: tre loro amanti se le sono portate a
Vicenza per
sollazzarsi allegramente, con la scusa di un pellegrinaggio al
santuario di
Monte Berico” e prese fiato, asciugandosi le
lacrime agli occhi. “Santa Cecilia
mia! Neppure a casa mia c’è
tutto questo viavai di uomini!”
“Ma
neanche alle Carampane!”, sbottò invece sier Batista,
sorprendendo
Momolo per il tono stranamente perentorio dello zio. “L’ho
sempre detto, che Le Vergini non è un luogo onesto: sin dai
tempi
del Doge Francesco Foschari è sempre stato invischiato in
turpi negozi, con le
sue monache più in calore delle gatte ed una di queste
adesso ce la ritroviamo
pure in famiglia! Ma che diavolo è saltato in testa al mio
cugino Anzolo d’ammogliare
suo fratello a quella mamola?!”
“Personalmente,
lo trovo un raffinato contrappasso, roba che il sommo Dante
applaudirebbe:
poiché sier Vicenzo è un disonesto dunque si
sposi una disonesta!”
“Momolo,
ti ho forse detto di smetterla d’esercitarti col liuto? Non
far perdere tempo
alla Luzietta!”
“Oh, mo’
via, sier Batista”, corse
Luzia in aiuto di Momolo,
accarezzandogli la zazzera indomita e provocandogli un attorcigliamento
di
budella. “Il vostro nezzo ha
ragione: una
puttana per un puttaniere, il castigo perfetto!”
“Ma il
Pixani? Il Contarini? Chi c’assicura che quella svioldra
cesserà d’intrattenerli?
Bone Jesu, ha avuto dei figli dal primo! Non finirà che
Vicenzo la mantiene e
gli altri se la galdono? (godono, ndr.)”
“Bah, per
me a loro non farà differenza: in inverno, vedrete, si
scalderanno in quattro
in letto!”, gettò indietro il
capo la
Trivixan, ilare. E facendo un occhiolino a Momolo, si sedette sulle
ginocchia
dello zio, ticchettandogli la punta del naso,
l’apostrofò giocosamente: “La
verità è che voi siete invidioso,
perché
sier Bernardo, sier Vicenzo e sier Zorzi hanno tutti avuto
gratuitamente
accesso alla mona di madona Franceschina, mentre voi per la mia
…” e come
terminò la frase Momolo non l’apprese, sia
perché la cortigiana honorata l’aveva
sussurrata maliziosamente all’orecchio dello zio, sia
perché l’intera
conversazione unita a quell’effusione amorosa gli stava
provocando una certa
tensione dentro la braghetta, costringendolo ad appoggiare il liuto e a
correre
via dalla stanza, le gote in fiamme.
Pettegolezzi
a parte, effettivamente Momolo aveva in più occasioni
sentito su di sé lo sguardo voglioso di educande, novizie e
perfino delle
monache da dietro le grate del parlatorio, quando si recava in visita
alle sue
cugine onde portare loro di nascosto un libro o per ciacolare del
più e del
meno. Occhiate di fuoco che lo spogliavano strato dopo strato,
confessandogli
desideri della più ormonale lascivia e non si
poté dire che il ragazzino non le
ricambiasse, avvicinandosi magari al ferro e appoggiando sopra
d’esso la mano,
intrecciando “casualmente” le dita ora con educante
e ora con postulanti o
novizie, desiderandole tutte e nessuna in particolare, ninfe ridenti e
maliziose anche se nero o biancovestite. Gli anni a seguito di Madre e
di tutte
le sottane di casa gli avevano insegnato una rara arte, declamata dal
medesimo
Ovidio, ossia di saper ascoltare le donne: qualsiasi confidenza e
conversazione, anche se banale e noiosa, Momolo le ascoltava serio e
attento,
commentando vivacemente e anzi, pure incoraggiando quelle recluse a
fornirgli
maggiori dettagli. Sicché, estasiate da cotanti riguardi nei
loro confronti, le
signorine si contendevano la sua compagnia e gli sussurravano
all’orecchio
paroline infuocate.
Tali
visite cessarono per un breve periodo, quando le sue germane ritornarono nel
mondo e vennero piazzate sul mercato, in attesa che i signor padri
pescassero
l’anguilla giusta per loro, come avvenne per Maria, la quale tre anni dopo si sposò in sier Zuanne Querini di Stampalia e Amorgo. Le visite al convento ripresero invece nel momento in
cui sua
nipote Dionora da Molin seguì le orme delle parenti,
divenuta
la giovinetta amica di Marina Morexini, figlia ed erede universale
dell’ognora vituperato e ricco sier Orsato Morexini.
Pur
divisi dall’età, la fanciulla sin da piccola aveva
dimostrato
un’incredibile precocità di pensiero, forse per
difendersi dalle follie di sua
madre madona Pellegrina Nani relicta Morexini, la quale se avesse
potuto più
che in convento l’avrebbe rinchiusa nella più alta
torre fortificata della
Serenissima, tanto temeva l’unica figlia finire vittima di
cacciatori di dote
senza scrupoli. Prima di venir bandito dalla sua presenza, giudicato
appunto
una delle sopracitate canaglie, lei ed Hironimo avevano condiviso una
delicata
amicizia, accomunati da un lutto inconsolabile, la morte precoce dei
rispettivi
padri, e pertanto conversando in sintonia perfetta. Il giovane Miani
l’aveva
rivista in via straordinaria al matrimonio di Maria, stentando di
riconoscere
l’antica amichetta in quella donnina: a confronto, la
dodicenne sua nipote
Dionora pareva fisicamente
ancora una
bimbetta, spigolosa, piatta e dai fianchi stetti, tutta gambe lunghe;
al
contrario la sua amica, di un anno più anziana, era maturata
in fretta,
prosperosa ma non troppo di seno, morbida e sinuosa.
Ma la
cosa più straordinaria era che Marina non s’era
affatto
scordata del loro legame, per quanto platonico esso fosse stato,
supplicandolo
con sospettosa arte di venirla a trovare più spesso in
convento, così da
scacciare la noia e se non per amor suo, per la povera Dionora lì tutta sola soletta.
Hironimo
s’era prestato volentieri a quello che, in fin dei conti,
per lui si trattava di un gioco: non gli dispiaceva ridacchiare a
questo o
quell’aneddoto di vita conventuale assieme alle tre educande,
né di divertirle
invitando dei burattinai ad improvvisare uno spettacolino, del quale si
giovavano anche le altre fanciulle, sempre al sicuro dietro la grata.
Aveva
accettato volentieri i fazzoletti ricamati da Marina, così
come lei divorava i
designi allegorici che Hironimo le passava, decifrando talvolta rebus
contenenti qualche battuta di spirito o la risposta ad un indovinello
che lui
le poneva. Ben presto però Marina iniziò a
replicare con altrettante allegorie
amorose e Hironimo rispose con cavalleresca leggerezza, rammentandosi
che si
trovava dinanzi ad una bambina che giocava alla donna. Non
l’incoraggiava né
scoraggiava, poiché sapeva che l’incanto sarebbe
sfumato non appena Marina avesse
terminato gli studi.
“Oggi
è il mio compleanno e non mi avete portato neanche un dono:
sappiate, che sono molto in collera con voi”, gli
confessò la quattordicenne
fanciulla, deambulando felina dietro la grata e seguita parallelamente
da
Hironimo, che ridacchiò:
“Non
vi piace il nastro di seta, che v’ho regalato?”
Marina
alzò la lunga e pesante manica, rivelando la pregiata
stoffa fasciante il polso e chiusa in un elaborato fiocco.
“Non la posso
mostrare a chicchessia”, storse la boccuccia.
“Inoltre, l’ho trovato un regalo
assai freddo.”
“Freddo?”
La
giovinetta si fermò all’improvviso, afferrando le
sbarre con
ambedue le mani. “Se voi m’amaste sul serio,
m’avreste donato un bacio!”
Il
patrizio rise di cuore, scuotendo ilare il capo. “E
come?”,
disse, alludendo alla grata, che impossibilitava tali effusioni, ideata
forse
apposta.
“Avreste
trovato il modo!”, replicò cocciuta ed imbronciata
Marina. “Vi odio, Hironimo Miani, non vi parlerò
mai più in vita mia!”
“Mo’
via, quante storie! Non fate i capricci!”, la
rimproverò il
ragazzo scherzosamente, pur avvicinandosi alla grata.
“E
voi non fatemi morire di dolore!”, piagnucolò la
fanciulla.
“Cosa
dirà il vostro novizzo?”
“Non
ho alcun novizzo; amo soltanto voi, l’unico che
desidera me e non i miei
soldi!”, sbottò Marina, asciugandosi
le lacrime che incominciavano ad inumidirle i grandi occhi allungati.
Un
po’ per colpa, un po’ per curiosità, un
po’ perché dinanzi ad
una bella ma piangente ragazza il cuore dell’uomo tende a
sciogliersi in
fretta, Hironimo cedette alle insistenze della giovinetta e si
portò due dita
alle labbra, prontamente imitato da lei. Ambedue schioccarono un sonoro
bacio
sui polpastrelli e in contemporanea infilarono il braccio dalla parte
opposta
della grata, accarezzando la rispettiva bocca, sennonché
all’improvviso Marina
gli catturò l’indice coi denti, mordendolo a
mo’ di punizione per la sua
insensibilità e poi suggerlo languidamente, provocando
un’inaspettata scarica
di caldo e freddo nel ragazzo, di mollezza e durezza di membra.
D’istinto,
mandando al diavolo (con ogni rispetto per il luogo) le conseguenze,
Hironimo
ghermì la mano di Marina e s’infilò in
bocca il sottile medio di lei,
accarezzandole la falange con la lingua, avvolgendola in un umido
abbraccio.
Senza accorgersene i due giovani si spinsero contro il muro e la grata
e
congiunsero in sincronia perfetta le loro bocche, intrecciando le mani
mentre
Marina afferrava quella destra d’Hironimo per porsela sul
seno sinistro e
massaggiarselo in movimenti circolari, il sangue ribollente nelle vene.
Quand’ecco
che l’eco dei passi li gelò, portandoli a
staccarsi
rapidissimi, il fiato mozzo e irregolare, fissandosi increduli e
complici negli
occhi.
“Verrete
domani?”, ansimò Marina, sorda al richiamo lontano
della suora
responsabile delle educande.
Hironimo
non si recò più al convento, inviando soltanto
lettere
alla nipote e senza
mai
menzionare la Morexini. La consapevolezza di quanto compiuto gli era
crollata
addosso più pesante d’un macigno: era sbagliato,
sbagliatissimo, com’aveva
potuto cedere a quella debolezza? D’approfittarsi
sfacciatamente dell’ingenua
infatuazione di Marina? Lui le era maggiore, avrebbe dovuto comportarsi
da
responsabile e impedirle di compromettersi per un capriccio temporaneo.
Non
aveva un novizzo, vero, ma si trattava di questione di tempo. Sua madre
madona Pellegrina
Nani relicta Morexini non si sarebbe certo piegata dinanzi ai
sentimenti acerbi
della figlia e il giovane Miani non l’avrebbe trascinata nel
lussurioso
adulterio per soddisfare le sue brame. Lei non era sua,
quell’ereditiera cui a
tutta Venezia faceva gola.
In tali
colpevoli pensieri e agitazione d’animo lei l’aveva
scovato e corteggiato, lasciandosi Hironimo sedurre anche per
dimenticare lo
schifo che provava verso se stesso. Inoltre, s’era ripetuto
la prima volta in
cui i due novelli amanti s’erano appassionatamente congiunti,
la sua amante era
vedova e un morto non corrispondeva ad un granché come
rivale. Anzi, al dì del
funerale, onde sottolineare il concetto, era
usanza che il compare dell’anello o un
parente del morto sfilasse pubblicamente la vera nuziale dal dito della
vedova,
segno che ogni legame terreno e spirituale col defunto veniva reciso,
che la
donna ritornava libera di sposare chiunque ella desiderasse.
(Madre a
tal riguardo aveva fatto il diavolo a quattro,
rifiutandosi categoricamente di sottostare a quel rituale tra lo
sconcerto
generale e rimproveri di melodrammaticità, stringendosi
invece caparbia la fede
e sostenendo che, da viva come da morta, ella sarebbe sempre stata la
donna di
Anzolo Miani e di nessun altro.)
***
In fin
dei conti, per motivi di spazio fisico e di storia, Venezia
aveva sempre vissuto in un mondo tutto suo, con le sue regole e la sua
morale,
infischiandosene dell’altrui opinione, semmai traendo diletto
dallo stupore ed
indignazione dei foresti, adorando semplicemente sconvolgerli e
così ridicolizzarli.
Tra i
suoi molti atipici costumi, i visitatori stranieri avevano
spesso notato come mai in nessun luogo si fossero visti tanti devoti e
tanta
poca devozione come a Venezia e ciononostante, i suoi abitanti
possedevano una
religiosità da riuscire ugualmente a stupirli: ad esempio, i
veneziani potevano
tranquillamente donare ingenti somme di denaro nei loro testamenti a
questo o
quell’ordine religioso e magari un attimo dopo schernivano
pesantemente e
strapazzavano il loro parroco o qualche pio monsignore; bestemmiavano
perfino i
morti eppure recitavano con sincero fervore i loro Paternostri e
Avemarie;
baciavano le sante reliquie e con la stessa bocca quella di una
ragazzotta
compiacente; un patrizio manteneva pubblicamente e senza alcun biasimo
una
cortigiana honorata, anche in casa al limite di un concubinato da harem,
ma allo
stesso tempo egli non avrebbe mancato la sua Messa per nulla al mondo.
D’altronde,
riguardo a quest’ultimo punto, la qualifica di
“cortigiana” non disonorava nella città
lagunare, bensì dava credito e per una di queste donne di partido, sier Zuan Moro era uscito da una rissa sfregiato sul volto, malgrado a casa sua e dei due suoi rivali li attendessero mogli molto avvenenti. E se per le cortigiane di lume gli uomini erano disposti a bagarrare, figurarsi allora l'effetto delle cortigiane
“honorate” su di loro, ricercatissime e degne eredi della
greca Aspasia. I nobili si disputavano accanitamente i loro favori e il
popolo
la loro mano, mentre i pittori le tallonavano per immortalarne il vago
volto in
una qualche santa o dea. Costoro si trovavano al vertice della
gerarchia delle
amiche di letto e permettersi la loro compagnia confermava in
società
l’importanza, la ricchezza e la cultura dei loro clienti,
nonché un’ottima
opportunità d’intrecciare utili amicizie politiche
e sociali, con la scusa di
frequentare gli eventi mondani organizzati da quelle moderne eteree.
Stanchi
delle fatiche della politica e magari delle lagne delle
mogli o il chiasso dei figli, se maritati, o vogliosi di compagnia, se
celibi,
i patrizi veneziani spesso e volentieri si abbandonavano alle piacevoli
festicciole preparate ad arte dalle cortigiane honorate, invitati a cene
raffinate nei loro stravaganti e ricchissimi appartamenti, in cui non
esistevano né censori né saggi, né
ambasciate né guerra, bensì un mondo segreto
creato esclusivamente per loro e fatto di sola effimera bellezza, dove
codeste
dee incantatrici cantavano, danzavano, suonavano il
liuto,
improvvisavano versi e donavano quel pizzico di sensualità
che, vuoi per
pudore, mancanza di slancio o semplicemente l’età,
la sposa non poteva offrire.
Qualora
la cortigiana honorata (od onesta) fosse diventata un’estensione della
famiglia del suo protettore, non era strano che si trasferisse in un
piano del
suo palazzo né che chiamasse il suo protettore (o protettori) "Mio signor" né che la moglie legittima ci pranzasse assieme,
spesso divenendo
amiche intime e ciò non per cristiana e muliebre
bontà della patrizia, bensì
per puro e gretto tornaconto personale e inoltre la mantenuta, se
sveglia, ben
le conveniva non discutere sulla gerarchia domestica.
L’amante serviva ad
intrattenere in ogni senso il marito, distraendolo dalla moglie che
rimaneva
finalmente libera dalle gravidanze e di gestire la casa a suo
piacimento. Secondo, la cortigiana era la sua spia perfetta, la quale le
riferiva
ogni spostamento del consorte. Terzo, garantiva più
possibilità all’intera
famiglia d’evitare di contrarre il malfrancese. Quarto, la
patrizia avrebbe
visto più spesso in casa il marito, risparmiando inoltre
sulla tariffa visto
che vitto e alloggio erano già inclusi.
Ulteriore
meraviglia per gli stranieri era, poi, come i patrizi
veneziani non tendessero a riservarsi il godimento esclusivo delle
amanti: pur
mantenendo una cortigiana honorata, onesta o di lume, il nobile se la divideva allegramente
con tre
o quattro dei suoi amici o parenti, la donna il loro collante e
portavoce. Tale
liberalità però non doveva esser scambiata per
incauto laissez-faire: anche in
questi piccoli e intimi gruppi vigevano regole non scritte, laddove la
mantenuta, pur seguitando pubblicamente ad intrattenere con musiche e
conversazioni brillanti, s’impegnava a cedere i suoi favori
solo alla sua
ristretta cerchia, nessun intruso ammesso. Contrariamente alle
cortigiane di
lume, oneste e honorate a briglia sciolta, la mantenuta poteva ben
rifiutare i suoi
servigi a chi non le andava o a chi le veniva proibito e a suo modo
sentirsi
“fedele” al protettore e/o protettori.
Di sicuro
non si faceva di un’erba un fascio e anche a Venezia
esistevano mogli gelose e mariti fedeli, che personalmente non
condividevano
tali pratiche, ma neanche le giudicavano, semmai scherzandoci sopra.
Rimaneva
comunque una situazione ambigua, specie per gli esclusi
dal cerchio, poiché in un certo senso la mantenuta
rappresentava il suo gruppo
e un suo sbaglio si ripercuoteva anche sulla loro reputazione,
associarsi a lei
significava essere ammesso nel circolo, uno sgarbo da un estraneo
equivaleva ad
un insulto a chi la proteggeva.
Quando
Hironimo conobbe per la prima volta Luzia Trivixan, egli
aveva appena sette anni ma ci sarebbero voluti altri anni e un secondo
incontro
ufficiale per capire meglio, chi ella fosse e che ruolo avesse nella
loro
famiglia. Nella sua ingenuità l’aveva creduta una
favolosa cantante, una
nobildonna ospite della Regina di Cipro, ingannato dal cognome patrizio
della
cortigiana, uno dei molti misteri della Diva, del cui passato ella si
dimostrava stranamente gelosa.
Di quel
lontano maggio del 1493, il Miani si sovveniva a spezzoni,
spesso sconnessi tra di loro e della Trivixan uno stralcio di
conversazione
origliato tra lei e il suo barba.
All’epoca,
sier Batista Morexini stava completando il suo mandato
come provveditore sopra il Polesine di Rovigo, assieme ai colleghi sier
Lucha
Trum di Antonio e sier Francesco Bragadin q. sier Jacomo. Purtroppo, un
qualcosa di quelle terre gli aveva raffreddato lo stomaco e in seguito
a molto
vomitare ed evacuare più acqua che feci, il Morexini aveva
scritto alla
Signoria, chiedendo e ottenendo un breve rimpatrio onde curarsi meglio,
non
confidando nella bravura dei medici rodigini né di far da
cavia a quelli
padovani. A sua moglie madona Morexina, che l’aveva
accompagnato, non pareva
vero di poter finalmente ritornare alla civiltà,
lamentandosi con la cognata
madona Leonora e domandandole il suo segreto, su come avesse fatto a
sopravvivere quando sier Anzolo aveva ricoperto la medesima carica nel
1488.
Madre le aveva raccontato che all’epoca c’era molto
da fare ed erano sempre
stati impegnati in mille attività, tra opere di bonifica, di
potenziamento
urbano e stradale, di smantellamento di ogni traccia del dominio
estense da
Rovigo e dalle altre città del Polesine. Praticamente il
fratello viveva di
rendita del lavoro del cognato e di sier Agustin Barbarigo, ora Doge ma
primo
provveditore delle nuove terre annesse alla Serenissima.
“Il
loro accento è così terribile, come facevi a
capirlo?”
“Dopo
due anni a Feltre, dove si parla un misto tra
veneto-trevigiano e ladino, nessuna parlata all’interno della
Signoria m’ha più
spaventata!”, scherzava madona Leonora dinanzi alle
perplessità della cognata.
Le era
dispiaciuto moltissimo lasciare Feltre, così come i suoi
abitanti avevano pianto commossi il dì della partenza del
loro beneamato
podestà e capitano e della sua famiglia. Leonora si era
affezionata a quella
gente montanara; al vecchio monaco della basilica-santuario dei Santi
Vittore e
Corona che le preparava deliziose tisane, talvolta solo per il gusto di
bere
qualcosa di gradevole al posto del vino. Le sarebbe mancato il sole
forte e
caldo e l’aria frizzante e tersa, nonché quel
perpetuo odore d’erba fresca e di
latte appena munto. Perfino all’ululato dei lupi in inverno
s’era abituata, non
terrorizzandola più come la prima volta. Inoltre –
e qui Madre arrossiva per
quella sua piccola vanità – rimpiangeva un poco
non trovarsi più al centro
dell’attenzione: in conformità al titolo e al
grado del marito, a Feltre la si
chiamava madonna podestaressa e capitana e
in quanto tale
doveva mostrarsi in pubblico vestita sontuosamente, le vesti di diversi
colori
di broccati, seta, d’oro ed argento ed i capelli racchiusi in
un’elaborata
acconciatura ricca di perle e d’altre gioie, a malapena
celata da un velo di
seta bianco con trine d’oro. Quando usciva dal palazzo
pretorio in visita o per
recarsi nelle varie chiese, conventi e monasteri di Feltre per questa o
quella
devozione, Leonora era sempre accompagnata da un variopinto e
civettante corteo
di nobildonne locali e da una moltitudine di serve, tenendo
così la sua piccola
corte.
Trasferirsi
a Rovigo non era stato facile, l’ambiente
tutt’altro
che amichevole, malgrado fossero trascorsi ben quattro anni dalla Pace
di
Bagnolo; forse troppo pochi per far dimenticare a certuni irriducibili,
come
sier Anzolo fosse stato capitano di galea durante la Guerra del Sale e
rivederselo ritornare assieme ai colleghi sier Andrea Venier q. Lion e
sier
Domenego Zorzi q. Francesco, non doveva aver evocato graditi ricordi.
Forse
quella sottile ostilità aveva spinto i tre provveditori
ad’intraprendere una
linea politica particolarmente dura, stufi marci di
quell’ostinatezza da muli:
la Signoria s’era dimostrata paziente e tollerante,
conservando in parte alcuni
statuti estensi ma guai a chi scambiava la sua diplomazia per
debolezza,
sperandola di gabbare. Sicché, all’ennesima
provocazione, i tre provveditori
erano scesi col piede guerra e ogni simbolo degli Este era stato
abbattuto e
rimpiazzato da quelli della Serenissima, incominciando
dall’antico castello,
bruciato prima e smantellato poi.
Inutile
dire quanto madona Leonora fosse stata contenta di
rimpatriare a Venezia l’anno successivo, sorridendo di gioia
pura alla vista
della Torre delle Bebbe, l’antico segno di confine veneziano.
Di conseguenza,
un po’ biasimava la mancanza di stoicismo nella cognata
madona Morexina, la
quale stava risiedendo in una Rovigo totalmente diversa, più
venezianizzata
rispetto a quella di cinque anni addietro.
E
parlando del diavolo – cioè gli Este –
una settimana dopo il
rientro di un sofferente sier Batista Morexini, a Venezia si
festeggiava la
Festa della Sensa cui avevano partecipato anche il marchesi di Mantova,
Francesco Gonzaga ed Isabella d’Este, giunti separatamente,
prima la moglie e
poi il marito, entrambi “domesticamente” , ovvero
senza un comitato di
benvenuto ad accoglierli. I Marchesi avevano assistito in bucintoro
allo
Sposalizio del Mare e alla sera cenato a Palazzo Ducale assieme al doge
Agustin
Barbarigo. Madona Crestina Miani da Molin, scelta per il corteo di
patrizie che
doveva accompagnare ovunque la Marchesa per l’intera durata
del suo soggiorno,
aveva raccontato ai curiosissimi parenti ogni minimo dettaglio di
quella
visita, provocandone il riso specie quando descriveva le differenze
comportamentali tra i due coniugi mantovani, tanto raffinata al limite
dell’affettato lei, quanto terra a terra e assai
volgare lui.
“Siccome
ho dato una buona impressione, mi hanno poi confermata
per far parte del seguito delle nostre prossime ospiti”,
confessò Crestina a
Madre, eccitatissima. Approfittando degli ultimi strascichi della Festa
della
Sensa, la Signoria stava lavorando puntigliosamente per accogliere al
meglio Eleonora
d’Aragona duchessa di Ferrara; suo figlio don Alfonso e la
nuora Anna Maria
Sforza e la secondogenita Beatrice d’Este duchessa di Bari,
moglie di Ludovico
il Moro, nonché un corteo di quasi 1200 persone, tra nobili
milanesi e
ferraresi. “Purtroppo non avrò tempo per ordinare
gioielli nuovi e si sa che la
Ducissa di Bari ne ha una sfilza di bellissimi …”
e chissà dei 900.000 ducati
spesi annualmente solo dalla città di Milano a Venezia
(contro il milione e
mezzo dell’intero Ducato) quale fosse la percentuale di
contributo personale
della giovane e insaziabile Beatrice d’Este, i cui ordini
includevano rubini di
Pegù, diamanti di Deccan, zaffiri, topazi e giacinti di
Ceylon, smeraldi
dall’India, turchesi del Khorassan e del golfo Persico,
onice, corniola
d’Arabia, cristallo di rocca del Zabulistan e del Badakhshan,
occhi di gatto
del Malabar, lapislazzuli della Tartaria. I vizi costano e la
Serenissima si
dimostrava solerte e generosa nel coccolare spudoratamente i suoi
clienti,
trasportando le sue agili galee ogni genere di bendiddio.
“Sì,
la Ducissa ne avrà di costosi, ma nessuno regalato
dall’Imperatrice in persona!”, la
consolò madona Leonora, abbandonando
momentaneamente il suo ricamo e, ritornata dalla sua stanza, le cedette
una
scatola laccata, dove la figliastra trovò avvolto in un
panno di velluto due
giri di pingui perle con un grosso pendente di zaffiro, incastonato in
un
cerchio di nove perle dalle dimensioni di nocciole. Era stato un regalo
di D.
Leonor d’Avis di Portogallo, defunta Imperatrice, venuta in
visita a Venezia
nel maggio del 1452 e madrina della Morexini. “Ti presto
questa collana più che
volentieri, ormai per me le occasioni d’indossarla stanno
diminuendo”, asserì
ad una commossa Crestina, la quale dimentica del suo lavoro
indossò celere il
vezzo e si ammirò allo specchio, tra i complimenti delle
altre nobildonne lì
presenti.
“Vi
ringrazio, siora Mare: s’accompagnerà benissimo
alla mia
coroncina di perle!”
Sua zia
Morexina, lì seduta accanto, non volle esser da meno e le
mise a disposizione i suoi veli di seta talmente trasparenti, morbidi e
lucenti, da sembrare vaporosi spicchi di nuvole. Inoltre, le erano
appena
giunte dal sarto delle manichette in panno d’oro, che col
vestito cremesino
della nipote sarebbero state d’incanto. Madona Barbara Moro
Morexini, moglie di
sier Hironimo Morexini, invece s’offri di imprestarle uno dei
suoi ventolini,
esotiche bizzarrie portatale da suo fratello sier Christofal Moro dal
Levante.
“Quale
preferite, mia cara, quello dal manico d’avorio e dalla
striscia di damasco o quello d’ambra dalla striscia fatta di
penne di pavone
bianco?”
“Quello
di pavone! Quello di pavone!”, le suggerì Ysabeta
Zen
relicta di sier Alvixe, biscugino di sier Anzolo, che viveva in casa
con loro.
“Giusto per vedere che faccia fa la Ducissa di
Frara!”
E le
donne risero forte fino a piegarsi quasi sui rispettivi
ricami, divertite di rara perfidia allo scherzo e inquietando parecchio
Momolo,
lì seduto in un cantuccio della stanza in attenta
osservazione di quel gineceo,
che con la scusa di ricamare e merlettare spettegolavano su tutto e
tutti, più
informate delle medesime spie della Serenissima.
“An,
quanto siete fortunata, sorela”, sospirò madona
Marina
Morexini Vituri, moglie di sier Piero Vituri, alla sorella madona
Ysabeta
Morexini Corner, moglie del cavaliere sier Zorzi Corner.
“Avrete la possibilità
di merendare a tu-per-tu con le Ducisse a casa della Reyna”,
disse, alludendo
alla festa che domina Catharina Corner stava organizzando nel suo
palazzo e
giardino a Murano. “Morexina, cara sorela, perché
v’ostinate a rifiutare
l’invito?”
Essendo
suo amico intimo nonché suo socio nella mutua, il
cavaliere aveva esteso l’invito al cognato, sier Batista
Morexini, il quale
ancora non s’era deciso se accettare o meno
l’invito, idem per sua moglie.
“Vi
pare consigliabile portare lì quel mezzo-cadavere del mio
poaro
sior marido, cussì che vomiti sul bel panno morello della
Ducissa di Bari? Inoltre, oramai la luna qui va crescendo e ogni vestito già mi sta stretto ...”, storse la bocca, allundendo al ventre che si stava ingrossando del suo settimo figlio.
“Conoscendo
il vostro sior marido, più probabile sulla
scollatura!”, scherzò madona Ysabeta, provocando
l’ennesima fitta di risolini e
un piccolo broncio nella sorella, la quale mai aveva digerito la natura
farfallona del consorte.
“Se
lo fa, lo debbono eleggere a prossimo Missier el Doxe”,
rincarò la dose madona Barbara, falsamente solenne. Poi,
alleggerendo il tono:
“Di sicuro si preannuncia una guerra all’ultimo
sfarzo, che la nostra Reyna e
domina d’Axolo potrebbe ben vincere: insomma, possiede
gioielli appartenuti
alle Reyne di Jerusalem, Cypri e Armeniae! La Ducissa di Bari
potrà comprarsene
dei più costosi, ma cos’è un vezzo
nuovo, se paragonato ad uno antico,
indossato da grandi sovrane?”
“Di
sicuro si preannuncia un trionfo dell’ipocrisia”,
commentò al
contrario cupamente Madre, il viso ben puntato sul ricamo e la fronte
aggrottata. “Per me, io non so come reagirei se mi dovessi
trovare dinanzi alla
figlia e alla nipote, di colui che ha ordinato tramite congiura
l’assassinio
del mio sior barba e del mio zerman, per di più davanti ai
miei stessi occhi,
per poi strapparmi via dal seno il mio unico figlio!”
Un gelido
silenzio s’impose nella sala, disorientando Momolo, non
capendo cosa avesse rabbuiato le nobildonne, le quali, contrariamente a
lui,
ben si ricordavano del triste passato della loro parente. Ma domina
Catharina
pur nell’isolamento e prigionia s’era dimostrata di
tempra ben più forte dei
suoi nemici, dei commissari ciprioti ed esponenti del partito
filo-napoletano
fomentato da re Ferrante d’Aragona, i quali avevano creduto
di spezzarne lo
spirito, piombandole in camera di notte e massacrandole lo zio sier
Andrea
Corner e il cugino sier Marco Bembo, accorsi a proteggerla, e
sottraendole il
figlio, il piccolo Jacques de Lusignan.
Adesso
domina Catharina dimostrava doppio coraggio a voler
fronteggiare, senza provare alcun prurito alle mani, la figlia e la
nipote del
Re di Napoli, la fonte primaria dei suoi lutti familiari,
nonché causa della
forzata abdicazione e perdita del suo regno, annesso alla Serenissima a
seguito
dell’ennesimo complotto, nonché delle
dichiarazioni di nuove nozze da parte
della regina.
Togliendosi
il vezzo di perle e riponendolo nella scatolina,
madona Crestina tossicchiò un attimo, cercando di ravvivare
la conversazione.
“Siora Amia Morexina, pensate almeno d’accettare
l’invito della Reyna alla
colazione di domani?”
Grata di
quel cambio di discorso, la patrizia convenne. “Un
po’
d’aria fresca gioverà a mio marido,
così anche da capire se sarà o meno in
grado di resistere alla festa in onore delle ducisse!”
“Posso
venire anch’io, siora Mare?”, s’intromise
ad un tratto
Momolo, stufo d’ascoltare e attirando su di sé
ogni muliebre sguardo.
“Ma
certo, tesoro, la Reyna stessa ha insistito!”,
l’assicurò
Madre, la cui cognata acquisita possedeva un rapporto un po’
ambivalente nei
confronti dei bambini: se da una parte li adorava e le piaceva
circondarsi
della piccola truppa di nipotini, dall’altra le davano sui
nervi, ricordandole
il figlioletto premortole, il suo Jacques. Evidentemente, in quel
momento la
Regina e signora di Asolo si sentiva più incline al primo
umore.
“Ho
sentito che mia cognata ha invitato anche Luzia Trivixan, per
un concerto dopo la refezione”, aggiunse madona Ysabeta,
puntando l’ago e,
alzatasi dallo sgabello, inarcando e stiracchiando la schiena
irrigiditasi.
“Trivixan?”,
ripeté madona Marina. “La moglie di chi?”
“Di
nessuno. Di qualcuno. Di tutta Veniexia”, le rispose
maliziosa
madona Barbara, il cui fratello sier Christofal apparteneva alla
medesima
categoria di cottoloni del cognato sier Batista.
“E’ una cortigiana honorata e,
dicono, a soli diciott’anni la migliore cantante della
Signoria!"
Il viso
di madona Morexina sbiancò. “Una cortigiana? Alla
presenza
dei bambini? Ma è impazzita mia cugnada? Se voleva delle
cantanti, poteva
invitare quelle eccellenti monache agostiniane!”
“Oh,
mo’ via, barbosa pizzocchera! È un concerto
diurno, di
cos’avete paura? Che la Trivixan s’abbassi la
scollatura e mostri il seno? È
una cantante, una professionista, mica una concubina turca del Topkapi!
Inoltre, cara cugnada, vi ricordo che in fatto di lasciva reputazione,
quelle
monache di gran lunga superano la Trivixan!”
Momolo si
ritrovò d’accordissimo con sua zia madona Barbara:
aveva
già visto le grosse poppe bianche delle balie di sua nipote
Dionora e dei suoi
altri cugini, ergo non ci trovava nulla di strano se anche questa
cortigiana
(cos’era poi?) gliele avesse mostrate, specie in caso ci
fossero stati
fantolini da allattare.
“Possiede
già un protettore? O protettori?”,
inquisì madona
Marina, al contrario intrigatissima.
“Questione
di tempo”, commentò allusiva madona Barbara.
“Io
l’ho già vista a Palazzo”,
rivelò Crestina, associando
finalmente un volto al nome della cantante. “Missier el Doxe,
dopo la cena,
l’ha invitata a cantare prima del ballo e vi assicuro che
nulla del suo aspetto
appariva indecente! Di più: vestiva in maniera talmente
sobria e delicata, da
scambiarla per un vergine appena uscita dal convento!”
“Senti,
senti …”
“E
com’è lei? Fisicamente, intendo.”
Il
settenne Momolo, in retrospettiva, più che del viso
di
Luzia Trivixan si sarebbe ricordato del suo abito e non
perché fosse un frivolo
damerino, bensì perché si era immaginata
quella femena publicha,
come l’appellava sdegnosamente sua zia Morexina, una sorta
d’odalisca o di
concubina del serraglio, non dissimile dall’esotiche schiave
turche, arabe o
circasse che sbarcavano a Venezia e poi vendute a Rialto.
Piuttosto
gli era parsa più stravagante la zia acquisita domina
Catharina Corner, vestita di velluto nero con un velo di seta
trasparente
orlato d’oro e fermato da una corona di perle e gioie, sopra
una scuffia in
panno d’oro trapuntato di perline, secondo l’uso
cipriota, così come alla moda
di Cipro la Regina indossava un paio d’orecchini di perle e
rubini e l’intero
petto era una ragnatela di sottilissime collane d’oro e di
perle. A confronto,
Luzia Trivixan, giunta in compagnia del compositore Alexandro Demophon
Venetus,
si poteva benissimo confondere tra le altre gentildonne lì
presenti, indossando
anche lei una veste di velluto dalle maniche lunghe e strette fino ai
piedi che
s’apriva in un triangolo perfetto, da dove
s’intravedevano la zupa e le
manichette di differente colore, le spalle coperte pudicamente da un
trasparente velo di seta. L’unico elemento che accomunava le
due donne
rimanevano gli orecchini, sfoggiando la cortigiana un paio di filza
d’oro di
tre perle.
Giovane,
più giovane della sua sorellastra Crestina, eppure Momolo
la vedeva deambulare a suo agio tra gli ospiti, conversandovi rilassata
neanche
si trattassero d’amici di vecchia data. Rideva alle battute,
scherzava arguta,
onnipresente senza però rubar la scena alla padrona di casa,
domina Catharina,
semmai reindirizzando l’attenzione degli uomini sulla Regina
di Cipro e signora
di Asolo.
Interesse
che però ricatturò quando iniziò a
cantare e a Momolo
era venuto da piangere ascoltando quella sua voce celestiale,
sprigionata da un
corpicino così fragile e minuto. Anche il maestro Alexandro
Demophon la
guardava in estasi, mentre l’accompagnava col liuto e
conduceva gli altri
musici e il coro. Sicché, preso coraggio, durante una pausa
per il rinfresco il
fantolino era partito alla ricerca della ragazza per complimentarsi di
persona,
pizzicandola in un angolo acquattato del giardino, seminascosta dalle
fronde
profumate di piante e fiori esotici.
“Come
sono andata?”, chiedeva ansiosa Luzia al maestro Alexandro,
il quale, circondandole il bel viso tra le mani, mormorò
orgoglioso e roco:
“Sublime”,
e la baciò impetuoso, mordicchiandole goloso le labbra,
di tanto in tanto accarezzandosi le punte guizzanti delle rispettive
lingue. Le
mani dell’uomo, tanto agili e rapide sul liuto, manipolavano
con altrettanta
destrezza la gonna di lei, infilandosi sotto, scoprendo una morbida e
lattea
coscia.
“Oh,
amore mio”, sospirò la cantante, infondendo ugual
trasporto nelle
sue effusioni, strusciandosi vogliosa contro il corpo del compositore e
accarezzandogli tra le gambe, sul petto, tra i capelli fino a
spettinarlo e
fargli cascare accidentalmente la bereta. “Quea gran vacha di
la Marchesana,
ch’el diaol s’ea manzi!”,
digrignò i denti, mentre accompagnava la testa
dell’amante sulla scollatura la cui linea
s’abbassava pericolosamente a ciascun
famelico bacio di lui, “il modo in cui ti guardava! Ti voleva
portar via da me,
per collezionarti tra i suoi bamboli! Chi si crede d’essere,
quea cancara de
betonega?!”
“E
il Marchese?”, replicò a tono l’artista,
seppur più leggero e
scherzoso. “Manco s’era reso conto d’aver
finito il vino nel bicchiere, tanto
ti divorava cogli occhi! A momenti scodinzolava!”
“Perdio,
mi farebbe meno impressione l’idea scaldare il letto di
Sua Serenità el Doxe, piuttosto di star sotto a quel
cinghiale antropomorfo!”,
gettò ilare Luzia il capo all’indietro e Momolo
s’unì al lazzo, immaginandosi quel
Francesco Gonzaga con la testa d’un cinghiale al posto di una
umana.
Scoperti,
i due amanti si separarono in un balzo, guardandosi
attorno apprensivi e la cantante si sciolse in un tintinnante sorriso
alla
vista di Momolo, ancora piegato a metà dalle
risate. “Ben, ben … non
lo sai che è maleducazione origliare i discorsi
altrui?”, lo rimbeccò
giocosamente Luzia, portandosi le mani ai fianchi e sgonnellando verso
il
fantolino.
“Siete
sposati?”, chiese di rimando il giovinetto, ergendosi sulla
punta dei piedi per sembrare più grande.
La
cortigiana honorata si coprì la bocca dietro la mano,
ridacchiando. “Sì, siamo sposati nella
musica!”, gli spiegò allegra, facendo
l’occhiolino al maestro Alexandro che a sua volta
abbassò la testa, ridendosela
alla grossa. “Ora però ti riporto dal tuo sior
Pare, va bene?”
“Il
mio sior Pare non c’è oggi, è a Palazzo
per conto della
Signoria. Sapete che è stato nominato provveditore a
Zacinto?”, le annunciò
impettito Momolo, orgogliosissimo. “E presto ci trasferiremo
lì, dove il sior
mio Pare e i miei fratelli combatteranno contro i pirati saraceni e i
Turchi!
Ed io, da grande, farò lo stesso! Voglio divenire un valente comandante, come fu il mio trisavolo sier Zuanne Miani che combatté nella Guerra di Chioggia con i magnifici sier Vetor Pisani e sier Carlo Zen; che espugnò Alessio, Corfù, Argo e Napoli di Romania e che catturò nel Castello di Trevixo il tiranno Francesco da Carrara! Diverrò Capitan
Generale da Mar, così mi
sposerò mia cugina Maria. Il mio Barba me l’ha
promesso e lui mantiene sempre
le promesse!”
“Bravo,
così parla un vero veneziano: sono sicurissima, che
supererai
le gesta del magnifico sier Piero Loredan!”, convenne decisa
Luzia, senza però
alcuna traccia né di sberleffo né di sarcasmo,
come se lo ritenesse sul serio
un progetto realizzabile. “Ti accompagno dalla tua siora
Mare? Oppure” e i suoi
occhi brillarono birbanti, “andiamo a mangiarci qualche
dolcetto?”
Momolo
neanche lottò contro la tentazione, saltellando felice alla
prospettiva. “Posso prendervi la mano, madona
Luzia?”, bofonchiò poi d’un
tratto timido.
“Naturalmente”,
gliela cedette la cantante, “anzi: oggi t’eleggo
mio cavaliere e da nessun altro mi lascerò
condurre!” e lanciata una
scrollatina di spalle all’amante – Cossa
vuostu far? Xé on puteo!
– la strana coppia si diresse al tavolo
del rinfresco.
Luzia,
previdente, si sedette poco distante e incaricò Momolo di
scegliere i dolciumi anche per lei; ritornato in fretta dalla missione,
il
fantolino s’impietrì e assottigliò
geloso gli occhi alla vista del barba
Batista seduto accanto alla cortigiana, parlottando fitto-fitto con
lei. Che
poca creanza! Lei era la sua dama,
che lo zio sfarfallasse
attorno a qualcun’altra, preferibilmente sua moglie!
Al che
… “La vostra siora mojer e mia Amia, se vi vede
bere tutto
quel Recioto della Valpolicella, prima vi ammazza e poi vi resuscita e
poi vi
ammazza di nuovo!”, fu il Servo vostro,
patron! del bambino,
ponendosi bellicosamente in mezzo ai due adulti e pronto ad usare il
piatto
ricolmo di dolci a guisa d’arma.
Scrutandolo
con la medesima aria accondiscendente di una mamma
gatto, che permette ai micini di giocherellare con la sua coda, sier
Batista
sottrasse allo sdegnato nipote un tortino dal piatto, ficcandoselo a
mo’ di
sfida in bocca. “Ed io riferirò alla tua siora
Mare mia sorela, come tu ti sia
strafogato di dolci, cosicché finirai in punizione da oggi
fino al tuo ritorno
da Zacinto!”, lo ricattò senza tanti giri di
parole. “Sicché pascola altrove o
vai a giocare coi tuoi zermani.”
“No
vojo!”, batté un piede per terra Momolo,
sentendosi assai
territoriale e protettivo verso la sua dama. Lui aveva visto per primo
Luzia e,
regola fondamentale, chi trova prende.
“Non
ti preoccupare, dopo torno da te”, gli promise la cantante,
aggiungendo complice: “E t’insegno a suonare il
liuto!”
“Dasseno?”
La
cortigiana honorata annuì solenne. “Ora
però vai, il tuo sior Barba
ed io dobbiamo fare discorsi da grandi.”
Momolo
grugnì il suo disappunto, trascinando enfaticamente i
piedi. Ma alla prima curva egli ritornò sui suoi passi,
sistemandosi alle
spalle dei due congiurati e ben celato dietro un cespuglio, curioso
proprio d’ascoltare
cosa avessero da raccontarsi di così importante, da
escluderlo dalla loro
conversazione.
“Che
puto prezioso!”, commentò dolcemente Luzia,
addentando appena
un biscotto.
“E’
un piccolo Mazariol” [1], replicò tuttavia
affezionato il
Morexini, paragonando il nipote al dispettosissimo folletto
rossovestito che
scorazzava per i boschi della Marca Trevigiana, burlandosi degli ignari
uomini
e delle stesse vispette fate. “In ogni
modo”, riprese, sistemandosi
meglio sulla panchina di marmo, “volevo complimentarvi con
voi per l’eccellente
concerto, lo stesso, immagino, che ha stregato i Marchesi di
Mantoa!”
“An,
non vi giurerei”, arcuò scettica Luzia il
sopracciglio, “la
siora Marchesana mi sembrava più interessata al magister
Alexandro, mentre il
sior Marchese al mio petto”, sentenziò mordace e
sier Batista si morse
l’interno della guancia per non ridere. “Dubito
abbiano apprezzato me”,
aggiunse indispettita, pigliando un secondo morso di biscotto.
“Forse
i nostri futuri ospiti saranno meglio capaci di riconoscere
il vero talento, quando li si manifesterà innanzi.”
La
cortigiana honorata assottigliò gli occhi, sospettosa.
“Siete per
caso venuto in ambasciata per conto della Reyna? Perché la
mia risposta non
cambia: io rimango agli ordini della Signoria e non suoi.”
Scombussolato
da quel cambio di tono, da cortese a battagliero, il
provveditore alzò in alto le mani. “Vi assicuro la
mia più assoluta ignoranza e
neutralità, in qualsiasi divergenza abbiate nei confronti
della mia siora
cugnada.”
Luzia
abbassò le spalle, tormentando il dolce e spezzettandolo
fino a ridurlo in briciole. “La Reyna mi ha domandato di
cantare durante la
refezione in onore delle tre pie donne”,
e lanciò i granelli per
terra, attirando qualche uccellino affamato. “Comprendete la
mia umiliazione?
Durante la refezione non la
festa! Appena l’ho
appreso, ho subito declinato l’offerta e soltanto
perché il magister Alexandro
ha insistito, ho accettato di cantare oggi per la Reyna.
L’ingiustizia del
mondo! Monsieur Cordier canterà da solista, ammirato e
lodato da tutti, mentre
io debbo farlo di nascosto, alla stregua d'un panno sporco da lavare!
Siorno!
In nulla differisco in bravura da lui e o canto in concerto o non se ne
fa
nulla!”
Sier
Batista si girò in direzione opposta e da lontano
osservò a
lungo il compositore, impegnato ad accordare il liuto e ad istruire i
suonatori
ed i coristi per la seconda parte del concerto. Dopodiché
studiò il volto
imbronciato di Luzia e di nuovo quello del maestro Alexandro e la bocca
gli
s’arricciò in un sogghigno malizioso.
“Non
sono una menestrella, che s’abbassa a cantare per un pubblico
distratto durante i banchetti, men che meno per quella grassa
nanerottola della
Ducissa di Bari, la quale più che ascoltarmi
preferirà rimpinzarsi di dolci
fino a scoppiare!”, sbottò infastidita la
cantante, battendo i pugni sulla
panchina, associando a quell’Este sconosciuta il medesimo
carattere di quella a
lei più nota, giudicandole ambedue capricciose, egoiste,
ognora pronte a
pigliarsi ciò che non le apparteneva.
“Se
la Ducissa di Bari ci morisse in casa per via di
un’indigestione, l’affare ci causerebbe non pochi
grattacapi: il nostro povero
ambasciatore a Millan lo vedo e lo piango a riferire la notizia al
Moro”,
sdrammatizzò il Morexini, afferrando il pugno della ragazza
ed invitandola a
schiuderlo, massaggiandole l’interno del polso col pollice.
“Forse per ugual
motivo, neanch’io ho tutta questa voglia di partecipare alla
festa.
V’immaginate la faccia della Ducissa di Frara, al momento
delle
presentazioni? Bentrovata, o illustrissima madonna
Duchessa, io sono il
provveditore di quelle terre, che vi abbiamo conquistato nove anni fa! In
fede mia, non desidero assumermi alcuna responsabilità
d’eventuali incidenti
diplomatici!”
“Al
contrario, voi dovreste assolutamente partecipare!”, gli
suggerì Luzia, il buonumore ritrovato, sorridendogli
monellescamente, la mano
chiusa a quella del “da Lisbona” come due
metà di una conchiglia. “Già la
Ducissa domina Leonora friggerà d’imbarazzo nel
ritrovarsi dinanzi ad una
sovrana perseguitata e deposta per colpa degli intrighi di suo padre il
Re di
Napoli; la vostra presenza, a memento della sconfitta di Frara,
renderà la
refezione ancor più gustosa.”
“Voi.
siete. davvero. tremenda!”, scosse il capo sier Batista e i
due se la risero a lungo, complici, toccandosi quasi le loro fronti e
l’uomo
aveva portato la mano della Trivixan al petto,
invitandola ad
avvicinarglisi. “In verità, non vi nascondo che la
decisione di mia cugnada mi
ha davvero sorpreso. Ci vuole una grande forza d’animo per
affrontare faccia a
faccia la famiglia, che le ha rovinato l’esistenza
… Ma il passato è il passato
e non possiamo sottrarci al futuro”, citò
cinicamente l’uomo il proverbio,
finendo il suo vino. “Un futuro però che
assomiglia pericolosamente troppo al
passato.”
Ogni
traccia di civetteria scomparve dal viso sveglio della
cortigiana honorata, sostituito da un’espressione attenta,
intrigata.
“V’ascolto”, lo incalzò,
sedendosi sulla panchina in modo da avere di fronte il
patrizio.
Sier
Batista anch’egli aveva perduto la sua affettata nonchalance
per un tono serio, analitico. “Don Ferrando è
vecchio e come tale non ha
imparato nulla dai suoi errori”, esordì, roteando
nel vuoto il bicchiere. “Dopo
la morte del Roy di Cypri, si è voluto immischiare nella
questione dinastica dei
Lusignan. Il risultato? Don Ferrando ha perso ogni influenza politica
sull’isola, ogni fondaco e accordo commerciale, sua nuora
Ciarla e per poco il
suo stesso figlio naturale don Alfonxo. Adesso, sta ripetendo il
medesimo
sbaglio, cogli Sforza di Millan. C’è da chiedersi
che cosa perderà, stavolta.”
“Credete
certa una sua sconfitta?”
“Ogniqualvolta
dalla Franza è sceso in Italia un esercito, un
casato cade e un altro ascende. È matematico,
inevitabile.”
“Il
Re e il Duca di Calabria avrebbero, quindi, dovuto ingoiare in
silenzio l’umiliazione d’Yxabela
d’Aragona? Dell’attuale Ducissa di
Millan?”
“Se
gli Aragona fossero stati dei patrizi come noialtri, la
questione sarebbe stata portata in Quarantia Criminal e il Moro
condannato per
appropriazione indebita. Siccome però parliamo di sovrani e
capi di Stato …
Quando danno via una figlia, o una nipote, l’hanno perduta
per sempre in favore
di un’alleanza, che durerà finché
farà comodo alle parti coinvolte. Non tutte
le spose sono devote o influenti o entrambe da fungere da
mediatrici.”
“Un
figlio senza un padre è facile preda delle altrui
ambizioni”,
mormorò grave Luzia, accarezzando pensosa la morbida stoffa
della sua gonna,
“quella degli Sforza era una tragedia annunciata,
così come quella della domina
Catharina, straniera e vedova, priva della protezione del Roy suo
sposo.
Sapete”, reclinò all’indietro il capo,
osservando un punto indefinito del
cielo, “forse ho indovinato perché la Reyna vuole
incontrare quelle tre donne.”
“Dasseno?
Le leggete la mente, ora?”
Il
sorriso della cortigiana honorata assunse una piega malevola.
“Per vendicarsi degli Aragona, scagliandoli contro una
maledizione, acciocché
distrugga Re Ferrando, come lui ha distrutto lei; affinché
lui perda il regno,
come lei ha perduto il suo; affinché egli seppellisca il suo
sangue, come lei
ha seppellito il suo. E quale miglior occasione di questa festa, dove
parteciperanno la figlia e la nipote amatissime del Re? Più
il tramite è vicino
alla vittima, più potente ed efficace è
l’anatema.”
Un
brivido freddo scese lungo la spina dorsale di sier Batista, il
quale, pur di natura cinica e razionale, non si sottraeva al profondo
spirito
superstizioso tipico della sua gente. “Stando così
le cose, oltre a don
Ferrando dovrebbero morire anche domina Leonora d’Aragona, e
magari anche le
domine Beatrice d’Este e Anna Maria Sforza, o chiunque
presenzi a quella
dannata festa …”, provò debolmente a
minimizzare, fallendovi, semmai
aumentandogli in petto una certa angoscia, come all’Italia
intera da quando era
incominciato quel braccio di ferro tra Milano e Napoli.
“Chissà”,
scrollò incurante le spalle Luzia, “si vocifera
che chi
sia stato maledetto, o non passi l’anno dal momento esatto
dell’anatema oppure
non superi i trentatré anni, l’età di
Domine Jesus Christo”, si scostò un
ricciolo ribelle dalla fronte. “Ma si trattano
senz’ombra di dubbio di
storielle da balia, altrimenti la popolazione si ridurrebbe
drasticamente, se
ogni uomo maledetto dall’altro dovesse morire!”
“Vi
dico solo questo: se entro l’anno dovesse morire anche un
solo
Aragona, non oserò mai più in vita mia
contraddire la siora cugnada”, le
confessò semiserio il Morexini, massaggiandosi lo stomaco,
il quale aveva
incominciato nuovamente a rigirarsi proditoriamente, serrandogli la
gola.
Dannata golosità sua unita ad inquietanti discorsi sul
sovrannaturale! “A meno
che domina Catharina non m’abbia già maledetto, al
che mi scuso, bellissima
Luzia, se mi congedo anzitempo da voi”, si pose traballante
l’uomo in piedi,
sudando freddo e ficcando la mano dietro il cespuglio dove estrasse,
issandolo
quasi di peso, Momolo, che si pigliò lesto sottobraccio.
“Vi
prego di riguardarvi, sier Batista Morexini, e v’auguro una
pronta guarigione: mi dareste una gioia immensa se decideste un giorno
di
venire a visitarmi, così da continuare la nostra
conversazione. Suonerò e
canterò per voi, dimostrandovi che non sono per nulla una
vanesia”, allungò il
braccio languidamente Luzia, acciocché il patrizio le
baciasse la mano, sotto
lo sguardo truce e geloso di Momolo. “Vi ringrazio per il
piacevole tempo
trascorso assieme e soprattutto per la vostra pazienza, prestando
caritatevolmente orecchio alle mie sciocche lamentele.”
“Non
possedete ancora nessuno, che le ascolti?”, colse sornione il
“da Lisbona” la palla al balzo e suo nipote
aggrottò la fronte, confuso: da
quando in qua il suo barba s’offriva di fare volontariamente
il confessore? Sempre
che sbuffava perché doveva sopportare le lamentele della
moglie ed ora era
disposto ad ascoltare quelle della Trivixan? E poi, perché
la cantante non
aveva invitato anche lui a casa sua? Non gli aveva promesso
d’insegnargli a
suonare il liuto?
“Uno
ce l’ho sempre, gli altri … finché non
mi stufano”, alluse Luzia
scaltramente e sier Batista s’inchinò deferente,
capendo subito il sottotesto.
“E’ stato un piacere conoscerti, Momolo. Spero di
rincontrarci in futuro” e gli
schioccò un casto bacio sulla fronte. “Fai il
bravo, veh!”
Il
bambino si girò verso lo zio, sorridendogli perfidamente
trionfante come per dirgli: hai visto? Ha baciato me
e non te! Quindi è
la mia dama, non la tua!
Peccato
che l’uomo non gli diede alcuna soddisfazione, anzi,
trascinandoselo appresso, si diresse rapido alla ricerca di madona
Morexina,
onde supplicarla di ritornare quanto prima a Ca’ Morexini o
di trovargli un
posto tranquillo dove vomitare senza un fastidioso pubblico.
“Che
orba la Marchesana di Mantoa”, commentò ad alta
voce il
provveditore, durante il viaggio di ritorno, gli occhi chiusi e
artigliandosi
le ginocchia, ingollando giù acida saliva. “Orba
proprio …”
“Perché
sior Barba?”
“Hé,
Momolo, perché non ha capito, che bisogna tenere
giù le mani
da ciò che non le appartiene …”
Il
giovinetto strabuzzò gli occhi, battendo pensoso il dito sul
mento. “Chi? Il magister Alexandro?”
“E
tu come lo sai, piccolo Mazariol?”
“Me
l’ha detto Luzia: sono sposati nella musica!”
Sier
Batista rise di cuore, arruffando la zazzera indomita del
nipote tra le sue mille indignate proteste. “Benedetta sia la
tua anima pura e
innocente, nezzo mio, benedetta sia in saecula saeculorum!” e
detto questo,
scoprì il drappo della felze e vomitò in acqua,
tra i gridolini schifati delle
sue donne di casa.
***
Ovviamente,
per Momolo l’amore era sempre corrisposto
indissolubilmente al matrimonio e per questo motivo la scoperta di
concetti
quali “amante”, “concubina” e
“cortigiana” l’avevano sconvolto,
incapace di
credere nell’esistenza di altri tipi di amori, definiti dal
biscugino sier Zuan
Francesco “immorali.”
“E
come li evito?”
“Il
peccato entra attraverso l’occhio: evita di guardare e non
vacillerai!”
Prova
assai ardua, essendo infatti Hironimo di natura vivacissima
e curiosa. Inoltre, di occasioni per “guardare” le
sfaccettature meno onorevoli
dell’umanità Venezia ne offriva in gran copia,
incominciando dallo zio Batista
quando divenne uno dei protettori di Luzia Trivixan, la cui bellezza
riempiva
di strani pensieri il ragazzo, che non sapeva spiegarsi il motivo per
il quale
percepisse l’impellente necessità di poggiare la
testa sul seno della
cortigiana honorata.
La
seconda volta che la vide, infatti, non fu l’abito
bensì il suo
aspetto a colpirlo.
Riccioli
rossi tempestati di perle, grandi occhi turchesi, languidi
e orgogliosi insieme, labbra sensuali e bocca ridente, pelle dalla
delicatezza
e candore d’un giglio, la voce un mormorio di frusciante
seta, ecco chi era
Luzia, l’usignolo di Venezia. Partito con l’idea di
dover disprezzare la fonte
dei crucci di sua zia Morexina – malgrado la simpatia
suscitatale da bambino
- al giovane patrizio era bastato un solo suo
concerto per cambiar
rapidamente d’avviso, vittima del suo fascino similmente agli
altri esponenti
del suo sesso.
La
cantante aveva saputo, tramite particolari amicizie, della
presenza a Venezia del compositore, cantore e suonare di liuto
Marchetto Cara
da Verona, stipendiato della Marchesa di Mantova e in eccezionale
visita nella
città lagunare, ospite graditissimo dei Bembo. Il veronese
non s’era lasciato
tanto pregare, anzi, vuoi per la fama della Trivixan, vuoi per le sue
civetterie irresistibili, vuoi per la presenza del famoso editore
musicale
Ottaviano Petrucci e del suo collega Bartolomeo Budrio,
dell’organista
Francesco D’Ana, del compositore e maestro di cappella
Francesco Patavin,
nonché dell’ex-collega e concittadino Bortolamio
Trombonzin (insomma di tutta o
quasi la comunità musicale di Venezia), ecco che
l’entusiasta maestro Marchetto
si presentava nell’elegante appartamento della cortigiana
honesta, lodato e
vezzeggiato e da lei trattato alla pari di un principe.
Hironimo
s’era inaspettatamente aggregato a questo Parnaso,
poiché
suo zio sier Batista aveva confidato all’amante della sua
passione musicale e
di come non fosse disprezzabile al liuto. Al che la giovane donna aveva
di buon
grado esteso l’invito e quando il sedicenne Miani la vide
scendergli incontro
lungo le scale di marmo, alla fioca e tremula luce dei candelabri, gli
parve la
medesima Venere discesa dall’Olimpo per condividere cogli
uomini il concetto di
divina bellezza.
“Gran
mercé, vi siede vestita da gentildonna rodia! Potevate
avvertirmi e mi sarei presentato a voi da cavaliere
gerosolimitano”, esclamò
sier Batista, riferendosi all’Ordine dei Cavalieri di San
Giovanni presenziante
a difesa dell’isola greca. Baciò ambedue le guance
della cantante, la quale
replicò giocosa:
“Oh, mio signor,
il vostro sprezzo per la loro regola di castità vi avrebbe
guadagnato un arresto per blasfemia! Quanto all’abito
… siamo a Carlevar e mi
voglio divertire! Anche a vostro danno, se necessario!”
“Perfida!”
“E
voi mi amate esattamente per questo, mio signor!”
Luzia
quella sera aveva optato per gli abiti tipici dell’isola di
Rodi, smaniosa di scacciare alcun tristi suoi pensieri
nell’euforia sregolata
del Carlevar. La cantante s’era dipinta di rosso le mani, le
unghie e, da quel
poco che s’intravedeva dalle scarpette, anche i piedi. I
capelli del medesimo
colore li aveva rinchiusi dentro una rete d’argento, sopra la
quale stava
un’altra di velluto e coperta da un bellissimo velo di tela
vergata, appuntato
sopra la fronte da una gemma e da cui ricadeva all’indietro,
donandole un’aria
un poco sbarazzina. Sopra la semplice sottana di raso cremesino, Luzia
indossava una veste di tela d’argento, corta fino a mezza
gamba, aperta ai lati
e legata con nastri d’oro. Una variopinta cinta di seta e una
d’oro le
circondavano la vita. Al collo pendeva una grossa collana di perle con
al
centro un pendente di smeraldo, abbinandola agli orecchini di ugual
squisita
fattura.
“Spero
che vi sentiate meglio”, le sussurrò sottovoce il
Morexini,
adesso Savio di Terraferma, scrutando accorto ogni movimento del viso
di Luzia
e cingendole protettivamente le spalle. .
“Grazie,
molto meglio”, gli confermò in fretta la
cortigiana
honorata, pur evitando di guardarlo dritto negli occhi, accarezzando la
mano del
senatore. “Suvvia, raggiungiamo i nostri illustri artisti:
non sia mai si
sparli sulla nostra poca professionalità!”,
scherzò, accettando il braccio
offertole dal patrizio, la mente sicuramente altrove ché
neanche s’era accorta
della presenza d’Hironimo.
Il quale
la perdonò senz’indugi non appena la sua voce gli
scaldò
il cuore: malgrado il coro talora di tre o di quattro, pur ridotto ad
un
contrappunto di nota contro nota, Luzia spiccava monodicamente sulle
altre
parti, conferendo alle varie frottole un che di vivo. Ella, infatti,
ora
socchiudendo gli occhi, ora lasciandosi trasportare
dall’accompagnamento del
liuto, ora storcendo il viso e modulando il tono fingeva rabbia,
malinconia,
desiderio e inscenava tramite un’accorta mimica i versi
poetici su cui il
compositore aveva musicato. Languì col Petrarca,
scherzò col Boiardo,
s’infiammò con Giovanni Filoteo Achellini, si
trasformò in un loquace uccellino
nell’inedita frottola a quattro Mentre io
vo per questi boschi del
maestro Marchetto Cara, il quale la fissava trasognato, le agili dita
scivolanti per conto proprio sulle corde del liuto. Il fosco Trombonzin
pareva
trasfigurato di nuova luce, il Petrucci se ne stava lì con
la bocca aperta,
Francesco d’Ana dondolava a ritmo il capo, il pallido
Francesco Patavin si
perdonò quel suo piccolo capriccio d’aver voluto
viaggiare da Padova fino a
Venezia per conoscere la cantante, lo zio Batista aveva gli occhi
lucidi e come
lui gli altri invitati contemplavano estatici e devoti Luzia Trivixan,
quasi si
trovassero inginocchiati innanzi l’Eucarestia
sull’altare.
“Il
concerto di stasera, signori miei, lo vorrei dedicare ad un
grande vostro collega e compositore, ch’Apollo dalla lira
dorata ha voluto
rapire per tenerlo accanto a sé, nel suo seguito immortale!
Questo è il mio
personale brindisi in sua memoria”, annunciò
enfaticamente la cortigiana
honorata, sorseggiando dell’acqua per rinfrescarsi
l’ugola. Si bagnò poi le dita
e sparse delle gocce per terra; dopodiché gettò
sul pavimento il bicchiere, i
cocci prontamente spazzati via dalla solerte fantesca. “Ora
comprendete il
perché dei miei abiti di Rodi, l’isola sacra al
dio della musica e delle arti!”
e un applauso riempì la sala, mescolandosi a piccoli
commenti sorpresi o
divertiti. Tipico della Trivixan di stupire i suoi ospiti tramite rebus
e
sciarade. Soltanto sier Batista batteva poco convinto le mani, un
sorriso
triste sulle labbra.
“Magister
Marchetto, posso chiedervi l’immenso favore di suonare,
per amor mio e del magister Alexandro Demophon Venetus, Vidi
hor
cogliendo rose ?”, pregò
civettuola Luzia il veronese, congiungendo
vezzosa le mani.
Marchetto
Cara convenne in un grave e reverente inchino, difficile
affermare se in onor del defunto collega o della cantante. Le sue dita
serpeggiarono sinuose nell’aria, in un mentale conteggio del
tempo musicale,
pizzicando infine le tese corde del liuto e seguito dal preciso attacco
della
cantante:
Vidi hor
cogliendo rose, hor gigli, hor fiori
Una
leggiadra, bella e vaga ninfa
Credo
discesa dai celesti cori …
Come
biasimare la generale fascinazione degli spettatori nei
confronti di Luzia, nonché la sconfinata ammirazione degli
artisti musicali?
Hironimo medesimo, un dilettante profano, era scosso
anch’egli nel più intimo
dalla rara potenza e perfezione canora della donna, imbrigliate
magistralmente
in quel corpicino dall’apparenza fragile.
La
cortigiana honorata saltava da un’ottava all’altra
con estrema
facilità e non improvvisava mai delle pause per riprendere
fiato, tenendo ogni
nota anche quelle più lunghe e alte, alternando acuti e
gravi in lenta discesa
o vertiginosa salita a seconda della melodia, mantenendo
un’emissione sempre
morbida dei suoni ed omogeneità del
registro. Gorgheggiava seguendo gli eleganti
arpeggi senza trascurare la dizione del testo, le parole comprensibili
e infuse
di grande sentimento, rinforzando o stemperando le note secondo
necessità, come
se stesse recitando un soliloquio.
… Hor
schiude l’auree labbra, hor con la cetra
Supera le
sirene e il dolce Apollo;
hor posa
in terra sua bella faretra
hor se
rinfresca braccia, volto, collo;
hor mostra
il vago petto, hor l’ha coperto
e lassa
stare il paradiso aperto
dove se
leva la luna col sole …
Pareva
che un dio o un angelo stesse cantando, attraverso il
sottile e lungo collo della Trivixan, l’arcana voce del mondo
e che ogni gamma
d’umana passione vi si potesse incontrare e modulare,
entrando nel cuore e
nell’anima stessa dell’ascoltatore, accarezzandola
o straziandola a suo
piacere. Come poteva tal divina grazia risiedere in una persona
considerata
immorale, impura? Era proprio vero che dal fango nascessero i fiori
più belli?
… Hor
sagitta con gli occhi ardenti sguardi;
Hor parla,
hor ride, hor balla, hor salta, hor canta,
hor col
duro arco tira i suoi dardi;
hor con la
man sfronda qualche giovin pianta
hor vien
la nocte e di riposare ha gran desire …
Hironimo
si sovvenne all’improvviso dei baci appassionati tra
Luzia ed il maestro Alexandro e per un attimo, credette di scorgerlo
lì, tra le
braccia tese della cantante, vivo, ardente d’amore, Luzia che
gli regalava il
suo respiro e una nuova voce, che gli permetteva di vivere ancora e
ripetutamente nella sua musica, per sempre, immortale. Le sarebbe stato
accanto, non l’avrebbe mai abbandonata finché al
mondo sarebbero
esistiti musicisti e cantanti, veramente i due
amanti sposati nella
musica, inseparabili.
Dispersi
nell’aria gli accordi finali, nessuno osò muovere
un sol
muscolo né proferire parola, finché Luzia,
uscendo dalla sua trance, riaprì gli
occhi ed elargì al suo pubblico un timido sorriso di
fanciulla innamorata,
indifeso.
Uno
scroscio d’applausi la investì e lei
s’esibì in un profondo e
deferente inchino, nutrendosi avida di quell’entusiaste
ovazioni e raccogliendo
da terra le rose e i gigli accoratamente lanciatigli.
La
cortigiana honorata appellò poi il suo scalco, ordinandogli di
servire la raffinata e abbondante cena, acciocché, dopo il
pane astratto
dell’arte, i suoi ospiti si nutrissero di uno più
materiale. Fu divertente per Hironimo
osservare la reazione confusa e un poco intimidita dei compositori e
solisti,
non avvezzi malgrado il loro ingegno e talento a compartire da pari la
tavola e
il pasto con l’aristocrazia, così giusto per
rimanere in allegria e in
amicizia, in un rapporto totalmente egalitario. Si scherzava spesso
quanto
soltanto Luzia Trivixan fosse capace di tali follie, permesse e
accettate
tuttavia all’unanimità, senza protesta alcuna.
Una
musica leggera e disimpegnata accompagnava il sontuoso
banchetto, una carrellata di gustosissime prelibatezze in curiosi
connubi
agrodolci, serviti gli ospiti da giovani moretti dai brillanti e
variopinti
turbanti. Tra una portata e l’altra, delle ballerine turche
deliziavano i
commensali con le loro danze esotiche, in un continuo tintinnare dei
sonagli
d’argento ai polsi e alle caviglie. S’arcuavano e
si molleggiavano sinuose
peggio dei serpenti, i fianchi generosi ondulati in maniera circolare e
spingendo il bacino in avanti, mettendo così in risalto lo
scollo
profondissimo, il quale arrivava fino all’ombelico riempito
da una gemma,
dividendo a metà il petto seminudo, la semitrasparente
camiciola di lino a
malapena coprente i turgidi seni e da cui s’intravedeva
l’ambrato dei
capezzoli.
Straordinariamente
non interessato al conturbante spettacolo,
Hironimo si concentrò su Luzia, seguendola cogli occhi nel
suo deambulare da
ospite ad ospite, sedendoglisi accanto, chiacchierandoci e scherzandoci
assieme
dietro al ventaglio di piume di struzzo e dal manicolo d’oro,
talvolta accettando
un bicchiere di vino, offertole galantemente. Infine, la cortigiana
honorata
raggiunse suo zio Batista, prendendo posto sulle sue ginocchia. Luzia
intinse
un pezzettino di pane caldo in una salsa cremosa ai ceci, limone, semi
di
cumino e, tenendo una mano sotto per non gocciolare, imboccò
l’amante,
porgendogli del vino non appena questi ingollò il bolo, lo
sguardo ognora
ancorato su di lei. Il savio di Terraferma le offrì poi di
bere dal medesimo
bicchiere, invito accettato dalla cortigiana, chinata su di lui onde
ascoltare
ciò ch’aveva da dirle. E a giudicare
dall’espressione ora mesta ora rincuorata
della giovane donna e incoraggiante e tenera di sier Batista, non
dovevano
trattarsi di focose promesse d’amore. Quand’ecco,
ricordatasi della presenza
degli invitati, la Trivixan s’accomiatò dal suo
protettore e si diresse dagli
altri suoi amanti/clienti, o riprese il giro di saluti e conversazioni
tra gli
ospiti ed Hironimo, ch’aveva osservato ogni cosa, si chiedeva
primo, come
facesse lei a non svenire dalla fame, poiché non aveva
toccato una briciola di
cibo; secondo, quale cruccio la tormentasse, da ricercare di tanto in
tanto
supporto morale in suo zio, adesso completamente assorbito
dall’ombelico
ingioiellato di una turca a qualche spanna dal suo naso.
“Noto
ch’apprezzate la cultura levantina, mio signor”,
scherzò
ilare la cantante, piazzatasi in piedi tra sier Polo Capelo, di recente
rimpatriato da Roma, e sier Marco Antonio Morexini q. Ruberto,
fratellastro
dell’attuale visdomino di Ferrara, sier Christofal Moro,
purtroppo assente da
Venezia da quasi due anni. La donna teneva una mano appoggiata sulla
spalla di
sier Marco Antonio, mentre l’altra giocherellava coi capelli
dietro la nuca di
sier Polo Capelo, il quale a sua volta la cingeva per i fianchi.
“Per
carità, troppo agguerrita!”, commentò
ridendo il “da
Lisbona”, tastando non visto il sedere carnoso e sodo della
ballerina, con la
scusa di spingerla altrove. Se soltanto la zia Morexina avesse potuto
vederlo,
l’avrebbe appeso per un piede come la Signoria puniva per
l’appunto i traditori.
Se da una parte sua moglie s’era rassegnata alle continue
infedeltà del marito,
dall’altra seguitava ad arrabbiarsi, in un’altalena
contraddittoria d’umori e
opinioni.
“Dite d’esser
stracco e stufo per via degli impegni a Palazzo, ma appena cala la sera
correte
via ben vispo dalla Trivixan e non dormite più con me
neppure per un’ora!”
“Torno
tardi e non vi voglio svegliare.”
“Spiritoso!
Se continuerete di questo passo, mi piglierò un
amante!”
“Cioè il
vaso del miele?”
In ogni
modo, per quanto tentasse d’incrociare il suo sguardo o di
farsi notare, la cortigiana honorata non s’accostò
mai ad Hironimo, né per
salutarlo né per riempirgli la coppa di vino,
sicché il ragazzo si ritrovò
costretto dalla noia a discutere di musica sacra assieme al maestro di
cappella
Francesco Patavin, appassionandosi straordinariamente
all’argomento.
Ma mai
entusiasmante quanto la sfida preferita dei veneziani a
Carlevar: due servi, inginocchiatisi per terra e le mani congiunte
dietro la
schiena, si sfidavano ad acchiappare con la bocca delle anguille da un
catino,
l’acqua intorbidita dal nero di seppia. Un fanciullo moretto
girava e porgeva
un piatto d’argento tintinnante di lire, mocenighi e ducati e
la padrona di
casa incoraggiava gli ospiti a fare le loro scommesse, su quale dei due
uomini
fosse riuscito ad estrarre per primo il muscoloso pesce.
“Fortuna
nel gioco, sfortuna in amore, eh sier Hironimo?”, lo
sfotté il Trombonzin, la cui bravura eguagliava la sua
stronzaggine. C’era da
chiedersi il motivo per il quale la Marchesa di Mantova stravedesse per
lui,
comportandosi alla stregua di un’amante tradita –
pazza proprio, pure
coinvolgendo il Marchese - quando il veronese aveva
disertato
all’improvviso la sua corte. Talento o meno, per il sedicenne
patrizio la sua
fuga sarebbe equivalsa ad una liberazione, tanto gli stava antipatico.
“Toh”,
sputò dietro le sue spalle il giovane Miani, scacciando la
malasorte.
“Gran
catarro, patron!”
“Il
prossimo è per voi!”, mugugnò
minaccioso il ragazzo,
intascando però in scarsella la vincita.
A fine
serata, il maestro veronese Marchetto Cara baciò le mani di
Luzia con un trasporto talmente sincero, che di sicuro mai aveva
riserbato ad
Isabella d’Este, ringraziandola commosso
dell’indimenticabile concerto e
dell’ottima cena. Nelle sue prossime composizioni avrebbe
indubbiamente pensato
a lei e alla sua divina voce - fu la sua solenne
promessa. Il signor
Ottaviano Petrucci, non volendo sentirsi da meno, le
assicurò una copia
gratuita del suo Odhecaton, una raccolta di
96 chanson
franco-fiamminghe [2], tra cui alcune inedite del fiammingo Johannes de
Stokem,
compositore ufficiale della corte di Beatrice d’Aragona
ex-regina d’Ungheria e
della cui scomparsa il mondo musicale s’era assai doluto.
Hironimo
si stava ancora sistemando il mantello, quando la
cantante lo raggiunse inaspettatamente, accompagnata da suo zio
Batista. E alla sua cortese domanda di circostanza,
su cosa gli
fosse parso del concerto, il ragazzo esclamò col cuore in
mano, la voce tremula
dall’emozione: “Patrona, voi non siete
un’artista: voi siete un’opera d’arte
vivente, creata dal medesimo Apollo!”
Chissà
cosa commosse la smaliziata Luzia Trivixan, che di
complimenti ben più complessi e poetici ne aveva uditi
oramai a bizzeffe, fino
alla nausea. Forse la purezza di sguardo nel sedicenne, forse il timbro
sincero
della sua voce, forse il fatto che l’avesse lodata senza
doppi fini. In ogni
modo, la cortigiana honorata gli sorrise dolcissima e, appoggiando
lievemente la
mano sulla sua guancia, gli schioccò un bacio sulla fronte.
“Sarà un piacere,
farmi da te accompagnare al liuto.”
Hironimo
avvampò, arrossì, ebbe caldo e poi freddo; le
gambe gli
divennero di ricotta e la testa gli girò per qualche
istante. Se si ricompose e
non si gettò ai piedi della giovane donna fu per rispetto
verso suo zio
Batista, che stava lì a guardarli con ambigua
bonarietà.
“Patrona”,
soffiò al limite del collasso, ma serio in volto.
“Volevo porvi, anche se in ritardo, le mie sincere
condoglianze per la morte
del magister Alexandro: mi ricordo del vostro matrimonio nella musica e
posso
capire il vostro dolore.”
Luzia
aprì la bocca, disorientata, poi la serrò, gli
occhi
improvvisamente gonfi di lacrime. Sier Batista, resosi conto del guaio
combinato, fece per rimproverare la mancanza di tatto da parte del
nipote,
quand’ecco che la cortigiana honorata
s’inchinò, sospirando in un tremulo
sorriso: “Tu sei l’unico, assieme a tuo zio, ad
esserti sinceramente
dispiaciuto della sua morte …” e detto questo
s’allontanò assieme al Morexini,
il quale si sarebbe trattenuto qualche oretta con lei, mentre Hironimo
si
diresse verso l’imbarcadero, dove l’attendeva la
sua gondola per rincasare.
Il
giovane patrizio riprese così a studiare con doppio intento
il
liuto, pur conscio di non raggiungere mai i livelli d’un
professionista
(figurarsi del fu Alexandro Demophon
Venetus) ciononostante
determinato a non sfigurare né far sembrare alla cortigiana
honorata di perdere
il suo tempo. Per compiacerla, ingoiò un bel po’
del suo orgoglio virile e
domandò soccorso a sua cugina Maria, libera infine dal giogo
del convento, cui
non parve vero di giocare al Pigmalione e inculcare una sana dose di
galanteria
in quel selvaggio del suo cugino, torturandolo impietosa tramite
robuste
letture di poesie, poemi epici, novelle, romanzi cavallereschi e altre
stramberie tanto apprezzate dalle donzelle e letterati.
In
giardino, sotto la pompeiana di Ca’ Morexini, la ragazza lo
costrinse a migliorare il suo latino e volgare italiano, arrivando a
pigliarlo
a librate in testa quando commetteva errori di pronuncia. In compenso,
Hironimo
aiutava Maria nel suo greco corrente (l’unico che conosceva,
figurarsi quello
antico!) essendo infatti la fanciulla promessa sposa al futuro conte di
Stampalia e Amorgo, sier Zuanne Querini. Anche se terre dello Stato da
Mar, era
giusto che lei un po’ di greco lo conoscesse, specie quando
avrebbe dovuto
seguire il marito qualche volta in quelle isole alla sua famiglia
infeudate.
“Mi
piacerebbe un giorno poterle dedicare qualche sonetto
…”
“Puoah,
non saresti capace di poetare manco se la tua vita dipendesse
da ciò!”
“Sempre
piena di complimenti nei miei confronti, eh? Guarda di non
far tanto l’acida, sennò il Querini
t’abbandona a Nixia come Ariadne!”
“Meglio: vorrà dire che da contessa di Stampalia diverrò la duchessa di Nixia, ho-oh, ha-ah!”, lo schernì Maria.
"Non puoi, il sior duca Francesco Crispo è già sposato a madona Thadia Loredan e suo figlio Zuanne è troppo piccolo per te!", la corresse petulante Hironomo e notando lo sguardo imbronciato del
cugino, la ragazza addolci l'espressione e la voce in tono più
conciliante: “La Trivixan è piena di zerbinotti
che le inviano poesie. Forse
per questo le stai simpatico: perché non la tarmi con le tue
velleità
artistiche. Lei è una vera artista e mal sopporta i
mediocri. Affermo il vero,
magister?”, si rivolse la novizza al giovane pittore che la
stava ritraendo, un
piccolo dono per il suo fidanzato, acciocché sier Zuanne
Querini pensasse a lei
e a lei soltanto fino al dì delle nozze, cuocendolo a fuoco
lento nel suo brodo
d’aspettative.
Deambulando
irrequieto per l’intero perimetro della stanza,
Hironimo giunse a spionciare dietro le spalle dell’artista,
contemplando i
lineamenti vispi della Morexini prender forma e vita sullo sfondo
scuro. Invero
il giovanotto aveva colto appieno l’espressione vivace e al
contempo sensibile
di Maria, ritraendola di trequarti e colta in un’acuta
osservazione di un
fantomatico oggetto oltre il dipinto. Su di uno sfondo verde scuro, la
veste
scarlatta e foderata di pelliccia, di foggia assai orientale, cozzava
col
biancore del velo di seta, il quale le scendeva morbido dietro la
schiena.
Nessun vezzo, nessun ornamento, tranne il rosato delicato della pelle
alabastrina e la levigata lucentezza della gioventù.
Hironimo sgranò gli occhi,
piacevolmente impressionato: l’autore si dimostrava a
malapena suo coetaneo,
eppure la mano già delineava una fermezza da veterano ed
emergeva timidamente
un gusto nuovo, moderno, differente da quello di Zentil Belini, suo
maestro.
“Troppa
buona, patrona. Non sono ancora un magister, bensì un
allievo”, si schermì modesto il pittore e le
sorrise sibillino, intingendo e
roteando il pennello nel colore, per poi punteggiare appena un piccolo
dettaglio. “I veri artisti esigono la perfezione, altrimenti
nulla ha senso.
L’arte è la loro vita e la vita e ciò
che accade tra un’opera d’arte e
l’altra”,
dichiarò conciso, ampliando ora la pennellata.
“Detto questo, patrona, se posso
chiedervi di rimanere per cortesia ferma, sarebbe per me cosa
gradita”, la
rimproverò scherzosamente, con quel suo duro accento
montanaro.
Maria
convenne vezzosamente, ripigliando la posizione abbandonata.
“O forse”, non desistette però dal
tormentare suo cugino, “forse tu le piaci
perché non l’opprimi coi tuoi desideri
carnali.”
“Prego?!”,
boccheggiò Hironimo, incredulo di tanta sfacciataggine,
dinanzi ad un estraneo, poi!
“Suvvia,
Momolo, adori la Trivixan alla stregua d’una dea, non
negarlo! Però scommetto che, se lei ti chiedesse
d’infilarti nel suo letto, tu
scapperesti via alla stregua d’un leprotto!”
“Ma
che dici?!”, arrossì il ragazzo, imbarazzato da
quel pubblico
attacco alla sua virilità. “Perché, i
tuoi fratelli già hanno goduto dei suoi
favori?”
“Tutti
quanti tranne i piccoletti”, replicò semiseria la
giovane
donna, per poi scoppiare in una cristallina risata dinanzi
all’impappinamento
dello scandalizzato cugino. “Mo’ via, Momolo! Che
credulone! Ovvio che no, la
Trivixan è roba del sior Pare e degli amici del sior Pare,
senza il cui
esplicito consenso i miei fratelli non oserebbero sfiorarla neppure con
la
punta delle dita.”
“Manco
mal che le suore dovevano tenerti ignorante del mondo e
crescerti nella modestia!”, bofonchiò il Miani,
piccato della talora eccessiva
vivace schiettezza della cugina. “Rincaso, prima che tu mi
scocci con altre
scabrose assurdità!”
Maria
rise doppiamente di gusto, gettando indietro la fluente
massa di capelli scuri, d’identico colore a quella di
Hironimo, e seminascosta
dal velo di seta. “Vien qua, razza de rustego, dammi un bacio
e facciamo pace:
ti voglio troppo bene per lasciarti andar a casa arrabbiato!”
Non
visto, il giovane Tician intanto appoggiava cauto il pennello,
pigliando il suo taccuino e scarabocchiando furtivo i due cugini, lei
ch’afferrava da dietro la recalcitrante testa di lui,
abbassandolo al suo
viso. Venere che bacia Marte per farsi perdonare,
elaborò in fretta
il cadorino un titolo provvisorio, sognando pieno d’ambizione
il giorno in cui
sarebbe stato finalmente indipendente e non più a bottega,
né chiamato a
rimpiazzare il maestro Zentil Belini quando questi si ritrovava troppo
impegnato per accettare commissioni di minor conto.
“Sior
pitor!”, la voce birbante di Maria lo fece sobbalzare e il
ragazzo s’affrettò a nascondere il quadernetto,
farfugliando qualche
sconclusionata scusa. “Poiché mi ritraete vestita
all’orientale, cosa ne dite
s’aggiungessimo anche il mio seno nudo?”
Il povero
Tician avvampò purpureo per poi sbiancare fino allo
slavato, più che altro per il timore di finire gettato alle
Orbe da sier
Batista in persona, reo di volergli concupire la figliola, rovinandosi
di
conseguenza la reputazione e di perdere la ghiotta occasione di
lavorare per
domino Jacopo Pexaro, vescovo di Pafo e capitano vittorioso nella
battaglia navale
di Santa Maura contro i Turchi, il quale stava giusto cercando qualcuno
di
bravo ed economico per realizzare una pala per un ex-voto. Dinanzi al
palese
disagio del balbettante cadorino, i due giovani sghignazzarono perfidi,
congiungendo le forze e focalizzando i loro lazzi sul loro indifeso
quasi-coetaneo.
Rincasando
verso tardo pomeriggio e riflettendoci sopra, sua
cugina però aveva ragione: Hironimo aveva posto Luzia
Trivixan su di un
piedistallo, elevandola ad amor sacro, stimando infatti più
le emozioni che lei
gli suscitava tramite il suo talento, nonché la sua vivace e
stimolante
compagnia. Il timido desiderio sensuale ch’aveva
all’inizio provato egli si
costringeva ad affievolirlo e sublimarlo in ammirazione e una parvenza
d’amicizia, non giudicando opportuno insidiare colei
ch’apparteneva a suo zio,
il quale si fidava di lui al punto di cessare, dopo una dozzina di
visite, di
presenziare ai loro piccoli concerti. Sarebbe stato da infami tradirlo
per un
tal capriccio.
Certo,
Hironimo non s’ingannava sulla professione di Luzia e
sapeva che di protettori ne aveva altri (pochi ma buoni, contrariamente
alle
cortigiane di lume o alle comuni meretrici) e che non era inusuale tra
amici
scambiarsi la medesima cortigiana. Ciononostante, per il ragazzo un
conto era
battersi per i favori della Trivixan contro degli estranei, un conto in
famiglia. Piuttosto di minare il sacro equilibrio della sua gens,
preferiva
tirarsi indietro.
Anche
perché, oggettivamente, in che cosa poteva competere lui con
lo zio? Cosa poteva offrire di meglio a Luzia?
Continua
…
**************************************************************************************************************
E con
questa domanda esistenziale, ci si vede alla seconda parte!
Il mondo
delle cortigiane a Venezia è davvero affascinante
nella
sua contraddizione: artiste poliedriche e prostitute; idolatrate e
disprezzate;
talora concubine e madri di figli illegittimi; mecenati e benefattrici;
amanti
di tutti, di nessuno o di qualche circolo esclusivo; donne indipendenti
e al
contempo dipendenti dagli uomini. Una mia ipotesi
sul perché le
mantenute (il massimo cui si potesse aspirare) fossero condivise, era
sia per
motivi economici, così da dividersi le spese visto che le
cortigiane menavano
una vita molto costosa all’insegna dello stravagante e sia un
po’ perché
fungevano da piattaforma sociale dell’epoca, in una sorta di
salotti letterari
ante litteram.
In
mancanza di fonti sulla vita “privata” dei
personaggi, gli
eventi narrati, come più volte ripetuto, sono frutto di una
nostra licenza poetica
e spero che dall’Aldilà mi si perdoni. Tuttavia la
fama di cantante di Lucia
Trevisan era davvero talmente grande, che Marin Sanudo, in occasione
della sua
morte nell’ottobre del 1514, annoterà: “In
questa matina, fo sepulta a Santa
Catarina Luzia Trivixan, qual cantava per excellentia. Era dona di
tempo tuta
cortesana, e molto nominata appresso musici, dove a caxa sua se
reduceva tutte
le virtù musicali. Et morite eri di note, et ozi 8 zorni si
farà per li musici una
solenne Messa a Santa Catarina, funebre, e altri officii per
l’anima sua.”
Purtroppo,
della sua vita non si sa moltissimo, in particolare
come mai possedesse un cognome patrizio – figlia illegittima?
Moglie di un
nobile decaduto? Donzella senza dote? Monaca mancata? Certamente doveva
esser
stata un’autorità presso la comunità
musicale di Venezia, se tutti i suoi
musicisti l’hanno così onorata, suonandole una
Messa funebre degna di una
regina.
Di nostra
immaginazione – ma non improbabile considerato il
mestiere di Lucia – è la sua relazione con
Alessandro Demophon Venetus,
compositore di frottole veneziano, attivo tra il 1480 e il 1500,
probabilmente
l’anno della sua morte. Nulla si conosce della sua vita
privata (ma va?),
tranne che fosse o un appassionato di mitologia greca –
Demophon = Demofoonte
di Eleusi? – o di origini greche. Della sua produzione
musicale non ci è giunto
moltissimo, tra cui “Vidi hor cogliendo rose” dalla
poesia dell’umanista
bolognese Giovanni Filoteo Achellini.
Vi
proponiamo questa versione su YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=2u9G-OFZXSk
Piccolo
cameo anche di Tiziano Vecellio, qui ancora in veste di
allievo presso Gentile Bellini. Che il pittore cadorino fosse un
talento
precoce, lo dimostra che appena sedicenne gli venne commissionato il
primo suo
dipinto ufficiale ed autografato “Jacopo Pesaro presentato a
san Pietro da papa
Alessandro VI” – iniziato nel 1503 e terminato nel
1506. Nulla esclude che però
avesse già dei lavori alle proprie spalle, insomma non si
commissiona un
dipinto così importante ad uno sbarbatello dalle
qualità totalmente
sconosciute. Ecco dunque la nostra licenza poetica circa
l’immaginario ritratto
di Maria Morosini.
Spero che
questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!
Un
po’ di noticine:
[1]
Mazariol =
“El Mazariol” è un folletto
rossovestito e dalle scarpe a punta, appartenente al folklore
trevigiano-bellunese, il quale si aggira per boschi e vallate assieme
al suo
gregge oppure in zattera sul Piave nelle notti di luna piena, facendo
scherzi a
destra e a manca, in una versione veneta dello shakespeariano Robin
Goodfellow
“Puck”, il valletto di Oberon re
delle fate in “Sogno di una notte
di mezz’estate”. Infatti, all’elenco dei
dispetti di Puck, mi sembrava proprio
di rileggere le “imprese” del Mazariol!
La
tradizione popolare ricorda ai viandanti di non calpestare le
orme del Mazariol, le quali fanno dimenticare la memoria e la strada di
casa.
Un’altra vicenda che l’ha reso famoso è
stato lo scompiglio che avrebbe portato
coi suoi dispetti nel campo di Attila, salvando la città di
Oderzo dagli Unni.
[2] Odhecaton =
o
per intero Harmonice Musices Odhecaton è
la prima raccolta di
musica polifonica (o d’armonia come definita
all’epoca) completamente stampata
a caratteri mobili. La prima edizione venne pubblicata nel 1501 a
Venezia
dall’editore Ottaviano Petrucci, il primo stampatore musicale
italiano, e
dedicata all’umanista veneziano ed ambasciatore Girolamo
Donà “dalle Rose” (lo
zio materno di Marco Contarini), definito dal Petrucci
“suminus patronus"
delle arti. Una seconda edizione uscirà nel 1503 ed una
terza del 1504.