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Autore: Ksyl    19/02/2021    3 recensioni
La storia prende spunto dalla fine della 8x08, ma le cose non sono andate esattamente come nel telefilm.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kate Beckett, Richard Castle
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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24

 

Castle aprì con un colpo secco la porta della doccia, impugnando con forza la maniglia, che oppose resistenza. La lastra di vetro vibrò rischiando di andare in frantumi.
La vide a terra. Era rannicchiata in un angolo, con la testa tra le mani. Castle fu così sconvolto dalla vista di sua moglie raggomitolata sulle piastrelle, che rimase paralizzato come un allocco per qualche secondo, con gli occhi spalancati. Che cosa poteva essere successo? Era svenuta? Una paura più primitiva di quella che gli era stata compagna indesiderata nelle ultime ore gli risalì bruciante nelle vene.

A un esame più attento si accorse che le spalle sussultavano in modo impercettibile. Bastò quel lieve movimento per rianimarlo e imporgli di agire. Si abbassò sulle ginocchia, protendendo un braccio per toccarla, facendo attenzione a non spaventarla. Non aveva idea di cosa fosse successo. Si trattava di shock emotivo? O si era sentita male di nuovo? Si accorse troppo tardi, quando si era già inzuppato a sua volta, che, prima di ogni altra mossa, avrebbe dovuto fermare l'acqua che continuava a scrosciare con violenza dal rubinetto aperto al massimo. Era bollente, si sarebbero scorticati vivi.
Si allungò a cercare a tentoni la leva di metallo sopra la sua testa, cercando di non farsi accecare dalla forza del getto.

Quando il frastuono cessò, Castle riuscì a concentrarsi per cercare di comprendere la situazione. Si allontanò i capelli bagnati dalla fronte, risvoltando le maniche della camicia che avevano subito la stessa sorte. Lo fece per prendere tempo, perché non sapeva quale fosse il modo giusto di approcciarsi a quell'essere umano ferito che se ne stava in un angolo a tremare, e non per il freddo: la temperatura del piccolo locale e l'umidità presente avevano raggiunto valori tropicali.
Represse il suo ovvio desiderio di prenderla tra le braccia e fuggire lontano portandosela via. L'istinto gli suggerì di avvicinarsi con cautela.

"Kate...", mormorò esitante, toccandola su una spalla. Kate non si mosse, né gli rispose.
Si accorse che le battevano i denti e che stava piangendo. Non si era trattato solo dell'acqua che le scorreva sul viso, come aveva pensato all'inizio.
La scena era così penosa e lei sembrava tanto afflitta e indifesa da far inumidire gli occhi anche a lui. Kate emanava ondate di dolore tanto intenso da assumere quasi una forma tangibile che lo prese a calci allo stomaco. Si piegò su se stesso. Per qualche orribile istante si sentì incapace di reagire in modo appropriato.
Gli attraversò la mente l'idea di farsi da parte e lasciare che lei si sfogasse, o esprimesse nel modo che riteneva più adatto quello che aveva dentro, da sola. Era tutto troppo intimo, troppo privato.
No, non poteva farlo. Non poteva lasciarla a piangere sul pavimento della doccia, tremante e vulnerabile. Era Kate. Era sua moglie. Non l'avrebbe lasciata da sola. L'avrebbe tirata fuori di lì, l'avrebbe asciugata, messa a letto, e poi sarebbe potuta venire a patti con il suo dolore in un posto sicuro. Lui sarebbe rimasto fuori dalla porta, nel caso avesse avuto bisogno di aiuto o di compagnia durante la notte.

Ma prima doveva assicurarsi che stesse bene fisicamente. No, era chiaro che non stava bene. Quello che doveva fare, innanzitutto, era capire se le sue condizioni fossero collegate al bambino. Esaminò le piastrelle intorno a lei, aspettandosi di trovare macchie di sangue. Non che pensasse davvero che si trattasse di qualcosa del genere, visto era appena stata visitata, ma non poteva liquidare la questione senza approfondire.
"Kate, devi ascoltarmi". Riprovò a richiamare la sua attenzione, parlandole con la voce pacata e decisa che le aveva sentito usare numerose volte durante gli anni in cui avevano lavorato insieme. Sapeva come trattare chi era vittima di uno shock. Stupidamente, non aveva considerato allarmante il suo comportamento dopo l'uscita dall'ospedale. Aveva sì pensato che il suo modo di fare avesse qualcosa di strano, ma non aveva previsto un cedimento di quella portata. Non da parte sua, perlomeno. Era sopravvissuta a traumi ben peggiori, senza nessun crollo emotivo.
Non era mai stata in gioco la vita del loro bambino, però. Il pensiero fulmineo lo fece sprofondare nell'angoscia. Era sicuro che l'avrebbe tormentato per lungo tempo.

Kate alzò su di lui gli occhi più tristi e desolati che avesse mai incontrato. Ne fu così toccato che smise di parlare, dimenticando quello che aveva voluto dirle per convincerla a uscire da lì.
"È successo qualcosa?" Si sforzò ancora di tenere un tono di voce sommesso, cosa che gli riuscì più difficile di prima, senza permettere ai suoi nervi scossi di rovinare la delicata connessione che avevano appena instaurato.
Lei lo guardò interrogativa, non riuscendo a cogliere il senso della sua richiesta.
"Hai perso ancora del sangue? Sono tornati i dolori?"
Pose domande molto semplici, in modo da non confonderla e mandarla in panico.
Lei scosse la testa con decisione. Ne fu confortato. Poteva accantonare almeno una delle emergenze.

"Devi uscire da qui", continuò gentilmente. Kate scosse la testa di nuovo, premendosi la mano stretta a pugno contro i denti. Non sarebbe stato facile, se lei non avesse collaborato. Doveva convincerla con le buone.
"Sì, invece. Non puoi rimanere sul pavimento". L'occhiata feroce che gli diede, per dimostrargli che lei poteva fare quello che voleva, lo rincuorò. Rivide bagliori della vecchia Kate.
Non le diede retta.
"Adesso ti tiro fuori da lì anche se non vuoi. D'accordo? Poi potrai prendermi a schiaffi quanto vuoi, ma prima devi uscire. Va bene?"
Mentre le parlava - contando sul fatto che la rabbia, che le sue frasi avrebbero di sicuro scatenato, l'avrebbero distratta abbastanza perché non si rendesse conto delle sue manovre-, le infilò un braccio sotto le ginocchia e l'altro intorno alle spalle e, senza darle il tempo di reagire, la alzò di peso, alzandosi a fatica sulle gambe, che traballarono sotto il peso di entrambi. Si sedette sulla prima superficie disponibile, il bordo della vasca, deponendola vicino a sé.
Si sporse per prendere un ampio telo di spugna che le avvolse in più strati intorno al corpo. Non aveva ancora smesso di tremare. La spinse ad appoggiare la testa contro il suo petto, mentre lui le sfregava la schiena vigorosamente per scaldarla.
Sapeva che non aveva freddo, era stata sotto la doccia bollente fino poco prima. Si trattava del gelo che aveva dentro. Ma quel gesto ripetuto in modo meccanico gli dava l'impressione di fare qualcosa di utile.
Dopo essersi interrotte per via del trambusto, tornarono anche le lacrime, copiose. E i singhiozzi. Non poté fare altro che rimanere seduto vicino a lei a raccogliere quel flusso ininterrotto che non accennava a esaurirsi. Si limitò a mormorare blande rassicurazioni sul fatto che non fosse successo niente di irreparabile.
Rimasero a lungo in quella posizione, lei intenta a piangere e lui a fissare il pavimento, lasciando che si sfogasse del tutto, passandole man mano dei fazzolettini che prelevava da una scatola di metallo appoggiata su una delle mensole. Sperò che bastasse, perché era l'unica forma di conforto che poteva offrirle in quel momento.

Finalmente l'effluvio incontrollato si fermò, molto tempo dopo. Kate fece qualche respiro profondo, sforzandosi di recuperare la padronanza di se stessa. Castle le diede qualche buffetto sulla spalla, sorridendole, come se si fosse trattato di una bambina con le ginocchia scorticate dopo una brutta caduta dalla bicicletta.
Prese un ultimo fazzolettino, lo usò per asciugarsi gli occhi e poi cercò il suo sguardo. "Mi dispiace", mormorò scossa, dando il via a un altro scoppio irrefrenabile.
"Ehi. Ehi. Se c'è qualcuno che deve dispiacersi, quello sono io".
Lei scosse la testa risolutamente.
"Non per adesso. Per prima", riprese, cercando di spiegarsi tra un sussulto e l'altro.
Castle non capì a cosa si riferisse. "Prima, quando? Oggi pomeriggio?"
Kate si sforzò di parlare in modo coerente.
"No. Quella sera...".
Quello che lesse nei suoi occhi gli fece capire che si riferiva a un ben altro "prima", cioè quando se ne era andata dal loft, quando lo aveva lasciato. L'argomento era ancora troppo doloroso per lui, che fu toccato dalle sue parole e dalla disperazione che lesse tra le righe.
"Per me è stato brutto, mi sono sentita sempre sola. Ma per te... ". Castle non riusciva a sopportarlo. Doveva farla smettere di parlare. Non poteva immaginarla sola e sperduta quando aveva sempre saputo che lei aveva avuto bisogno di lui, nonostante avesse sostenuto il contrario, allontanandosi da lui.
Le accarezzò i capelli ancora umidi. Prese un altro asciugamano e si dedicò grato a quella nuova incombenza che lo salvava dal viaggio indesiderato dentro le sue ferite.
"Va bene così. È tutto a posto". Non lo era ma non voleva andare a fondo della questione. Era ancora un territorio proibito per lui. "Non piangere per me". Gli spezzò il cuore dirlo.
"Piango per noi", mormorò Kate, bloccandolo nei suoi tentativi impacciati di asciugarle grossolanamente le ciocche di capelli maggiormente intrise di acqua.
Di quel passo non sarebbero usciti vivi dal bagno.
Le diede una fila di baci con lo schiocco sulla fronte, per farla ridere e distrarla da un discorso che non aveva nessuna intenzione di affrontare.

Decise che era ora di muoversi. Sempre tenendola tra le braccia la portò nella loro camera. Non c'era motivo per cui, se voleva stare lontana da lui, dovesse relegarsi in quella stanzetta anonima, in un letto meno ampio e comodo. Ci sarebbe andato lui, più tardi, quando si fosse addormentata.
Kate non si ribellò, si limitò ad appoggiarsi contro il cuscino, tirando le gambe contro di sé.
Dopo essersi accertato che non fosse in arrivo un nuovo scoppio di pianto, Castle recuperò un paio delle sue magliette dall'armadio, una per entrambi. Non aveva idea di dove avesse messo quella cosa trasparente che si era messa le notti precedenti, ma era sicuro che non fosse il caso di cercarla. Inoltre, voleva che indossasse qualcosa di suo.
La stese sul letto vicino a lei, ma quando si accorse che non la prendeva nemmeno in considerazione, reputò che avrebbe perso troppe energie nel tentare di convincerla a indossarla, quindi decise di agire, che lo volesse o meno.
Le disse quello che intendeva fare, senza darle modo di ribellarsi. Le fece alzare le braccia e le infilò con delicatezza la maglietta, lasciando che se la aggiustasse da sola intorno al corpo.
Le tolse con cura il telo con cui era ancora avvolta. Il cambiamento era notevole. Il colore dell'indumento le ravvivò le guance, non sembrava più un pulcino bagnato scacciato dal resto della nidiata.
"Vado a prepararti qualcosa di caldo. Ti va bene una camomilla?"
Lei fece una smorfia di disgusto. La camomilla sarebbe andata benissimo, decise Castle.
"Se hai bisogno di qualcosa, lancia un grido. Starò via poco". Gli sorrise. Era un inizio.

Solo dopo che ebbe riempito il bollitore e si predispose ad attendere che l'acqua raggiungesse la temperatura giusta, con entrambe le mani appoggiate sul bancone di marmo, ricominciò a respirare. Era stata una prova dura. Era molto più che scosso. Aveva cercato di farsi forza per farla a lei, ma vederla così l'aveva atterrito. Avevano bisogno di tornare presto alla loro vita. Basta drammi, basta separazioni, doveva trasferirsi di nuovo a casa con lui. Nessuno doveva più rimanere da solo.
Rincuorato dalla sua nuova risoluzione, e riacquistata un po' di calma, più fiducioso per il futuro di quanto fosse stato negli ultimi mesi, o giorni, tornò da lei, salendo le scale lentamente. Non voleva ammetterlo, ma era spossato, forse più di lei.

Entrò in camera in punta di piedi. Si sedette sul letto e le porse la tazza, tenendola per il bordo, cosicché lei potesse afferrarla per il manico, senza scottarsi.
"Bevila", le ordinò camuffando un sorriso. Doveva apparire autorevole e credibile.
Kate l'avvicinò alle labbra, soffiando piano per raffreddare il liquido fumante.
"L'ho già fatto io". Si era svuotato i polmoni sulle scale, per portare la camomilla a una temperatura accettabile.
Lei sorrise. Lui non era in grado di difendersi da quegli occhi luminosi, che lo stavano facendo sentire fragile e facilmente feribile. Poteva reggere la disperazione o la rabbia, ma tornare a percepirla bendisposta nei suoi confronti, se pure sull'onda emotiva che non si era ancora ritirata, era troppo per lui, in quel momento. La dolcezza sarebbe riuscita dove l'ostilità non aveva fatto danni. Inoltre, non voleva illudersi.
Rimase accanto a lei mentre finiva di berla, docile sotto il suo sguardo severo. Le prese la tazza e l'appoggiò sul pavimento. L'avrebbe portata di sotto più tardi.
Le spostò i capelli dal viso.
"Adesso devi riposare". Non ci fu bisogno di insistere per convincerla. Appoggiò subito la testa sul cuscino. Castle aggiustò le coperte tirandogliele bene sotto il mento.
"Tu non dormi?", gli chiese con voce insonnolita.
Castle recuperò la tazza di ceramica. Se la rigirò tra le mani.
"Vado di là. Non voglio disturbarti. Dormi bene".
Se avesse detto un'altra parola sarebbe crollato. Aveva bisogno di riprendersi e fare ordine nel tumulto che sentiva dentro. Doveva metabolizzare quello che era successo. Da solo. Non aveva più risorse.
Si illuse che gli avrebbe offerto di dividere il letto con lei, ma non successe. Si limitò a guardarlo, senza dire niente.
Si alzò, con il cuore pesante. Quando ebbe quasi raggiunto la porta si sentì chiamare. Si voltò, di nuovo in allerta.
Kate batté una mano su quello che era stato il suo cuscino fino alla notte precedente. E gli sorrise. Non le resistette. Appoggiò la tazza sul mobile e corse a stendersi sotto le coperte insieme a lei, prendendola tra le braccia. Sospirò di sollievo. Era finita. Quella giornata tremenda era giunta alla fine.


 

   
 
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