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Autore: Persej Combe    28/02/2021    1 recensioni
Volevo soltanto sapere come stai, se nel frattempo sei riuscita ad alzarti dal letto. Che te ne pare di Kanto? Spero che le cose laggiù da quel Bill vadano bene.
Non mi ricordo, con quale Pokémon avevi detto che si era fuso? ...Ah, sì, ecco. Un Clefairy. Beh, se è così allora immagino che andrete d’accordo...

[Aetherskullshipping]
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Guzman, Iridio, Plumeria, Samina
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Videogioco
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NOTA: Da questo capitolo in poi segnalo la presenza di tematiche delicate. Raccomando di fare attenzione. Buon proseguimento!
 


 
 
 

 
 
 
 
 
 
C a p i t o l o   4 :  I o ,   t e   e   l e   m i e   U l t r a c r e a t u r e
 
 
 
 
 
  «Ma poi, che diamine sarebbe un cicisbeo?».
  Quando qualche giorno più tardi dopo l’avvenimento – non c’era minuto in cui egli non ripensasse a quell’abbraccio, alle spalle tremanti di lei, alle labbra rosse di pianto che premevano sul collo – Guzman aveva incontrato Vicio nei corridoi della fondazione, gli si era accanito contro con le braccia nerborute, lo aveva preso da parte e si erano rivolti l’uno all’altro cogli occhi piccoli e rabbiosi.
  «Che vuoi, razza di cicisbeo?» gli aveva detto quello sibilando tra i denti come una serpe. Guzman lo aveva afferrato un’altra volta per il colletto del camice e lo aveva minacciato che se si fosse permesso di infierire ancora nelle questioni private della direttrice lo avrebbe sbriciolato pezzo dopo pezzo con le proprie stesse mani.
  «Ti hanno beccato con una donna, eh, Guzman?».
  Iridio lo guardava con un sorrisetto insinuante, da ragazzino malizioso che già sapesse di certe cose, ed egli sentì la stizza fargli avvampare le guance.
  «Il grande Guzman non si fa beccare da nessuno! Come se gli interessassero le donne degli altri, poi...», ribatté; ma guardando ancora quella bocca fiera e quanto somigliasse a quella di Samina, il senso di colpa lo colse all’improvviso, e si zittì. Seduti uno accanto all’altro, il vento caldo scompigliava loro i capelli.
  Iridio era tornato dai suoi viaggi da Allenatore soltanto per una piccola sosta e per ritrovarsi con Plumeria, a cui non mancava mai di far avere un resoconto dei propri progressi: la presentazione al Picco Hokulani per la nuova prova era ormai una questione di giorni, e il Giro delle Isole procedeva senza intoppi. Guzman aveva intravisto la sua sagoma oltre le tende della finestra, si era sporto dalla ringhiera del balcone e l’aveva trovato acquattato più in alto su una sporgenza del tetto della mansarda, la Sfera di quel suo strano Pokémon stretta pensosamente nel pugno lasciato cadere tra le gambe incrociate.
  Era una mattina sorprendentemente limpida, quella; il che in una cittadina come Poh sarebbe stato di cattivo auspicio, se soltanto non avesse offerto quello splendido paesaggio tropicale, per una volta colorato e luminoso. Guzman dentro di sé lo credeva un qualche segno di svolta.
  «Un cavalier servente», puntualizzò Iridio, che rimaneva pur sempre un ragazzino istruito di buona famiglia «In passato era l’accompagnatore di una nobildonna quando il marito era assente. Spesso era anche il suo amante».
  «Il suo amante», ripeté Guzman.
  Certo, adesso era chiaro il motivo per cui Vicio avesse voluto fare quel paragone. La definizione pareva calzare fin troppo.
  «Però è buffo, sai? Chi te l’ha detto?».
  «E a te cosa importa?».
  «Proprio un bel nulla! Ma mi ricorda il modo di parlare di una persona che conoscevo».
  Sul suo viso di ragazzino cadde all’improvviso un’ombra cupa, gli occhi verdi si offuscarono come che le nuvole scure di Poh si fossero in realtà andate a nascondere nel suo sguardo e adesso volessero tornare a fare capolino, e tutto in lui portava il segno del tempo trascorso, di una maturità ancora acerba ma che di lì a poco avrebbe cominciato timidamente a manifestarsi. I cambiamenti dovevano aver travolto entrambi, pensava Guzman, mentre vedeva il Pokémon – l’affare – di Iridio uscire dalla Sfera e acquattarsi contro le sue ginocchia. Con una leggera sorpresa si accorse che la museruola che indossava si era scalfita in alcuni punti, e che certe giunture erano in procinto di spezzarsi. E dire che era stato clonato con l’esatto intento di resistere alla pressione degli Ultravarchi...
  Si chiese quanto tempo fosse effettivamente passato da quando aveva cominciato a lavorare per Samina.
  «Senti mai nostalgia di casa?».
  Iridio accarezzava il manto ibrido di Tipo Zero. Soffermandosi sul gesto lento con cui passava tra le piume del capo, Guzman percepì un brivido lungo la nuca, ed era il ricordo della mamma che gli pettinava i capelli prima di andare a dormire.
  «No», disse, e si mise ad arrotolare nel dito un ricciolo bianco che gli scendeva sulla fronte «Avevo poco più della tua età quando sono scappato. Non ci sono più tornato».
  «Neanch’io ci voglio tornare».
  Non sarebbe stato il caso, eppure Guzman lì per lì non riuscì a trattenere un sorriso. Da una parte questa piccola pulce pareva assomigliargli più di quanto potesse credere: gli sembrava di rivedersi, lì al suo fianco, con gli abiti stracciati da adolescente ribelle e Wimpod stretto in grembo. Perché quelli come Iridio non erano fatti per stare in gruppo, ma soli con sé stessi. Plumeria avrebbe potuto continuare a fare la sorella maggiore quanto voleva, ma questo alla fine non l’aveva capito – e tuttavia Guzman avrebbe mentito a sé stesso se avesse negato quanto anni addietro la sua compagnia gli fosse stata vitale.
  «Adesso ho due rivali, persino il nipote di Hala con me non può spuntarla, però...».
  «Fai tanto il duro, poi mi caschi così sul sentimentale! Com’è possibile?».
  «Guarda che ti ho visto prima che arrossivi a sentire che vuol dire cicisbeo! E sarei io il sentimentale!».
  Si raggomitolò dall’altro lato, affondando la testa nella pelliccia raggrinzita di Tipo Zero e ignorando le risate sguaiate di Guzman
  «Forse... Forse un po’ sì», mormorò poi, prima che l’altro potesse poggiargli il palmo sulla spalla a rabbonirlo. «Guzman, non mi è mai importato nulla di te. Sono entrato nel Team Skull soltanto per me stesso e per diventare forte. Plumeria è una buona ascoltatrice. Però, questa mattina, con te mi trovo bene. È che...».
  Guzman si chinò paterno verso di lui – paterno, che strana parola da attribuirgli, eppure in qualche modo percepì che non c’era altra maniera in cui potesse descrivere il suo stato d’animo apprensivo di fronte a quel ragazzino e al suo spaesamento, alla confusione che aveva suscitato a posteriori il distacco.
  «Ti manca tua sorella, non è così?» gli chiese.
  Iridio gli rese uno sguardo grande e incredulo.
  «Lylia», disse ancora Guzman.
  Lesse nella sua espressione quella sorpresa di quando inaspettatamente si viene capiti, e sentir pronunciare quel nome doveva avergli suscitato un qualche pensiero amorevole e lontano, perché Iridio si era ammutolito e stava con gli occhi lucidi a guardare davanti a sé; ma Guzman non fece caso al fatto che subito dopo quello stesso sguardo si fosse improvvisamente freddato. Aveva abbassato la guardia e non era stato abbastanza attento, inavvertitamente aveva lasciato la traccia di una trama che ancora non doveva essere svelata.
  Guardando l’orologio vide che si era fatta una certa ora, così si alzò sgranchendosi le ossa.
  «Beh», disse, facendo per avviarsi «adesso devo andare. Però aspetta, prima prendi un po’ di questi».
  Frugò nella tasca della felpa, e tornato indietro da Iridio gli mise nella mano quel che doveva dargli.
  «Visto che sai già tutto» puntualizzò, con un ghigno malizioso e furbo sulla bocca.
  Lui scostò un poco le dita e vedendo il contenuto avvampò d’imbarazzo, scandalizzato notò quanti altri ne avesse con sé nelle tasche.
  «Allora è vero che sei stato con una donna!» sbottò, balbettando dal nervosismo.
  «Se non li distribuisco tutti Plumeria mi ammazza» disse, e ancora, andando: «Oggi mi tocca!».
  Tornato ai piani inferiori Guzman si era diretto in tutta fretta verso la sala principale, e aprendo la porta si era ritrovato le reclute più giovani che già lo aspettavano, sedute per terra in circolo, coi visi serafici dei finti angioletti. La lavagna era tutta scarabocchiata di penini e vulvette, e pensò che Plumeria si sbagliasse, che in realtà quei marmocchi fossero molto più scaltri di loro, e più scaltri ancora persino di quanto erano stati loro da ragazzini; ma d’altra parte glielo aveva promesso, e comunque, dentro di sé, non poteva fare a meno di concordare, che dare un futuro a questi trovatelli senza destino pescati per strada volesse dire anche parlare di questo.
  Quindi andò, si sedette sulla cattedra, li scrutò uno ad uno: le facce piene di pustole, le ascelle pelose quanto quel po’ di peluria striminzita sopra il labbro che ostentavano in giro col nome di baffi, e poi Guzman si accorse dell’odore pungente che aleggiava tra loro – ma c’era passato anche lui nell’età dello sviluppo, c’era passato anche lui. Reprimendo l’impulso irresistibile di tapparsi il naso, chiese di far aprire le finestre e cominciò a raccontare la sua prima volta.
 
 
  Quando Plumeria entrò nella sua stanza lo ritrovò indaffarato a stirare. Si appoggiò alla porta e a braccia conserte restò a fissarlo, con le labbra che già s’incurvavano in una smorfia scettica.
  «Li hai distribuiti tutti?» fece, inquisitoria, sollevando un sopracciglio.
  «Tutti quanti, uno per uno», rispose, facendo vaporizzare il ferro da stiro.
  «E quelli?» incalzò, indicando il tavolo dove stava ancora un mucchietto cospicuo di preservativi.
  «Quelli?» ripeté, ripiegando una maglietta e buttandola con noncuranza nell’armadio «Quelli sono per me».
  Plumeria gli diede uno scappellotto sulla nuca e Guzman se la sghignazzò sotto i baffi.
  «Ho sequestrato altre bottiglie. Te le metto qui nella libreria come al solito».
  «Ma non sarai un po’ troppo severa? Secondo me dovresti lasciarli divertire, ogni tanto. Un goccio che potrà mai fare?».
  «Lo sai che sono la prima a bere quando c’è da divertirsi, ma io di dovermi sorbire il ragazzino che sbratta già alle dieci di mattina non ne voglio sapere. Se vuoi pensarci tu a tenergli ferma la testa sul cesso, prego, fai pure».
  C’era sempre una nota di aggressività, quando Plumeria e Guzman dovevano rinfacciarsi le cose, e a volte accadeva che si spingessero talmente in là da prendere gusto a litigare, e passavano le ore, anche i giorni, a lanciarsi le frecciatine più subdole. Vi era quasi una sorta di piacere nel dimostrarsi capaci l’un l’altra di predominarsi insieme a vicenda. Tuttavia, non si prendevano mai troppo sul serio, e quella sfida assumeva il carattere di un gioco: talvolta, per farla finita, ingaggiavano uno scontro di fronte alla villa, il giardino decadente si trasformava nell’arena predisposta alla lotta tra Salazzle e Golisopod, e Poh si riempiva di frotte di reclute accanite sia all’una che all’altra fazione. Ma negli ultimi tempi, i loro diverbi si erano fatti più reali, concreti. Non era questo il caso; tuttavia, da quando Guzman aveva iniziato ad assentarsi per le sue mansioni alla Fondazione Æther, certi discorsi avevano preso una piega più profonda, consapevole, anche nel confessarsi i sentimenti più semplici – la sincerità con cui aveva ammesso di essere attratto da Samina era ormai la premessa a qualsiasi preambolo, l’impulso allo svisceramento più interiore, un pezzo alla volta.
  «Sai che però alla fine mi sono divertito?» disse a un tratto Guzman, intanto che Plumeria risistemava il letto e scuoteva i cuscini. «Mi sembrava una cosa così noiosa... Invece stavano tutti attenti a sentire cosa dicevo, e mi facevano le domande...».
  «Vorrei che questi ragazzi crescessero consapevoli, e non succubi della loro sessualità. Sono contenta che alla fine ti sia deciso».
  «Già. Avevi ragione tu».
  «Cosa gli hai raccontato?».
  Plumeria stava accovacciata sul letto, e Guzman si girò un istante a guardarla, scivolando con gli occhi sulle sue dita che allisciavano la trapunta.
  «Nulla di che», disse, e nascondeva un sorriso nel vapore del ferro.
  Era un bel quadro quello che si era venuto formando questa mattina, e Guzman si sentiva ancor più di buonumore nelle sue faccende domestiche – una volta non ci si sarebbe dedicato nemmeno, e invece eccolo, dopo una manciata di mesi, a fare il casalingo. Vide che gli rimanevano ancora poche altre magliette, così si affrettò a concludere, sebbene in realtà non avesse impegni né programmi per quella giornata.
  «Mi pare di capire che tu e la signora ci date dentro», riemerse a un tratto la voce di Plumeria, che ancora guardava il tavolo. Guzman vide che stava sorridendo, e all’improvviso si sentì in imbarazzo. Scosse la testa, ripensando alla questione degli amanti e dei cicisbei.
  «Oh, no», disse, e lo scherzo era finito «No, lei non mi sembra il tipo... E poi non mi pare neanche il caso».
  Mentre rimetteva a posto le ultime magliette, per qualche ragione le sue dita avevano cominciato a esitare, e Guzman restò per molto tempo di fronte all’armadio aperto, per nascondere il viso da lei.
  «A proposito», disse, cambiando argomento, ma senza allontanarsene troppo, «Ho parlato con Iridio, prima. Si è confidato con me».
  Plumeria accolse sorpresa quella notizia. Tuttavia ne sembrava contenta.
  «Non gliel’hai detto, però».
  «Non gliel’ho detto».
  Guzman richiuse l’armadio e andò a mettere in ordine l’asse da stiro. Diede un’occhiata alla stanza pensando a cos’altro avrebbe potuto fare. Dalla finestra entrava un profumo caldo, piacevole, e il modo in cui la luce illuminava quello spazio raccolto gl’infondeva fiducia per quel che sarebbe venuto dopo e che aspettava speranzoso di scoprire. Sul pavimento, i Cristalli Z sparsi fuori dalla cassa dove li custodiva gelosamente scintillavano al chiarore del sole. Si chinò a raccoglierli, e nei ricordi tornò vagamente l’ardore iracondo che lo aveva colto quando li aveva rubati tutti per ripicca sotto gli occhi di Hala, quando si era opposto alla sua nomina a Capitano di tipo Coleottero. Ne strinse uno nella mano, sentendo il cristallo rovente bruciare nel palmo. Non voleva rovinarsi così la giornata, assillato dai ricordi. Ci si abbandonava troppo spesso, e una volta dentro uscirne gli costava una fatica immane, quando e se vi riusciva, perché sempre in ogni caso una voce rimaneva in un angolo della testa e continuava a raccontare, a riavvolgere il nastro del dolore passato e lui restava passivamente ad ascoltarlo.
  Plumeria gli chiese se sarebbe andato da lei più tardi. Guzman rispose che non lo sapeva.
  «Perché non vai a guardare un po’ gli allenamenti dei ragazzi?» gli propose allora, «È da molto che non lo fai. Sono sicura che lo apprezzerebbero. Oggi si riunivano al Giardino di Malie, mi hanno detto che volevano catturare qualche insetto».
  Abbandonando a terra i cristalli, Guzman pensò che fosse una buona idea.
 
 
  Malie lo accolse al suo arrivo sotto l’ombra dei grandi palazzi orientaleggianti. In lontananza brulicava il chiacchiericcio della gente al mercato; oltre quelle voci vi era soltanto il fruscio dei rami al vento e il borbottio dei Toucannon assiepati tra le foglie. Guzman passeggiava con le mani affondate nelle tasche, osservando la calma a lui così estranea di quella città. Impigrito dall’aria calda di quella mattina assolata, socchiudeva di tanto in tanto gli occhi e li riapriva al suono dei campanacci di vetro che tintinnavano nelle verande dei negozi. In quella sensazione sonnolenta lo colse a un tratto una visione allucinante, cui però ormai si era abituato, e senza far caso alla grande medusa bianca che ondeggiava, levitando, dall’altro capo del marciapiede, Guzman aveva continuato ad andare per la sua strada. Il senso di straniamento delle prime volte lo aveva quasi del tutto abbandonato, e quella visione terrificante e assurda si permeava dell’indifferenza della quotidianità. La creatura avanzava, con i tentacoli che si scuotevano nel vento, maestosa e imperturbabile. Dalla sua bocca risuonò un verso stridulo e acuto, simile a uno scampanellio, e allora dalle sue fauci sbucò fuori una piccola sfera fluttuante, luminosa dei colori violacei del crepuscolo.
  Soltanto allora Guzman si accorse che i tentacoli erano braccia di bambina, nascoste dietro lunghi capelli biondi sciolti in tante ciocche. Terribilmente simile a Samina, una sua miniatura – Lylia.
  La riconobbe, ricordandosi della fotografia che Samina gli aveva mostrato. Subito si mise in allerta, scrutandola che si allontanava furtiva stringendo forte la tracolla. La creatura che aveva infilato nella borsa doveva trattarsi senza dubbio di Cosmog, il Pokémon che avrebbe aperto l’Ultravarco.
  Guzman si chiese se la ragazzina fosse sola. Cercò attorno qualcuno che l’accompagnasse. Non c’era nessuno: soltanto lei e Cosmog. L’occasione si presentava perfetta. Senza pensarci un istante la seguì, dimenticandosi dei compagni. Già si prefigurava la gioia di Samina, il compenso che gli avrebbe dato nel momento in cui le avrebbe fatto sapere che la missione era compiuta, e che l’aveva portata a termine da solo.
  Lylia si stava dirigendo verso la biblioteca. Guzman entrò, ignorando gli sguardi dei bibliotecari che sorpresi di vederlo in un posto del genere lo fissavano insistenti. Nascondendosi dietro le librerie, osservava la ragazzina spingersi sulle punte dei piedi a raggiungere gli scaffali più alti e a scrutare i dorsi dei libri – era così piccina e aggraziata, mentre cercava di fare tutto da sé senza l’aiuto degli altri, tanto quanto sua madre quando metteva a posto le credenze e gli armadi, gli oggetti, i soprammobili. Vagava tra le sezioni come in cerca di qualcosa che già sapesse, ma che non riuscisse a trovare.
  Non soddisfatta, Lylia salì al piano superiore. Guzman le andò dietro.
  Raramente era stato in una biblioteca, e quelle poche volte doveva esserci andato perché costretto, nel periodo della scuola. Questo silenzio aveva per lui un che d’innaturale, una calma assorta in cui non era in grado di rispecchiarsi. Ed era difficile seguire le orme della bambina senza dare nell’occhio, mentre gli altri erano seduti e ogni minimo rumore che non fosse lo sfogliare delle pagine destava attenzione. Lylia passava in rassegna una libreria dopo l’altra; ma poi eccola decidersi: prese un libro nelle mani e lesse attentamente il titolo, fece scorrere rapidamente un dito sulla copertina. La borsa trillò, ed ella sussultò, si piegò su di essa ad aprirne una tasca e il suo visetto si arricciò in una smorfia arrabbiata mentre si portava l’indice sulle labbra a fare cenno di silenzio. Il Pokémon – o un’Ultracreatura, ma che differenza faceva? – doveva essere così esaltato da quel posto che probabilmente gli era nuovo che provò a uscire fuori e Lylia si sbrigò a ricacciarlo dentro. Quando si guardò intorno ad assicurarsi che nessuno l’avesse vista, Guzman quasi rischiò di essere scoperto. Nel vederla allontanarsi a cercare un posto dove mettersi a leggere tirò un sospiro di sollievo, allora arraffò un libro a caso e si sedette anche lui a qualche tavolo di distanza, in modo che potesse controllarla e avere una buona visione della stanza nel suo insieme.
   Aprì il libro. Prese a sfogliarlo con noncuranza, soltanto per dare l’impressione di essere impegnato nella lettura. Sulla pagina che gli si mostrò trovò un’illustrazione di un uomo dagli abiti antichi. Si soffermò a guardarla, e quel parrucchino era semplicemente ridicolo. E quello era forse rossetto? Un cicisbeo, lesse nella didascalia.
  Questo? Il modello che Vicio gli aveva affibbiato era questo? Il cavalier servitore, o come si chiamava – un effemminato, un travestito!
  Eppure, lasciando cadere gli occhi sulle righe a leggere qualche parola si ritrovò inaspettatamente coinvolto. La storia di un marito disperso per mare e della moglie che nell’attesa del suo ritorno si legava a un altro uomo aveva degli inequivocabili punti di contatto con ciò che Guzman stava vivendo in quel momento. Si vedeva lui, senza corpo e senza volto, navigare attraverso gli Ultravarchi, e l’universo era un oceano, le stelle isolotti lontani. Finì a tal punto a rispecchiarcisi che si spinse oltre come che tra le pagine vi fosse scritto per similitudine il suo stesso destino, e si scordò momentaneamente del motivo per cui era lì.
  Abbassò un poco il libro a scrutare di nuovo la ragazzina, ma dovette fare appello a tutta la sua buona volontà per non imprecare nel momento in cui si accorse che il suo posto era vuoto e che il tomo era stato messo in ordine sul carrello. Allora si alzò di scatto, abbandonò la lettura a metà spiegazzando le pagine nello slancio di allontanarsi il più in fretta possibile, e rendendosi conto che ormai Lylia non era più nei paraggi corse di filato a scendere le scale, spintonando i bibliotecari mentre si gettava ad aprire le porte per poter uscire. Guardò attorno esaminando ogni angolo della strada – non poteva essere tanto distante, come aveva potuto lasciarsela sfuggire in un modo così stupido? – ma inutilmente, e intanto il terrore del fallimento cresceva, l’abbraccio di Samina si allentava, col fiato mozzato si spinse verso il Giardino di Malie a cercare rinforzo nei suoi, riapparsi di colpo nei pensieri.
  L’erba alta si attorcigliava alle gambe, Guzman si dimenava tra gli arbusti per farsi strada mentre sollevando lo sguardo aguzzava gli occhi a ricercare gli scagnozzi, nascosti chissà dove ad allenarsi. Non poteva nemmeno contare di udire il loro solito schiamazzo, perché la calma del giardino attutiva qualunque rumore, e persino il suono dei suoi stessi passi gli giungeva ovattato quando calpestava la terra bruna, soda, umida. Più avanzava, più si ritrovava smarrito, più allo stesso tempo si sentiva di star sprecando del tempo prezioso e che non sarebbe più riuscito a recuperare la ragazzina. Fu tentato di chiamare a sé Golisopod e Masquerain per farsi aiutare nella ricerca. Stava per mettere mano alle Poké Ball quando all’improvviso un’ombra, una sagoma bianca apparve tra la vegetazione. Eccola, era forse lei, col suo vestitino? Guzman tese l’orecchio, in allerta e camuffato in mezzo alle grandi foglie verdi, riparato dalle pesanti ragnatele dei Pokémon Coleottero. Era pronto a gettarsi da solo ad acciuffare la preda, i muscoli delle braccia già si contraevano in un’anticipazione dura a trattenersi. I passi si avvicinavano, con un fruscio rapido e secco lungo l’erba, il bagliore luminoso di quegli abiti chiari si faceva sempre più intenso all’orizzonte. Ecco però che, concentrandosi sull’incedere di quella camminata, Guzman cominciò a un tratto a irrigidirsi – una camminata familiare, la conosceva; nell’attutimento della vegetazione rimbombava nelle orecchie caricandosi di tutto l’astio che aveva soffocato negli anni.
  Sotto un acero giapponese apparve così, preannunciata dalla sua ombra strisciante lungo la superfice del tronco, la figura slanciata di Kukui, col petto solido e nudo oltre il camice aperto. Guzman agitò prepotente un polso liberandosi dalla morsa robusta in cui uno Spinarak lo aveva intrappolato tessendovi sottilmente la sua tela attorno, con gli occhi si spinse a indagare la fisionomia pompata di lui, odiosa, indecente. Il disagio che quella vista gli suscitò, traboccante di disprezzo, gli diede alla testa, i ricordi presero rapidamente posto offuscando l’immagine della bambina, il suo proposito ultimo – non bastò neppure il tentativo di aggrapparsi al pensiero di Samina, alla sua ricompensa. Invece ebbe la meglio il rancore per il passato, e quindi con uno scatto rabbioso venne allo scoperto, si arrestò in mezzo al sentiero bloccandogli ogni via di fuga, che voleva lo scontro, l’inevitabile resa dei conti.
  «Kukui!».
  Non appena Kukui si voltò, Guzman venne colpito dalla possenza del suo corpo bruno, baciato dal sole – sebbene anche Guzman fosse di carnagione abbastanza scura, accanto a lui era sempre sembrato così pallido, insipido. Si sentiva risucchiato da quell’ammasso di muscoli scolpiti nella carne. Dinnanzi alla sua virilità si scopriva un’altra volta impotente, perché Kukui era sempre stato più di lui in tutto, e non ci sarebbe stato verso che l’avrebbe mai lontanamente neppure raggiunto. Questo pensava, mentre lo guardava, e Kukui a sua volta si lasciava scoprire dai suoi occhi, sebbene non ci fosse nulla da svelare. Guzman aveva sempre detestato quell’autocompiacimento, la palese consapevolezza del proprio valore che mostrava impressa nel fisico. Guzman odiava quel corpo, perché gli ricordava tutto ciò che lui non era; l'intera sua vita si era declinata in piena antitesi di ciò in cui Kukui si definiva.
  Soltanto una cosa avevano condiviso, ed era stata l’essere stati rifiutati entrambi come Capitani. Per il resto avevano costituito due mondi a parte, disgiunti in tutto e per tutto. Ma adesso, che disdetta!, non potevano più riconoscersi nemmeno in quello, perché Kukui era andato avanti e con la mente già pensava alla Lega – perché, perché persino a parole, e nelle idee, doveva superarlo? Non poteva accontentarsi di quel che aveva già ottenuto? Per quale motivo ostinarsi ancora a sminuirlo, perché fargli questa violenza? Rimani dove sei Kukui, non posso controllarti, non posso controllare la superiorità che tu hai su di me. Ribatté – misera protezione, maschera d’invidia, di disagio incolmabile – che una Lega Pokémon sarebbe stata del tutto vana, perché già era palese chi fosse l’Allenatore più forte di Alola, e già con la mano si sosteneva a Golisopod, prefigurandosi lo scontro, la vendetta dell’umiliazione.
  Intorno si era fatta la folla. Guzman si nutriva di quegli occhi che lo fissavano catalizzando la loro attenzione, e rincarava la dose a istigare Kukui – almeno in questo assecondami, obbediscimi!, gridava dentro di sé. Ma al suo posto si fece avanti un ragazzino, scialbo quanto il Decidueye che aveva con sé.
  «Non hai le palle, Kukui! Non hai le palle!».
 
 
  Guzman si ritirò alla Residenza Æther, unico luogo dove potesse rintanarsi, nascosto dal mondo, e rendersi irraggiungibile. Preso dalla rabbia per quell’incontro che aveva avuto e che non riusciva a togliersi dalla mente, si sfogava insieme a Golisopod nel piazzale bianco, intanto che Samina si dedicava alle sue faccende in casa. Si era talmente angosciato per quell’evento inaspettato che alla fine aveva perso la ragione e durante lo scontro con Sun si era lasciato sconfiggere con una facilità inaudita, sotto lo sguardo strafottente di Kukui – il suo sorriso bianco e odioso, da uomo preciso e superiore, buono, pungeva come un ago negli occhi ancora adesso soltanto a ripensarci, era il dardo infuocato che Decidueye aveva scagliato nell’armatura di Golisopod. L’umiliazione ritortaglisi addosso bruciava con una violenza che gli faceva scuotere le braccia mentre ordinava al suo Pokémon di rafforzare un attacco, e si accaniva, con la voce e con le membra, a performare quest’odio, l’amarezza invalicabile dell’ennesima prova di essere di fronte a lui inadeguato, misero, perdente. Il cielo aveva preso lentamente a oscurarsi e aveva cominciato a piovere. Non se n’era accorto neppure, tanto era preso a gridare e ricambiare le urla velenose di Golisopod, la furia inviperita con cui sferzava i colpi brandendo i pungiglioni affilati nella tempesta.
  Samina era uscita correndo a richiamarlo dentro, e soltanto al suono della sua voce Guzman si ridestò. Voltandosi, la guardò avvicinarsi con quell’espressione apprensiva del viso: teneva un panno nelle dita, e subito non appena gli fu di fronte cominciò a passarlo sulle sue guance bagnate, tra i ciuffi di capelli davanti agli occhi. Sentì un lieve calore diffondersi lì dove lei esitava, con delicatezza materna, ad asciugare le gocce di pioggia che scivolavano di continuo sulla pelle oltre le falde del cappuccio. Avrebbe potuto dare la colpa del proprio rossore al freddo o alla fatica, ma non ci sarebbe stato motivo di sprecare la voce per chiarire qualcosa di talmente palese. Erano di nuovo racchiusi l’un l’altra in un abbraccio di quelli silenziosi, che li legava assieme seppure distanti, senza che si cingessero. Samina sorrideva, e anche Guzman, con le labbra storte e screpolate; la seguì oltre il portone dopo aver richiamato Golisopod nella Sfera.
  Seduto al tavolo della cucina con le gambe scomposte, le andava dietro con gli occhi mentre prendeva il bollitore dalla credenza e lo riempiva d’acqua. Una volta acceso il fuoco, Samina si sedette al suo fianco e di nuovo lo accarezzò tra le ciocche umide.
  «Faresti meglio a cambiarti», gli disse.
  «Non ho altro da mettere», fece lui di rimando scrollando le spalle. «È proprio vero che a Poh non ci sei mai stata...» aggiunse poi, affilando le labbra in un sorrisetto beffardo.
  «No, in effetti no», confessò, allontanando la mano.
  Guzman pensò che ce l’avrebbe portata volentieri. Insieme a lui non avrebbe dovuto temere nulla, sarebbe stato la sua guida e le avrebbe mostrato le stanze della Villa Losca. Poh non brillava certo quanto ad attrazione turistica, ma col passare degli anni aveva scoperto certi scorci suggestivi, piacevoli nascondigli in cui appostarsi il tempo di qualche ora, e poi la vista dal tetto valeva sempre la pena di quella scalata pericolante, la corsa tra le finestre e i balconi – e qui riapparve davanti ai suoi occhi la sagoma di Iridio stagliata contro il cielo azzurro e i capelli al vento. Samina avrebbe dovuto fare a meno dei tacchi, ma in ogni caso ci sarebbe stato lui dietro a sorreggerla, a evitarle di cadere. Covò per un po’ quella fantasia, arricchendola sempre di nuovi dettagli: le avrebbe preso un ombrellino per ripararla dalla pioggia, magari per coprirla le avrebbe anche dato la sua felpa, si sarebbe chinato a richiudergliela sul petto e poi...
  Il fischio acuto del bollitore lo riportò bruscamente alla realtà. Samina stava ancora al suo fianco, seduta in silenzio, come non si fosse accorta del rumore. Con voce bassa, all’improvviso, meditabonda, disse: «Forse... Forse ho qualcosa che potrebbe starti».
  Il percorso che li separava dalla stanza da letto divenne per qualche motivo fonte di turbamento. I tacchi di Samina incedevano con passo svelto lungo il corridoio, e Guzman percepì nei suoi passi un’agitazione febbrile, quasi incontenibile. Provò a dissuaderla, che non ce n’era bisogno, ma ella procedeva spedita, oltrepassando una porta dopo l’altra, come ubbidendo a un istinto che la richiamasse cui non potesse fare a meno di rispondere. Intanto un disagio meschino cominciava a palpitare dentro di lui, facendogli aggrottare le spalle.
  Il cigolio dell’armadio che subito dopo andarono ad aprire stridette sgradevole nelle orecchie di Guzman, e nel buio in cui erano rimasti poiché nella fretta Samina non si era curata di accendere la luce vibrò tutt’attorno di un tono inquietante. Dalla finestra riverberava appena il grigiore plumbeo di quel pomeriggio tempestoso, contro i vetri picchiavano le gocce di pioggia e in lontananza gorgogliava lo scroscio dell’acqua riversa sui pavimenti marmorei dei giardini grandiosi e ormai solitari – una residenza enorme, e dentro c’erano soltanto loro. Ella rovistava tra gli abiti con una premura inconsueta, esaminando stoffe e bottoni: Guzman attendeva paziente, ma nell’animo già sapeva, intuiva il perché di quei vestiti, come mai fossero ancora lì, intrecciati alle sue dita, e la riprova era in quelle stesse mani, nel desiderio sofferto che le agitava scorrendo da una manica all’altra. L’evidenza bruciò nel petto con una violenza disarmante, nel momento in cui Samina estrasse la gruccia su cui stava appesa una camicia bianca, immacolata, maschile. Nell’afferrarla, egli tentennò, e avrebbe avuto tutte le ragioni di sottrarsi; invece subì senza neppure tentare la ribellione.
  Samina lo lasciò solo, libero di cambiarsi, e richiuse la porta. A Guzman non rimase altro da fare che assecondarla.
  Si spogliò un pezzo alla volta, indugiando nel sentire la pelle ancora bagnata scoprirsi e rabbrividire per il freddo. Guardava nello specchio il proprio corpo nudo, e dietro di lui c’era il letto di Samina, che pareva fissarlo come a lanciargli una sfida. Sulla sedia della toeletta lo aspettava la camicia di lui, dell’altro, ripiegata in ordine sul cuscino.
  I vestiti gli stavano larghi. Dedusse quindi ch’egli dovesse essere stato di corporatura robusta, forse anche più alto – subito la mente tornò a Kukui e al suo torace scoperto, insormontabile – e sebbene una tale differenza da un lato lo consolasse, dall’altro se ne sentiva irrimediabilmente soggiogato, perché con troppa fatica le sue braccia tentavano di sbucare dalle maniche, e i polsi erano fin troppo sottili per coprire la sagoma tracciata dal tessuto: sovrapporsi a quelle forme risultava impossibile, e la sua schiena appariva insolitamente fragile avvolta in quelle pieghe larghe, infinite. Allo stesso tempo pensava di non essersi mai visto così elegante: un senso di straniamento lo avvinse alla testa, vertiginoso e martellante.
  Giunto in salotto, Samina gli allisciò gli abiti allungandosi con le dita a tracciare i contorni delle sue spalle. Scivolava lungo il petto a disfare e richiudere meglio i bottoni, il colletto, saggiava la forma delle sue braccia. Si era acquietata. La tavola era già stata apparecchiata, il tè servito nelle tazze.
  «Va meglio, vero? Vieni a scaldarti», disse, indicandogli il divano.
  Guzman sedette, che non riusciva a tenersi in piedi. Si aspettava di potersi riposare un istante accanto a lei, di porre in sua presenza un rimedio a quell’ansia insopportabile. Samina invece andò ad acquattarsi dietro di lui, con una spazzola cominciò a pettinargli i capelli.
  «Perché...».
  «Lascia fare, ti prego».
  Le sue dita passavano leggere a districare i riccioli bianchi, e Guzman le sentiva sfiorare di tanto in tanto la punta delle orecchie. Ogni volta che si posavano sulle tempie percepiva un’esitazione sottile farle tremare incerte a contatto con la sua pelle: una scintilla eccitata lo invadeva a ogni minimo contatto.
  Le tazze rimasero intoccate. Un banale pretesto per entrambi.
  Il disagio lentamente scomparve, come che dalle mani di Samina stillasse un balsamo dolce e rilassante. Guzman si dava tutto a lei e alle sue cure, senza imbarazzo. Il corpo traeva giovamento dal calore che si diffondeva dai vestiti asciutti, e la loro larghezza si avvolse gradualmente a coprirlo, come un grande lenzuolo che Samina veniva a rimboccare di tanto in tanto.
  «Hai questi bei capelli corvini», disse lei, e suonava sincera, ma c’era una nota di rammarico nella sua voce «Se continui a schiarirteli in questo modo si rovineranno. È un peccato».
  A quel rimprovero, i pensieri di Guzman si riavvolsero inavvertitamente a rendergli il frammento di un periodo lontano, risalente agli anni dell’adolescenza, e rivide sé stesso di fronte allo specchio con lo sguardo perso mentre stringeva in una mano la bottiglia di ossigeno, indeciso su cosa fare, e nell’altra le forbici. Un senso di pesantezza lo oppresse in tutto il corpo, ma bastò una carezza di Samina a distoglierlo dai ricordi, e allora reclinò stancamente la testa contro il suo petto, consolandosi nel suo calore – quegli anni terribili apparivano di colpo così lontani, adesso, protetto nell’abbraccio di lei. Si lasciò cadere in silenzio ancor più profondamente tra le sue braccia che scendevano a sfiorargli il torace, fino a scomparire nel candore sonnolento di quella sensazione.
  «Sei tanto buona con me, Samina», sussurrò, che era così vicina.
  Su una mensola stava la fotografia di Lylia. Seguiva poi quella di Iridio, e accanto ad entrambe un’ultima cornice, abbassata a celarne lo sguardo.
  «Ma tu cos’è che hai visto in me?» le chiese.
  «Ho visto...» rispose, e gli disse all’orecchio che uomo forte lo considerasse, la potenza scellerata disposta a tutto pur di farsi valere, «La predisposizione al sacrificio, l’impegno...».
  Dal beccuccio della brocca del latte pendeva una goccia bianca.
  Samina propose di andare a riposare. Il maltempo imperversava ancora di fuori e non c’era molto altro che potessero fare. Guzman era rimasto ad ascoltarla estasiato, come un bambino che si acquieti a sentire il parlottio conciliante della madre prima di addormentarsi, le parole più dolci, i ti voglio bene, le fiabe fantastiche.
  «Riposiamo», ripeté lei accennando ad andare in stanza.
  «Posso rimanere qui», provò a resistere lui.
  Ma lei lo guardava con quegl’occhi verdi inebrianti, irresistibili, che un semplice no sarebbe stato pari a un affronto.
  «Vieni». Un ordine camuffato da preghiera, ma Guzman ormai era troppo affascinato per rendersene conto.
  Si alzò, abbandonò le Poké Ball sul tavolo lasciandole oscillare sopra la tovaglia ricamata, e la seguì. Non riusciva a decifrare che cosa provasse, mentre le andava dietro, completamente avvinto a quell’influenza che esercitava su di lui. Non poteva ignorare l’eccitazione che ancora una volta si dimostrava in grado di suscitargli, né il caldo soffocante che si diffondeva lungo ogni centimetro di pelle e che gli faceva sudare i palmi delle mani.
  Mentre chiedeva a Clefairy d’intonare il suo canto, Samina allungò le braccia ad accogliere Guzman contro il proprio seno. Egli si abbandonò a lei, a quelle dita languide che lo attiravano, e si stesero insieme sul letto. Sospirò, colto da un lieve torpore, cullato dalle carezze di lei, che si spingeva a tastargli le spalle e la schiena come a volerselo tenere, così gli sembrava, ancora più vicino nel sonno. E tutta serena Samina si addormentò.
  Dormire, semplicemente dormire. Se lo impose mentre sentiva allacciato a sé il suo corpo, esitando con la mano poggiata sopra il suo ventre caldo, e poi il suo petto morbido, coi piccoli seni su cui riposava la fronte stanca. Si abbandonò a qualche fantasia, e forse era l’influenza di quei discorsi che aveva fatto ai ragazzi la mattina stessa, la carnalità, l’origine della vita, i misteri inspiegabili dell’esistenza. Tutto si mischiava confusamente intanto che scivolava anche lui lentamente nel sonno, al suono della voce melodiosa di Clefairy. Ma il respiro di Samina lo teneva perennemente in allerta, non riusciva a staccarsene, e lo sentiva sfiorargli i capelli, lì dove esitava la sua mano molle – avvolto completamente in lei, nelle sue spire accoglienti. Guzman permaneva accanto al calore di quel corpo, così vicino, attaccato al suo, e lo percepiva pulsare nelle proprie braccia, nelle proprie mani. Lo colse, mentre scorreva le dita ancora sul suo ventre, il pensiero della nascita, del venire al mondo, e si chiese se questo sentimento assonnato, calmo, che lui provava, fosse rinascita e morte, e non riusciva a scindere le due cose. Perché Samina era per lui promessa di futuro e allo stesso tempo destino tormentoso, un’eterna afflizione. Il conforto di essere riconosciuto da lei suo pari rimaneva per lui una rassicurazione insperata. Udiva ancora la sua voce che soffiava dentro l’orecchio, le adulazioni, e il sentire nuovamente nella memoria la sua bocca sfiorarlo lo eccitò. Ma il sentimento che provava per lei non poteva abbassarsi a mero impulso, poiché lo sentiva migliore, pulito, candido. Una casta adorazione sensuale, per quanto assurdo fosse – non si era mai sentito così prima d’ora, ed era paradossale che proprio lui, uomo rabbioso, appassionato, non si potesse prestare all’atto fisico e che lo considerasse perverso. Samina era icona che non si potesse macchiare, e doveva rimanere intatta nella sua castità effimera. E darsi tutto a lei, votare il suo cuore a questo suo amore che incuteva soggezione era suo piacere e rifugio, distacco dal mondo opprimente. Samina gli aveva ridato in questo modo la vita, il senso dell’esistenza. A lui sarebbe bastato soltanto un bacio, tutto quel che desiderava era un bacio, a sugellare il sacrificio, l’unione a lei.
  Sollevò un poco il busto per poterla guardare. Le scostò una ciocca di capelli dal viso, poi, trattenendo il respiro, si chinò quatto quatto sulla sua bocca. Le loro labbra stavano appena per toccarsi, quando una sensazione viscida e angosciante lo bloccò all’improvviso.
  Nello specchio, Guzman vedeva sé stesso ripiegato con desiderio sopra il corpo di lei, poco più in basso le loro gambe intrecciate in una spirale voluttuosa. E lui come un travestito indossava gli abiti di Paver. Nello specchio c’erano le figure di un uomo e di una donna soli, ma il posto che lui ricopriva non poteva essere il suo.
  Preso dal terrore si scostò da lei. Clefairy sonnecchiava nella sua cuccia, senza accorgersi di nulla. Come un indemoniato Guzman cominciò a togliersi i vestiti, con le dita che tremavano nel timore di essere scoperto, ma ancor di più della violenza che sentiva di aver subito in qualche modo, e tornava ad agitarsi in quegli abiti larghi, infiniti, di cui non riusciva a trovare l’orlo per venirne fuori. Nella foga di rispogliarsi da capo un’altra volta, l’immagine che adesso gli restituiva lo specchio lo attanagliava con una crudeltà inaudita – Samina dormiva, inconsapevole, col viso beato avvolto nelle coperte, mentre lui seminudo fuggiva: scenario che si sarebbe ben potuto accostare ad altri eventi, ad altri momenti.
  Si disse, nelle settimane seguenti, di aver inteso tutto male e che il disagio che aveva provato doveva essere colpa sua, una suggestione, perché per un istante aveva ceduto a qualcosa di illecito. Al suo ritorno Samina lo riaccolse con il sorriso, e non si adirò quando Guzman le confessò di averle omesso di aver visto Lylia e Cosmog e di esserseli lasciati sfuggire. Gli aveva risposto con la sua solita amabilità, un’amabilità però ora a tratti coercitiva, poiché nei suoi gesti non traspariva più la dolcezza con cui nei giorni precedenti lo aveva cullato. Era tornata la donna fredda della prima notte in cui si erano incontrati, con quell’aria sadica, che tuttavia in qualche modo, forse nel timore ch’egli provava di poter perdere il suo affetto per sempre, lo legava ancor più strettamente a lei, attraendolo in un legame morboso, ossessivo.
  «Avevi detto che non mi avresti abbandonata, e invece anche tu ti sei sottratto al mio amore!» gli diceva, e lui si chinava ai suoi piedi implorando il suo perdono e le baciava le gambe, compiacendosi di quella sottomissione cui lei lo obbligava. Il fatto che sapesse perfettamente come irretirlo al proprio comando gli suscitava un piacere malsano, e il senso di potenza di questa donna lo affascinava sempre di più, si crogiolava in quel sentimento capriccioso passando dalla gioia più intima quando Samina lo lodava, al tormento più opprimente quando invece lo umiliava. Teneva il suo cuore nelle dita e Guzman le permetteva di farne quel che voleva.
  Quando Plumeria era venuta a sapere di questo nuovo atteggiamento si era improvvisamente allarmata e aveva cercato di fargli aprire gli occhi, puntualizzando tutti i dubbi che fino a quel momento aveva avuto e che ora trovavano una conferma. Ma Guzman ormai l’ascoltava con distacco, e si limitava a negare, ad accavallare una scusa dietro l’altra e le giustificazioni.
  «Sei sempre stato un sottone, Guzman, ma così è troppo!» gli ripeteva.
  Quel suo contraddirlo tuttavia generò l’effetto contrario di renderlo ancora più attaccato a lei, al suo affetto centellinato un poco alla volta. Gli pareva come che lui e Samina costituissero un universo a parte, con le proprie regole, separati dal resto, e che le loro vite acquisissero un senso nell’unico momento in cui varcava le soglie del portone della residenza e si rivedevano, l’uno e l’altra nascosti nella coltre buia delle stanze, soli. Ormai neppure Ciceria e Vicio erano ammessi, e Guzman credeva di essere finalmente riuscito a possedere in qualche modo la sua attenzione, e si confortava di quella vincita apparente, del peso di cui si sentiva investito nell’esistenza di Samina.
  Una notte, ella gli si accostò e gli disse che aveva qualcosa che doveva mostrargli. Lo condusse nella propria camera attirandolo per un braccio, e Guzman riusciva a percepire le punte delle dita sfiorare il suo petto. In quelle condizioni trattenersi diventava sempre più difficile, e quando alzava gli occhi a incontrare quelli di lei, complici di peccato, il fiato veniva ogni volta a mancare. Li fissava indagando la scintilla impaziente che li illuminava. Capì che qualcosa stava per succedere e che non era preparato ad accusarne il colpo. Samina lo lasciò sulla soglia della porta, addentrandosi nel buio, e Guzman la seguì.
  La guardò poggiarsi a una parete, in attesa che si avvicinasse, di più, ancora di più.
  «Voglio mostrarti il mio segreto», gli disse. All’improvviso, una porta si dischiuse dietro di lei: un passaggio nascosto, della cui esistenza Guzman non si era mai accorto. Si accostò a scrutare la luce che proveniva dall’interno, colto da un lieve timore, la paura dell’ignoto.
  «Vieni», lo chiamò Samina, e di nuovo lo attirò verso di sé, con quel tono carezzevole e inebriante a cui era impossibile opporsi.
  La luce all’interno del passaggio era talmente forte in contrasto all’oscurità della camera che Guzman sentì gli occhi far male, serrò le palpebre lasciandosi trasportare. Qualcosa gli diceva che di tutto questo non fossero al corrente né Ciceria né tantomeno Vicio, e ritrovarsi solo con lei, in un luogo sconosciuto, inesistente agli altri, per un attimo – era la prima volta che un sentimento del genere appariva nel suo cuore, le aveva sempre perdonato tutto, tutto – provò un’ansia sottile nei suoi confronti. Sentiva la sua presenza di fronte a sé, ma questo adesso non appariva di alcun conforto, e la tentazione di fuggire cresceva; se soltanto Samina non si fosse reclinata ogni volta ad accarezzarlo, a chiamare il suo nome con quel filo di voce, forse stavolta l’avrebbe fatto davvero.
  Inesorabilmente scendevano, e man mano che avanzavano un vento gelido s’insinuava sotto la felpa. Ingenuamente egli immaginò si stesse compiendo una discesa segreta verso gli inferi.
  Alla fine di quel percorso non vi era altro che una singola, misera stanza vuota. O almeno così gli pareva, disabituato adesso al buio. Il passaggio continuo dalla luce alla penombra lo disorientava, e la fronte pulsava nello sforzo di riuscire a raccapezzare ogni cosa, di mettere insieme i pezzi. Dovevano trovarsi su di una piattaforma galleggiante, poiché Guzman avvertì una leggera nausea e udiva l’acqua scrosciare, alla base, di un moto ondoso e ipnotico. Quando la sua vista cominciò a riabituarsi, si accorse che Samina si era già allontanata e l’aveva lasciato indietro. Fu costretto a raggiungerla, un’altra volta, ma senza potersi sostenere a lei. Si guardava attorno, scaldandosi un braccio con la mano, cercando di trovare un senso a questa rivelazione.
  «Allora è qui che tu venivi quando ti isolavi», disse, ragionando su quelle sue sparizioni che sin dall’inizio gli avevano impedito di avvicinarla completamente.
  «Questo è il mio segreto. Non l’ho condiviso con nessun altro», rispose lei.
  Samina stava ferma in mezzo alla piattaforma, e lo guardava con occhi sibillini. Mentre le andava incontro, Guzman scorse alcune teche che lo costeggiavano da entrambi i lati. All’iniziò non capì, ma nel momento in cui il loro contenuto gli si fece più preciso, improvvisamente fu colto da un terrore viscerale, e quel freddo che percepiva sul suo intero corpo lo agghiacciò ancor più terribilmente.
  Di fronte al suo sguardo si dispiegava la visione raccapricciante dei Pokémon ibernati, esposti come cimeli da conservare intatti in uno stadio embrionale, impossibilitati a evolvere. Guzman riusciva a distinguere i frattali di ghiaccio oltre il vetro che lo separava e in mezzo a quel pallore candido i visi muti e quiescenti delle creature. L’istintuale necessità di porsi la domanda di chi fossero quei Pokémon svanì quasi immediatamente, perché troppo palese era l’evidenza che non appartenessero a Samina. Resti di altri, frammenti di un qualcosa d’irrecuperabile preservati intatti nella loro permanenza eterna, incorruttibile.
  Questo era perciò l’estremo limite cui Samina era in grado di spingersi in quel suo ostinarsi ad accumulare gli affetti per non separarsene più. Guzman l’aveva guardata a lungo, nel suo rituale, ossessivo riordinare gli oggetti in casa, incapace di accettare una disposizione diversa, sempre uguale a sé stessa – in tutti quei mesi non era stato smosso nulla, e nemmeno la sua presenza aveva lasciato una traccia tra le reliquie degli altri, unica cosa viva tra le salme di quelli che non c’erano più. L’aveva osservata con una punta di commozione e pietà per il suo animo solo e sconsolato, ma adesso, ora, il gesto paranoico della sua mano che richiudeva uno scrigno a intrappolare dentro il ricordo si trasformava in turbamento, che Guzman non sapeva acquietare. Fissava Samina nauseato, ma allo stesso tempo, specchiandosi nei suoi occhi impenetrabili, si sentiva avvinto nella sua aura accerchiatrice e potente, consapevole ormai del fatto di essersi addentrato talmente oltre da non potersi più sottrarre a lei.
  Samina gli mostrò una gabbia, e le cinghie metalliche che la richiudevano Guzman se le sentì addosso.
  «Se tu mi porterai Cosmog», gli disse, «insieme apriremo l’Ultravarco e libereremo le Ultracreature».
  «Liberarle?».
  «Sì. Colmeranno Alola dell’assenza che sento nel mio cuore, e quando mi unirò a loro nell’Ultravarco, l’amore di Paver che mi è stato strappato verrà ricambiato».
  Paver. Dietro ogni suo gesto rimaneva lo spettro di Paver. Guzman si sentì tradito, un illuso. Per quanto Samina avvicinandosi a lui potesse sfiorarlo, percepiva una distanza inconciliabile tra loro, e l’evidenza che mai, nemmeno fisicamente, avrebbe potuto prendere il suo posto lo mortificò. Le dita avrebbero voluto richiudersi a trattenere il dolore e la rabbia, ma esitavano inermi e molli a mezz’aria, mentre le teche luminose gli mostravano i resti atrofizzati degli amori di Samina. Un freddo glaciale lo irretì, e Guzman non riusciva a focalizzare i pensieri: un vuoto gelido permaneva nella sua mente con una pesantezza ovattata. Soltanto quando le dita di Samina presero a scorrere sul suo viso, un poco di quel ghiaccio si sciolse. 
  «Se mi darai Cosmog, ti porterò con me. Che ne dici, Guzman? Sei l’unico ad esserne davvero degno». Lo accarezzava con le mani sulle labbra e sugli occhi, e nelle orecchie sussurrò: «Saremo io, te e le mie Ultracreature».
  Non c’era nemmeno bisogno che gli facesse assaggiare il frutto per convincerlo a rimanere con lei, perché Guzman ormai era completamente suo e quella misera consolazione, di essere degno dei suoi piani, era tutto quel che gli sarebbe potuto bastare. Le disse di sì. Ma la gola bruciava, e quando si ritrovò un attimo dopo a correre per le strade di Poh, risalito dagli inferi, si accorse che oltre alla pioggia sulle sue guance scendevano lacrime roventi, colme di rimpianto. All’ombra di Paver, di Kukui e di tutti gli altri, rimaneva un essere insignificante, e si odiava, adesso, per quelle fantasie in cui si era rifugiato – il sorriso di Samina che aveva creduto essere rivolto a sé. Eppure, persino nell’apice della disperazione, soltanto poterle stare accanto, vivere ancora nell’illusione di un qualche suo affetto era tutto quel che desiderava. Ci avrebbe pensato l’indomani, perché la ferita ora faceva troppo male.
  Bussò alla porta di Plumeria. Senza aspettare una sua risposta, Guzman aprì irruente, e se la ritrovò che, seduta sul letto, tra i peluche di Lapras e Skitty, lo guardava con gli occhi assonnati, in attesa di qualcosa. I capelli sciolti le ricadevano oltre le spalle lungo la canotta del pigiama. La luce della luna che traboccava dalla finestra dietro di lei pareva cingerla in un alone delicato, ed egli restò in silenzio di fronte a quella visione tranquilla, avvertendo la calma scivolare lungo le braccia contratte e i pugni chiusi. Si avvicinò, stanco a sua volta, provato dalla corsa e dalla pioggia che pesava sulla schiena, dalle lacrime cadute dagli occhi.
  Plumeria passò una mano a scostargli il cappuccio, e poi sui capelli bagnati, e Guzman sapeva che aveva già capito tutto. Con un fazzoletto gli asciugò le guance, si protese in avanti a sfiorargli la bocca con un bacio, ed era il bacio che lui aveva represso con affanno, quello che Samina non gli avrebbe mai concesso. Vi si aggrappò con i denti e con le unghie, tremando di rancore ed eccitazione insieme. S’inginocchiò a Plumeria e la strinse a sé per il resto della notte.


 
 

 


Rieccoci, finalmente! Come state?
Ho cercato di concludere questa storia durante lo scorso NaNoWriMo: tra la tesi, la laurea e la sessione invernale (come sempre) mi sono un po’ ridotta all’ultimo con la limatura, ma febbraio avevo promesso nelle note dell'ultima raccolta e febbraio doveva essere! È un capitolo molto problematico, ma spero non vi sia dispiaciuto troppo.
Per quanto riguarda il libro che Guzman legge in biblioteca, mi sono riferita al
Beppo di Lord Byron, in cui si racconta appunto della relazione tra Laura, moglie del mercante veneziano Beppo disperso in mare, e il suo cicisbeo. In realtà questo nucleo è soltanto un pretesto per fare una satira della società inglese e in effetti la vicenda viene interrotta di continuo per parlare di altro. Mi sarebbe piaciuto fare un accostamento tra questo aspetto e il fatto che Guzman in questo capitolo cambia continuamente idea, pensa una cosa e ne fa un’altra oppure rinuncia, ma non me la sono sentita di citare il poema in modo diretto, quindi lascio soltanto questo spunto in nota.
La scena della pioggia riprende il ricordo che Lylia racconta sull’Isola Exeggutor, del periodo in cui Samina non era ancora stata contagiata dalle neurotossine ed evidentemente non aveva ancora sofferto il trauma del distacco da Paver. Riporto la citazione da Pokémon Central Wiki: «C'è una cosa che mi torna in mente ogni volta che guardo la pioggia... Un episodio di quando ero bambina... Ero corsa fuori a cantare e ballare sotto la pioggia, come avevo visto in un film... E mia madre, vedendomi, venne fuori sorpresa, senza nemmeno prendere l'ombrello... Poi si mise a ridere... e cominciò a cantare insieme a me sotto la pioggia...! Quella volta ci prendemmo un bel raffreddore! Dormivamo insieme e io ero così contenta che la svegliavo in continuazione... Se penso invece che ora il suo unico interesse sono le Ultracreature... Poveri Zero e Nebulino... Vorrei tanto aiutarli, ma non c'è niente che io possa fare per loro...».
Ci tenevo a chiudere con un chiarimento sull'uso di "travestito". Ho pensato potesse essere un termine presente nel vocabolario (pur revisionato nel Capitolo 2) di Guzman, anche per la concezione binaria, idelizzata e stereotipata che ha in questa storia del maschile e del femminile, e secondariamente per il conflitto irrisolto con gli altri modelli di virilità che gli si impongono davanti. Al di là di questo, ricordiamoci che le parole hanno un peso, e dovremmo sempre usarle e metterle in discussione con consapevolezza.

Prometto che non mi faccio aspettare un altro anno!
Un abbraccio e a presto ♥
℘ersej
 
  
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