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Autore: Crudelia 2_0    05/02/2021    4 recensioni
Ogni volta che ci avrebbe ripensato, in futuro, si sarebbe sentito in colpa. Aveva sempre pensato che, quando sarebbe accaduto, l'avrebbe sentito. Invece, nulla.
Quando accadde, era impegnato in un'attività che non lo impegnava letteralmente da secoli: stava facendo l'amore con una ragazza.
[...]
Merlin gemette. Non per il dolore o la sorpresa, ma perché sentire le dita di Arthur su di sé, sentirle addosso, era all'improvviso troppo.
Troppo per lui che si era arreso, per lui che aveva continuato a vivere dilaniato a metà tra la sofferenza del doverlo aspettare e la consapevolezza, sempre più profonda e viscida, che non l'avrebbe mai più rivisto.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Merlino, Principe Artù | Coppie: Merlino/Artù
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Nel futuro
Capitoli:
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Note: se c'è una cosa che ho imparato negli ultimi tempi è che ogni cosa arriva a noi quando ne abbiamo bisogno. Ho rivisto Merlin su Netflix, la prima volta che l'ho guardato saranno stati circa 10 anni fa, ero una bambina e non capivo niente. Ora, a vedere come si guardano, rimango senza parole. 
Dopo aver fatto indigestione di fanfiction ho deciso di mettermi alla prova. Questa storia è spuntata in questo momento che sono incastrata in quel ciclo odioso per cui la mia testa è piena di storie, ma appena apro il foglio niente. 
Per cui, poiché la mia scrittura è così volubile, vi chiedo la cortesia, se la storia vi piace, di dirmelo. Come tutti gli umani funziono terribilmente meglio con una ricompensa. Nella mia mente (chiaramente non già scritti, sia mai organizzarsi prima di pubblicare) sono pronti circa cinque capitoli, piuttosto corposi, ma non so dove mai andrò a parare.  
Adesso, prima che queste note si dilunghino troppo, vi lascio al capitolo. E grazie a chi è arrivato anche solo fino a qui.  
Un abbraccio, 
Crudelia 
 


 
Fino a farci scomparire*
Capitolo 1
 
 
 

Ogni volta che ci avrebbe ripensato, in futuro, si sarebbe sentito in colpa. Aveva sempre pensato che, quando sarebbe accaduto, l'avrebbe sentito. Invece, nulla. 
Quando accadde, era impegnato in un'attività che non lo impegnava letteralmente da secoli: stava facendo l'amore con una ragazza. 
Non sapeva come ci era arrivato, né il nome di lei (gli sembrava Amanda o Adele, ma poteva anche essere Catherine), ma aveva capelli biondi che brillavano sotto la luce e occhi azzurri scintillanti. L'unica certezza che aveva, al momento, era il suo essere considerevolmente brillo. E il poter stringere tra le mani ciocche chiare e vedere occhi come il cielo d'aprile offuscati dal desiderio. 
Il resto non contava. 
 
 
 
Se c'era una cosa che il capitano Smith apprezzava del lavorare in una cittadina tranquilla come Glastonbury* era la calma del servizio serale. 
Calma piatta, continua. Specialmente nelle serate come quella: una piovosa domenica di fine inverno.  
Solitamente si intratteneva leggendo tascabili thriller che prendeva in prestito dalla biblioteca e sorseggiando il caffè caldo che sua moglie preparava con amore prima di ogni turno. 
Quella sera era alla seconda tazza, impegnato con un racconto di un pazzo che si infilava nelle case altrui che non lo stava appassionando affatto. Stava valutando di alzarsi e sgranchirsi le gambe per fumare una delle sigarette del pacchetto che teneva nascosto nel terzo cassetto della scrivania. Aveva detto a sua moglie che aveva smesso, ma amava concedersi quel vizio. Non che amasse mentire alla moglie, però...  
La porta si aprì di colpo e Smith sobbalzò, rovesciando un po' di caffè che gli finì sulla camicia. 
«Ma che —» borbottò alzandosi, iniziando a cercare un fazzoletto con cui tamponarsi. 
«Capo!», la voce di Lloyd lo fermò a metà del gesto. La voce era tranquilla, ma dopo tanti anni a stretto contatto era impossibile non notare la sottile tensione che la permeava. Alzò gli occhi in tempo per vedere tre figure che sparivano oltre il corridoio. 
Girò attorno alla scrivania, notando come i riflessi non fossero più quelli di un tempo. Avrebbe dovuto dar retta al medico e smetterla di mangiare tutte quelle ciambelline a colazione, forse.  
Dal fondo del corridoio giunse un verso soffocato e un grugnito, poi il rumore di una cella che veniva chiusa. La centrale era piccola: appena un ingresso, due uffici e quel corridoio che portava all'unica cella. Solitamente ci chiudevano chi era troppo ubriaco per tornare a casa sulle proprie gambe. Evento che si era alquanto ridotto da quando il vecchio Phil ci aveva lasciato le penne nell'incidente dello scorso autunno. 
Con un sospiro, aggiustandosi la cintura sotto la pancia prominente, Smith arrivò alla sua meta. 
Lloyd stava guardando nella cella con aria torva, le sopracciglia corrugate sopra le braccia incrociate. Sulla mascella aveva una zona rossa che si stava rapidamente gonfiando. 
«Un tipetto tosto», commentò, accennando con il mento alla cella. 
Smith si avvicinò alle sbarre. Jack, il più recente acquisto della caserma, gli fece spazio. Le chiavi tintinnarono al suo fianco. 
Smith posò le mani sui fianchi e guardò all'interno. 
La prima cosa che notò furono le spalle larghe, e capì tutti i grugniti dei suoi uomini. Avevano dovuto spingerlo lì dentro. Poi notò gli stivali, i pantaloni di un tessuto che non aveva mai visto e la camicia bianca che sembrava di iuta. Era bagnato fradicio, i capelli, di un marrone chiaro, gocciolavano tutt'intorno.  
Un hippie, pensò. Un maledetto americano. 
«Allora, giovanotto, cos'hai combinato?» 
Aveva assunto quel tono leggermente ironico e paternalistico da vecchio amico, di un nonno che dovrebbe rimproverare ma di nascosto strizza l'occhio con complicità. Con i giovani di solito funzionava, ma, quando il ragazzo si girò, le parole gli morirono in bocca. 
Aveva un labbro spaccato e un sopracciglio tagliato, un rivolo di sangue gli scendeva per la tempia e lungo lo zigomo. Come una lacrima. Ma furono gli occhi a catturare la sua attenzione. Azzurri come non ne aveva mai visti, portavano al loro interno una disperazione che rasentava la pazzia. 
Il ragazzo aprì la bocca per rispondere, poi la richiuse. 
Lo vide deglutire, il pomo d'Adamo salire e scendere per la gola in un movimento che tradiva il panico. Poi aprì di nuovo la bocca, ma ne uscì una sola parola. 
«Merlin». 
Smith corrugò la fronte. 
«Chiamate un medico», disse, e si voltò.  
 
 
 
Se il medico in servizio fosse stato qualcun'altro e non Sam probabilmente l'avrebbe preso a schiaffi. 
Ma Sam era Sam, erano cresciuti insieme ed insieme si erano fatti vecchi. Avevano già programmato il viaggio per la pensione, sebbene mancassero ancora due anni. 
Quindi, se davanti a lui ci fosse stato chiunque altro, Smith non ci avrebbe creduto. Ma, poiché fu Sam a dirglielo, non gli passò neanche per la mente l'ipotesi che non fosse vero. 
«Il ragazzo non è drogato», disse il medico chiudendo la valigetta. Aveva la fronte corrugata come quando un pensiero ostico non lo lasciava. «È in stato confusionale, forse shock, ma sicuramente non è drogato». 
Si sistemò gli occhiali e la cravatta, che non abbandonava mai, poi gettò un'occhiata alla cella. Smith seguì il suo sguardo: il ragazzo era seduto con i gomiti appoggiati alle ginocchia, una posa arresa e abbandonata. Gli avevano dato dei vestiti asciutti, e stringeva tra le mani la felpa fissando la cerniera. I capelli, che asciugandosi avevano rivelato essere color oro, gli cadevano sulla fronte e sugli occhi. 
«Quello che dice...», borbottò Smith, senza finire quella che voleva essere una domanda. 
Il ragazzo non aveva detto niente se non quella parola: Merlin. L'aveva detta quando aveva visto il dottore, quando aveva provato a curarlo, quando gli avevano portato i vestiti puliti e infine quando l'avevano lasciato. Nient'altro se non quella parola, pronunciata come l'ultima richiesta di un condannato. E quella disperazione negli occhi, che faceva male al cuore solo a guardarli. Non aveva risposto a nessuna domanda, pareva quasi non li comprendesse.  
Il medico si schiarì la gola. «Penso sia un nome, conosco una persona che...» e anche lui non finì la frase. Dopo tanti anni si comprendevano comunque. 
Smith gli passò accanto dandogli una pacca sulla spalla. «Cerca di contattarla allora».  
 
 
 
Un ragazzo biondo, dice solo il tuo nome. 
No... No, non lo so. 
Non ci ha detto come si chiama, continua a ripetere il tuo nome, per questo ti ho chiamato. L'hanno trovato che urlava in riva al lago, sì.  
Sì... Sì, biondo e occhi azzurri e — ho capito. 
Va — va bene, grazie. 
 
Quelle parole continuavano a risuonargli nella mente. Dio, com'era stato stupido. 
Tanti anni per prepararsi e lui si faceva trovare a letto con una ragazza. 
Scivolò sui gradini della centrale di polizia, poggiò una mano con malagrazia sul cemento bagnato per reggersi in piedi. Arrivato alla porta la colpì con una spallata, senza curarsi di essere bagnato e inzaccherato di fango e completamente impresentabile. 
Gli occhi saettarono in tutte le direzioni contemporaneamente, senza soffermarsi su nulla. 
Capelli biondi, occhi azzurri. Capelli biondi, occhi — 
«Ah, tu devi esser—» 
«Dov'è». 
L'uomo chiuse la bocca di scatto, allibito. Merlin colse il tintinnare di una chiave quando lo vide sistemarsi la cintura sotto la pancia gonfia, ma erano dettagli lontani, insignificanti. 
Vide Sam voltare l'angolo di un corridoio e riprese a correre. 
Le suole di gomma bagnate scivolarono nel fare la curva a quella velocità e colpì il muro con la spalla. Il dolore, invece che fermarlo, lo incoraggiò a muoversi più in fretta. 
Sentiva dietro di sé le voci dei due uomini che lo stavano seguendo, ma erano suoni attutiti dal rumore del sangue che gli correva nelle vene, dal cuore che pulsava furioso nel petto e nelle tempie. 
Poi si fermò di colpo, a due passi dalla cella. 
Ansimante, le mani che tremavano. 
Il mondo cadde nel silenzio. Gli occhi si riempirono di lacrime, sentì le gocce di pioggia cadere dal suo cappotto alle piastrelle lucide e immacolate. 
Poté contarle distintamente. 
Una. Due. Tre. 
«Arthur». Cavarsi quel nome dalla gola fu come togliere un'arma e vedere il sangue ricominciare a scorrere. 
Il ragazzo alzò la testa di scatto, gli occhi grandi e spaventati e confusi. 
«Merlin», disse. 
E per Merlin fu come ricevere un colpo allo stomaco. 
Il suo nome. Il suo nome sulla sua bocca, pronunciato dalla sua voce. 
Barcollò, incapace di gestire quell'emozione. Incespicò in avanti, aggrappandosi ad una sbarra per reggersi in piedi. 
Arthur scattò in piedi e si avvicinò a lui. A passi grandi, quasi con furia. Non si fermò davanti alle sbarre, ma allungò una mano e gli afferrò la mandibola. Lo tirò in avanti, schiacciando il suo corpo contro il metallo. E c'erano solo quelle sbarre, a separarli. Merlin poteva percepire il calore del suo corpo a così poca distanza. E Arthur era così vicino, sentiva il suo respiro bollente e accelerato sulla bocca. 
«I tuoi occhi», mormorò Arthur fissando le sue iridi, con voce roca. Una voce che non aveva usato per secoli
Merlin gemette. Non per il dolore o la sorpresa, ma perché sentire le dita di Arthur su di sé, sentirle addosso, era all'improvviso troppo. 
Troppo per lui che si era arreso, per lui che aveva continuato a vivere dilaniato a metà tra la sofferenza del doverlo aspettare e la consapevolezza, sempre più profonda e viscida, che non l'avrebbe mai più rivisto. 
Aveva immaginato — desiderato — quel momento così tante volte, ma mai le dita di Arthur avevano una tale intensità sulla sua pelle. 
Lo guardò in quegli occhi che aveva temuto di dimenticare, poi ci fu uno scoppio. E tutto fu buio e poi luce.  
 
 
 
 
*è il titolo di una canzone di Diodato, "Fino a farci scomparire", appunto. Farà un po' da linea guida per questa storia.  
*secondo alcuni, è la città in cui si trova il Lago di Avalon.  
 

 
   
 
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