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Autore: Verfall    20/02/2021    6 recensioni
Sappiamo bene come si siano svolti i due incontri del 26 marzo, ma cosa è avvenuto subito dopo entrambi? In questa serie di missing moments cercheremo di ripercorrere i pensieri e le azioni non solo di Ryo e Kaori, ma anche di altri personaggi che nell’opera non hanno avuto modo di esprimersi tanto quanto avrei desiderato. Un intimo viaggio corale alle origini della storia che tanto amiamo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hideyuki Makimura, Kaori Makimura, Ryo Saeba, Saeko Nogami
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: City Hunter
Capitoli:
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5. 6 aprile 1983 – Kaori 
 
«Makimura» esordì l’uomo serio «Sono estremamente sorpreso dal tuo comportamento alquanto avventato e poco consono di ieri. Vorrei rammendarti che l’anno scolastico è appena iniziato e, se il buongiorno si vede dal mattino, non oso immaginare cosa potrebbe succedere a fine anno. Confido, però, nel buon senso che hai sempre mostrato finora e sono certo che non vorrai far ripetere un episodio così increscioso come quello di ieri. Per fortuna l’esito non è stato grave, altrimenti la tua punizione sarebbe stata ben più severa»

Il professor Suzuka la fissò con due occhi bovini che avrebbero dovuto essere in qualche modo minacciosi, ma in realtà Kaori non aveva fatto altro che fissargli l’enorme pappagorgia che, come un budino, aveva vibrato per tutta la durata del discorso. Per impedirsi di scoppiare a ridergli in faccia, si diede alcuni pizzichi sulle mani mentre inclinava leggermente il capo in avanti per evitare che i suoi occhi, sempre troppo sinceri, tradissero il suo divertimento. Il professore, però, interpretò la sua azione per un gesto contrito, perciò schiarì la voce e con fare più conciliante proseguì.

«Bene, noto con sollievo che sei sinceramente pentita ma, bada bene, ciò non basterà per rimediare alle tue azioni» e, mentre si sedeva dietro la scrivania ricolma di scartoffie disordinate, si diede un contegno solenne da giudice supremo «Per il prossimo mese farai parte del gruppo pulizie tutti i giorni mentre Atarashi sarà esente e…»

«Ma professore…» scattò Kaori come una molla.

«Non ammetto repliche Makimura. Sono stato anche fin troppo magnanimo. Ricorda che al terzo anno certi comportamenti non sono perdonabili, voi dovreste essere d’esempio per gli studenti più giovani» commentò scuotendo il capo sconsolato «Ormai siete quasi adulti, molti di voi l’anno prossimo inizieranno l’università o una scuola professionale. La tua punizione sarà anche un modo per scoraggiare eventuali episodi futuri» concluse soddisfatto, schienandosi pesantemente contro la poltrona che emise un cigolio preoccupante.

«Impiegherai le tue energie per qualcosa di più utile. Puoi andare ora, le pulizie ti aspettano eheh»

“Ridi, ridi pure razza di pallone gonfiato” pensò con una punta di odio e, dopo un rapido inchino, uscì da quell’ufficio fattosi di colpo soffocante.
Si fermò un attimo davanti alle ampie finestre del corridoio e sospirò depressa. Sapeva che l’indomani la sua punizione sarebbe diventata di dominio pubblico e al solo pensiero le si imporporarono le guance per la vergogna. “Si può essere più sfortunati di me?” si chiese mentre osservava il cielo plumbeo, carico di nuvole così basse e pesanti che sembravano stessero trasportando tutta l’acqua della baia di Tōkyō.
“Bene, a quest’ora potevo essere già tranquillamente a casa, e invece credo proprio che mi beccherò un bell’acquazzone. Come aggiungere sfiga alla sfiga” pensò mentre percorreva il lungo corridoio ormai deserto e, senza fretta, iniziò a salire le scale per raggiungere la sua classe al terzo piano. Lì un rumore di secchi e un ovattato cicalio segnalavano la presenza di studenti nelle altre aule che, come lei, erano chiamati a compiere il loro buon dovere civico settimanale; l’unica differenza era che per lei sarebbe durato tutti i santi giorni di quel mese. Un bella seccatura, non la entusiasmava l’idea di tornare a casa tardi. Sentì montarle dentro una rabbia mista a frustrazione; non era stata certo l’unica ad aver sbagliato ma lei si era ritrovata a essere il capro espiatorio della situazione… Se solo il professore fosse entrato qualche minuto dopo!
“Ah che nervoso” bofonchiò e con un colpo seccò aprì la porta scorrevole dell’aula.             
              
«Aahh!» un urlo acuto provenne dall’interno della stanza, facendola sobbalzare.

«Ah, sei tu Kaori, mi hai spaventata» le disse Eriko mettendosi una mano all’altezza del cuore. All’apertura secca e improvvisa della porta aveva fatto un balzo indietro e, con aria colpevole, dava le spalle alla lavagna come se stesse cercando di nascondere qualcosa.

«Scusa Eriko, non era mia intenzione spaventarti! Forse ho aperto la porta con troppa forza» esclamò imbarazzata «Che fai?» le chiese avvicinandosi.

«Niente! Niente, sto pulendo la lavagna vedi» rispose affrettandosi a cancellare con la mano, ma Kaori fu più veloce e la bloccò.

Davanti a lei si presentarono tre bozzetti, disegnati con tratti veloci ma precisi, raffiguranti tre modelle longilinee con tre abiti da sera riccamente dettagliati. Erano bellissimi, d’altronde sapeva che la sua amica aveva buon gusto in fatto di vestiti, oltre a essere molto brava nel disegno.

«Sono davvero stupendi Eriko»

«Non direi, per quanto mi sforzi non riesco a trasferire nel disegno l’idea che ho in testa… È così frustrante creare cose mediocri» rispose con falsa modestia.

«Ma no, ti sottovaluti troppo!» esclamò Kaori con entusiasmo, credendo autentici i dubbi della ragazza «Sono certa che all’accademia di moda ti prenderanno subito appena vedranno i tuoi disegni, non conosco nessuno più brava e più portata per la moda di te» concluse mettendole una mano sulla spalla.

Le piaceva incoraggiare le persone; la faceva sentire utile e provava una genuina felicità quando riusciva a sollevare il morale a qualcuno e per questo, appena ne aveva la possibilità, non esitava a distribuire sorrisi. Eppure per lei, che aveva più bisogno di quelle parole e di quei sorrisi, non c’era nessuno che si premurasse di donarglieli, eccezion fatta di suo fratello; lui solo con piccoli gesti sapeva infonderle quel coraggio e quella sicurezza che, per una ragazza piena di complessi come lei, erano di vitale importanza.

«Sei molto gentile Kaori, se solo fossi sempre così invece di comportarti da maschiaccio» disse Eriko lievemente sorpresa e, mentre iniziava a pulire la superficie di ardesia con una spugna, continuò «A proposito, come mai sei qui? Secondo il calendario delle turnazioni dovresti pulire tra tre giorni, oggi doveva essere il turno di Atarashi se non sbaglio»

«Sì, doveva…» e prendendo la scopa in un gesto di stizza aggiunse «Quello scimmione di Suzuka mi ha obbligato non solo a prendere il suo turno, ma anche a dover pulire tutti i giorni di questo mese»

Un rombo tuono sottolineò la portata della tragedia.

«Non ci credo! E perché, cosa è successo?»

Kaori si fermò, appoggiandosi sconfortata al muro. Solo a ricordare l’accaduto le veniva voglia di spaccare tutto.

«Ieri, dopo la cerimonia di ingresso, mi sono offerta volontaria per aiutare a sgomberare la palestra – cosa che non farò mai più –; subito Atarashi mi ha intercettata e, facendo la voce grossa perché era con il suo solito gruppo di deficienti, mi ha assegnato al carico e scarico delle sedie e altri oggetti pesanti»

«Ma non dovrebbe spettare principalmente ai ragazzi?»

«Sì, e secondo te perché l’ha fatto?» e dopo averle lanciato un’occhiata eloquente proseguì «Ho lasciato correre, anche perché sono abituata, però…» e così dicendo abbassò la testa, iniziando a torturarsi le dita «Però, mentre stavo andando nel ripostiglio ho sentito alle mie spalle Atarashi sghignazzare con alcuni ragazzi del primo anno che si erano aggiunti, e a un certo punto ha urlato “Ehi Makimura-kun, grande e grosso come sei hai dimenticato i pantaloni della divisa a casa?” E tutto il gruppetto ha iniziato a ridere di gusto. Allora ho provato una gran rabbia, non ci ho visto più e…» si bloccò incerta.

«E cosa hai fatto Kaori?»

«Gli ho scaraventato addosso tutte sedie che portavo, colpendolo in pieno viso» rispose guardandola negli occhi con un misto di rabbia e soddisfazione «Non potevo tollerare che mi si prendesse in giro anche di fronte ai ragazzi più piccoli!»

«Certo che è un gran cafone quello, ha davvero esagerato ‘sta volta» e portandosi una mano davanti alla bocca aggiunse «Oh, ma non sarà finito in ospedale? Quelle sedie sono belle pesanti»

«Magari ci fosse andato con la testa rotta!» e riprendendo a spazzare continuò «No, si è solo spaccato un sopracciglio e gli è cresciuto sulla fronte un bernoccolo grande quanto una mela. Purtroppo per me proprio in quel momento è entrato Suzuka che non ha voluto sentire ragioni e mi ha convocata per oggi nel suo ufficio, mentre quel bastardo l’ha fatta franca, anzi è la vittima ora!»

Il silenzio calò tra le due ragazze, rotto solo dal fragore dei tuoni sempre più ravvicinati e dal rumore dell’energica ramazzata di Kaori. Era frustrata, una parte di lei si sentiva in colpa, sapeva di esserci andata pesante, ma l’altra era ferita e rivendicava come giusto il suo comportamento. Che la si prendesse per maschio era una storia vecchia, ci era abituata, però in quell’ultimo periodo iniziava a sentirsi esasperata, avrebbe volentieri dato un taglio a quella situazione di equivoco continuo. Alcune volte avvertiva una vocina scalpitare dentro di sé, una voce che voleva urlare a tutti di smetterla: lei non era un maschio! Ecco perché episodi come quello in palestra ora le facevano molto più male rispetto agli anni precedenti; non era mai stata particolarmente permalosa ma sentiva che non avrebbe più tollerato in silenzio e con calma ulteriori ingiustizie e cattiverie gratuite nei suoi confronti. Perché non poteva essere considerata come una ragazza normale? Ormai si faceva spesso quella domanda, iniziandosi a sentire sempre più vulnerabile e fragile nel suo essere donna; non era mai stata così debole e con l’autostima a terra come in quei giorni, e l’incidente del giorno prima era la conferma che per la prima volta il suo orgoglio femminile aveva iniziato a ribellarsi e, sicuramente non se ne sarebbe stato più in disparte come sempre. Eriko ruppe per prima il silenzio, strappandola dalle sue riflessioni.

«Sai Kaori, penso che dovresti provare a non rispondere più alle loro provocazioni» le disse mentre puliva i banchi «Ignorali, sono sicura che dopo un po’ la smetteranno»

«Io ci provo ad ignorarli ma quando mi arrabbio non riesco a controllarmi… E poi non credo che la smetterebbero comunque, quindi tanto vale che mi difenda»

«Possibile che non lo capisci?!» fece sorpresa «I ragazzi sono stupidi, si divertono a prenderti in giro solo per vedere la tua reazione, capito? Non è tanto il tuo aspetto a divertirli quanto le tue arrabbiature! Se smetterai di darli corda vedrai che si stancheranno presto e non ti prenderanno più in giro, ne sono certa. Poi…» e un po’ esitante continuò «Beh, una parte di colpa ce l’hai anche tu. Se vuoi far smettere questi episodi dovresti… Non so come dire… avere degli atteggiamenti più femminili. Sei gentile ma il tuo modo di fare è sempre troppo maschile, ecco»

Kaori la guardò di sbieco mentre richiudeva il sacco della spazzatura. “Quindi non c’è niente in me che mi faccia apparire una ragazza… Sono proprio un maschio allora, hanno ragione gli altri” pensò stizzita. Eriko era famosa per essere un tipo schietto ai limite dell’insolenza; sicuramente era mossa da buone intenzioni ma quell’ultima osservazione l’aveva un po’ ferita; un conto era sentirsi additare come ragazzo da dei ragazzi idioti e un altro era invece sentirselo dire da una ragazza – per giunta molto popolare e corteggiata.

«Kaori? Tutto a posto?» le chiese avvicinandosi.

Non si era accorta di essere rimasta immobile, accucciata accanto al sacco nero.

«Sì… Scusa mi sento un po’ stanca» e con un sorriso leggermente tirato aggiunse «Senti, puoi anche andare Eriko, visto che abiti parecchio lontano ti conviene affrettarti, credo dovresti farcela prima che inizi a piovere. Finisco io le ultime cose, tranquilla»

«Ma Kaori…»

«No, non voglio sentire ragioni, su vai!» e con impeto esagerato la mise quasi alla porta.

La ragazza, nonostante non nascose la sua sorpresa, decise di assecondare quella furia benevola e, dopo averla ringraziata, corse via, lasciandola nell’aula vuota, rischiarata dai lampi sempre più frequenti.
“Meglio che mi dia una mossa, non voglio certo restare tutto il pomeriggio qui dentro… E mi sa proprio che domani dovrò scusarmi con Eriko, sono stata troppo aggressiva” si disse mentre ultimava le ultime faccende. In realtà aveva voluto cacciare l’amica, desiderava restare solo in compagnia dei suoi pensieri per un po’. Ormai le era chiaro che iniziava ad essere stanca, aveva da poco compiuto diciotto anni e quel continuo equivocare la sua sessualità iniziava ad esasperarla. Certo, sapeva di essere un maschiaccio, era fin troppo evidente, ma ciò non significava che non fosse una ragazza a tutti gli effetti; per quanto si sforzasse non riusciva a capire cosa avesse in meno rispetto alle sue coetanee. Avrebbe preferito mille volte essere considerata una ragazza insignificante piuttosto che un ragazzo carino, e il colmo era che proprio alcune ragazzine idiote si divertivano a considerarla tale, alimentando in questo modo gli lo scherzi di quei deficienti. Sentì una leggera fitta al petto nel ricordare le parole di Eriko; le avevano fatto male, era inutile mentire a se stessa. Aveva avuto la conferma che agli occhi di tutti lei non veniva proprio considerata come una ragazza…allora avevano ragione gli altri, sbagliava a prendersela così tanto. Ma perché nessuno le permetteva di mostrarsi per quello che era davvero? Sentiva di avere tanta bontà e gentilezza da donare se solo il suo lato migliore non fosse costantemente adombrato dalla sua parte più impulsiva e violenta che sgusciava fuori prepotente ogni volta che veniva attaccata.
Dopo aver svuotato il secchio e riposto tutto il materiale nello stanzino si diresse in aula un’ultima volta per controllare che tutto fosse in ordine e prese la cartella. Il sinistro ticchettio dei goccioloni sui vetri delle finestre l’avvisarono che il temporale era appena iniziato, gettandola nello sconforto; in mattinata aveva totalmente dimenticato, nella fretta, l’ombrello a casa e se non fosse stata trattenuta da quell’imprevisto non si sarebbe ritrovata a fronteggiare quella tempesta.
“Eh già, vorrà dire che anche oggi dovrò essere poco femminile, tanto per cambiare” disse in uno sbuffo mentre si avviava verso l’uscita della scuola ormai deserta.
La pioggia cadeva copiosa sulla città, sferzandosi contro i palazzi e i pedoni che come industriose formiche cercavano di rientrare in tutta fretta al proprio formicaio. Tra queste, una ragazza alta e con la divisa alla marinara correva a tutta velocità per l’affollata Shinjuku-Dori Ave, tenendo saldamente la cartella di pelle sopra la testa; precauzione del tutto inutile visto che era completamente zuppa. Era già scivolata un paio di volte sotto lo sguardo attonito dei passanti, non abituati a vedere tutti i giorni una furia in gonnella del genere, ma Kaori non aveva rallentato l’andatura, in certo senso aveva bisogno di correre, di sfogare la rabbia per quell’ingiusta punizione, per quegli scherzi di cattivo gusto e per il suo essere irrimediabilmente maschiaccio nei modi e nel carattere. Si fermò a un incrocio col fiatone, contrariata per quel semaforo ostinatamente rosso. Si sentì rabbrividire al contatto dei vestiti freddi e bagnati sulla pelle e, per guadagnare tempo, scese dal marciapiede e si fece più avanti, pronta per lo scatto; purtroppo un simpatico automobilista la ritenne un obiettivo succulento e le passò accanto a tutta velocità, virando leggermente sulla destra in modo da avvicinarsi a un’ampia pozzanghera vicina al ciglio della carreggiata. Kaori venne presa in pieno.

«Maledetto bastardo!» urlò inferocita brandendo la cartella come se fosse un’arma, ma si bloccò alla vista delle persone vicine che la guardavano sconvolte.
Tra queste un vecchio signore dal volto incartapecorito e lo sguardo arcigno, ben protetto da un ampio ombrello, alzò un indice ammonitore.

«Un po’ di contegno, non si esprime così una ragazza a modo»

«No, infatti… Io sono solo un ragazzo» mormorò esasperata prima di proseguire la sua corsa verso casa.
 
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Kaori, dopo una lunga doccia calda, uscì dal bagno sentendosi rinata. Non le era mai capitato di infradiciarsi in quel modo – persino la biancheria era totalmente bagnata – e sperò di non essersi raffreddata troppo. Con passo leggero si diresse verso la sua cameretta – una stretta stanza rettangolare arredata con una semplice scrivania, un armadio stretto a due ante e un letto posizionato sotto la finestrella – e iniziò a rivestirsi. Si sentiva più calma, la corsa l’aveva aiutata a sfogarsi e a ritrovare la sua lucidità, non a caso si sentì una sciocca: perché si era arrabbiata così tanto per quella presa in giro? E perché le parole di Eriko l’avevano infastidita? Non era la verità ciò che le veniva detto ogni giorno? Aprì l’armadio per prendere una tuta sformata – precedentemente appartenuta a Hide – e si soffermò a esaminare il suo guardaroba; poteva essere scambiato tranquillamente per quello di un ragazzo e le uniche gonne presenti erano quelle della divisa scolastica. Non c’era dubbio, lei era la prima a trattarsi da maschiaccio, lo aveva sempre fatto, ma allo stesso tempo nell’ultimo periodo iniziava terribilmente a infastidirla quel continuo equivocare. In fin dei conti lei era una ragazza, con la sua sensibilità e il suo amor proprio che venivano calpestati ogni giorno.
Fin da piccola era stata una bambina molto sensibile ed empatica ma non aveva mai avuto modo di esprimere pienamente il suo lato più dolce, troppo presa a farsi valere con i bambini che la prendevano in giro; così mentre le sue compagne davanti agli scherzi non facevano che piagnucolare impaurite, lei si mostrava sempre forte, contrattaccando con energia e vincendo la maggior parte delle zuffe. Ricordava ancora lo sguardo di disappunto che le riservava Hideyuki quando rincasava sporca di terra o con qualche graffio, biasimandola per non essere una bambina come le altre; ma lei aveva già deciso che non sarebbe voluta essere come le altre se ciò avesse significato il non dover reagire e combattere per farsi valere. Se all’inizio, però, la sua condotta le aveva evitato ulteriori problemi, facendole guadagnare un certo rispetto da parte dei maschietti, alla fine, però, si era ritrovata intrappolata in un ruolo che sentiva ingiusto. Con il tempo non si era resa conto che a furia di rispondere alle provocazioni con i loro metodi, si era ritrovata ad essere come loro, un maschio a tutti gli effetti. Eppure lei non si sentiva certo un bruto. Perché non le era concesso di essere vista per ciò che si sentiva di essere davvero, ossia una ragazza buona e gentile? Possibile che i capelli corti e l’alta statura fossero una condizione sufficiente per scambiarla per un ragazzo? Stava crescendo e ogni qualvolta vedeva le sue amiche venir corteggiate e ammirate non poteva fare a meno di sentirsi depressa; sapeva che nessun ragazzo le avrebbe rivolto dei pensieri romantici. Stava per richiudere l’armadio quando l’occhio le cadde sulla sua immagine riflessa nello specchio appeso all’interno di un’anta, l’unico specchio che avesse in tutta la camera. Non le piaceva specchiarsi, con gli anni era diventata notevolmente insicura e piena di complessi per quanto riguardava il suo aspetto fisico, che cercava di nascondere il più possibile con l’abbigliamento; preferiva così, non avrebbe sopportato essere definita un bel ragazzo con indosso degli abiti femminili, era già sufficientemente irritante sentirselo dire con la divisa scolastica.
“Davvero sembro un ragazzo?” si domandò mentre si specchiava e, a malincuore, dovette ammettere che davanti ai suoi occhi si presentava una figura androgina. I capelli, corti e indisciplinati, incorniciavano un visino dai lineamenti morbidi ma facilmente equivocabili per quelli di un ragazzo imberbe prossimo allo sviluppo, mentre la felpa e i pantaloni larghi la rendevano ancor più magra e alta di quanto non fosse davvero, nascondendo completamente le curve ancora un po’ acerbe. Osservandosi attentamente, però, notò che in quell’insieme spiccavano alcuni dettagli inequivocabilmente femminili come gli occhi grandi incorniciati da lunghe ciglia, le labbra piccole ma piene, le spalle sottili, n aturalmente anche la voce non era certa così bassa.
“Forse Eriko ha ragione, quelle amebe potrebbero sfottermi solo per ridere delle mie reazioni, però…” e rivolgendo lo sguardo verso il portafoglio sulla scrivania disse ad alta voce «Dovresti intenderti di donne, maniaco come sei, eppure anche tu mi hai scambiato per un ragazzo… Allora è vero, sono io che me la prendo inutilmente» e sconfortata richiuse con forza l’armadio. Senza pensarci raggiunse la scrivania e aprì il portafoglio, estraendo la piccola foto.
«Anche se mi hai trattato come un ragazzino, in fin dei conti sei stato gentile con me Ryo» gli disse non potendo fare a meno di sorridere; quell’espressione era troppo comica e fu felice di averlo colto in quella posa. Riusciva sempre a tirarla su e sentiva che, se lo avesse fotografato con un’espressione più seria, sicuramente avrebbe finito per pensarlo più di quanto non facesse già. Arrossì lievemente, scuotendo la testa più volte, come a volersi liberare di quel pensiero imbarazzante, dandosi della stupida. Quell’uomo non la considerava più di quanto lei non pensasse a una pietra, ed era certa che lui si fosse già dimenticato di lei.
“Chissà se ci rivedremo ancora” emise in un soffiò mentre metteva la foto a posto, poi andò in bagno per riporre gli asciugamani bagnati. Da quando Hideyuki le aveva confessato la verità non era più tornato sull’argomento e, sebbene le avesse promesso di raccontarle di più del suo lavoro, l’uomo manteneva sempre un certo riserbo, fornendole dei resoconti molto scarni, attento a non scendere mai nei particolari. Sapeva che il suo caro fratello doveva avere dei motivi validi per quella reticenza, ma non poteva fare a meno di sentirsi contrariata; non le era mai piaciuto essere tenuta all’oscuro degli eventi. Ogni volta provava uno stratagemma diverso per tentare di captare qualche informazione in più, cercando in malo modo di nascondere la sua tremenda curiosità ma, naturalmente, suo fratello era molto più scaltro di lei e riusciva sempre a vincere. Sospirò; la sua parte più insicura temeva che Hide non avesse molta fiducia in lei.
Entrò in bagno e, una volta riposti gli asciugamani nella cesta della biancheria sporca, aprì l’antina della specchiera per prendere il pettine. In realtà non ne aveva bisogno, i capelli erano così corti che poteva tranquillamente sistemarli con le mani, ma essendo particolarmente ondulati – così insoliti per una giapponese – preferiva districare i piccoli nodi in un modo più consono. Solo sua madre aveva avuto la pazienza di pettinare e domare quelle onde ribelli, intrattenendola durante quella lunga occupazione con canzoni o raccontandole storie. Dopo la sua morte, però, né suo padre né Hideyuki avevano più avuto tutto quel tempo da dedicarle, così si era optato per un taglio molto corto, maschile appunto, di più facile gestione e lei si era abituata quasi subito. Col passare degli anni non aveva provato a farli ricrescere poiché era diventata troppo pigra per potersi dedicare alla sua chioma che, secondo il regolamento scolastico, doveva mantenere perfettamente liscia e lunga non oltre la spalla1. Maldestra com’era sicuramente avrebbe finito per bruciarsi i capelli con la piastra, senza considerare che ogni mattina era una corsa contro il tempo per non arrivare a scuola in ritardo… No, i capelli da maschiaccio erano quelli più indicati per lei. Sovrappensiero urtò accidentalmente un pennello da barba che cadde sulle piastrelle del pavimento con un tonfo secco. Kaori si affettò a recuperarlo e controllò che non avesse subito danni; quell’oggetto era l’unico effetto appartenuto a suo padre che si era voluta portare nel nuovo appartamento. Chiuse gli occhi e annusò le setole ormai ispide e indurite. Poco dopo la sua morte, e per molto tempo dopo, aveva cercato in quell’oggetto l’odore di sapone da barba che tanto le ricordava il bacio del buongiorno che suo padre era solito darle prima di colazione; era stato per lei un modo per sentirlo ancora vicino, per illudersi che non se ne fosse andato per sempre. Erano anni ormai che il suo odore era svanito, ma non aveva avuto il coraggio di disfarsi di quel semplice pennello e ogni tanto, quando si sentiva particolarmente triste, replicava il gesto, non trovandovi più, però, il conforto di un tempo: il suo odore era ormai svanito ma la sua memoria olfattiva, ostinata più di lei, le faceva ritrovare quel lieve sentore di eucalipto che sapeva d’infanzia. E senza volerlo, in quell’istante la sua mente volò lontano verso un ricordo felice, in quel bagno tredici anni prima.

«Kaori che hai combinato?» la sorprese una voce alle sue spalle.

«Papà» rispose sorridente «Sono stata brava? Ho fatto come fai tu» disse tutta impettita.

Suo padre aveva la giornata libera, il che avveniva abbastanza regolarmente una volta alla settimana da quando sua madre era morta un anno prima. Le mancava ancora molto, per questo era ben felice di trascorrere del tempo con il suo adorato ‘papino’ – come lo chiamava lei – che era sempre molto affettuoso e pieno di premure nei suoi confronti, e a lei piaceva essere coccolata da quell’uomo dalla voce roboante, i capelli brizzolati e gli occhi buoni e gentili, proprio come quelli di suo fratello.

«Certo che non posso allontanarmi un attimo, eh?» e sorridendo le passò una mano tra i capelli «Davvero brava, tra poco supererai tuo padre» le disse prendendole di mano il pennello così carico di sapone da sembrare una meringa.

«Allora facciamo la barba insiem…blah che schifo!» e così dicendo sputacchiò un po’ di sapone che le era scivolato sulla bocca.

Quel giorno si era alzata con la ferma intenzione di fare la barba insieme a suo padre, per questo aveva atteso che lui fosse andato in camera per correre in bagno e spalmarsi sul viso il sapone già montato, imitando quei gesti che aveva visto così tante volte – e con così tanta ammirazione – da aver imparato a memoria.

«Tesoro sei troppo piccola per questo, ma visto che sei già pronta vorrà dire che oggi mi farai compagnia» le disse dolcemente mentre le allungava un rasoio di sicurezza privo di lama.

Kaori accolse il gesto con un urlo acuto di pura gioia e tutta emozionata iniziò a prelevare dosi generose di sapone in modo maldestro, sporcando il lavandino e lo specchio.

«Ricorda Kaori: solo per oggi. Poi non devi fare mai più la barba con me, intesi?»

Gli occhi dell’uomo incontrarono quelli grandi della bambina, spalancati in un dispiacere evidente.

«Perché papino? Voglio esercitarmi per quando sarò grande!»

«Ma no, non ne avrai bisogno» rispose sorridendo, mentre tendeva la guancia per far scorrere la lama.

«Non mi farai fare la barba? Devo tenerla lunga come il vecchio vicino?»

Suo padre non poté fare a meno di ridere, lasciandola ancor più perplessa.

«Ma no sciocchina, semplicemente a te non crescerà mai la barba. Sei una bambina no?»

«E perché, alle bambine non cresce la barba?»

«No, la barba è roba da maschi. Ed è meglio così, no?» e facendole l’occhiolino aggiunse «Sarebbe un peccato se il tuo bel visino si rovinasse. Dai vieni, fatti pulire» disse mentre le toglieva gli ultimi residui di sapone con un asciugamano umido.

«Però sei proprio sicuro papino? A scuola mi dicono sempre che sono un maschio…»

Vide suo padre serrare per un attimo le labbra alle sue parole, per poi ritornare subito dopo quello di sempre.

«Ti fidi di me?» le chiese, inginocchiandosi e prendendola per le spalle.

Gli rispose annuendo vigorosamente con il capo, gli occhietti da cerbiatto seri in quelli di lui.

«Tu sei una bambina Kaori… Una bella bambina, soprattutto qui» disse indicandole il petto all’altezza del cuore «Sei gentile, sensibile, forte… Hai così tante buone qualità che non potrei essere più orgoglioso di avere una figlia come te. Sei la mia cara donna di casa, specialmente adesso che la mamma non c’è più… Non fingerti quello che non sei e non preoccuparti per quello che dicono gli altri. Quando sarai più grande tutti vedranno l’enorme bellezza dentro e fuori di te, devi solo avere pazienza»

Sebbene la sua mente di bambina non colse appieno il significato di quelle parole, il suo cuore percepì il grande amore che suo padre aveva per lei, avvertendo un calore che la riscaldò come una dolce carezza. Si gettò tra le sue grandi braccia, sentendo una gran voglia di piangere ma trattenne strenuamente le lacrime, voleva mostrarsi forte davanti al suo amato papà.

«Ti voglio bene papino, resta sempre con me» gli disse nell’orecchio a mezza voce.

«Sì tesoro, sarò sempre con te» le sussurrò teneramente e, dopo averla scostata dolcemente, aggiunse «Vai in cucina ora, sicuramente Hide avrà finito di preparare la colazione, ti raggiungo tra poco»

Kaori aprì gli occhi e guardò per un ultima volta il pennello prima di rimetterlo a posto.
“Alla fine non sei stato di parola papà, mi hai lasciato troppo presto” mormorò leggermente depressa. La morte di suo padre era stata un duro colpo e le aveva lasciato un vuoto ancor più grande e doloroso di quello causato dalla scomparsa di sua madre. Col tempo i ricordi della figura materna si era andati via via sfumando in pochi episodi, mentre di suo padre serbava ancora una memoria più nitida, sebbene anch’essa minacciata dallo scorrere del tempo. Quell’uomo aveva avuto una certa predilezione per la sua bambina così dolce e timida ma allo stesso tempo irruenta e caparbia. Se n’era andato proprio in una giornata piovosa come quella, un infarto fulminante dovuto al troppo lavoro; ricordava ancora il volto mortalmente pallido di Hedeyuki quando era uscito dalla sua camera d’ospedale, mentre lei, terrorizzata da quell’ennesimo incontro ravvicinato con la morte, era riuscita a entrarvi solo per pochi minuti. A otto anni si era ritrovata a dover affrontare un secondo lutto terribile, straziante, che l’aveva fatta maturare molto rispetto ai suoi coetanei che mai le erano sembrati così stupidi e superficiali. Suo padre era stato l’unico a non considerarla un maschiaccio, l’unico che le aveva riservato gesti e sguardi di rara dolcezza e dopo di lui si era aperta nel suo cuore una voragine fatta di insicurezze e complessi. Sebbene superficialmente fosse molto brava a non mostrarli, questi albergavano silenti come ombre dentro di lei, pronti a sgusciar via appena abbassava le difese e si sentiva particolarmente fragile, proprio come in quel momento.
Si ridestò da quei pensieri malinconici e, sospirando, si diresse in camera per iniziare a fare i compiti. Non aveva fatto i conti, però, con la sua testa che si rifiutava di mettersi all’opera, indugiando ancora sul quel complesso di inferiorità che tanto si faceva sentire in quelle ultime giornate.
“Chissà, se la mamma non fosse morta così presto, se avessi avuto una figura di riferimento vicina, sarei diventata lo stesso il maschiaccio che sono ora?” bofonchiò mentre appoggiava il mento sul palmo della mano, e osservò distrattamente il cielo scurirsi nell’imbrunire, coperto da quei nuvoloni che sembravano non voler abbandonare la citta.
“Possibile che i miei modi e il mio aspetto non mi facciano sembrare per niente una ragazza? Cosa vuol dire essere donna?” Era quello l’interrogativo che si andava formando sempre più frequentemente nella sua testa. Le ragazze con lunghi capelli lucidi, dai modi carini ma affettati e vestite con abiti graziosi potevano considerarsi più donne di lei? Ricordò le parole di suo padre: doveva avere pazienza sì, ma ormai era grande, aveva creduto che a diciotto anni si sarebbe avverata quella promessa ma evidentemente non era così. Forse avrebbe dovuto cambiare lei per prima, per permettere agli altri di modificare il loro giudizio nei suoi confronti; ma lei sarebbe stata in grado di farlo? E soprattutto, avrebbe voluto farlo? La risposta le giunse inaspettata, libera e sicura dal profondo del suo animo: no, non voleva cambiare. Era certa che non si sarebbe riconosciuta in nessun’altra veste che non fosse quella e, se il prezzo da pagare per essere considerata una ragazza come tutte era il dover modificare il suo atteggiamento e le sue abitudini per omologarsi alle altre, allora ne avrebbe fatto volentieri a meno. Inoltre, per quanto una parte di lei desiderava essere considerata e amata davvero da qualcuno, sapeva molto bene che non sarebbe stata in grado di gestire delle attenzioni di quel genere, annegando nella vergogna e rovinando tutto con il suo essere inguaribilmente maldestra in materia di sentimenti.
“In fin dei conti è meglio restare così, almeno per adesso… Poi si vedrà. Devo cercare di essere meno permalosa, manca poco alla fine della scuola” e giocherellando distrattamente con la matita proseguì il suo soliloquio ad alta voce, sicura della sua solitudine.
«E poi, in fin dei conti ci sono donne che non sono delle modelle no?» Il suo pensiero andò veloce verso una donna in particolare, la signora Kaze, la proprietaria del minimarket vicino casa di cui era cliente abituale. Era un donnone di mezza età, alto e ben piazzato, dalle rubiconde guance un po’ flosce e con capelli di un finto nero pece, sempre ben tirati in una crocchia alta e stretta. Il marito era un omino più basso di lei di quasi mezza testa, aveva due figli e tutti i clienti e i suoi conoscenti la chiamavano signora nonostante avesse un paio di simpatici baffetti neri che capeggiavano fieri sopra il labbro superiore. Se una persona del genere era comunque considerata donna, allora perché non lo sarebbe stata lei che di baffi non ne aveva? 
«Ma sì, forse devo avere ancora un po’ di pazienza e, male che vada, farò come la signora Kaze e proverò a farmi crescere un bel paio di baffi!» esclamò, soddisfatta di quella sua trovata bislacca.

«Cosa devi provare?»

Kaori sobbalzò sulla sedia e voltandosi vide suo fratello appoggiato allo stipite della porta a braccia conserte, con un’evidente espressione divertita.

«Hide che diavolo, mi hai fatto prendere un colpo!» gli urlò contro portandosi una mano al petto «Da quando hai iniziato a fare in ninja?»

«L’ho sempre fatto, solo che te lo tenevo nascosto» rispose facendole un occhiolino «Ho bisogno di esercitarmi un po’, è di vitale importanza saper essere silenziosi nei movimenti»

«Davvero? È per il lavoro che state svolgendo? Dove devi intrufolarti? E quando…»

«Alt, ferma, ferma. Certo che quando ti metti a fare domande sei peggio di un poliziotto! Per ora non posso dirti niente, è un lavoro un po’ complicato, te ne parlerò quando avremo finito»

«Sì, e poi non mi racconti un bel niente, sei proprio un gran bugiardo» e incrociò le braccia assumendo un’espressione offesa.

Hideyuki le si avvicinò tranquillo, schiarendosi leggermente la voce. Da alcuni giorni lo vedeva sempre di buon umore; non che la cose le dispiacesse ma lo trovava leggermente sospetto.

«Non fare così Kaori, se non ti dico di più è perché non posso. Sai già troppo di un mondo che dovrebbe esserti estraneo, non voglio certo andare nei dettagli. Non credere che non ti parli perché non abbia fiducia in te, l’ho capito che lo pensi sai? No, sarebbe rischioso per me e soprattutto per te» e guardandola serio aggiunse «Non potrei mai perdonarmi se ti capitasse qualcosa, io mi preoccupo per te, hai capito sorellina?»

Kaori annuì, totalmente sconfitta – per l’ennesima volta – da quel fratello così odiosamente bravo a trovare sempre le parole giuste; lui era l’unico che la sapesse prendere e con cui era impossibile arrabbiarsi sul serio; era proprio uguale a suo padre.

«A proposito» continuò l’uomo, facendosi canzonatorio «Che storia sarebbe questa dei baffi?»

La ragazza arrossì violentemente, maledicendosi per il suo brutto vizio di pensare ad alta voce quando era sola a casa.

«Niente, stavo… Ecco sì, stavo leggendo un testo e…»

«E lo sai che non sei brava a dire le bugie?»

Hideyuki si sedette sul letto, appoggiando i gomiti sulle cosce e portando così i pugni sotto il mento. Era appena arrivato, Kaori notò l’orlo dei pantaloni bagnati per buoni cinque centimetri e i capelli leggermente umidi alle punte.

«Su, dimmi che è successo. Come mai sei tornata così tardi a casa?»

«Come fai a sapere quando sono tornata?»

«Ah, dimentichi che sono stato un poliziotto? Non mi sfugge niente» disse sollevando le sopracciglia.

«Come no, la verità è che sei solo fortunato» borbottò irritata mentre iniziava a torturarsi le dita, un gesto che era solita fare quando era in evidente imbarazzo.

«Niente… Mi trovo nei guai sempre per colpa degli altri. Se quel deficiente fosse stato zitto ora non mi ritroverei a sopportare il turno di pulizie a scuola tutti i giorni per questo mese, che rabbia!»

«Kaori non dirmi che hai picchiato di nuovo qualcuno?»

«No! No, questa volta non ho preso a pugni nessuno» e abbassando gli occhi proseguì «Gli ho solo scaraventato addosso quattro sedie… Quelle pieghevoli di ferro»

«Questo credo sia ancor peggio che fare a botte. Ti ho detto mille volte di evitare…»

«Ma io non volevo! Non credere che provi piacere a essere violenta, ma mi costringono, non riesco a sopportare in silenzio, quando è troppo non ci vedo più e devo reagire in qualche modo!» esclamò stringendo i pugni lungo i fianchi.

Sapeva di essere nel torto e ciò la faceva star male, ma la parte più impulsiva di lei, quella che istintivamente passava alla violenza, non poteva che gioire nel pensare al bel trattamento che aveva riservato a quel pallone gonfiato. Lei era così, un insieme di contrasti: timida e impulsiva, dolce e violenta, comprensiva e testarda… Era la sua natura, poteva essere biasimata per questo?
Mentre in lei ribollivano quei pensieri Hideyuki la guardò pazientemente e, dopo qualche secondo, rilasciò un sospiro rassegnato.

«Non c’è niente da fare, sei cresciuta solo tra maschi dopotutto» e alzandosi continuò «Non dico che tu non debba farti valere, ma ci sono modi e modi… puoi essere forte e allo stesso tempo essere più femminile come…» ma si fermò di colpo, arrossendo lievemente.

«Come?»

«No, niente, come non detto» e sistemandosi gli occhiali sul naso aggiunse «Va bene, se proprio non riesci a contenerti cerca di non ammazzare nessuno, intesi? Su, ora mettiti a studiare che si è fatto tardi. Ci penso io alla cena»

La ragazza annuì, leggermente perplessa per quella reazione improvvisa di suo fratello. Sicuramente le stava nascondendo qualcosa e moriva dalla curiosità di scoprire cosa, ma saggiamente decise di rimandare la sua indagine a un momento migliore; si sentiva terribilmente stanca e aveva perso completamente la voglia di fare i compiti. Facendo appiglio a tutta la sua forza di volontà, però, aprì i libri e si mise all’opera.

«Ah Kaori!»

Si girò quel tanto che le bastò per scorgere il volto di suo fratello affacciato alla porta, il corpo nascosto dal muro.

«Che vuoi? Non vedi che sto studiando?» rispose scocciata, tornando ostinatamente al libro di analisi.

«Sappi che, nel caso in cui decidessi di farti crescere un bel paio di baffi, ho conoscenze che potranno rifarti senza problemi i documenti. Comunque Kaoru suona ben… Ahh » urlò prendendo in pieno viso il libro lanciato con rabbia.

«Vai al diavolo Hide! Stavo cercando di concentrarmi, porca miseria!» gli urlò contro arrabbiata non tanto per l’insolenza di suo fratello, quanto per la vergogna che l’avesse sentita durante i suoi deliri.

«Ah che caratterino!» bofonchiò Hideyuki, mentre si massaggiava il naso divertito.
 
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Erano da poco passate le sette e mezza di sera quando i due fratelli si sedettero a tavola per consumare una semplice cena preparata con maestria. Kaori aveva ritrovato il suo solito buon umore; i compiti l’avevano aiutata a distrarsi e, affamata com’era, si era avventata con insolita voracità sulla sua doppia porzione di tamagoyaki e okonomiyaki, mangiando con gusto e poca eleganza. Non si accorse, però, che due occhi attenti nascosti dietro due lenti a goccia la stavano squadrando con un’espressione indefinibile, certi di aver colto alcune somiglianze in quell’atteggiamento così rustico.

«Ah ora sì che mi sento meglio!» esclamò soddisfatta, portandosi felice le mani sullo stomaco ben pieno.

«Hai mangiato proprio come uno scaricatore di porto» le disse Hideyuki in uno sbuffo, alzandosi per accendere il televisore.

«Ha parlato il principino! Che, vuoi litigare?» chiese con sguardo esageratamente torvo.

«No, non è nei miei programmi per il dopo cena» le rispose, prendendo il telecomando per sintonizzarsi sul primo notiziario.

«Uffa, sempre questi noiosi telegiornali ogni sera! Non potremmo vedere qualcosa di più bello ogni tanto? Si sentono solo brutte notizie, è deprimente…»

«Shh, fammi sentire questa» disse secco, allungando una mano verso di lei per fermala, mentre osservava con sguardo serio lo schermo.

«Una notizia dell’ultima ora: uno scontro a fuoco si è svolto nei pressi dell’abitazione dell’onorevole Oketo. Risulta ancora ignota l’identità dell’assalitore, mentre si registrano alcuni morti e diversi feriti tra la scorta. L’onorevole attualmente è scomparso, si ipotizza un sequestro di persona. La polizia è già sul posto per…»

«Il solito casinista, gli avevo detto di essere più discreto» commentò Hideyuki scuotendo lievemente il capo.

«Come? Sai chi è stato?» chiese sorpresa la ragazza, bloccando il bicchiere d’acqua a mezz’aria.

Un lieve cenno del capo fu la sola risposta.

«Ah… Ma allora è stato Ryo!» esclamò trionfante, e nell’impeto del gesto si versò l’acqua addosso.

Suo fratello non si scompose, lanciandole un’occhiata perplessa per quell’eccessivo entusiasmo.

«Quindi è questo il lavoro super segreto di cui non vuoi parlarmi! E perché? Cosa ha fatto questo onorevole per…» ma la domanda le morì in gola quando vide lo sguardo obliquo di suo fratello «Sì, ho capito, non devo fare domande» e così dicendo si alzò e iniziò a sparecchiare.

«Brava ragazza»

Hideyuki si alzò e le passò una mano affettuosa tra i capelli «Mi dispiace sorellina ma devo lasciarti sola per un po’. Meglio che vada a controllare un po’ la situazione; Ryo è formidabile, ma alcune volte è un po’ troppo… Plateale, proprio come in questo caso»

«Non preoccuparti Hide, vai pure. Avevo già messo in conto di lavare i piatti visto che hai preparato tu la cena» e con un sorriso sincero aggiunse «Il tuo lavoro è più importante… E poi ci servono i soldi, no?»

Vide lo sguardo di suo fratello farsi per un attimo più luminoso e, dopo averle dato un buffetto affettuoso sulla guancia, lasciò la cucina.
Kaori iniziò la lavare i piatti sentendosi piacevolmente serena; Hide aveva il potere di infonderle tranquillità e sicurezza con un solo sguardo e davvero non sapeva come avrebbe fatto senza di lui.
L’ex detective ricomparve poco dopo in cucina e si diresse spedito verso l’appendiabiti per prendere il soprabito. Anche se lo vide solo di sfuggita notò che aveva cambiato la camicia e cercato di tirare un po’ più su il nodo della cravatta – sebbene fosse sempre irrimediabilmente storto. Non se l’aspettava proprio; si asciugò le mani e le appoggiò sui fianchi mentre si girava verso di lui.

«Da quando ti preoccupi di sistemarti?» lo fissò interrogativa.

Lui continuò imperterrito nella sua operazione di vestizione, mantenendo casualmente gli occhi bassi.

«Hide che mi nascondi?»

«Niente niente» e dopo essersi infilato a velocità supersonica le scarpe nel genkan disse un semplice «Ricorda di chiudere la porta a chiave quando vai a dormire» per poi volatilizzarsi.

Kaori rimase in quella posizione, stupita. Suo fratello, che solitamente era molto calmo e non badava all’abbigliamento, si era premurato di sistemarsi – in modo goffo certo, ma ci aveva sempre provato – ed era letteralmente volato via da casa. Che razza di lavoro stavano svolgendo?
“Uffa, mai una volta che riesca a scoprire qualcosa! Tutti questi misteri non fanno che innervosirmi, io voglio sapere cosa succede” sbottò e mise così tanta forza nell’asciugare la ciotola che per poco con la incrinò. Il suo sesto senso le diceva che c’era stato un cambiamento nell’umore di suo fratello ma non riusciva proprio a immaginarne la causa. Forse era stato pattuito un pagamento sostanzioso – eventualità che si augurò di cuore date le loro finanze sempre così esigue – o semplicemente il lavoro gli piaceva ogni giorno di più, rendendolo impaziente di cominciare. Provò un pizzico di invidia per lui; lei non aveva nessuna attività che la entusiasmasse particolarmente. Non aveva ancora le idee molto chiare sul suo futuro e la cosa le metteva una certa inquietudine. Quello era l’anno delle grandi decisioni, ancora pochi mesi e tutti gli studenti sarebbero stati chiamati per scegliere il loro percorso di studio – o professionale – futuro; lei non aveva deciso che direzione far prendere alla sua vita e, in un certo senso, vedere i suoi compagni già ben decisi la frustrava. Sicuramente non avrebbe scelto l’università, troppo costosa per il suo portafoglio e troppo lunga per la sua pazienza; inoltre ciò l’avrebbe obbligata a partecipare ai corsi intensivi pomeridiani per quasi tutto l’anno. No, era già sufficiente la mole di studio normale. Si lasciò cadere sconfortata sulla sedia, guardando senza ascoltare il film che passava in televisione mentre si passava distrattamente le dita tra i capelli.
Le sarebbe piaciuto avere vicino i suoi genitori per confortarla e consigliarla su quella scelta che le sembrava così importante eppure così difficile.
“I miei genitori…” mormorò piano e un sorriso amaro le increspò le labbra. Sarebbe stato corretto chiamarli genitori adottivi. Le era crollato il mondo addosso quando lo aveva scoperto, grazie a quel preside così privo di tatto che, poco dopo la morte di suo padre, le aveva porto le «più sentite condoglianze per la perdita di suo padre adottivo». Aveva provato un senso di gelo e annichilimento inaudito, che si era andato a sommare al grande vuoto che la scomparsa di suo padre le aveva appena lasciato. Incessantemente, una piccola parte dentro di lei aveva sperato e supplicato che si fosse trattato solo di un terribile malinteso. Poi, però, quando alcuni mesi dopo avevano traslocato nel loro attuale appartamento, e aveva trovato la cartella medica di sua madre in cui erano presenti solo i documenti ospedalieri riguardanti la nascita di Hideyuki e non i suoi, ne ebbe l’amara certezza. In un primo momento era stata tentata di dire a Hide che aveva scoperto tutto, ma la saggezza – o l’incoscienza – dei suoi nove anni l’aveva convinta a tacere sull’argomento. Non avrebbe sopportato l’idea di essere portata via da suo fratello, gli era molto affezionata e le dava molta forza, nonostante lui fosse ancora un ragazzino. Per quanto, col passare degli anni, quella consapevolezza aveva gettato inevitabilmente un’ombra nella sua esitenza, si era decisa a non voler fare ricerche sui suoi genitori biologici; era stata amata, per lei non potevano esserci altri genitori se non quelli che aveva conosciuto. Non si era sentita pronta per sopportare un’altra verità, magari peggiore, e scoprire di non essere stata voluta o abbandonata… Il suo cuore affamato di amore non avrebbe potuto reggere a una tale consapevolezza. E poi, se il prezzo da pagare per scoprire le sue origini fosse stato abbandonare il suo caro fratellone e non vivere più con lui, ne avrebbe fatto volentieri a meno; ormai era lui la sua famiglia, l’unica che una ragazza maschiaccio poteva desiderare di avere: atipica come lei.
Kaori scosse lievemente la testa. Tutto sommato era felice e non poteva lamentarsi della sua situazione attuale; alla fine era riuscita a non farsi schiacciare dall’amarezza, da quel senso di solitudine che aveva provato nel realizzare di non avere nessun posto a cui appartenesse davvero. Era stato possibile solo grazie a Hideyuki che con le sue attenzioni, la sua presenza e il supporto costante l’aveva aiutata a uscire fuori da quella marea che aveva cercato di trascinarla al largo di un dolore senza ritorno. Sicuramente lui doveva sapere la verità, non poteva essere possibile il contrario, eppure i suoi atteggiamenti non l’avevano mai tradito, anzi, la trattava con lo stesso affetto che avrebbe avuto qualsiasi fratello di sangue, se non maggiore. E ripensandoci, anche i suoi genitori, suo padre in primis, l’avevano trattata con così tanto amore che, se non fosse stato per quell’infelice dichiarazione, non avrebbe mai sospettato di essere stata adottata.
Riemerse dalle sue riflessioni e, dopo aver lanciando un’occhiata all’orologio, si disse che ora di andare a letto. Si alzò e, dopo aver preso dalla giacca le chiavi, richiuse attentamente la porta. Aveva provato alcune volte ad aspettare il suo caro fratellone in piedi ma immancabilmente si era addormentata di testa sul tavolo per poi ritrovarsi il mattino dopo magicamente nel suo letto, più assonnata che mai. Sicuramente Hide rientrava tardissimo, troppo per la sua resistenza, e la meravigliava constatare come lui non mostrasse nessun segno di stanchezza pur dormendo così poco.
“Spero non faccia nulla di pericoloso e torni a casa sano e salvo” disse in un sussurro mentre si preparava per la notte. Quella nuova consapevolezza sul lavoro di Hide le aveva portato una buona dose di ansia e, ogni volta che lo vedeva uscire, non poteva impedirsi di formulare una preghiera silenziosa affinché non gli succedesse nulla di grave. Entrò nella sua camera, controllò che la cartella fosse perfettamente asciutta e vi mise dentro il materiale scolastico; la aspettava una giornata impegnativa l’indomani, così come il giorno dopo ancora, per tutto l’anno davanti a sé. Le sembrò un periodo di tempo intollerabilmente lungo e sperò con tutto il cuore che finisse al più presto. Non vedeva l’ora di chiudere quel capitolo tedioso per poterne aprire uno nuovo; sebbene non fosse ancora certa su cosa il destino avesse in serbo per lei la naturale fiducia della sua età, unita a una buona dose di ingenuità, sembravano suggerirle che l’attendessero anni più belli, regalandole così sogni sereni.
 
______________________
1 Ogni scuola giapponese ha un proprio regolamento, in cui vengono stabilite delle regole al limite dell’assurdo come nel caso dei capelli, che tutti gli studenti devono avere neri e lisci, (per le ragazze si arriva anche a obbligarle a portare i capelli raccolti per lasciar libere le spalle). Qualche tempo fa fece scalpore la notizia di una ragazzina costretta a tingersi i capelli di nero perché, avendoli naturalmente castani, violava il regolamento scolastico. Da allora qualsiasi “fenotipo non nipponico” deve essere certificato da un ospedale.
   
 
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