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Autore: Laisa_War    17/02/2021    2 recensioni
Questa storia nasce da una fantasia che accomuna, credo, ogni fan di Vikings (di cui faccio fieramente parte): esser trasportati nel mondo dei figli di Ragnar, per poter interagire con loro e combattere al loro fianco.
Hylde, una normalissima ragazza del 2020, viene spedita nella Kattegat dell'800 d.C. per volere di Odino in persona. Il motivo, per ora, è per lei un vero mistero.
Incontrerà i fratelli Lothbrok, intenti ad organizzare una grande spedizione punitiva ai danni di re Aelle e re Ecbert, colpevoli di aver contribuito alla morte del più grande re vichingo della storia: Ragnar Lothbrok.
Diventerà, col tempo, parte integrante della società vichinga, imparandone gli usi e i costumi. Quella diventerà casa sua, molto più di quanto lo fosse il mondo moderno.
Con questo racconto, i cui capitoli usciranno settimanalmente, spero di potervi trasportare con me in quella fantastica epoca, trasmettendovi le sensazioni che avevo io, durante la scrittura.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ivar, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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La serenità non durò a lungo. Tornarono seri, dopo qualche altro scambio di battute e piccole prese in giro, così Hylde radunò il suo coraggio e chiese a bruciapelo: «Cosa ti ha fatto tanto arrabbiare?». Voleva così tanto aiutarlo ad alleviare quella rabbia, voleva disperatamente che si aprisse con lei, che non facesse finta di essere tranquillo quando in realtà era tutt’altro.

Ivar deglutì rumorosamente, prendendosi del tempo per pensare alle parole da utilizzare: «Voglio il comando dell’esercito, Hylde. Ora che posso combattere, ora che so di potercela fare.». Aveva uno sguardo così profondo, così sicuro di sé, al limite dell’arroganza. Gli occhi di solito chiari e splendenti si erano fatti di un intenso blu scuro, rischiarati dalla luce del fuoco che si rifletteva in essi.

Parecchio confusa da quell’affermazione, la ragazza disse: «Pensavo che il comando lo avesse Bjorn. Il fratello più anziano e con più esperienza è lui, è normale che abbia la carica più importante, no?». Parlò con tono calmo e onesto, così come aveva sempre fatto.

Lui rispose: «Hylde, tu non capisci. Mio padre voleva che io fossi il suo diretto successore. Mi ha portato con lui nel Wessex, mi ha fatto studiare i territori, gli edifici, le usanze... Mi ha svelato tutti i segreti per sfruttarli a mio vantaggio.». Aveva iniziato a parlare con voce febbrile ed impaziente, con lo sguardo pericoloso, con brama di potere.

«Io temo che questo non sia l’atteggiamento più giusto per farti ascoltare dai tuoi fratelli. E comunque, non credo che tuo padre volesse che solo uno dei suoi figli prevalesse a discapito degli altri.». Hylde continuò a parlare serenamente in quello che le sembrava un semplice ed aperto scambio di idee, allarmata però dallo sguardo di Ivar, intriso di perfida bramosia. Non aveva mai conosciuto Ragnar, ma era sicura di avere un’opinione solida, nonostante il ragazzo non fosse affatto d’accordo, a giudicare da come scuoteva la testa, in aperto dissenso.

Oramai la ragazza aveva imparato a conoscerlo, passando così tanto tempo insieme a lui sul campo di battaglia aveva imparato a riconoscerne i gesti e le espressioni, e vedeva nitidamente anche i suoi lati più controversi. Adocchiò tutta la rabbia che egli stesse covando, pronta ad esplodere con le parole: «Lo sapevo! Sei come i miei fratelli, tutti credete che io non possa farcela!». Era un fiume in piena, pronto a rompere gli argini.

La sua furia si abbatté su di lei, designata come il bersaglio della sua frustrazione. Hylde non lo aveva mai visto così arrabbiato, soprattutto nei suoi confronti. Capiva perfettamente che il problema non erano le sue parole, benché Ivar avesse deciso che quella sera sarebbe stata lei il capro espiatorio di un disagio portato sulle spalle da troppo tempo.

Hylde si alzò istintivamente dalla sedia e si allontanò, non sentendosi più al sicuro accanto a lui. Gli occhi iniziarono a riempirsi di lacrime, in quasi vent’anni di vita non aveva ancora imparato a discutere senza che il nervoso si trasformasse in pianto.

Tentò di calmarlo, ma fu interrotta da Ivar, imbottito di odio e risentimento: «Per voi sarò sempre il fratellino storpio. Quello che viene deriso e trattato diversamente!». Prese un piccolo pugnale nascosto nello stivale e lo lanciò con tutta la sua forza verso la parete che stava proprio alle spalle di un’immobile Hylde, conficcandolo perfettamente nel legno.

Ivar fece una pausa per riprender fiato, lo scatto d’ira gli aveva fatto accelerare il respiro. Dopodiché alzò lo sguardo verso la ragazza, ma sembrò non vederla davvero, come se fosse stato annebbiato, e volle ferirla con la frase: «Soprattutto tu, Hylde, mi tratti come se fossi uno stupido idiota.». Così freddo, gelido quanto la neve perenne delle alte montagne che circondavano l’immensa radura nella quale sorgeva Kattegat.

Gli occhi della giovane erano lucidi, trasudavano una delusione che l’annichiliva come un malessere fisico. Tremò di rabbia di fronte a un trattamento che sentiva di non meritarsi. Ivar l’aveva portata al limite dell’umana sopportazione, obbligandola a metter da parte ogni briciolo di comprensione rimastole nei suoi confronti: «Se non fossi così occupato a covare tutto questo odio verso il mondo e verso te stesso, capiresti che la realtà è ben diversa da quella che descrivi tu, Ivar!». Nonostante le copiose lacrime, Hylde scandì il nome del ragazzo con una furia tale da zittirlo all’istante ed obbligarlo a prestarle attenzione.

Ivar si pentì immediatamente di ciò che aveva fatto nel momento in cui la vide piangere. Non pensava davvero quelle parole e non avrebbe mai dovuto ferirla così. Si sentì un verme e il senso di colpa era tale da non permettergli di muovere un muscolo, non gli vennero in mente neanche delle parole di scusa, ogni granello di spavalderia si era dissolto come ghiaccio al sole.

La giovane si calmò e, raccogliendo la propria pelliccia, si avviò verso la porta. Appoggiando una mano sulla maniglia, mise un punto fermo al discorso: «...e avresti capito che magari è giusto guadagnarsi il potere con l’esperienza. Fai vedere a Bjorn quanto vali e sono sicura che ti darà più libertà d’azione.». Aprì la porta e uscì chiudendola alle sue spalle. Lo sentì imprecare attraverso la parete di legno, mentre si allontanava senza smettere di singhiozzare, non più per il nervoso o la rabbia, ma per delusione e tristezza.

L’atteggiamento di Ivar l’aveva mandata fuori di testa, mai si sarebbe aspettata di diventare il bersaglio della sua furia. La cosa che più l’aveva ferita era che in quei momenti lui si fosse dimenticato della loro amicizia e della loro complicità, aveva scordato la loro reciproca fiducia.

Non se la sentiva di tornare alla festa, quindi si procurò una torcia per dirigersi verso casa.

Poco lontano dall’abitazione, girato l’angolo prima di tornare sulla strada principale, che portava direttamente alle porte di Kattegat, Hylde scorse due figure seminascoste dall’oscurità. Erano distanti diversi passi da lei, rintanati in una viottola dove la luce delle torce non arrivava direttamente. Non la notarono, anche perché si era alzata sopra la testa il cappuccio del mantello, cosa che le conferiva un’aria del tutto anonima.

Tuttavia fu proprio Hylde a notare loro, riconoscendo Harald Bellachioma ed Egil, il conte che l’aveva accusata di essere uno spirito maligno al servizio del dio Loki, durante la sua prima sera a Kattegat. Avevano un atteggiamento sospetto, mentre Harald porgeva ad Egil una piccola sacca contenente delle monete: riuscì a vederle quando il conte dalla faccia ustionata aprì la sacca per controllarne il contenuto. Dopo essersi stretti la mano con fare complice, si dileguarono e così fece anche lei. Si sentì turbata, si chiese cosa stessero tramando e quella domanda non la ricambiò con delle buone sensazioni.

Aveva quasi raggiunto le enormi porte fortificate della città, quando incontrò Sigurd, che la riconobbe subito dagli occhi, dopo aver incrociato i loro sguardi per caso.

Il ragazzo notò il trucco sbavato di Hylde, il nero attorno ai suoi occhi aveva seguito il percorso tracciato dalle lacrime, disegnando delle linee scure lungo le guance. Le chiese perché avesse pianto, preoccupandosi per lei con estrema attenzione e gentilezza, come aveva sempre cercato di fare nelle rare occasioni in cui erano rimasti da soli. Cercava in ogni modo di farle capire quanto fosse interessato a lei e Hylde lo aveva notato. Per questo provava a non rimanere spesso sola con lui, non era mai stata brava in queste cose, le creava disagio rifiutare le persone.

Hylde fu molto vaga riguardo al motivo per cui si fosse messa a piangere, in primis perché non aveva molta voglia di parlarne, e poi perché non aveva intenzione di creare ulteriori tensioni tra lui e Ivar, che avevano già un rapporto fin troppo conflittuale.

Sigurd fece la sua mossa: l’abbracciò per consolarla, facendole appoggiare la testa sul suo petto e circondandole le spalle con le braccia. Era più alto di lei e con un fisico ben piazzato, Hylde per un momento si sentì al caldo e al sicuro, circondata dalle braccia di quel ragazzo che, per quanto impacciato, stava cercando di farla stare meglio.

Provò un moto di tenerezza verso Sigurd, che in quell’esatto momento si staccò un po’ da lei e, in un gesto totalmente inaspettato, la baciò.

In un primo momento, Hylde fu tentata di ricambiare quel bacio e quell’abbraccio avvolgenti. E così fece, aggrappandosi con le mani al mantello di Sigurd, ancorandolo a sé, sempre più vicini. Non si tirò indietro neanche quando il ragazzo provò ad approfondire il bacio, con le loro lingue che si esploravano ed i loro corpi a stretto contatto.

Desiderò disperatamente di potersi godere a fondo quei tocchi intimi insieme a Sigurd, che sembrava molto propenso a continuare quell’incontro in camera da letto, o su qualsiasi superficie orizzontale... ma non era Ivar.

«Mi dispiace, non posso!», esclamò Hylde con gli occhi lucidi, allontanando da sé Sigurd con una spinta istintiva. Era costernata e davvero dispiaciuta per averlo usato solo per una ripicca infantile, in fondo lui non c’entrava nulla. Aveva voluto ferire Ivar, pareggiando i conti, e solo allora si rese conto di quanto fosse stata stupida.

Sigurd non comprese subito il gesto della ragazza e tentò quindi un altro approccio, ma non parve più così entusiasta quando vide Hylde indietreggiare, aumentando la distanza tra di loro.

Lei cercò di spiegarsi: «Non posso, Sigurd. Non provo nulla per te, mi dispiace.». Non era tenuta a scusarsi per non ricambiare i suoi sentimenti, ma lo fece comunque, perché in realtà era sempre stata consapevole di ciò che provava il ragazzo per lei.

Lui scosse la testa, arrabbiato, e non tentò più di avvicinarsi, ma Hylde sapeva di avergli spezzato il cuore e non se lo meritava. «Ivar...è lui, non è vero?», le domandò lui seccamente, sconfitto e deluso, con anche una punta di gelosia nella voce.

Non seppe rispondergli, forse per mancanza di coraggio, ma i suoi occhi erano stati più eloquenti di qualsiasi parola.

«Hylde, sappi che ti pentirai molto presto di questa scelta.», l’avvertì Sigurd, sempre con quella voce delusa che le faceva male al cuore. Continuò: «Non è una minaccia, che sia chiaro... Ma imparerai a conoscere Ivar e, fidati, ha più lati oscuri di chiunque altro.».

Si asciugò le lacrime con la mano, mentre guardava Sigurd allontanarsi a passo spedito, animato dalla forza della rabbia provata in quegli istanti. Di nuovo, non aveva saputo rispondere a quella frase, Hylde era rimasta ferma ed in silenzio, dopo avergli sussurrato un altro, sofferto: «Mi dispiace.». Teneva lo sguardo basso e le braccia tese lungo i fianchi, con le mani chiuse a pugno, intorpidite dal freddo. Odiava sentirsi l’artefice dell’infelicità altrui.

Prima di far ritorno verso casa, guardò dietro di sé, verso la dimora di Ivar e sospirò, chiedendosi come avrebbe sistemato quella situazione.


I giorni passarono veloci da quell’episodio, senza che Hylde potesse impedirlo, a causa dell’enorme quantità di lavoro che le crollò rovinosamente sulle spalle.

A quanto pareva, il riposo nei giorni del Jólablót non era contemplato per i guaritori, poiché essi venivano investiti dal doppio del lavoro che solitamente si trovavano ad affrontare: erano giornate di grandi celebrazioni, in cui le persone davano il meglio di loro stesse con l’alcol ed i festeggiamenti, soprattutto durante la notte. Si perdeva il conto di tutti gli incidenti e le risse di cui i curatori fossero chiamati a raccogliere i pezzi, erano tante, troppe le persone che si ritrovavano ferite senza sapersi nemmeno spiegare come o perché.

Fin dal suo primo giorno, Hylde dovette assistere nelle sue commissioni quotidiane la più anziana dei guaritori, presentatale da Lagertha il giorno in cui si era occupata della ferita del figlio di Bjorn. Era una signora dalla corporatura minuta, dalla schiena leggermente cifotica e dalle giunture traballanti, ma aveva una forza d’animo speciale ed una dedizione instancabile verso la propria occupazione. Non amava molto le chiacchiere, avendo un carattere decisamente austero, era una persona che prendeva davvero seriamente la propria vocazione. Aveva dei grandissimi occhi grigi contornati da rughe profonde e vestiva spesso e volentieri di nero, come il pesante mantello che portava sulle spalle, il quale riproduceva il piumaggio di un corvo.

Si percepiva dell’astio da quella che avrebbe dovuto essere a tutti gli effetti la sua mentore e Hylde già immaginava il perché: quando Hali si era fatto male, l’aveva prevaricata, mettendosi in mezzo per utilizzare una metodologia non troppo conosciuta e che aveva funzionato perfettamente. Certe dinamiche sociali non avevano tempo.

Hylde fece in modo di scusarsi il prima possibile con Munin, spiegandole che non era mai stata sua intenzione scavalcarla, che aveva profondo rispetto per il suo ruolo e la sua esperienza. Semplicemente, era a conoscenza di un metodo più efficace e sarebbe stato ingiusto non metterlo in atto, cosa che fu confermata quando andarono a far visita al giovane Hali, quasi del tutto guarito, per la gioia dei genitori.

Scoprì così che Munin, per quanto severa e poco incline al complimento, era davvero una persona intelligente, con abbastanza cervello da comprendere quanto Hylde avesse ragione, nonostante la giovane età. Non era una persona convinta di esser sempre nel giusto solo in virtù della sua veneranda età, aveva una mente aperta e curiosa d’imparare tecniche nuove per amore delle scienze mediche.

A Hylde sembrò di toccare il cielo con un dito quando poté insegnare a Munin, e col tempo a tutti i guaritori di Kattegat, tutto ciò che sapesse e che avesse imparato con lo studio, a partire dalla tecnica della sutura e come riconoscere le situazioni in cui fosse preferibile rispetto alla cauterizzazione.

Da parte sua, invece, ci fu parecchio entusiasmo nell’apprendere più nel dettaglio tutte le applicazioni medicinali delle piante spontanee che la popolazione scandinava avesse a disposizione e anche come creare delle efficaci creme ed unguenti, pratiche fondamentali in un mondo privo delle adeguate attrezzature mediche e della tecnologia.

Pian piano, superata la diffidenza iniziale, anche gli altri curatori impararono a fidarsi di lei e a chiederle consiglio nelle occasioni in cui non sapevano come procedere o che cura somministrare. Si rivelarono perciò giorni di proficuo ed intenso scambio di opinioni e conoscenze. Un dare e avere meraviglioso, in cui tutti ebbero l’opportunità d’imparare qualcosa di nuovo.

Hylde poté anche cimentarsi in alcune rudimentali tecniche di chirurgia che, per quanto antiquate, nei casi meno critici si rivelavano dei veri e propri salvavita. Benché nel mondo moderno questa branca della medicina non fosse neanche presente nella sua mente o nelle sue ambizioni, si obbligò ad acquisire quante più informazioni possibili e ad affinare maggiormente le proprie tecniche, dato che sarebbe partita per una spedizione insidiosa, insieme a persone intenzionate a sottoporsi a delle sanguinose battaglie. Più tecniche a disposizione equivalevano a più potenziali vite salvate.

I guaritori di Kattegat invece appresero, tra le altre cose, l’importanza dell’igiene e della sterilizzazione, arrivando persino ad andare in giro sempre con una boccetta di vino, o di qualsiasi altra bevanda ad alta gradazione alcolica, a portata di mano. In più, Hylde insegnò loro delle migliori e più accurate tecniche di riposizionamento delle ossa, essendo il rompersi di qualche arto l’incidente più diffuso sia in tempo di pace che di guerra.

La ragazza rimase sinceramente stupita (ed anche turbata, a dirla tutta), da come la medicina andasse di pari passo con la magia e col culto degli dei. Era difficile per lei mantenersi in una posizione neutrale, stare nel mezzo senza condizionamenti, avendo avuto la possibilità di vivere in due epoche diametralmente opposte, dal punto di vista religioso: da una parte si sentiva in dovere di conservare una certa razionalità, a causa della sua formazione atea e scientifica. Sapeva che una forte credenza potesse essere un’arma davvero potente per un malato, un aiuto per sconfiggere i propri malesseri ed accedere alla guarigione disperatamente anelata, ma Hylde aveva sempre associato ciò all’autosuggestione, al puro inganno della mente, conscia del grosso ruolo giocato dalle medicine e dalle cure nella guarigione di una persona. D’altra parte però, essendo ormai completamente immersa in quel nuovo mondo, iniziava a nutrire forti dubbi su tutto ciò che avesse creduto fino a quel momento, cominciava a sospettare che ci fosse un fondo di verità in quei culti così lontani nel tempo. D'altronde, lei era la prova vivente di quanto fosse stata efficace una preghiera ad Odino.

Oppure, magari, tutto ciò stava accadendo solo nella sua testa, tuttavia, per citare un colosso della cultura pop contemporanea, “Dovrebbe voler dire che non è vero?”.
  
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