Il Calefattoio
Mi chiamano calefattoio e nessuno sa a cosa serva. Dicono che sia fatto in modo strano, con un alloggiamento traforato alla base e una grossa ciotola sopra, il tutto di una buona vecchia ceramica nera, di quella che si faceva una volta, prima che venissero fuori tutti questi vasetti di ceramica fine che non resistono neanche qualche secolo. Quando sono dell’umore giusto, porto anche un coperchio sulla testa. A me non sembra niente di stravagante, ma qui tutti mi guardano incuriositi, per ore. Che fastidio. Discutono e discutono sul perché della mia forma, neanche fossero affari loro. Mi hanno messo qui in questo armadio strano, ci ho messo un po’ a capirlo, ma mi sembra che lo chiamino vetrina. In sostanza è una grande scatola di legno con una parete di un materiale tipo ceramica, ma trasparente. Mi mette un po’ a disagio, lo ammetto. Le persone guardano dentro, sbirciano e si fanno i fatti miei. Ce n’è uno in particolare che passa un sacco di tempo a fissarmi, a volte apre la vetrina e mi maneggia. Una volta mi ha persino disegnato. Ma che pazzo devi essere per disegnare un vaso? Comunque, ormai ci ho fatto l’abitudine, mi sono affezionato, persino. Mentre mi guarda e mi scandaglia con quel suo sguardo attento, borbotta e parla tra sé e sé. A volte insulta qualcuno, ma non ho capito se ce l’abbia con sé stesso o con qualcun altro. Io sarò strano, ma pure lui non scherza. È un po’ che andiamo avanti così, lui arriva, inforca gli occhiali spessi (non ho capito a cosa servano, ma li indossa sempre), mi guarda, mi prende, mi posa sul tavolo e traccia segni su un pezzo di una roba che chiamano carta. Questa non l’ho ancora capita, ma sono certo che ai miei tempi non esisteva. In effetti, ai miei tempi non esisteva quasi niente di quello che vedo attorno a me oggi.
Me lo ricordo come se fosse ieri, ma è passato davvero tanto tempo. Per lo meno, in termini umani. Qui dove sono ora parlano tanto di tempo, di datazioni, di cronologia (anche questa non è stata facile da capire) e se ho afferrato bene il concetto, sono passati circa 4000 anni. A me non sembrano poi chi sa quanti, però a quanto pare le cose devono essere cambiate parecchio nel frattempo. Voglio dire, per darmi un nome ridicolo come calefattoio significa che qualcosa ad un certo punto deve essere andato storto. Dove mi hanno fatto nessuno si sarebbe mai sognato di farsi tutte queste domande, la mia forma parla da sé. Di certo la signora che mi ha creato non aveva dubbi sul mio uso. Conservo stretto quel ricordo e riaffiora ogni volta che il tipo occhialuto mi maneggia: le mani della mia ceramista erano ruvide, ma delicate, sapevano esattamente cosa stessero facendo. Indugiavano sulle mie rotondità con garbo e decisione, per spianare gli spigoli, per trasformare quei salsicciotti arrotolati su sé stessi in una forma sinuosa e accogliente. E state pur sicuri che lei non mi avrebbe mai messo in una vetrina, ammesso che esistesse allora, e certamente non mi avrebbe disegnato. Anzi, mi metteva al centro della stanza, in mezzo al via vai di gente che andava e veniva dalla nostra capanna, con i ragazzini a corrermi attorno e le donne a tessere e a creare altri vasi. Si stava bene in quella capanna, come mi manca. Era accogliente e calda, finché un giorno il calore non è diventato troppo.
È iniziato tutto una notte, ho sentito la terra sotto di me tremare. All’inizio poco, poi sempre più forte. Nel giro di qualche istante ha smesso, ma tutti attorno a me erano spaventati e allarmati. Non capivo cosa potesse esserci di tanto spaventoso nella terra che tremava, in fondo noi siamo sopra, non sotto, ma poi ho cominciato a mettere insieme i pezzi: la grande montagna che da sempre faceva ombra al villaggio aveva cominciato a emettere borbottii incomprensibili, come un vecchio che non vuole svegliarsi. C’era un via vai di gente agitata in quei giorni, tanti doni offerti agli dèi, un flusso continuo di animali, dediche e preghiere. Non ho mai lavorato tanto in vita mia come quei giorni. Non facevo a tempo a finire un rito che subito mi davano una lavata e ne iniziava un altro, ma la situazione non ne voleva sapere di migliorare, anzi. La terra tremava sempre più spesso, di solito di notte. Non si dormiva più, i bambini non giocavano più e la mia ceramista aveva smesso di fare vasi. Tutti si aggiravano nervosi e preoccupati, non staccavano gli occhi dalla montagna. Un giorno il primo spiraglio di sole si era appena posato sulla porta della nostra capanna, illuminandone la soglia di legno e accennandone la forma rotonda, quando un boato ci colpì come uno schianto al suolo. La terra tremò come mai prima d’allora e la gente cominciò ad urlare scappando in ogni direzione. Tantissimi dei miei compagni vasi caddero dagli scaffali più alti e si frantumarono a terra, ma nessuno badò a noi. Nel giro di pochi momenti un’ondata di calore insopportabile ci investì. Le grida umane morirono all’istante e la pressione interna della mia stessa ceramica minacciò di farmi esplodere, ma fui fortunato. Poi venne il buio assoluto.
Ho rivisto la luce da non molto e speravo che con lei ci fosse anche la mia ceramista, ma così non è stato. Peccato, mi sarebbe piaciuto rivederla. In ogni caso non posso lamentarmi per l’accoglienza, tutti erano entusiasti ed emozionati attorno a me: parlavano fitto fitto, indicavano, discutevano, mi passavano di mano in mano con occhi sbarrati e pieni di sorpresa. C’erano altri vasi con me, ma non tanti quanti ne ricordavo prima del buio e di certo nessuno di loro grande e bello come me. Deve essere per questo che sono finito in questa vetrina insieme ad altri vasi, tutti molto belli ed eleganti. All’inizio mi sentivo un po’ fuori luogo, ma ora ci ho fatto l’abitudine. E poi, io ho il signore occhialuto che viene solo per me. È irritante il più delle volte, ma la verità è che mi fa sentire meno solo. I bambini non mi corrono più attorno mentre giocano, anzi, ora che ci penso non vedo dei bambini da tantissimo tempo. Forse non esistono più al giorno d’oggi. Peccato, erano simpatici, tutto sommato.
Oggi doveva venire il mio amico occhialuto, per questo ero di buon umore. Non sono molto bravo a tenere conto del tempo, ma mi sono accorto che lui viene con una certa regolarità. Non so quanto sia in termini umani, in ogni caso a me sembra che avvenga abbastanza spesso, anche se ultimamente ho la sensazione che passi sempre più tempo tra una visita e l’altra. A volte salta il nostro incontro periodico, ma poi alla fine torna sempre, anche se si ferma per poco e ultimamente non mi tira più fuori dalla vetrina, ma non mi lamento, perché in fondo farmi toccare non mi è mai piaciuto più di tanto. A dirla tutta anche ieri doveva venire, e il giorno prima e quello ancora prima, ma non si è visto: in effetti non si è visto da un po’. Non so quanto sia in tempo umano, a me sembra un po’ troppo, ma forse è una stima troppo generica perché non capisco bene come funziona il tempo per loro. Magari per lui è passata una manciata di istanti. Ho aspettato finché la luce che entra dalla finestra alla mia destra non si è fatta più aranciata e allora ho perso un po’ le speranze di rivederlo oggi, ma ad un certo punto ho sentito una porta aprirsi e mi sono tutto ringalluzzito. Non vedevo l’ora di risentirlo borbottare!
Ci sono rimasto un po’ male però: non era lui. Era una signora bassa e con i capelli bianchi tagliati alle spalle, non l’avevo mai vista prima d’ora. Mi ha degnato di un solo sguardo, ma mi sembrava triste. Non capisco perché quando gli umani sono tristi emettano acqua dagli occhi, questa cosa per me non ha senso, però questa signora sembrava averlo fatto di recente. Aveva ancora le guance bagnate. Portava una tavola in mano, con un dipinto o un disegno, forse una foto (la differenza fra le tre non mi è chiara), e sopra c’era la faccia del mio amico. La signora è salita su una sedia e con un martello ha attaccato la tavola contro il muro, proprio di fronte a me. Per un momento sono stato contento, avrei avuto la faccia sorridente e occhialuta del mio amico davanti a me tutto il tempo, poi però mi sono intristito e forse se avessi avuto degli occhi veri e propri avrei emesso acqua anche io.
La signora se n’è andata, ha spento la luce e ha chiuso la porta. Non credo che sentirò più il mio amico borbottare.
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NOTA AL TESTO
Il calefattoio è un oggetto che somiglia ad un moderno fornelletto per bruciare oli essenziali, ma di dimensioni variabili. Archeologicamente, si trova prevalentemente nel Lazio e in Campania, in un arco cronologico che va dall'età del Bronzo Antico (ca. 2000 a.C.) fino al periodo Orientalizzante etrusco (ca. 700 a.C.). Il promt della storia è che si tratta di un oggetto molto enigmatico (non ci si bruciava roba, su questo siamo sicuri) che ha attirato per decenni l'attenzione dei protostorici italiani, fino a che non hanno concluso con: "è un vaso rituale", che in Archeologia equivale a dire che non s'è capito.L'eruzione a cui la storia fa riferimento è quella delle pomici di Avellino del 1900 a.C. (si litiga ancora sulla cronologia, ma non entrerò nel merito) e il villaggio è quello di Nola-Croce del Papa, sepolto dai lapilli e ritrovato quasi intatto (se lo cercate su Google trovate un sacco di belle immagini).
In ogni caso, nessuna di queste informazioni è necessaria al godimento del racconto, ma aggiunge contesto.
Me lo ricordo come se fosse ieri, ma è passato davvero tanto tempo. Per lo meno, in termini umani. Qui dove sono ora parlano tanto di tempo, di datazioni, di cronologia (anche questa non è stata facile da capire) e se ho afferrato bene il concetto, sono passati circa 4000 anni. A me non sembrano poi chi sa quanti, però a quanto pare le cose devono essere cambiate parecchio nel frattempo. Voglio dire, per darmi un nome ridicolo come calefattoio significa che qualcosa ad un certo punto deve essere andato storto. Dove mi hanno fatto nessuno si sarebbe mai sognato di farsi tutte queste domande, la mia forma parla da sé. Di certo la signora che mi ha creato non aveva dubbi sul mio uso. Conservo stretto quel ricordo e riaffiora ogni volta che il tipo occhialuto mi maneggia: le mani della mia ceramista erano ruvide, ma delicate, sapevano esattamente cosa stessero facendo. Indugiavano sulle mie rotondità con garbo e decisione, per spianare gli spigoli, per trasformare quei salsicciotti arrotolati su sé stessi in una forma sinuosa e accogliente. E state pur sicuri che lei non mi avrebbe mai messo in una vetrina, ammesso che esistesse allora, e certamente non mi avrebbe disegnato. Anzi, mi metteva al centro della stanza, in mezzo al via vai di gente che andava e veniva dalla nostra capanna, con i ragazzini a corrermi attorno e le donne a tessere e a creare altri vasi. Si stava bene in quella capanna, come mi manca. Era accogliente e calda, finché un giorno il calore non è diventato troppo.
È iniziato tutto una notte, ho sentito la terra sotto di me tremare. All’inizio poco, poi sempre più forte. Nel giro di qualche istante ha smesso, ma tutti attorno a me erano spaventati e allarmati. Non capivo cosa potesse esserci di tanto spaventoso nella terra che tremava, in fondo noi siamo sopra, non sotto, ma poi ho cominciato a mettere insieme i pezzi: la grande montagna che da sempre faceva ombra al villaggio aveva cominciato a emettere borbottii incomprensibili, come un vecchio che non vuole svegliarsi. C’era un via vai di gente agitata in quei giorni, tanti doni offerti agli dèi, un flusso continuo di animali, dediche e preghiere. Non ho mai lavorato tanto in vita mia come quei giorni. Non facevo a tempo a finire un rito che subito mi davano una lavata e ne iniziava un altro, ma la situazione non ne voleva sapere di migliorare, anzi. La terra tremava sempre più spesso, di solito di notte. Non si dormiva più, i bambini non giocavano più e la mia ceramista aveva smesso di fare vasi. Tutti si aggiravano nervosi e preoccupati, non staccavano gli occhi dalla montagna. Un giorno il primo spiraglio di sole si era appena posato sulla porta della nostra capanna, illuminandone la soglia di legno e accennandone la forma rotonda, quando un boato ci colpì come uno schianto al suolo. La terra tremò come mai prima d’allora e la gente cominciò ad urlare scappando in ogni direzione. Tantissimi dei miei compagni vasi caddero dagli scaffali più alti e si frantumarono a terra, ma nessuno badò a noi. Nel giro di pochi momenti un’ondata di calore insopportabile ci investì. Le grida umane morirono all’istante e la pressione interna della mia stessa ceramica minacciò di farmi esplodere, ma fui fortunato. Poi venne il buio assoluto.
Ho rivisto la luce da non molto e speravo che con lei ci fosse anche la mia ceramista, ma così non è stato. Peccato, mi sarebbe piaciuto rivederla. In ogni caso non posso lamentarmi per l’accoglienza, tutti erano entusiasti ed emozionati attorno a me: parlavano fitto fitto, indicavano, discutevano, mi passavano di mano in mano con occhi sbarrati e pieni di sorpresa. C’erano altri vasi con me, ma non tanti quanti ne ricordavo prima del buio e di certo nessuno di loro grande e bello come me. Deve essere per questo che sono finito in questa vetrina insieme ad altri vasi, tutti molto belli ed eleganti. All’inizio mi sentivo un po’ fuori luogo, ma ora ci ho fatto l’abitudine. E poi, io ho il signore occhialuto che viene solo per me. È irritante il più delle volte, ma la verità è che mi fa sentire meno solo. I bambini non mi corrono più attorno mentre giocano, anzi, ora che ci penso non vedo dei bambini da tantissimo tempo. Forse non esistono più al giorno d’oggi. Peccato, erano simpatici, tutto sommato.
Oggi doveva venire il mio amico occhialuto, per questo ero di buon umore. Non sono molto bravo a tenere conto del tempo, ma mi sono accorto che lui viene con una certa regolarità. Non so quanto sia in termini umani, in ogni caso a me sembra che avvenga abbastanza spesso, anche se ultimamente ho la sensazione che passi sempre più tempo tra una visita e l’altra. A volte salta il nostro incontro periodico, ma poi alla fine torna sempre, anche se si ferma per poco e ultimamente non mi tira più fuori dalla vetrina, ma non mi lamento, perché in fondo farmi toccare non mi è mai piaciuto più di tanto. A dirla tutta anche ieri doveva venire, e il giorno prima e quello ancora prima, ma non si è visto: in effetti non si è visto da un po’. Non so quanto sia in tempo umano, a me sembra un po’ troppo, ma forse è una stima troppo generica perché non capisco bene come funziona il tempo per loro. Magari per lui è passata una manciata di istanti. Ho aspettato finché la luce che entra dalla finestra alla mia destra non si è fatta più aranciata e allora ho perso un po’ le speranze di rivederlo oggi, ma ad un certo punto ho sentito una porta aprirsi e mi sono tutto ringalluzzito. Non vedevo l’ora di risentirlo borbottare!
Ci sono rimasto un po’ male però: non era lui. Era una signora bassa e con i capelli bianchi tagliati alle spalle, non l’avevo mai vista prima d’ora. Mi ha degnato di un solo sguardo, ma mi sembrava triste. Non capisco perché quando gli umani sono tristi emettano acqua dagli occhi, questa cosa per me non ha senso, però questa signora sembrava averlo fatto di recente. Aveva ancora le guance bagnate. Portava una tavola in mano, con un dipinto o un disegno, forse una foto (la differenza fra le tre non mi è chiara), e sopra c’era la faccia del mio amico. La signora è salita su una sedia e con un martello ha attaccato la tavola contro il muro, proprio di fronte a me. Per un momento sono stato contento, avrei avuto la faccia sorridente e occhialuta del mio amico davanti a me tutto il tempo, poi però mi sono intristito e forse se avessi avuto degli occhi veri e propri avrei emesso acqua anche io.
La signora se n’è andata, ha spento la luce e ha chiuso la porta. Non credo che sentirò più il mio amico borbottare.
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NOTA AL TESTO
Il calefattoio è un oggetto che somiglia ad un moderno fornelletto per bruciare oli essenziali, ma di dimensioni variabili. Archeologicamente, si trova prevalentemente nel Lazio e in Campania, in un arco cronologico che va dall'età del Bronzo Antico (ca. 2000 a.C.) fino al periodo Orientalizzante etrusco (ca. 700 a.C.). Il promt della storia è che si tratta di un oggetto molto enigmatico (non ci si bruciava roba, su questo siamo sicuri) che ha attirato per decenni l'attenzione dei protostorici italiani, fino a che non hanno concluso con: "è un vaso rituale", che in Archeologia equivale a dire che non s'è capito.L'eruzione a cui la storia fa riferimento è quella delle pomici di Avellino del 1900 a.C. (si litiga ancora sulla cronologia, ma non entrerò nel merito) e il villaggio è quello di Nola-Croce del Papa, sepolto dai lapilli e ritrovato quasi intatto (se lo cercate su Google trovate un sacco di belle immagini).
In ogni caso, nessuna di queste informazioni è necessaria al godimento del racconto, ma aggiunge contesto.