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Autore: Ciuscream    13/02/2021    12 recensioni
Aveva attraversato l’Europa, aveva conosciuto i vari colori della magia, ne aveva esplorato gli anfratti più magnificenti, le più diverse sfumature. Per lui, la magia, era un’amante affettuosa da accarezzare in un corteggiamento infinito, in un dare e prendere costante, bramoso e rispettoso al contempo.
[Questa storia partecipa alla challenge “I like that quote, said the month” indetta da Mari Lace sul forum di EFP.]
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alphard Black, Regulus Black, Walburga Black
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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Corvo solitario
 
 
Alphard Black aveva i capelli neri e gli occhi grigi, il naso piuttosto adunco e un’accentuata propensione alla disubbidienza. Una disubbidienza velata, però, mai irrispettosa, mai sfacciatamente contraria alle regole. Tendeva ad aggirarle, eluderle, trovare cavilli per giustificarsi. Ne era ormai assuefatta sua madre, infastidito suo padre, disgustata la sorella maggiore.
Alphard non faceva mai quello che doveva essere fatto: non stava mai abbastanza dritto con la schiena, si sporcava perennemente le vesti linde d’inchiostro scuro, non presenziava impettito in salone con gli ospiti. Lo trovavano con il naso immerso in libri polverosi, ancora prima che fosse in grado di leggerli; spesso l’elfa domestica – la cui testa mozzata troneggiava adesso sopra il corridoio di Grimmauld Place – aveva dovuto recuperarlo in piedi su qualche scrittoio, quando la magia non arrivava in soccorso di quelle mani di bambino. Aveva tentato di forzare cassetti, aveva rotto sfere di cristallo e, a Hogwarts, aveva ficcato il naso nel Reparto Proibito più volte, con o senza autorizzazione.
Con sommo disappunto di Walburga e Cygnus, però, non veniva mai punito a sufficienza. Riusciva sempre, in un modo o nell’altro, a sgusciare via dalle situazioni, sguillando come un serpentello – come una piccola idra, quella della costellazione che conteneva il suo nome. Come fuggiva le situazioni, così faceva con i rapporti, con le radici. Non ne aveva, diceva: non si era mai avvicinato troppo ai fratelli, non aveva aperto brecce per loro; non aveva lasciato trapelare in sé gli insegnamenti marchiati a fuoco dei Black. Con vivo sconcerto della sorella, non aveva voluto scegliere nemmeno la residenza che gli sarebbe toccata in sorte come primo fra gli eredi maschi, riluttante com’era a sentirsi prigioniero di quelle tradizioni che non avvertiva come proprie.
 
«Andrà bene una qualsiasi» aveva mugugnato, certo che non vi avrebbe trascorso più di qualche ora nell’arco della sua intera vita, soffocato da ritratti con cui non trovava somiglianze e con serpenti che gli rammentavano un’appartenenza alla terra di cui lui si sentiva privo.
«Una qualsiasi?» Le sillabe prodotte da Walburga assomigliavano molto di più a sibili che a parole vere e proprie. «Ma ti senti, Alphard? Non sei più un ragazzino, dovresti smettere di comportati da tale.» Lei, che avrebbe anelato di possedere Grimmauld Place, di ricalcare le orme di Pollux ed onorare quelle mura austere, era sconcertata da tanta, scanzonata, protervia. Lui aveva alzato le spalle, le aveva mosso uno di quei sorrisetti che sapeva quanto la disgustassero e aveva fissato su di lei gli occhi grigi – quelli che poi avrebbe ritrovato nel suo primogenito. Era rimasto sulle sue pupille per qualche istante: aveva immerso il suo grigiore in quei laghi color pece, ci aveva allagato la sua incredulità per la loro indole tanto diversa, per quel rifiuto che si contrapponeva alla sua tenacia. Chi da quella famiglia sognava la fuga, chi, invece, ci scorgeva una fede.
«Puoi avere Grimmauld Place, non ho intenzione di vedere quelle teste mozzate un minuto in più del necessario.» Glielo aveva soffiato con semplicità ed arrendevolezza, quasi con superficialità, quella che aveva scatenato in lei un piccolo moto di dissenso.
«Come puoi avere così poco rispetto per le tue radici?» La voce della sorella era stridula e acuta, quasi un fischio, un ringhio che scivola tra denti stretti di superiorità e arroganza.
«Io non ho radici, Wal. Non sono come te. Quella casa ti terrà in trappola.»
«Riesci a vedere quello che sei? È per questo che rimarrai per sempre da solo.»
«Sì. Solo ma libero
 
Aveva lasciato la casa dei suoi padri poco dopo aver ottenuto i suoi M.A.G.O. Era fuggito verso l’ignoto, verso le innumerevoli porte che il passepartout dell’essere Black gli aveva spalancato davanti. Aveva attraversato l’Europa, aveva conosciuto i vari colori della magia, ne aveva esplorato gli anfratti più magnificenti, le più diverse sfumature. Per lui, la magia, era un’amante affettuosa da accarezzare in un corteggiamento infinito, in un dare e prendere costante, bramoso e rispettoso al contempo. Aveva scelto di avvolgerla e farsi avvolgere da lei, farsela penetrare nel profondo, fino a trasformarlo, fino a farlo volare altrove. Con gli insegnamenti di Silente prima e di Pierre Michel Dubois dopo, era riuscito davvero ad essere, finalmente, altro – era riuscito a diventare un Animagus.
Aveva assunto la forma di un corvo: nero, lucente, veloce. La bellezza del mondo magico adesso si stendeva sotto le sue ali spalancate; la poteva osservare, smanioso, dall’alto, ci poteva precipitare all’interno, nascosto ad occhi altrui. Aveva preso a trafficare d’arte e di cimeli, perlopiù oscuri, quelli che aveva osservato di nascosto a casa Black, che aveva cercato nei libri di Grimmauld Place prima e di Hogwarts poi. Aveva inseguito, anche lì, la bellezza e la potenza della magia. In quei manufatti antichi, che studiava nelle stanze sempre nuove in cui si trasferiva in quel suo vagabondare, osservava i dettagli che impreziosivano collane e medaglioni, coppe e cristalli. Ne apprendeva la storia e, per quelli che non ne avevano, ne inventava una da frullare nella testa di compratori disattenti e di estimatori vari, da sillabare con dovizia alle orecchie giuste da allettare.
 
Non aveva tempo, lui, per le radici. Le radici erano una trappola per deboli, una gabbia di convenzioni e rinunce. Solo la spinta del passo successivo riusciva a tenerlo vivo e pulsante: il giorno prima era in luogo, il giorno dopo non lo sapeva. La famiglia era diventata, così, un ricordo sbiadito da ravvivare di tanto in tanto, quando le visite da Borgin & Burkes lo portavano a Londra. Le amicizie erano trame d’inchiostro su pergamene, un andirivieni di corrispondenza e gufi. Alcuni di questi avevano perso le sue tracce e, con questi, qualsiasi speranza di legame.
L’amore… l’amore erano le cosce calde di una sconosciuta, le lenzuola umide di una notte di passione. Erano le forme nude su cui poggiava le sue collane incantate, a provocare i brividi del delirio o la potenza della fortuna che vi erano racchiuse all’interno. L’amore erano le scommesse con la sorte, la roulette russa di maledizioni ad ogni nuova scoperta. L’amore erano gli occhi mobili e profondi di una dama ritratta in un quadro dalle fattezze morbide, quei volti che addobbavano la dimora dei Black che aveva scelto. Lontana da Londra, lontana da loro. Le fissava quando quel suo vagabondare diventava stancante e aveva bisogno – anche se rifiutava di ammetterlo – di un briciolo di stabilità, di un luogo da chiamare casa, di oggetti familiari tanto da riconoscerli anche tastando nel buio.
 
Il salotto della Tenuta di Cork era stato spogliato dalle cornici che inquadravano boriosi predecessori, perlopiù Bulstrode, dal cui ramo avevano ereditato quelle mura. Erano poche stanze incastrate tra case babbane, che ricordavano Grimmauld Place solo per l’ubicazione. L’atmosfera in cui aveva immerso la casa respirava, invece, spiriti nuovi, che fondevano viaggi lontani e cimeli misteriosi. Questi spaziavano da quelli raccolti nel freddo rigore scandinavo a quelli che, già con i colori, raccontavano avventure più afose ed esotiche. Vi erano lame forgiate dai goblin, una tiara ricevuta in dono dai vampiri della Romania, vasi baschi che gli era stato caldamente consigliato di non scoperchiare mai. Aveva aggiunto colore alle tappezzerie scure e alle finestre strette, aveva dato luce alle pareti con volti belli e curiosi – le mille donne che amava ed aveva amato, che lo fissavano placide, lontane e vicine al contempo. Non avvertiva la solitudine della sua condizione, immerso in quelle centinaia d’occhi dai colori tanto diversi, tutti di pitture ad olio. Non aveva bisogno delle loro voci per sentirle presenti, per selezionare nei ricordi quelle da riascoltare e quelle, invece, da allontanare per sempre in anfratti lontani e reconditi della sua memoria già così zeppa.
Amava le parole, amava piegarle a suo vantaggio come per tutta la vita aveva fatto, per scandire e delineare la strada del suo obiettivo. Amava altrettanto, però, la loro assenza, il loro eco, il loro essere interrotte da gemiti e sospiri.


*

Nel silenzio ozioso di quel pomeriggio, un suono proveniente dal camino rimbombò nel salone di Cork con potenza di tuono. Un ragazzo dai capelli scuri ingrigiti di fuliggine, gli occhi chiari ed un po’ spersi, avanzò fuori dalle fiamme smeraldine. Il viso di Alphard, fino a quel momento immerso in “Manufatti incantati: le più pericolose magie mai nascoste”, capitolò su questo con sorpresa e apprensione, studiando il profilo dei suoi occhi spalancati.
«Regulus!» Il nome, pronunciato dalla voce arrochita dal prolungato silenzio, sembrò quasi un colpo di tosse, un singulto.
Il ragazzo fissò la copertina del libro per qualche istante prima di finire negli occhi dello zio, come se volesse evitare, fin quando possibile, di incocciare quell’espressione sorpresa che già tradiva il fallimento della sua visita. Si fermò a fatica su quegli occhi così simili ai suoi – ai loro. Le pupille erano ormai talmente grandi da aver relegato l’iride ad una mera cornice delle stesse.
«Non è qui, vero?» La voce tremava appena di qualcosa che sostava a metà tra la rabbia e lo spavento.
L’occhiata perplessa che ricevette in risposta era più eloquente di qualsiasi sillaba.
Lo ripeté comunque, aggrappandosi ad una speranza che si faceva via via più flebile e lo faceva penzolare sul baratro di un’angoscia affacciata sull’ignoto.
«Sirius. Sirius!» sbottò, come spazientito, come se quei suoi pensieri ingombranti dovessero essere letti anche all’esterno tanta ne era la potenza. «È qui?»
Alphard scosse debolmente il capo, con lo sguardo che ancora scrutava la implacabile frustrazione di Regulus, intento a strofinare le mani una contro l’altra.
«Cos’è successo?»
Questo allargò le braccia con sgomento mentre cacciava fuori quello che era soltanto un grido strozzato. «Se n’è andato! Se n’è andato! Mi ha lasciato lì! Se n’è andato!» Urlava ed indicava un punto imprecisato dentro le fiamme del camino; forse, nel suo immaginario, oltre l’indice vi era il salone di Grimmauld Place da cui era appena partito.
«Tua madre manda te a cercarlo?» Il sopracciglio di Alphard svettò alto sopra la sua fronte, il tono macchiato di un’amarezza antica che era adesa con forza alle sillabe.
A questa fece eco quella di Regulus, molto più fresca, molto più umida.
«No, lei non lo sta nemmeno cercando.»
 
Quando, qualche mese dopo, il corpo di Alphard Black venne ritrovato, questo era riverso su un grande tavolo di legno massello, baroccamente intarsiato con teste di corvo a spiccare da ogni angolo. Aveva il viso poggiato sul legno, le mani strette in pugni serrati. Una piccola bottiglietta di profumo dalle iscrizioni in francese, decorata con volti di donna in stile art nouveau, era poggiata accanto a lui. I Medimaghi avevano decretato che era stata una morte rapida, dovuta probabilmente ad una maledizione nascosta all’interno di quell’ampolla, scatenata dal suo premere lo sbuffo color cipria. Era morto in un esperimento sbagliato, proprio come gli idioti che muoiono d’amore. Nessuno lo aveva cercato, nessuno aveva percepito la sua assenza. Libero. Solo.
Il suo testamento, compilato poche settimane prima, conteneva una brevissima lista di destinatari: ordinava che i libri elencati ed ogni suo cimelio rimanessero all’interno della casa, come parte integrante della stessa. Ad una Veela di nome Yordanka era, invece, riservata una splendida collana di smeraldi e rubini.
Il resto, il denaro, andava a Sirius, quel ragazzo dagli occhi così tanto, tanto simili ai suoi. Due misere righe accompagnavano quella scelta.
 
“A mio nipote Sirius, perché possa germogliare lontano dai Black.
Chi non mette radici è libero, ma solo.
 
Un solo volume mancava all’appello, secondo gli addetti del Ministero: quello che stava leggendo il pomeriggio dell’incontro con il minore dei suoi nipoti.
Trovarono solo più tardi un piccolo appunto a fondo pagina, scarabocchiato in fretta: diceva che era stato donato, e già prelevato, da un fantomatico R. A. B.
 

 

Nda: L’incipit è ispirato a quello de “La famiglia Manzoni” di Natalia Ginzburg (“Giulia Beccaria aveva i capelli rossi e gli occhi verdi.”); “Morto in un esperimento sbagliato, proprio come gli idioti che muoion d’amore” è una citazione da Un Chimico – Fabrizio De Andrè.
 
Come anticipato in introduzione, questa storia partecipa alla challenge “I like that quote, said the month” indetta da Mari Lace sul forum di Efp. Ho scelto il prompt del mese di luglio, “Chi non mette radici è solo, ma libero”. Mi sono finalmente decisa a scrivere su uno dei personaggi che più mi incuriosisce dell’intera saga, ovvero zio Alphard. Questa storia (priva di pretese) non vuole essere che un brevissimo spaccato su quella che ho immaginato essere la sua vita: un po’ rocambolesca, così diversa dall’essenza dei Black. L’idea è nata da una serie di coincidenze tra cui la scoperta di questo prompt prima e l’aver letto, poi, che il nome Alphard ha come etimologia l’arabo فرد|الفرد (Al Fard), che significa individuo, “the solitary one”. Chiunque abbia più basi di me di questa lingua (io mi spingo fino a Google traduttore) può smentirmi senza problemi, anche se questa piccola consonanza mi è piaciuta così tanto che ho deciso di scrivere questo racconto. Nella frase finale della dedica testamentaria, ho deciso di invertire il senso della citazione, ad evidenziare come lui – seppur libero – alla fine della sua vita non avesse nessun altro a cui lasciare qualcosa, visto che aveva reciso tutte le sue radici.
Ho immaginato che Alphard fosse un Animagus registrato ed ho scelto un corvo, sia perché nero (un Black), sia perché animale che può volare (a sottolineare la sua assenza di radici) sia perché storico presagio funesto, in accordo con la sua predilezione a trafficare di cimeli oscuri, oscure come risulteranno le cause della sua morte.
Ho immaginato che magari Sirius avesse chiesto a lui informazioni per intraprendere il percorso che porterà lui, James e Peter a diventare loro stessi Animagi e ho voluto collegarlo anche a Regulus, con la mancanza di quel libro sui manufatti magici dove può aver ritrovato informazioni su come incantare oggetti (e magari come creare un horcrux – scusate il trip). Non so se il risultato finale mi piace o piacerà a voi; la descrizione della vita di una persona in poche parole richiede, per forza di cose, una sintesi che non mi appartiene – e spesso porta ad una banalizzazione. Spero possiate perdonarmi, in caso.
Grazie a tutti per essere arrivati fino qui, un abbraccio.
   
 
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