Anime & Manga > Saint Seiya
Segui la storia  |       
Autore: MaikoxMilo    01/03/2021    2 recensioni
Atene, fine XX secolo.
Sono passati oltre duecento anni dalla fine della Guerra Sacra che sconquassò i destini di Shion dell'Ariete e di Dohko della Bilancia, unici sopravvissuti al conflitto. Il mondo è andato avanti, tutto è cambiato, nulla è come prima, eppure qualcosa forse è rimasto, un'impronta, una parvenza. Nulla sarà più come prima, eppure i nuovi Cavalieri d'Oro sono finalmente riuniti al Santuario di Grecia, le anime liberate dal Lost Canvas dopo la distruzione di Hades hanno finalmente trovato un nuovo corpo in cui reincarnarsi e tornare a vivere. Ancora una volta uniti. Ancora una volta come paladini della giustizia. Eppure... l'ombra è in agguato, un'ombra scura e malvagia, che attaccherà il Santuario dall'interno, forse proprio per mano di uno dei più potenti Cavalieri d'Oro.
Questa storia, pur appartenendo alla mia serie principale "Passato... presente... futuro!" è fruibile a tutti, essa vede come protagonisti i futuri Cavalieri d'Oro, che crescono, imparano a conoscersi, a sviluppare il cosmo, e che dovranno affrontare i timori, le paure e i doveri a metà strada tra il mondo della fanciullezza a cui ancora appartengono, e il sacro compito a cui sono destinati ad assurgere.
Genere: Fluff, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aquarius Camus, Gold Saints, Leo Aiolia, Scorpion Milo
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
- Questa storia fa parte della serie 'Passato... Presente... Futuro!'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo 4: Sotto le mimose di marzo

 

 

 

Un albero di ulivo venne tranciato di netto, in un frastuono assordante. Si udì un sibilo nel vento, il pianto dell’albero morente, ma ancora prima di poter toccare il suolo, venne distrutto in mille pezzi. Venne atomizzato. Come si sarebbero atomizzati i suoi nemici. Qualunque. Nemico.

Uuuuuuuuuuurrrrrf…. Uaaaaaaaaaaaaargh!!!”

Diede un calcio contro il suolo, formando un nuovo solco, più ampio. Non riusciva più a trattenersi, doveva distruggere. Distruggere. Distruggere.

Gli partì un colpo dalla mano. Ampio. Imprevedibile. Andò a fracassarsi contro una parere di roccia, aprendo una fenditura nella medesima.

A quel punto, solo a quel punto, Saga di Gemini crollò a terra, le mani tra i capelli. Si strappò alcuni ciuffi, urlando a squarciagola ancora una volta. Fortunatamente aveva resistito fino a giungere in un luogo isolato, lontano da occhi indiscreti, ma non lontano da quelle iridi iniettate di sangue che lo fissavano spietate, perforandogli la mente e portandolo quasi alla pazzia.

Lui era lì. Era SEMPRE lì, con lui. Non importava quanto si opponesse, non vi era scampo alcuno. DeboleDebole

DEBOLE! - gli frastornò le orecchie, e Saga ebbe l’impressione che i suoi neuroni implodessero solo per via di quella parola – Ti sei fatto mettere i piedi in testa da un marmocchio appena giunto qui di soli 5 anni; un marmocchio che si regge a stento in piedi! Che pavido coniglio che sei!”

T-TACI...”

Gli occhi, ancora verdi, ma parzialmente tinti di rosso di Saga, si aprirono al limite dell’umano possibile, mentre alcuni ciuffi si facevano grigi, persino quelli strappati che stringeva tra le mani tremanti.

Che ne è del tuo status di quasi dio, se un unico moccioso riesce a tenerti testa?! Che ne è della tua virilità?! O del tuo essere Cavaliere?! Dovresti ristabilire il tuo onore, lo sai, vero? E vi è solo un modo...”

NO! NO! Basta! Basta!!!”

Uccidili! Uccidili entrambi!

NO!”

Sei anche un codardo pezzente… UCCIDILI!”

Nooooo!”

Uccidi Camus e poi passa ad Aiolos, avrai così la strada spianata!”

A-Aiolos è un preziosissimo compagno e un amico fedele, non gli… non gli farò mai del male… MAI! E Camus… Camus sarà un mio parigrado… è appena giunto qui, non sapeva delle regole, non sapeva… Urgh!”

Sei troppo accondiscendente, nonché… PEZZENTE! Come pensi di assurgere al ruolo di Grande Sacerdote se permani a rimanere il vigliacco che sei, eh?!”

Il… il Nobile Shion sceglierà me, lo sa anche lui che sono il più idoneo, il più forte, potrò così proteggere i miei preziosi compagni, i miei… UAAAAAAARGH!!!”

Latrò, mentre il suo cosmo, letteralmente, implose. Picchiò la fronte più e più volte contro il terreno, sbattendola con sempre maggior intensità, poi rimase lì, immobile, il sangue sul terreno, le dita che stringevano con sempre maggiori foga la nuda terra. Singhiozzò. E il tempo parve fermarsi.

Death Mask, dalla sua posizione dietro uno sperone di roccia, assisteva a tutto quello in un crescendo di terrore, tachicardia e sgomento. Era totalmente pietrificato, la mano sinistra a tapparsi la bocca nella paura che il suo respiro accelerato lo potesse far individuale da quella bestia umana che era, e non era, Saga di Gemini. Le gambe molli e tremanti non lo reggevano che per un fortuito caso del destino.

Dopo la colluttazione che aveva avuto con quel marmocchio di Milo e il conseguente intervento del francese impertinente, si era messo a seguire Saga, desideroso di sparire dagli occhi, ricolmi di senso di giustizia, di Aiolos, che non riusciva a tollerare. Saga, in un primo momento, glielo aveva permesso, ma poi, girandosi di lato in modo da celarsi il volto, gli aveva espressamente ordinato di tornare al Tempio e, con il respiro più affannoso del solito, si era allontanato il più in fretta possibile da lui. Ovviamente Death Mask non gli aveva dato retta e, ben sapendo come non farsi notare, lo aveva seguito, nascondendosi poi in un anfratto laddove il Cavaliere di Gemini si era arrestato, ovvero una radura dimenticata dalle divinità ben distante dal Santuario.

Da lì il degenero.

Death Mask aveva sussultato nell’udire la domanda contingente di Gemini: “Cosa diavolo fai ancora qui?!?”, credendo di essere stato sgamato fin da subito, ma immediatamente dopo si era accorto che non si era rivolto a lui, ma a chi, quindi, che non c’era nessuno? Si era guardato intorno, attonito, mentre un’altra voce rispondeva, cominciando così l’andirivieni tra sé e l’altro.

Il punto era che questo altro era lo stesso Saga, con voce più profonda e spietata, quasi gutturale, ma sempre lui.

A Death Mask si erano immediatamente rizzati i peli che ancora non aveva, mentre al Cavaliere di Gemini toccava subire un’ingrata, quanto misteriosa, sorte.

Li aveva visti distintamente, quei capelli che a volte si alzavano come vampe infuocate.

Si erano tinti di grigio.

Poi di nuovo di viola.

Di grigio. Sempre più scuro.

Viola.

Saga sembrava impazzito, si muoveva come una tarantola, distruggeva cose intorno a sé, latrava come una bestia ferita.

Si rese conto di aver commesso una immane cazzata a seguirlo, avrebbe voluto andarsene, scappare, ma le gambe non si muovevano e l’istinto di autoconservazione gli sussurrava di non dare le spalle a quel la folle bestia.

Poi successe.

Saga di Gemini si alzò in piedi, nuovamente con i suoi capelli, la stravagante alternanza di colori era terminata. Forse ne era uscito vincitore. Death Mask trasse un profondo respiro, il secondo prima di ricredersi.

Ti ho visto… - sibilò, spietato, mentre, in un lampo di luce, i capelli tornavano grigi – GALAXIAN EXPLOSION!!!”

Death Mask ebbe appena il tempo di scansarsi sulla destra, prima di essere investito non dal colpo medesimo ma dal suo rinculo, nonché da innumerevoli pietre taglienti che, sopraffatte da quell’insano potere, esplodevano in tutte le direzioni immaginabili. Provò dei bruciori netti sulla pelle, rotolò più in là, dolorante, non riuscendo nell’immediato ad alzarsi, acciaccato com’era. Come poteva esistere un colpo così devastante, si domandò, steso per terra, il volto, incredulo in direzione dell’insenatura che era stata disintegrata. Tremò dalla paura, di nuovo, mentre la figura di quello che avrebbe dovuto essere Saga di Gemini si avvicinava a lui, con passo pesante.

Death Mask non era ancora sicuro di non avere qualche osso fratturato, provava dolore al petto, tanto che ogni espirazione lo faceva piegare quasi in due. L’altro incombeva sempre di più.

Quale peccato, neo Cavaliere di Cancer… dovrò eliminarti per aver scoperto il mio segreto, lo sai questo, vero?”

Gli occhi blu di Death Mask erano vitrei, spalancati verso l’ignoto, scioccati. Non aveva le forze per muoversi, solo per assistere, come se fosse stato cavato fuori dal suo corpo, alla fine che sopraggiungeva per mano del Cavaliere di Gemini. Si sentì gli occhi lacrimare, in un misto tra la rabbia senza fine e il terrore della preda in trappola, mentre l’altro, alzando le braccia sopra alla testa, si apprestava a scagliare una nuova, devastante, Galaxian Explosion, che, molto probabilmente, avrebbe polverizzato il suo corpo ancora infantile. Serrò la mascella, mentre una sensazione altrettanto famigliare di categorico rifiuto verso la morte gli perforava il cervello, sibilando.

Il colpo stava per essere scagliato, le lacrime capricciose gli scivolarono sul volto, mentre, chiudendo disperatamente gli occhi, l’immagine mentale di colui che un tempo aveva considerato un padre, si frappose a quella del Cavaliere di Gemini. L’energia cosmica stava per essere rilasciata nello stesso momento in cui, ironia della sorte, nella sua mente, quel verme che aveva chiamato ‘papà’, alzava sopra di sé il bastone con cui, da piccolissimo, lo percuoteva spesso.

NON VOGLIO MORIRE!!!”

 

“Non voglio morire, nooooooooooooo!!!” urlò, alzandosi a sedere di scatto, il fiato corto. Vi scorse il mare, oltre l’infinito, il mare blu e una giornata splendida, primaverile, assolutamente degna di marzo, il mese in cui si trovavano.

Stava giusto per chiedersi cosa ci facesse lì in quella beatitudine e se non fosse morto per davvero, chissà, magari quella era la sua idea di Paradiso, ma il viso elegante e sinuoso di Aphrodite entrò prepotentemente nel suo campo visivo, dandogli la certezza che non fosse certo passato a miglior vita, trovandosi ancora dentro i confini del Tempio.

“Deathy, nessuno ti vuole uccidere, qui, che succede?” gli chiese il da poco eletto Cavaliere dei Pesci, inarcando gentilmente un sopracciglio in attesa di spiegazioni.

Death Mask se lo ritrovò quasi appiccicato, a gattoni ad un pelo dal naso. Ingurgitò saliva a vuoto, ancora incredulo. Stava bene e respirava, era stato quindi solo un incubo, sebbene ricorrente.

“Ah, sei tu, Aphrodite, suppongo di non essere in Paradiso, visto che ho il tuo brutto muso davanti. Stavo facendo solo un sogno!” si affrettò a tranquillizzarlo, recuperando due toni della voce e la solita, consueta, maleducazione con cui trattava anche gli intimi, come un rito. Il suo amico parve risentirsi.

“Brutto? Io non credo! Pare il viso di un angelo caduto dal cielo, non trovi?” si celebrò l’altro, adulandosi da solo, accarezzandosi il visetto un poco femminile come se fosse il bene più prezioso in suo possesso. E così era davvero.

“No, non trovo!”

“Fa lo stesso, crescendo capirai! - lo perdonò, sorridendo in maniera sinistra – Ma hai fatto preoccupare me e Shura, vedi? Ha addirittura smesso di allenarsi!” lo indicò, solare.

Effettivamente il cornuto della decima casa, così lo chiamava amichevolmente, era rimasto immobile, le braccia ancora protese, a fissarlo di sottecchi di profilo, salvo poi ricominciare ad allenarsi con i fendenti da dove aveva lasciato.

Il respiro di Death Mask non era ancora tornato alla normalità. Si massaggio la fronte per poi scendere fino alle guance e premere sulla pelle: dei, che terribile incubo!

“E’ da un po’ che sei inquieto, Masky, da un paio di mesi… è forse successo qualcosa?” indagò Aphrodite, sedendosi al suo fianco, una margherita in mano che annusava ogni tanto.

Il punto era che glielo avrebbe pure voluto dure, all’amico di sempre, ciò che turbava la sua psiche, ciò che aveva visto quel giorno, ma non poteva, lo aveva promesso.

“Pensavo a quel bastardo di mio padre, che possa marcire nella tomba!” affermò solo, iracondo, sputando per terra al solo rammentarlo, provandone disgusto.

Quel giorno l’immagine di suo padre si era frapposta a quella della belva umana Saga, portandogli le stesse, spietate, sensazioni che gli dava lui, quell’essere viscido che gli aveva affibbiato il soprannome Death Mask appena nato, portandolo, quasi, a dimenticarsi del nome di battesimo. Quell’essere disgustoso che, dopo la morte di sua madre a seguito del parto, aveva preso ad alcolizzarsi come uno stronzo qualsiasi, dimenticandosi che aveva un figlio. Anzi no. Non lo aveva affatto dimenticato, non quando tornava ubriaco a casa, nella sua Siracusa, e lo picchiava con impeto crescente ogni sera tutte le sere, incurante degli strilli della bambinaia che, più di una volta, per proteggere lui, le aveva prese in sua vece.

Per certi versi, sarebbe stato meglio che si fosse dimenticato di lui, perché non lo aveva gettato nell’immondizia allora, facendola finita già in partenza? Perché lo aveva cresciuto e nutrito abbastanza per farlo sopravvivere, a quale scopo?! Per essere il suo punchball personale?! Che figlio della merda!

“Deathy, quell’essere è morto, non ti nuocerà più, lo sai bene…”

“Certo che lo so, sono stato IO ad ucciderlo!” gli ricordò, ghignando, rammentandosi, con particolare gioia, di come ciò fosse successo senza avere il benché minimo rimpianto.

“C’è… c’è qualcos’altro in te, che ti inquieta, lo sento...” riprovò Aphrodite, probabilmente captando qualcosa. Era bravo con la psiche umana, non c’era che dire!

“I fatti miei ci sono!” lo bloccò comunque subito, non potendo permettersi di confidarsi. Tornò giù, su quell’erba corta che cominciava a crescere, in cima ad una scogliera dotata di una vista senza pari. Aphrodite seguì i suoi intenti, tornando a contemplare le nuvole.

“Come preferisci!” non insistette, posandosi la margherita tra i capelli e socchiudendo gli occhi, assaporando l’odorosa primavera, la sua stagione preferita, che gli aveva dato i natali proprio nel mese di Marzo, come Venere uscita dalle acque in tutta la sua magnificenza, così lui, un fiore che allieta l’ultimo freddo residuo destinato a lasciare il passo.

Death Mask invece rimase piuttosto vigile, mentre l’altro, Shura, il cornuto, continuava a scagliare fendenti, ligio al dovere. Poco dopo avvertì il respiro dell’amico Aphrodite farsi più intenso, probabilmente si era addormentato.

Contro la sua volontà, venne di nuovo sbalzato a quel giorno in cui aveva visto emergere la vera natura del Cavaliere di Gemini. Trasalì a quel pensiero, tentando di scacciare quei ricordi, che tuttavia lo investirono in pieno, come un pugno nello stomaco. Chiuse i suoi occhi per riaprirli in un altro tempo.

 

D-Death Mask, ti avevo detto di andartene...”

La voce di Saga era tornata quella di sempre, così come i colori che gli erano consoni, ma il piccolo Deathy era sempre steso a terra, immobile, gli occhi allucinati, il tremore ancora persistente in lui.

Sa-Saga!” balbettò, vedendo che si era danneggiato l’intero braccio sinistro per impedire, con ogni probabilità, a lui di finire ammazzato dal suo altro io. Death Mask trasalì con ancora più forza, finalmente riuscendo a rimettersi seduto.

Va-Vattene, ora… userò la mia tecnica speciale sul mio cervello per dimenticarmi di averti visto qui, ma… ma...”

Sembrava soffrire molto, non del tutto in sé, si coprì gli occhi con la mano sana, il suo corpo era scosso dai sussulti.

Ma… ma, Signore, voi… voi sembrate soffrire molto, e...” si era messo finalmente in piedi ma non riusciva né ad avanzare né a retrocedere, ancora totalmente sconvolto.

Non ha importanza, ora… vai… VAI! Ma promettimi che non ne farai parola con nessuno, è per il tuo bene!”

Signorsì, Signore!” affermò immediatamente, utilizzando un gergo che adoperava con suo padre quando doveva eseguire degli ordini. Perché lo odiava, con tutto sé stesso, ma ne era succube, come, ormai, lo era diventato anche di Saga di Gemini, della sua forza.

Così forte, per l’appunto… eppure un fantoccio di sé stesso. Nient’altro che un’ombra.

Alla fine comunque aveva messo le ali ai piedi ed era sparito, quasi vaporizzandosi nell’aria, con il disperato intento di ricacciare fuori da sé ciò che aveva visto. Speranza vana, ormai ne era vittima, un po’ come gli occhi della Gorgone, implacabili.

Ne era vittima e avrebbe continuato ad esserlo, perché non c’era via di fuga, i forti schiacciavano i più deboli, come suo padre aveva schiacciato lui, come Saga avrebbe potuto schiacciare chiunque. Il segreto di quella vita era la forza, acquisiscila, e dominerai sugli altri, perdila, e diventerai preda, né più né meno.

 

Saga di Gemini era uno dei Forti, ma soffriva di un grosso disturbo della personalità, di questo Death Mask ne era più che sicuro, perché lo aveva visto con i suoi stessi occhi. Ma quanto fosse destabilizzante e invalidante quel malessere era ancora tutto da scoprire, cosa che Cancer non voleva di certo approfondire, gli era bastato rischiare la pelle quell’unica volta, meglio stare il più lontano possibile da lui. Tuttavia, in un certo senso, ne era anche insanabilmente attratto, come le falene verso la luce delle lampade. Quante personalità aveva, in tutto, Saga? Solo due, una buona e una cattiva, come il segno che lo rappresentava? O… di più? Si chiese se, in qualche modo, avesse potuto trarre giovamento da quella situazione, essendo lui il solo a sapere di quel segreto. Lui era debole, come sua madre, morta per uno stupidissimo parto, per averlo messo al mondo, ma… nulla vietava ad un debole di imparare a prevaricare sugli altri e raggiungere così la vetta, giusto?!

Si rimise a sedere, guardando con interesse gli allenamenti di Shura, che da quella mattina non si era fermato un attimo a rifiatare, neanche per pranzare, ed erano già le tre del pomeriggio.

“Ehi, cumpa, potresti pure prendere una pausa ogni tanto, non ti farebbe male!”

“Non c’è pausa per un Cavaliere di Atena, solo il sentiero della forza. E la forza è giustizia!” gli rispose l’altro, non degnandolo neanche di uno sguardo e lanciando due fendenti contro una roccia, velocissimi, uno verticale e l’altro orizzontale.

Beh, aveva ragione, ma che palle il cornuto del decimo tempio, troppo serioso in tutto e per tutto. Ancora si chiese cosa ci avesse trovato in lui. Rimuginandoci sopra, la risposta fu immediata: la forza fisica e la straordinaria lestezza nel colpire!

“Un Cavaliere di Atena sfinito sai come la percorre la giustizia che vai dicendo? Come un martire, perché muore sul campo!”

Shura lo fulminò con lo sguardo, tornando ben presto alle sue faccende, come se nessuno lo avesse mai interrotto.

Death Mask sospirò. Certo che doveva essere parecchio forte per entrare nelle sue grazie senza avere il più pallido senso dell’umorismo eh, veramente assurdo! Buttò un occhio giù dalla scogliera, sulla spiaggia, dove sapeva bene che vi avrebbe scorto ii marmocchi aspiranti Cavalieri d’Oro, che si recavano lì sempre a quell’ora a giocare a palla, e infatti…

Sogghignò, individuando, tra loro, una chioma blu, fin troppo appariscente. Quella mezza tacca di nome Camus, alla fine dei giochi, si era unito al branco di lupetti più giovani, anche se, a onor del vero, da quanto aveva potuto appurare, osservandoli di nascosto di tanto in tanto, non spiccicava parola. Del resto, da buon franco-italiano, il greco non lo conosceva. Non si sapeva bene come, ma era entrato subito nelle grazie di Shaka, cosa assai rara, stante la sua plateale asocialità, ma il francese era risultato un’eccezione.

Death Mask li aveva uditi, un giorno di gennaio, lui e Mu, che camminavano fianco a fianco, diretti al tredicesimo tempio. La futura Vergine si era lasciata andare a pallidi complimenti sul futuro Acquario, cosa assai rara, soprattutto se proferita dalle sue divine labbra.

“Trovo che Camus sia stato un ottimo acquisto! - si era lasciato trasportare Shaka, sorridendo all’amico fedele, il quale aveva la consueta espressione gentile stampata in volto – E’ educato e composto, fa valere le sue ragioni con i gesti e mai con parole vane, sa farsi rispettare e, cosa ancora più importante… non parla, sta zitto!”

A quel punto Mu aveva ridacchiato tra sé e sé, concedendosi una manifestazione di ilarità nel vedere, ancora una volta, il carattere distintivo del futuro custode della sesta casa.

“Ma Shaka… Camus non parla la nostra lingua, in tutta onestà, da quando è qui non ricordo che poche sillabe pronunciate da lui nei nostro confronti, di certo, solo questo, fa molto!”

“Appunto! Non conosce la lingua, tanto di cappello, ma è proprio la sua essenza ad essere così. Io… scandagliando il suo inconscio, la prima volta che Aiolos me lo ha presentato, l’ho potuta ben vedere, è un bambino che conosce l’importanza del silenzio, è molto riflessivo e… ci voleva, visto che Aiolia e Milo sono solo due, ma fanno un baccano più che superfluo, come se fossero in 10! Menomale che è giunto Camus a compensare, credimi, lo apprezzo davvero tantissimo!”

“Perché non parla?” aveva ridacchiato ancora Mu, sempre più divertito.

“Quello è di sicuro fondamentale!”

Death Mask, origliandoli, non era riuscito a non pensare ad altro che “Contento tu, il mondo è bello perché è vario, anzi avariato!”

Effettivamente per lui una delle (tante) cose che risultavano indigeribili al suo palato sopraffino erano i bambini, in generale, ok, ma soprattutto quelli affetti da finto mutismo. Erano una rogna bella e buona, li avrebbe presi a pedate nel didietro, soprattutto quel Camus, che lo aveva osato affrontare direttamente, anche se, doveva ammetterlo, fegato ne aveva dimostrato.

Ridacchiò sommessamente nel vedere gli altri futuri Cavalieri d’Oro posizionarsi in cerchio per giocare finalmente a palla, dalla sua ubicazione li poteva sovrastare totalmente, come era giusto che fosse.

“Ehi, caprone, finiscila di smollare fendenti come se non ci fosse un domani, e vieni un attimo qua!”

Shura non accolse subito l’invito, troppo intento ad allenarsi a tracciare il solco perfetto con la sua spada che conteneva nel braccio, ma all’ennesimo richiamo del compagno, capendo che non lo avrebbe lasciato stare, sospirò e si permise un attimo di pausa, avvicinandosi a loro. Aphrodite era ancora bellamente addormentato per terra, non si mosse, completamente rilassato.

“Cosa vuoi?”

“Cumpa, guardali là gli sgorbietti futuri Cavalieri d’Oro. Guardali come si divertono, e tu che ti ostini a non darti requie! Saranno nostri futuri compagni, ma appena possono si riuniscono per giocare… non ti sembra un valido motivo per darti un po’ di riposo?”

Shura rimase per qualche istante ad osservali, c’erano tutti i più piccoli, Mu, Aldebaran, Aiolia, Shaka, Milo e il nuovo venuto, Camus, suo vicino di casa con il quale però non aveva che scambiato pochi, formali, saluti. Il bimbo parlava in francese e il Cavaliere di Capricorn, stante la somiglianza di quella lingua con la sua, qualcosa comprendeva; e aveva compreso che gli dava del ‘voi’, probabilmente reputandolo molto più grande, quando invece si passavano solo pochi anni. Il futuro Aquarius manteneva sempre, e pur sempre, le distanze con chiunque, quello gli era saltato all’occhio subito, ma non aveva indagato ulteriormente. Shura non si trovava male, anzi, provava proprio simpatia per lui, ma non era nella sua indole approfondire i rapporti, cosa che, molto probabilmente condivideva con il suo vicino di tempio. Meglio, si era istantaneamente creato un mutuo accordo tra loro, ognuno si faceva i fatti propri.

Li guardò disporsi nuovamente in cerchio, lanciandosi la palla come dei bambini normali. Tutti loro giocavano, persino Shaka, restio a farsi coinvolgere, e il nuovo venuto, che sebbene non sembrasse totalmente a suo agio, non si risparmiava nel ribattere la palla, quasi come se fosse una valvola di sfogo.

Inarcò un sopracciglio, sospirò, prima di tornare a concentrarsi sull’allenamento, che era di vitale importanza.

“Loro sono ancora piccoli, possono permetterselo. Io no!” asserì, senza un minimo di esitazione, riprendendo a sferrare fendenti.

A quel punto Death Mash aprì le braccia platealmente, scoccando un’occhiata al cielo come a chiedere un aiuto divino.

“Un figlio dei fiori… - disse, riferendosi ad Aphrodite vicino a lui bellamente appisolato – E uno che non sa cosa significa divertirsi...” continuò indicandolo con una pernacchia.

“Uhmpf, mi deconcentri così!” si lamentò Shura, desiderando scacciarlo come si faceva con le mosche.

“Davvero un’ottima compagnia, mi sono scelto!” constatò, arrendendosi a quella verità e sdraiandosi a sua volta, il sole a rischiarargli il volto, tiepido. Era marzo e si stava come i re, per un secondo, poco prima di addormentarsi, Death Mask volle che quell’istante si perpetuasse nel tempo.

 

Nella spiaggia di sotto intanto, i futuri Cavalieri d’Oro si lanciavano con foga la palla, concentrandosi solo sul divertimento. Le giornate avevano preso ad allungarsi esponenzialmente e, con esse, il tempo da poter dedicare anche ai giochi, oltre che agli allenamenti.

Era tardo pomeriggio, ma il sole era ancora abbastanza alto nel cielo, trionfando così sulle tenebre e rendendo di ottimo umore sia Aiolia che Milo, che adoravano quella stagione, quel tepore che già si percepiva e che sarebbe sicuramente aumentato con l’avvicinarsi dell’estate.

“A te, Milo!”

“No, a te, Lia!”

“Di nuovo a te!”

“No, a te!”

“Sono più bravo io!”

“No, io!!!”

Mu e Shaka, seguiti da Aldebaran, si scambiarono un’occhiata conciliante tra loro, che valeva più di mille parole: eccoli che ricominciavano!

Il futuro Leone e il futuro Scorpione, come accadeva di frequente, avevano preso il gioco sul personale, come una sfida tra loro, senza più considerare gli altri bambini. Avevano quindi smesso di passare la palla anche a loro, concentrandosi solo l’uno nei confronti degli altri. Aldebaran provò ad intromettersi, tentando di attirare la loro attenzione ma ottenendo solo lo sguardo allibito di Camus che ancora non si era abituato a quel tram-tram di cui invece i compagni erano ormai avvezzi.

“Eddai, ragazzi, ci siamo anche noi!”

Tutto inutile, Milo e Aiolia, guadandosi in cagnesco, quasi ringhiando, avevano preso a lanciarsi palle sempre più potenti, ignorando le lamentele degli altri.

“Siamo alle solite!” sbuffò Shaka, sedendosi a gambe incrociate sulla spiaggia e disinteressandosi a quella stupida lotta che poteva essere attuata solo da due ignoranti come loro.

“Non vale con i piedi!” si lamentò subito Aiolia, fermando la palla, colto impreparato dal colpo di Milo, che, perdendo la presa con le mani, aveva rimediato con un colpo di punta, meravigliando non poco il futuro leoncino.

“Ehe! In cerca di more e in guerra tutto è lecito! - disse l’altro, soddisfatto del suo operato, strofinandosi il nasino con l’indice, ma dovendo preoccuparsi subito di schivare una cannonata di Aiolia che non voleva certo essere lasciato indietro – Ehi, Lia, se mi beccavi mi facevi male!” si lagnò poi, mettendo sul il broncio, mentre la palla, non trovando ostacoli, proseguiva la sua parabola.

“Santa pazienza, ancora straparla… - sbuffò Shaka, massaggiandosi teatralmente la fronte – SI DICE IN AMORE, MILO, NON IN CERCA DI MORE!!!”

“Eh??? Davvero??? Non sono le more?!”

“No...”

Il bimbo sembrava incredulo, mentre, dimenticandosi della palla, ormai proiettata verso il largo, nel mare, si gettava in ginocchio vicino a Shaka, avvicinandosi al suo volto talmente tanto da costringere la futura Vergine a sobbalzare, aprire gli occhi e bloccarlo con le due manine perché davvero era troppo vicino.

“C-cosa c’è, ora?” chiese, arrossendo vistosamente, implorando una tacita richiesta a Mu e Aldebaran, che invece sogghignavano, furbetti.

“Sei sicuro che fosse amore?” chiese ancora Milo, puntando gli occhioni azzurri in quelli del biondo con una intensità tale che sembrava di essere attirati da una calamita. E invece era una calamità, quel bambino!

“C-certo! Le so le cose io!!!”

“Perché l’amore dovrebbe essere più importante delle more? Siamo sicuri???”

“Ma che domande fai, Milo???”

“Perché a me piacciono tanto le more! Ci si può abbuffare e non si è mai sazi! - tentò di spiegarsi, imitando il gesto di prenderne una manciata e sbranarsene in quattro e quattr’otto – Così, vedi?!”

“Non fare versi animaleschi e non sputacchiare, Milo! Mi fa schifo! Non hai un goccio di eleganza, eh?! Perché non impari un po’ da Camus?!” lo redarguì Shaka, alzandosi, mollandolo lì, su due piedi, e allontanandosi, tutto disgustato.

Lo sguardo smarrito di Milo navigò fino a Camus, il quale ricambiò, probabilmente non capendo minimamente cosa c’entrasse nel discorso.

“Ma io...”

Di nuovo la faccia da funerale, mentre le labbra gli tremarono, rendendolo, se possibile, con un’espressione ancora più stupida.

“Sapete, ragazzi, mio nonno diceva che con l’amore accade uguale. Lo provi, lo riprovi e poi ti abbuffi, non ne sei mai sazio!” si intromise Aldebaran, che aveva vissuto i primi anni con i nonni, sentendosi un dispensatore di pillole di saggezza. Chiuse e riaprì gli occhi, ammiccando, ma si accorse che tutti i suoi compagni lo guardavano, straniti.

“Cosa… cosa significa?” si chiese Aiolia, sbigottito.

“Le more… - ripeté Milo, chiudendo il pugno di sinistra – e l’amore… la stessa cosa?” domandò Milo, chiudendo anche l’altra mano prima di aprire la bocca meravigliato.

“Che significa, Al?”

Anche Mu sembrava sinceramente incuriosito, si era fatto tutto serio, probabilmente non avendo mai sentito una cosa simile.

“E-ecco, io… - Aldebaran si grattò la testa a disagio – Bo! Ahahahaha!!!” scoppiò poi a ridere per scacciare l’imbarazzo.

“Ehi, io non capisco! - insistette Milo, che non se ne lasciava scappare una – L’amore si mangia come le more?!”

“Ma no, stupido scemo! - lo sgridò Shaka, impietosito da tanta ingenuità – Possibile che nessuno di voi abbia capito?” li squadrò uno ad uno, soffermandosi su Mu, il quale, con sua somma delusione, non dimostrava comunque di aver afferrato il concetto.

Solo Camus non sembrava interessato alla faccenda, limitandosi a guardarli ma non dicendo comunque niente, come al solito. Avrebbero quindi dovuti essere illuminati, tutti. Shaka si sentì investito da quella missione divina.

“Il nonno di Aldebaran si riferiva all’amore tra maschi e femmine...”

Occhiate di sbigottimento dalle altre parti, non capenti. Nessuno, a parte la futura Vergine, sembrava sapere qualcosa, si concentrarono quindi su di lui.

“L’amore tra maschi e femmine!!!” insistette Shaka, un poco spazientito.

“Ehm, e quindi?”

“Come, e quindi???”

“Il paragone, cosa ci azzecca?” chiese Aldebaran, corrucciato.

“B-beh… quello che si fa tra maschi e femmine!!!”

“Lia, cosa si fa tra maschi e femmine?” chiese Milo, non soddisfatto dalle risposte dell’amico.

“Perché lo chiedi a me?! Cosa c’entro io?!”

“Tu lo devi sapere!”

“No che non lo so!!!”

“Ma tuo fratello sì, è più grande di noi, no?!”

“F-forse lui lo sa ma… - Aiolia picchiettò i due indici uno con l’altro, imbarazzato – Non glielo ho mai chiesto!” ammise.

“Quindi dobbiamo chiederlo ad Aiolos?” chiese conferma Mu, interessato all’argomento.

“Per forza, nessuno di noi qui sa...”

“Io lo so, ma non mi fate mai parlare!” esclamò Shaka, infastidito da non essere più il centro dell’attenzione.

“Ma tu parli tanto, Shaka, ma non lo sai! Aiolos lo sa sicuramente, forse anche Saga!” insistette Milo, offendendolo ancora di più.

“Lo so, ti dico!!!”

“Ah sì, e allora cosa fanno maschi e femmine?!” gli chiese direttamente, squadrandolo con un sopracciglio inarcato.

“E-ecco… i bambini!”

“I BAMBINI??!?” ripeterono in coro a gran voce i quattro, facendo prendere un sonoro risalto al povero Shaka, che tuttavia si ricompose subito, impettendosi.

“Sì, esatto! Ve lo avevo detto che io so, non sono ignorante come voi e… ehi, ma mi state ascoltando?!”

Tutto inutile. Perle ai porci. Di nuovo. Perché i suoi compagni, completamente increduli, avevano preso a parlare fitto fitto tra loro.

“Mi state dicendo che l’amore plasma i bambini?! E come… come ci riesce?!” strabuzzava gli occhi Aiolia, sbracciandosi.

“Non era la cicogna, a portarci?” domandò ingenuamente Milo, la bocca spalancata in una ‘o’ incredula.

“Ma no, Milo, quella era una favola, lo sanno tutti!” gli fece notare pacatamente Mu, dubbioso.

“A me la nonna ha sempre detto che nasciamo sotto i cavoli!”

“I cavoli? Perché non i corbezzoli?!”

“Milo!!! Cosa c’entrano i corbezzoli?!”

“Sono più buoni!”

“Io non ce la posso fare...” sospirò tra sé e sé Shaka, ringraziando comunque che l’interesse si era allontanato da lui, perché effettivamente, se gli avessero posto altre domande per approfondire non ne sarebbe venuto a capo, perché sapeva solo quello.

Le argomentazioni sul discorso bambini continuarono per una serie di minuti, i piccoli non sembravano convinti della veridicità delle parole di Shaka, continuavano a trovare più romantico che fossero nati dal terreno, come le piante e i fiori e che poi fossero portati a casa, puliti e lavati, anche se Milo continuava ad insistere che era più bello ancora nascere su una pianta di corbezzolo invece che da terra. Beata ignoranza! La futura Vergine si disinteressò in fretta di quei discorsi, di gente che veniva toccata dalla luce e che però continuava a rifiutare quel miracolo, continuando a perdersi nelle tenebre dell’ignoranza. Che pena!

“Comunque, ragazzi… - il tono di Aldebaran si era fatto funereo, mentre guardava tristemente il mare – Abbiamo perso la nostra quinta palla di questa settimana...”

Tutti sussultarono e si ammutolirono, mentre il pensiero della caduta, tale Tina, così l’avevano appellata, si faceva strada in loro. Saga si sarebbe arrabbiato tantissimo, era più che certo.

“Questa è l’ultima, ve la affido! Dimostratemi di essere dei futuri, degni, Cavalieri d’Oro e riportatela indietro sana e salva” aveva detto, guardandoli uno ad uno negli occhi prima di affidargli la prima, vera missione della loro vita.

Solo che la prima, Brina, si era bucata in un cancello.

La seconda, Magrina, perché era mezza sgonfia, era finita in una proprietà privata e la vecchia signora gliela aveva bucata davanti agli occhi.

La terza Sbirulina, nome scelto da Shaka, l’avevano smarrita tra le fratte di un bosco.

La quarta, Mina, aveva preso il largo per l’alto oceano, chissà quali avventure stava vivendo.

E, infine, l’ultima, la Tina, appunto, l’aveva seguita nell’avventura, lasciando i futuri Cavalieri d’Oro soli e sconsolati a rimpiangerla.

La missione era ordunque fallita, il Cavaliere di Gemini, venerato da tutti, avrebbe fatto una leva a tutti quanti, forse escludendo il solo Shaka per motivi sconosciuti ai bimbi.

“Dunque… preghiamo! - tossicchiò in tono alto Aldebaran, chiudendo gli occhi prima di utilizzare il tono più solenne che possedesse – Qui, sulla riva di questo mare, accomiatiamoci dalla nostra eroica compagna Tina, che ci ha donato giorni… coff, coff, volevo dire, ore di felice divertimento. E’ triste dirle addio ora, dopo questo tempo, seppur breve, trascorso a giocare con lei, ma cerchiamo comunque di immaginarcela mentre, con il sorriso sulle labbra...”

“Aldy, le palle non sorridono...” gli fece notare Mu, dandogli una veloce gomitata.

“Massì che sorrideva, aveva quel segno ricurvo che sembrava una bocca, no?” controbatté lesto Aiolia, indicando con i due indici le sue labbra prima di incurvarle all’insù.

“Dicevo… coff, coff – riprese il discorso solenne Aldebaran, recuperando due toni di voce per sovrastare gli altri – In memoria dei momenti trascorsi in sua compagnia, eleviamo una preghiera verso il cielo, per augurarle ogni bene da qui al futuro!” sancì, prima di congiungere le mani in segno di preghiera e chiudere gli occhi, seguito dagli altri.

Shaka inarcò un sopracciglio nell’assistere a quella scena, chiedendosi chi glielo avesse fatto fare di finire lì, in quel gruppo di bambini ottusi e totalmente immaturi che si perdevano in cose futili. Sospirò teatralmente, pensando che, almeno, sarebbe regnato un po’ di silenzio per quei due minuti della giornata, permettendo così a lui di pregare veramente per cose importanti e non di certo per una stupidissima palla.

Ebbe appena il tempo di rilassarsi impercettibilmente che subito una voce insopportabilissima gli squillò nelle orecchie.

“Ehm, amici?”

Nessuna risposta, Shaka contrasse appena le palpebre, ma non le riaprì, pregustando il fatto che i compagni non stessero degnando di una sola parola Milo. Era l’ora.

“Ehi! Ehiiii! Mu! Shaka! Lia! Al!”

“Milo… - lo riprese pacatamente il primo, ancora intento nella preghiera, senza smuoversi dalla sua posizione – Non riesci a stare zitto neanche in momenti simili? Stiamo dicendo addio a Tina!”

“Non voglio mancare di rispetto a Tina, ma… ma… - il bimbo si guardava spaesato intorno – Dov’è Camus?”

Quell’ultima domanda fece aprire gli occhi a tutti, Shaka compreso, si osservarono spaesati intorno. Effettivamente del Francese non c’era alcuna traccia. Sparito. Volatilizzato.

“E’ andato anche lui con Tina, si è tolto dalle scatole, era l’ora!” commentò Aiolia, affatto allarmato, ricevendo però le occhiate severe degli altri.

“Non c’è da scherzare, Lia! Camus è l’ultimo arrivato, se Tina sparisce è un conto ma lui… lui no!” lo sgridò Mu, preoccupato per le sorti del compagno.

“A me sta più simpatica Tina che lui!” sbuffò il leoncino, gonfiando le gote. Mu fece per riprenderlo ulteriormente ma Aldebaran saltò su, indicando un punto più in là vicino alla battigia.

“Là! Là! Guardate!!!” li avvertì, prima di correre seguito dagli altri. Raggiunto il bagnasciuga, si chinarono verso l’oggetto indicato dal futuro Toro. Tra tutti i presenti, però, solo Milo ebbe l’istinto di raccoglierli e stringerli al sé, sgranando gli occhi ricolmi di paura.

“Queste sono...”

“...le scarpe di Camus, sì, con dentro le sue calze, non c’è alcun dubbio!” terminò Mu al posto di Aiolia, gettando un’occhiata di panico verso il mare, ancora tremendamente mosso dopo la sciroccata della sera precedente.

Oltre a prendersi cura della palla, in effetti, i grandi avevano categoricamente vietato loro di buttarsi in acqua, ben consapevoli che sarebbe stato ancora piuttosto mosso.

Ingoiarono a vuoto, rimanendo fissi a contemplare la distesa marina…

“Ragazzi, non è che Camus…?” si raschiò la gola Aldebaran, le mani gli si mossero d’istinto a pregare, di nuovo.

“N-no, dai, non può essere stato così...”

“BUAAAAAAAAAAAAAAAAAAHHHH!!!” il pianto isterico di Milo gelò tutti sul posto, mentre le parole di Shaka rotolarono a vuoto.

“E’ MORTO! CAMUS E’ ANNEGATO!!! CAMUS!!! CAMUUUUUUUS!!!” urlava intanto il piccolo Scorpione, angosciato da quella consapevolezza, buttandosi a terra e stringendo con tutte le forze le sue scarpe al petto, come se fossero l’ultimo ricordo di un defunto.

“M-Milo, d-dai, f-forse non si è… buttato...”

“MA LE SUE SCARPE SONO QUI!!! SIGH! SOB! PERCHE’, CAMUS??? PERCHE’ LO HAI FATTO?!? NON DOVEVI SACRIFICARTI PER TINA! LEI ERA UNA PALLA, TU UN BAMBINO, BUAAAAAAAA!!!”

Mu e Shaka erano come impietriti sul posto, persino Aiolia osservava sconvolto il mare che se lo era inghiottito, pensando già a cosa caspiterina raccontare a suo fratello Aiolos, che se lo era preso così a cuore.

“Ragazzi, io mi butto! - saltò su Aldebaran, sfilandosi di riflesso la maglietta prima di accennare un passo verso la distesa marina – Forse non è troppo tardi, forse sta affondando, se lo troviamo possiamo ancora recuperarlo!” esclamò, tentando di reagire. Del resto, dopo Mu e lo stesso Camus, era il più vecchio lì, aveva delle responsabilità, e il fisico, per trarre in salvo il compagno, ma fu proprio il suo più caro amico a fermarlo di riflesso, prendendolo per mano.

“No, Al, pensa, pensiamo! Se vai in acqua tu e vieni portato via dalle onde, noi non saremmo in grado di salvarti e, oltre a Camus, saresti anche tu in pericolo!”

“E quindi lo abbandoniamo. Mu?! Non si fa così tra compagni, non si fa così tra amici!” ribatté lui, quasi trascinandoselo dietro da quanto avesse fretta di intervenire.

“N-no certo che no, ma dobbiamo pensare, dobbiamo...”

“BUAAAAAAAAAAAAAAAAA, CAMUUUUUS!!!”

“Non c’è tempo in questo caso, Mu! - intervenne anche Shaka, inaspettatamente apprensivo, come raramente dimostrava – Più Camus ingurgita acqua più sarà difficile fargliela sputare, questa volta dobbiamo agire, non aspettare!”

I suoi occhi erano limpidi e trasparenti, lasciavano trapelare il timore, cosa rara, ma il futuro Aries sapeva quanto Shaka, checché non lo ammettesse mai, teneva ai suoi compagni.

“Oh, Shaka!”

“Lia, sei con noi?!”

“Quello è proprio scemo ad essersi buttato… - commentò il fratello di Aiolos con lo sguardo leonino prima di togliersi a sua volta la maglietta, pronto – Sono dei vostri!”

“Milo?”

“BUAAAAAAAAAAA! E’ TARDI! E’ TARDI PER TUTTO!!!”

“Ripigliati, razza di scemo, e impara a sentire qualcos’altro oltre al baccano della tua bocca! Non senti il microcosmo di Camus, lui è ancora vivo e...”

“E’ TARDI!!! TROPPO TARDI!!! CAAAAAM...”

“E BASTA, RAZZA DI TONTO! - gli mollò uno schiaffo Shaka, perdendo per la prima volta la pazienza, prima di scrollarlo allo scopo di avere una reazione da parte sua che non fossero gli strilli del tutto inutili– Concentrati insieme a noi e proviamo a...”

Qu’est-ce qui se passe? Vous faites un bruit!

Come dal nulla, dagli scogli verso la loro direzione, sbucò proprio Camus che, con tanto di sopracciglio inarcato e di piega delle labbra che manifestava disappunto, si avvicinò a loro come se nulla fosse, i piedi nudi, gli indumenti gocciolanti e la Tina sotto il braccio.

Le bocce di tutti gli altri bimbi, ancora predisposti in semi-cerchio pronti ad intervenire, si spalancarono più o meno simultaneamente, Shaka compreso.

Camus non disse più niente, semplicemente mosse ancora qualche passo sulla sabbia, prima di far rotolare la palla verso di loro, ancora sbigottiti, e sedersi in contemplazione del mare.

Tutto quel baccano lo aveva infastidito non poco, erano piuttosto chiassosi i suoi compagni, non ci si ritrovava completamente, non erano maturi come Aiolos, con cui invece si dilungava a parlare, ma a lui era toccato il gruppo dei piccoli, anche se erano suoi coetanei, e in quei mesi un poco si era avvezzato alla loro esuberanza. Solo un poco però.

“CAMUS!!!”

Di nuovo un urlo univoco che lo fece trasalire. La Tina abbandonata sulla spiaggia, mentre i suoi compagni, del tutto incuranti di lei, con l’eccezione di Aiolia, rimasto ritto a guardarlo con quasi astio, si precipitavano verso di lui. Camus si ritrovò ben presto circondato da loro, pregò che non lo toccassero, perché ormai, sperava, loro dovevano aver capito che non era tipo da grandi effusioni. Tutti fortunatamente rispettarono quel suo desiderio che era ben manifesto dalla sua postura, attorniandolo senza però toccarlo, tutti ad eccezione di Milo, il solito, che infatti gli saltò addosso, stritolandolo in un abbraccio che lo fece irrigidire di colpo.

Davvero quello non capiva niente, oh!

Il piccolo Milo fu su di lui, mentre gli altri, sollevati, si complimentavano per lui per l’impresa compiuta, chi con larghi sorrisi, chi annuendo con la testa, portando lui a fissarli sbigottiti, cercando al contempo di sfuggire alla presa del piccolo Scorpione che non lo mollava un attimo. Non importava se percepisse la rigidità del suo corpo, non importava se sapeva benissimo che il piccolo Camus non avesse alcun piacere ad essere stretto così, lui continuava, singhiozzando felice, smoccicandolo nel ripetere che lo credeva morto, che si era spaventato da morire di non farlo mai più, che lui era molto più importante della Tina.

Il futuro Aquarius era allibito: davvero erano stati così in ansia per lui? Per quale ragione? Fissò spaesato il mare agitato, effettivamente sembrava minaccioso, ma a lui l’acqua, il nuotare, piaceva parecchio, come se fosse nato per quello. Possibile che… avevano avuto paura che annegasse? Era la prima volta che qualcuno, oltre alla sua famiglia, si dimostrava genuinamente preoccupato per lui…

“Milo, lascialo, per favore… non vedi quanto è imbarazzato?! - finalmente Aldebaran prese di peso quell’esserino che non aveva smesso un secondo di stringerlo a sé, trasmettendogli anche tutta la fifa che aveva provato in quei momenti in cui era sparito. Sbatté le palpebre – Però ha ragione lui, Camus, non farlo più o, se lo devi fare… chiedi aiuto a noi, intesi?” gli fece l’occhiolino, finalmente rilassato.

Chiedere aiuto… a loro? Quando, all’asilo, aveva fatto sempre tutto da solo perché gli altri lo lasciavano in disparte, picchiandolo persino, a volte?

Il piccolo Camus era sempre più incredulo.

“Aldy ha ragione, sei stato eccezionale, Camus, ma ti sei allontanato senza dirci niente, abbiamo creduto che tu fossi… - Mu, prese un profondo respiro, scrollando la testa – Non importa, stai bene, solo questo conta!”

Stare… bene, quindi davvero si erano preoccupati per lui… sinceramente?

“Ma per favore! Sarai contento adesso che hai dato spettacolo e sei entrato nelle grazie, non solo di mio fratello, ma anche degli altri!”

Il tono di accusa giunse alle sue orecchie, portandolo istintivamente ad alzarsi e guardare dritto negli occhi il suo possessore, che ricambiava con un’occhiata ferina.

“Aiolia, ma cosa…?”

Il piccolo leoncino, non degnando il tentativo paciere di Mu, si avvicinò temerario al gruppo, non scostando il viso da quello di Camus, che non lo abbassava nemmeno per idea, e quello lo irritava ancora di più. Quel bimbo dagli occhi blu sembrava non aver paura di nulla, affrontava con piglio deciso persino uno come Saga e, cosa ancora più grave, faceva strage di cuori tra i suoi coetanei e i ragazzi più grandi. Il tutto mantenendo quella sua compostezza aliena per appartenere ad un bambino di soli 6 anni, con quella imperturbabilità assolutamente non umana.

“Ti conosco, Mascherino, ho visto come ti atteggi con mio fratello! Sembra che non ti importa di niente e nessuno, ma cerchi, come tutti, l’appoggio degli altri, fingendo però che non ti tanga!”

Camus avrebbe voluto rispondergli che lui, del sostegno degli altri, non gli importava un fico secco, non lo cercava, semplicemente la palla era caduta in acqua e invece di perdere tempo in chiacchiere era andata a recuperarla. Fine.

“Cerchi l’appoggio degli altri… - sottolineò ancora Aiolia, puntandogli il dito contro – ma poi lo schifi, con questa tua boria senza freni… mi fai proprio arrabbiare, ancora di più perché ci riesci, tu, stai piacendo a tutti qui al Tempio! Non hai capito però che ottieni successo solo perché sei giunto qui ferito e dolorante, e ai grandi piacciono queste cose, solo per questo, solo per questo tu...”

Aiolia avrebbe voluto continuare, sputargli addosso tutta la gelosia che provava per lui, anche se si rendeva conto che era ingiustificata, anche se si rendeva conto che fosse sbagliato, ma… che rabbia!!!

Si sentì avvampare, mentre le parole per continuare gli sfuggivano dalla mente, e ciò lo faceva infuriare di più. Quello poi non ribatteva, non diceva nulla, e, ok, il greco non lo parlava ancora, non poteva riprodurlo, ma… ma…

“Ehi, dove credi di andare?! - gli chiese, vedendolo alzarsi e andarsene, senza più essere degnato di uno sguardo – Guarda che quello che hai fatto tu oggi lo posso fare anche io, c-ci posso riuscire, ci...”

“Aiolia, smettila…” lo fermò Shaka, trattenendolo per il polso, giacché l’impetuoso leoncino stava per corrergli dietro, affatto propenso a lasciar perdere.

“Non sei tu che dici che non rispondere è maleducazione? Se lo fa lui va bene?” lo incalzò Aiolia, più seccato del solito, ancora più arrabbiato da avergliela data vinta ancora una volta.

“Corretto. Ma a volte, invece, è la miglior forma di educazione...” disse solo la futura Vergine, chiudendo gli occhioni turchesi, prima intenti ad osservare Camus andarsene, per poi sedersi nella posizione del loto senza più proferire parola. Quella giornata si sarebbe conclusa così, rovinata, per colpa di una gelosia fin troppo accentuata.

 

 

* * *

 

 

15 marzo 1995

 

 

Quel giorno l’allenamento era stato più tosto del solito. Con l’avanzare dei giorni e della loro esperienza, i grandi, sotto ordine di Shion, pretendevano sempre di più nell’addestramento, strappando conseguentemente il tempo che loro, i piccoli, potevano riservare ai giochi. Nonostante questo, il bisogno di vedersi per trascorrere un po’ di tempo insieme come dei normali bambini si faceva sentire, ed era la forza motore di Milo che, proprio quel pomeriggio, con il sole ancora alto e una giornata dalla limpidezza spaziale, si stava dirigendo all’appuntamento sulla spiaggia insieme agli altri.

Si sentiva tutte le ossa rotte, compiva movimenti rotatori con le braccia per sgranchirsele, mentre procedeva a zig-zag e sbadigliava, sintomo dello scarso riposo di quei giorni, ma non era da lui impigrirsi, per cui, con uno sforzo non da poco, stropicciava il suo volto per prepararsi all’incontro con gli altri. Doveva sfoggiare il suo più bel sorriso.

Finalmente giunse al luogo prestabilito, subito i suoi occhi abbracciarono il mare che gli diede tutta la carica necessaria. Vide gli altri in lontananza, fedeli compagni nella resistenza agli allenamenti, e subito si precipitò da loro, le braccia larghe e tutto il brio in suo possesso.

Anche gli altri fecero del loro meglio per ricambiare quella vitalità, ma solo Aiolia, pimpante come lui, ricambiò il suo poderoso abbraccio.

Quel giorno mancava Aldy, il solo, perché, a quanto sembrava, era parecchio sotto con gli allenamenti fisici, talmente tanto da crollare addormentato una volta finito. La sua assenza si sentiva, Milo mise su il broncio, mentre, dopo un breve giro a parabola, constatò che mancava pure Camus. La cosa gli dispiacque ancora di più, se possibile, ma non era una novità, il Francese, dopo la rabbia del leoncino alcuni giorni prima, non si era più fatto vivo tra loro, tornando a starsene in disparte, lontano da tutti e tutto.

Un passo avanti, cinque indietro… si ritrovò a constatare il futuro Scorpione, mentre, perdendo improvvisamente il brio che si era forzato di mantenere, si sedette buono buono sulla sabbia, disegnando cerchi con l’indice, che avrebbe poi usato per attaccare e colpire, così gli era stato detto.

Assurdo… come si poteva attaccare con il solo indice, si chiese.

“Camus non viene neanche oggi?” chiese Shaka, ad occhi chiusi, dando comunque un’occhiata (solo lui era in grado di dare le occhiate anche a palpebre abbassate!!!) ad Aiolia.

“Perché… lo chiedete sempre a me?!” ribatté l’altro infastidito, guardando altrove.

“Sai com’è… non è più venuto per causa tua, inoltre vive ancora da voi!”

“Ora non datemi colpe che non mi spettano, non è più venuto perché è un dissociato, non per altro!”

“Sarà… ma sai cosa significa almeno quella parola?!”

“Non mi dare noia, Shaka!”

“Sigh, ma a me manca…” si lasciò sfuggire Milo, imbronciato ai loro piedi, ben meno luminoso del solito.

“Come può mancarti se neanche parla?!”

“Sigh, ma si sente quando non c’è...” insistette ancora Milo, gli occhi lucidi. Gli era venuta voglia di tornare a casa e non sapeva spiegarsi il motivo.

“Uff… - Aiolia sospirò affranto, mentre guardava la punta dei piedi. Un poco si sentiva in colpa, doveva ammetterlo – E’ da giorni che chiede a mio fratello, in italiano, se conosce un posto dove ci sono le mimose...”

“Le… mimose?” chiese delucidazioni Shaka, aggrottando la fronte.

“Le mamilose? Si riferisce a sua mamma? Le manca sua madre?” chiese ingenuamente Milo, di colpo tutto interessato alla faccenda.

“Milo! Quest’anno compirai 6 anni, quando imparerai a parlare bene e a capire al volo?! - sospirò Shaka, sempre pronto a pungolarlo – Le mimose! Sai, quegli alberi dai fiori gialli, tra i primi a sbocciare, che emanano un profumo intenso?”

“Aaaaaah quelli!!! Ho capito!”

“Già… - prese parola Aiolia, facendo spallucce – Ancora non capisco molto l’italiano, ma è piuttosto insistente, lo chiede spesso”

“Ma le mimose in questa stagione...”

“Esatto, Mu… sono già appassite! Infatti proprio non capisco come si faccia venire certe idee, è strano, bah! - scrollo il capo Aiolia, sentendosi tanto superiore rispetto a lui – Tutti sanno che le mimose nascono in febbraio qui in Grecia, anche prima, a volte, come può sperare di trovarne anche solo u...”

“NO, NON E’ COSI! CE NE E’ UNA!!!”

Il gridolino esagitato di Milo fece sussultare tutti i presenti, che si voltarono sorpresi verso di lui, che si era improvvisamente illuminato, ed era appena scattato in piedi, ondeggiando come se avesse trovato la soluzione a tutti i mali del mondo.

“Milo, ma cosa stai dic...”

Ma il bimbo si era messo a correre a perdifiato in una direzione precisa, prima di rendersi conto che se ne stava andando senza salutare e tornando quindi indietro, il corpo sempre in movimento come se non riuscisse a star fermo.

“Mi sono ricordato che ho da fare oggi, amici! Ci vediamo domani, va bene?”

“Ma cos…? Ci abbandoni anche tu dopo essere venuto qui?” chiese Aiolia, dispiaciuto, mentre Shaka e Mu si scambiavano occhiate incredule.

“Sì, scusate! Mi farò perdonare, ok?” congiunse le mani a preghiera, chinandosi poi verso di loro per poi fare dietrofront e sparire in un lampo.

Aveva capito dove si era recato Camus e, insieme, aveva anche capito perché in quei giorni non era più venuto a giocare. Non comprendeva perché cercasse le mimose, quello no, ma glielo avrebbe chiesto in qualche modo e la trovava una cosa molto poetica e delicata.

Milo corse più che poté, il cuore a mille, imboccò una stradina poco frequentata, poi una salita, che costeggiava un gruppo di ulivi secolari, poi ancora un’altra viuzza polverosa, una nuova salita, che portava alla Scogliera del Grande Albero, soprannominata da lui stesso così. Il Grande Albero in particolare era proprio una ‘Mamilosa’ come la chiamava lui, il buon vecchio Adelpho, quando veniva a trovarlo al Tempio, gli aveva parlato spesso di quel fiore profumato che era accostato alla figura femminile per eccellenza: la mamma.

Certo, Milo non sapeva cosa significasse avere una mamma, era orfano, ma quel calore che Adelpho lasciava trapelare fuori da sé lo accostava ad una entità buona, dolce e rassicurante.

Con il cuore ancora più trepidante, ultimò la salita più irta, fermandosi un poco una volta giunto alla sommità per rifiatare, piegato in avanti in carenza di ossigeno. Il sole era ancora tiepido, faceva un “prrrrrrrr” (altra espressione onomatopeica ideata da lui per definire una gioia e un piacere immane) che lo rendevano felice di vivere.

Una volta ripresosi, si raddrizzò, buttando un occhio sotto il grande albero dove vi scorse proprio colui che stava cercando: goal!

Senza esitazione, si mise nuovamente a correre con l’intenzione di manifestare fisicamente quanto fosse contento di vederlo, anche se sapeva che il Francese non apprezzava particolarmente quell’atto. Stava già per chiamarlo a braccia spalancate, ma qualcosa di solenne lo fece ammutolire all’istante. Nell’avvicinarsi a lui, infatti aveva inquadrato la posizione in cui Camus sostava e, ancora di più -Milo si era stropicciato gli occhi, totalmente incredulo!- aveva scorto qualcosa di ancora più prezioso che non credeva nemmeno possibile. La bocca gli si spalancò in un ‘o’ muto, mentre le gambe, quasi sopraffatte rischiarono di farlo cadere.

Camus non lo aveva ancora visto, girato di spalle com’era, con quel suo profilo ancora infantile ma quasi etereo, candido, come purissima neve, la fronte appoggiata sul tronco dell’immenso albero che accarezzava con le dita minute, come se ci stesse parlando, i fiori penduli che gli solleticavano la pelle del viso o i capelli, come se il Grande Albero medesimo lo stesse accogliendo e accarezzando con i suoi immensi rami dorati dal sole, in una cascata di giallo e verde intenso, che celavano il miracolo: stava sorridendo.

Camus sapeva sorridere! E il suo sorriso era quando di più bello Milo avesse mai visto in vita sua, emanava un calore ancestrale, formidabile, che non gli permetteva in alcun modo di discostare lo sguardo da lui, completamente rapito.

Joyeux anniversaire, ma petite!”

Sentì pronunciare dalle sue labbra in francese, in un tono dolce e rassicurante al tempo stesso, seguito poi da una serie di altre parole che Milo non comprendeva, ma che lo attiravano come una calamita. Sembrava quasi che Camus stesse pregando l’albero, il Grande Albero, di portare lontano quel messaggio, quel calore che lui stava provando e che era rivolto ad un’altra persona, questo Milo lo aveva capito, come aveva capito che aveva fatto gli auguri a qualcuno; a qualcuno di molto importante per lui. Non conoscere però il resto gli bruciava parecchio, lo faceva morire dalla curiosità, riportandogli nuovamente l’istinto di abbracciarlo, perché Camus sembrava molto delicato in quel momento, una mossa sbagliata e si sarebbe infranto, lo percepiva dal suo tono che, con l’avanzare delle sue parole, si faceva sempre più basso e frazionario.

Camus sorrideva, ma era molto triste, lo sentiva dentro il suo cuore. Si rattristò anche lui, mentre, torturandosi le mani, abbassava lo sguardo, non sapendo bene come agire.

In quell’istante, la brezza leggera si fece un poco più intensa, potando via alcuni fiori di mimosa che si persero nel vuoto della scogliera.

Era un momento solenne, Camus non gli avrebbe perdonato un’intromissione, ma Milo desiderava a sua volta che il messaggio potesse arrivare alla persona a cui Camus si stava rivolgendo, pertanto, in religioso silenzio, senza fare il più piccolo rumore, si avvicinò all’enorme tronco, affiancandosi al bimbo dagli occhi blu per poi circondare con le sue braccia la corteccia e posare a sua volta la fronte su essa.

“Per favore, Grande Albero, non so cosa vi siate detti, ma porta il messaggio a lei, per favore!”

A lei… Milo sentiva che si trattasse di una femmina, non seppe bene perché. Rimase con gli occhi chiusi per una serie di secondi, concentrando le sue forze per condurre i petali là dove dovevano essere portati, al di là del mare. Poi, lentamente, riaprì le palpebre, che si incontrarono con quelle perplesse e un poco spalancante di Camus, che lo fissava a bocca aperta, un poco rosso in viso, per l’imbarazzo.

Oho!

Milo quasi saltò nell’accorgersi che il compagno lo stava squadrando da capo a piedi, a metà strada tra il mal disposto per essere stato visto in una simile tenuta e l’incerto.

“Oh, ehm, scusami… SCUSAMI, n-non… - cercava di farsi perdonare lui, prima di ricordarsi che non capiva il greco e mettersi a tossicchiare – Aspetta solo un attimo, Camus, ehm… ecco… ma dov’è?”

Si era messo a cercare qualcosa tra le tasche, non trovandolo. Si diede una sberla sulla guancia, prima di ricordare dove l’avesse infilato e, pertanto, continuare la ricerca nello zaino che aveva con sé. Camus, neanche starlo a dire, nel frattempo si era allontanato, rosso in volto, dandogli la schiena e chiudendosi a riccio nell’osservare il mare, come se si fosse sentito scoperto, fragile, come in verità era per davvero, ma come non voleva dimostrare a nessuno.

“Eccolo!” si riscosse finalmente Milo, avendo individuato quanto cercava ed estraendo quindi un quadernetto di dimensioni ridotte, prima di cacciare la sacca da una parte e aprire quello con tutte le dovute attenzioni.

“Eh, dunque… allor… - quasi si slogò la mascella nel tentare di ripetere l’accento francese che non possedeva – Ah, ehm comment tu… no, aspe!”

Affinò lo sguardo, impegnandosi al massimo, individuando una frase che poteva rivelarsi utile.

“Tu t’appelle… erk, no elle s’appel...”

“...”

Forse chiedere subito come si fosse chiamata lei era troppo prematuro, decise di prendere alla larga, molto alla larga.

“Donc… ehm, Je t’aie vu… avant, no… indietr… sigh!”

I suoi sforzi; gli sforzi che aveva fatto in quei mesi per spiccicare parola in francese e farsi comprendere da lui, sembravano del tutto andati a vuoto. Se si concentrava sulla pronuncia, dimenticava la parola, se la esprimeva, l’accento gli usciva greco… c’era proprio da piangere e Camus rimaneva fermo immobile, a dargli la schiena.

“Sigh… Perdonne-me pour… per questo, Camus! Non vulev fart ici, non volevo intromettermi in un momento così… BUAAAAAAAA!”

Si era di nuovo messo a piangere… Camus si ritrovò a sospirare profondamente, mentre lentamente si girava verso di lui, studiandolo ancora una volta con quegli immensi occhi blu.

Milo aveva una faccia da funerale, quasi singhiozzava da quanto gli dispiacesse aver rovinato tutto. Faceva pena, senza mezzi termini. Ragion per cui il futuro Acquario, tornado a concentrarsi sul confine tra mare e cielo, decise, per la prima volta, di rivolgergli parola.

“Esprimiti pure in greco, non c’è bisogno di straparlare nella mia lingua natia, se non la conosci...”

Milo si sentì come colpito da un fulmine. Lo fissò incredulo con faccia ebete e tanto di bocca spalancata. Si stropicciò gli occhi, si diede i pizzicotti, convinto di trovarsi in un sogno.

“E-eh?!”

“Ho detto di parlare pure nella tua lingua madre senza per forzare storpiare la mia, di lingua. Non occorre, riesco a capirti!”

E da quando?! Da quando parlava greco, se erano stati mesi in cui o non si esprimeva affatto, o parlava in francese, al massimo in italiano con Aiolos. Cos’era quell’improvviso miracolo?!

“E… e da… da...” balbettava per l’emozione, stava avendo il primo dialogo civile con quel bambino che lo aveva catturato dal primo sguardo, sebbene continuasse a guardare altrove, il mare, probabilmente per nascondere il suo malessere, che invece era ben tangibile.

“Da quando, mi chiedi? - finì Camus per lui, continuando a non voltarsi – E’ da più di un mese. Ho scoperto di leggere le iscrizioni in greco antico senza alcuna difficoltà, da lì sono arrivato al moderno. All’inizio dovevo sforzarmi un po’ per riuscirci, mi sono allenato molto sui libri, ma alla fine ce l’ho fatta, grazie anche ad Aiolos”

“Quindi l’altro giorno, sulla spiaggia...”

“Capivo quello che dicevate, sì...”

“E allora perché...”

“Non avevo voglia di parlarvi, tutto qui”

“Oh… - Milo era sinceramente sbalordito, lui non conosceva che il greco a malapena e aveva ancora difficoltà a pronunciare alcuni termini, Camus invece padroneggiava già pienamente due lingue e stava per abbracciare la terza – S-sei un poligola allora!!!” trillò vivace, regalandogli un largo sorriso.

“S-sono un…?!”

Camus si era voltato verso di lui, non capendo, i suoi occhi finalmente si erano incontrati con quelli vivaci di Milo, azzurri come il cielo sereno, non come i suoi, che rassomigliavano ad un mare tempestoso.

“Uno che sa tante lingue!” si sbracciò ancora il futuro Scorpione, puntellandosi sulle dita dei piedi e allargando le braccia.

In verità aveva nuovamente avuto l’impulso di correre ad abbracciarlo, ma si era trattenuto, anche se a stento, perché sapeva che l’altro bambino mal tollerava il contatto fisico, e Shaka lo sgridava ogni volta.

“Poliglotta, volevi dire?”

“Poli-giotto?!” ripeté Milo, incartandosi sulle parole.

“Lascia perdere...” sbuffò l’altro, discostando lo sguardo e tornando sotto la mimosa, che accarezzò, lieve, con le manine, prima di poggiare nuovamente la fronte sopra l’immenso tronco.

Il suo corpo palpitava, come uno scricciolo nel nido, impossibile sbagliarsi, Milo giurò di aver visto uno strano luccichio negli occhi, come di pianto trattenuto. Lui sapeva di essere un po’ tonto, ma altresì era consapevole di possedere una particolare dote di comprendere i sentimenti degli altri, e con quel bambino gli riusciva perfino meglio!

“Perché… sei così triste?” chiese di riflesso, accennando un passo nella sua direzione per provare ad essergli di conforto. Purtroppo la reazione che ottenne fu di concreta opposizione.

“IO NON SONO TRISTE!” esclamò l’altro, voltandosi di scatto, guardandolo con astio. Aveva fatto centro invece, e questo lo irritava ancora di più, perché significava che la sua apparente compostezza era stata facilmente incrinata da un misero bambino più piccolo di lui che non sapeva neanche parlare correttamente una lingua. Imperdonabile essersi mostrato così fragile!

Sì che lo sei… sei molto triste da quando sei giunto qui, Camus, lo percepisco bene, come se qualcosa ti fosse stato strappato con la forza. Scappi da tutti, anche quando sei in mezzo a noi sei altrove ed io, non so perché, lo percepisco bene, come se ti avessi sempre conosciuto e fossi un libro aperto per me.

Milo sospirò, decidendo di proseguire per gradi, con calma, perché quel bambino dagli occhi blu e malinconici era finito in mezzo a loro, malmenato e picchiato quasi a morte, ma mai un secondo si era mostrato fragile, se non quando dormiva oppure fino pochi minuti prima, quando sorrideva a quell’albero e lo accarezzava con gentilezza, preda di un ricordo che gli faceva male.

“Lei… chi è?” chiese, un poco titubante, ma determinato.

“Lei… chi?” prese tempo Camus, guardingo, sentendosi esposto.

“La persona a cui ti sei rivolto prima, con quel sorriso, come se la mamilosa potesse portare il tuo messaggio...”

Camus avrebbe voluto dirgli schiettamente che non erano affari suoi, rimproverandosi per aver abbassato così la guardia ed essersi così mostrato fragile, ma quelle poche parole, invece, quel genuino desiderio di sapere e, forse, di essergli di conforto, lo avevano fatto vacillare paurosamente, abbattendo poi ogni sua difesa. Si lasciò cadere ai piedi del grande albero, la schiena contro il tronco, le ginocchia piegate verso il petto, chiuso all’intero mondo. Ma non a Milo, non più, né alla grande mimosa accarezzata dal vento.

“La mia… sorellina” disse infine, nascondendosi ancora di più il viso tra le braccia. Appariva appena, con quei ciuffi che sembravano un riccio, con quello sguardo dolente, spento, infinitamente triste, che continuava a fissare il mare che probabilmente lo divideva da lei.

“Hai una sorella più piccola… non lo sapevo!” mormorò Milo, con una dolcezza nel tono di voce che Camus percepì forte dentro di sé, sebbene tentasse di non dimostrarlo. Lo vide poi avvicinarsi a lui per sedersi a poca distanza, rispettando i suoi spazi, la schiena a sua volta contro il tronco e lo sguardo rivolto alle fronde odorose e colorate di giallo.

“Io, sai… non ho mai conosciuto i miei, non so cosa si prova ad averli, tanto meno posso immaginare cosa significhi avere una sorellina” si confidò, sorridendo tristemente.

Camus non disse niente ma lo ascoltava con attenzione mentre parlava della sua breve vita senza vergogna né problema alcuno. Era inconcepibile per lui, aveva capito che il bambino dagli occhi azzurri e i capelli ribelli amasse chiacchierare, ma non al punto di parlare della sua vita, dei suoi segreti, perfino delle cose più vergognose, come quando si era fatto la popò addosso dopo un incubo e Saga di Gemini aveva dovuto pulirlo. Non aveva esitazione alcuna ad esporsi, e questo lo frastornava fin nel profondo. Si fidava di lui senza conoscerlo, come era possibile?! Come ci riusciva?!

Milo era stato preso sotto l’ala protettiva di un certo Adelpho fin da piccolissimo proprio perché i suoi erano morti poco dopo la sua nascita. Questo signore era intrallazzato con il Santuario e con Shion, a quanto pareva, ciò aveva promesso al piccolo di crescere lì, insieme ad Aiolia e Aiolos, greci anche loro, e ovviamente alo stesso Saga di Gemini. Quella era stata la vita di Milo, il futuro Scorpio, fino ad allora, strappato dagli affetti prima che se lo potesse ricordare. Camus tremò appena.

“Sai, Adelpho… lui è un grande, è grazie a lui che...”

“Perché… mi stai raccontando tutto questo?” chiese di getto Camus ad un certo punto, a disagio, trovando finalmente il coraggio di guardarlo in faccia.

Milo lo fisso stupito, frastornato quasi quanto lui nell’aver udito quella semplice domanda che non capiva.

“E perché siamo compagni, no? E amici...”

Sembrava così naturale nell’esporre un qualcosa che per lui era un’ovvietà, ma ciò sconvolgeva solo di più il giovane cuore del piccolo Camus.

“Noi non… uff – sospirò, sentendosi ancora più esposto, osservando un ramoscello dell’albero ondeggiare per il vento. Era così bello… - La fai troppo semplice, non si diventa amici così, su due piedi!”

“Questo vale per te, certo, per me lo sei già, Camus!”

“Per-perché?! I-io non… mi conosci solo da pochi mesi...”

“Tutti quelli che vengono qui sono miei fratelli; i fratelli che non ho potuto avere, ma tu sei diverso, Camus, sei… speciale e… e non lo so spiegare in altro modo ma ti conosco, sento di conoscerti da una vita. Per te non è uguale?!”

“N-no! Non ti ho mai visto prima di giungere qua!” esclamò, riottoso, sebbene conscio di star dicendo una frottola. Non era così, aveva avuto modo di pensarci molto in quei pochi mesi, anche lui aveva avuto la stessa sensazione. E quel ciclamino che gli aveva regalato, che lui aveva provato a ripiantare nella speranza che si potesse salvare, anche quel fiore gli diceva qualcosa, aveva una certa simbologia, ma ammetterlo non era propriamente possibile.

“Pazienza… prenditi il tempo che vuoi, io sono qui!” mormorò ancora Milo, con naturalezza.

Camus sgranò gli occhi a quella frase, fissandolo con sempre maggior sbigottimento. Sono qui. Era lì, già, con lui. Forse non era solo, sebbene si costringesse ad esserlo.

“Milo…”

Anche Milo sgranò gli occhi, esterrefatto, quella era la prima volta che lo chiamava per nome, ciò gli procurò un’emozione fortissima. Miloù era così strana quella pronuncia in francese, con quella I così stretta e con la O che invece si prolungava, camuffandosi quasi in una U… così buffo, gli piaceva particolarmente come suonava.

“Perché l’altro giorno, quando pensavi che mi avesse inghiottito il mare, hai gridato e pianto così tanto?! - gli chiese, imbarazzato, prima di ingoiare a vuoto – Perché mi hai… abbracciato, quando mi hai visto?!”

“Perché…? Davvero non lo riesci a capire, Camus?”

Il futuro Acquario non resse quello sguardo così limpido, chiudendosi ancora di più a riccio, le ginocchia sempre tenute dalle braccia e nascondendo il visetto per la vergogna.

“No, non lo capisco… - ammise, con difficoltà, prima di farsi forza.

“Pensavo tu fossi morto e avevo paura...”

“Perché?”

“Adelpho mi ha detto che succede così quando vuoi tanto bene a qualcuno… poi hai paura di perderlo!”

“E tu hai paura di perdermi… perché? - chiese ancora Camus, sempre più in difficoltà, prima di arrivare, tremante, alla conclusione – E’ perché mi consideri tuo amico?”

Milo sorrise ma non rispose, per la prima volta in vita sua privilegiò il silenzio, tornando a guardare il grande albero di mimose, annusandone il profumo, che gli pervase le narici. Rimasero in silenzio così per un po’, senza bisogno di parlare, Milo manteneva le distanze, Camus, per la prima volta, sentì l’impulso di accorciarle quelle stesse distanze, ma si trattenne.

“Sei… fatto strano!” la buttò lì, un poco nervoso.

“Me lo dicono in tanti!” Milo gli rivolse un largo sorriso, prima di mettersi a canticchiare nel godersi l’aria tersa di quel giorno di metà marzo.

Già, era fatto strano… Camus ne era assolutamente sicuro, nessun altro bambino si era mai comportato così con lui, all’asilo lo picchiavano e lo prendevano in giro perché non parlava e aveva difficoltà a socializzare. Probabilmente lo consideravano strano, ma in una maniera cattiva, e lo isolavano. Milo invece era uno strano ma buono, non sembrava demordere, nonostante gli atteggiamenti quasi brutali di Shaka, nonostante alcuni grandi, lo aveva ben notato, storcevano il naso quando lo vedevano. Ma a quel bambino dagli occhi limpidi e profondamente turchesi, non gli importava, lui era semplicemente Milo.

Camus si ritrovò a sospirare, il viso nuovamente parzialmente nascosto nelle ginocchia. Per la prima volta in vita sua da quando era stato separato dalla famiglia, si accorse di avere il bisogno di esprimere ciò che sentiva.

“Mi… manca… tanto...” si raschiò la gola, mordendosi spietatamente le labbra per evitare di piangere. Provare a spiegare il vuoto che sentiva, sì, ma le lacrime no, le odiava, ed erano inutili.

“La tua sorellina?” chiese Milo, in tono dolce, avvicinandosi di qualche centimetro a lui, pur continuando a non toccarlo.

“S-sì...”

“Vuoi parlarmene?”

“N-no, fa male...”

Non sapeva neanche lui cosa fare o dire. Avrebbe voluto, in fondo, ma qualcosa lo tratteneva. Un brivido lo colse. Per quanto Milo fosse dotato di pazienza, presto si sarebbe stufato, lo avrebbe lasciato lì, solo, e avrebbe avuto tutte le ragioni per farlo. Ci provava per davvero a tentare di liberarlo dal guscio, ma lui continuava ad essere chiuso al mondo. Aveva paura; aveva paura che se andasse. Non voleva, ma…

Qualcosa gli toccò la manina, sussultò per la sorpresa, mentre le dita di Milo gli accarezzavano delicatamente il palmo: si era avvicinato ulteriormente a lui, ne poteva percepire il calore.

“Lo so che fa male, ma, forse, se ne parli, ti sembrerà di averla vicina...” ipotizzò lui, sorridendo sempre con infinita pazienza e una dolcezza che lo frastornava.

Camus non rispose subito, ma si lasciò toccare da lui, quasi cullare.

“L-ho persa… non tornerà più indietro, n-non ha senso che io mi strugga!” biascicò, teso.

Milo non sapeva bene cosa potesse significarsi struggersi, Camus, per la giovane età che aveva, 6 anni da poco compiuti, possedeva un vocabolario illimitato, come un prodigio. Lo ammirava sinceramente.

“Quanti anni ha?”

“Cinque meno di me, compie un anno oggi...” rispose Camus e, per un breve istante, tornò anche quel suo sorriso che sembrava rivolgere solo alla sorellina.

“Oh, è piccolissima! Come è fatta?”

“Sì, è piccina, è… molto delicata! - ammise, sempre con quel sorriso triste e un’espressione dolcissima – Quando è nata aveva gli occhioni scurissimi, sembravano neri...”

“E ora?”

“Blu… come i miei!” rispose, con una punta di orgoglio, come se averli dello stesso colore fosse una cosa importante. Lo era, per lui, infinitamente!”

“Sa parlare?!”

“N-no, è presto per lei, fa versi strani, tipo ‘ugeeee’, cose così, ma, dentro di me, e solo a me, parla… - rispose, convinto, prima di mordersi il labbro inferiore e assumere un’espressione dolente – Parlava… prima che ci separassimo”

Sembrava una frase priva di senso; una di quelle frasi in cui i grandi avrebbero storto il naso, scrollando poi il capo e sussurrando tra i denti un “bambini...” probabilmente con un sonoro sbuffo, ma Milo comprese subito il suo reale significato.

“Riesce a parlare al tuo io interno con il suo...” disse, ammirato.

“Qualcosa del genere...”

“SIETE ENTRAMBI SPECIALI ALLORA! Perché lei non è qui?!”

“N-non lo so...” biascicò Camus con difficoltà, sentendo improvvisamente le orecchie pulsare con forza. Un frastuono fastidioso stava prendendo le redini della sua testa, tamburellava da tempia a tempia, facendolo sentire male. Si mise una mano, e poi l’altra tra i capelli. Milo non parve capire subito il suo malessere, forse perché un gruppo di rondini aveva cominciato a volteggiare sopra le loro teste, attirando la sua attenzione.

“Cosa vi è successo per essere separati?”

“I-io...”

“Perché tu sì e lei no? Se comunicate tramite i vostri io, il Nobile Shion avrebbe dovuto portare qui anche lei...”

“N-non...” si passava le mani sulla fronte, sempre più affaticato, qualcosa aveva preso a vorticare nella sua testa, sempre più veloce. Per quanto si sforzasse, non riusciva a trovare una risposta a quelle domande. Nulla. Il vuoto. La frattura, impossibile riavvolgere il filo, si era smarrito.

“Camus… - la voce di Milo gli giunse appena, a stento la udì – Non ti ho fatto la domanda più importante: come si chiama lei?”

In quell’istante qualcosa si ruppe dentro di lui, si sentì precipitare nel vuoto, al limite della sofferenza. Il piccolo Milo ebbe appena il tempo di voltarsi verso di lui e sgranare gli occhi e di rendersi conto di quanto si sentisse male, prima di avvertire il suo urlo propagarsi oltre le fronde del Grande Albero.

“CAMUS!” lo chiamò, correndo ad abbracciarlo, perché il bimbo aveva preso a dimenarsi, desiderando quasi prendere a testate l’albero per dare freno ad un dolore che, a giudicare da come si divincolava, percepiva forte e chiaro dentro di sé.

“Camus, mi dispiace! Io… io… non volevo! TI PREGO, CALMATI!”

Ma il piccolo, vittima degli incubi, non riusciva a udirlo, stringendo convulsamente le manine e respirando a scatti, come se qualcosa gli bloccasse la gola. Non c’era più il Grande Albero, davanti a lui, non c’era più Milo, al suo fianco, né il ricordo della sorellina ad alleviargli un poco l’animo, no, vi era solo il buio, e dolore, qualcuno che lo prendeva a calci, qualcuno di cui non riconosceva il volto, ma la risata, quella sì, era impressa a marchio nei suoi timpani!

Qualcuno lo colpiva con foga, per fargli male, a lui e alla sorellina, qualcuno era giunto per ucciderla, già, uccidere lei, la sua…

Tentò di chiamarla per nome per farle forza. Si ricordava che l’aveva stretta al suo petto per proteggerla da qualcuno di maligno, di aver avuto paura di perderla, e ancora… i suoi pianti…

Provò a farsi forza, sforzandosi di far uscire la voce per raggiungerla, ma… raggiungere chi?! Si accorse, con una nuova punta di terrore, di non avere più un nome da abbinare a lei, che pure era ben nitida nelle sue memorie, un fagottino profumato di mimosa, delicato come il significato stesso della vita medesima.

Già… la sua figura c’era, ancora, ma svaniva sempre di più tra le sue braccia, fino a dissolversi. Aveva perso per sempre il suo nome, come era possibile?! Lei, che era così importante per lui, lei… persa come polvere nel vento.

Camus singhiozzò senza lacrime. Si accorse appena di essere sorretto da qualcuno. Sebbene fosse adagiato su un fianco, avvertiva un braccio sotto di sé, con enorme sforzo gli strinse le dita, come dare ad un freno a quel dolore. Riaprì faticosamente gli occhi.

“Camus?!” chiese speranzoso Milo, spaventato a morte da una tale reazione.

“L-l’ho persa...” biascicò a stento, il respiro rotto.

“C-chi?” non sapeva se continuare a parlargli per mantenerlo vigile o cos’altro, si spaventò ancora di più.

“L-lei, la mia sorellina… - sussurrò, sofferente, producendo un lungo sospiro – Ho smarrito il suo nome...” riuscì ancora a dire, prima di perdere coscienza.

 

 

* * *

 

 

Milo si sentiva dannatamente in colpa per quello che aveva fatto. Non si era accorto che Camus si era sentito così male, e aveva continuato a porre quesiti su quesiti, finché il bambino non era crollato.

Ora si trovava lì, le mani strette alle ginocchia, nel soggiorno della casa di Aiolos, sotto gli occhi la porta della camera chiusa, perché Milo, coniugando tutte le sue forze da cinquenne lo aveva preso in spalla e condotto dal Cavaliere del Sagittario, che lo aveva portato in camera per visitarlo. Aiolia, invece, pur presente quando lui era giunto, se ne era andato sbuffando, probabilmente geloso delle attenzioni che il fratello maggiore riservava al nuovo venuto. Era rimasto quindi da solo a ciondolare con il busto e muovere nervosamente le gambe. Solo con i suoi pensieri.

Finalmente Aiolos uscì dalla porta, lasciandola socchiusa. Inutile dire che si fiondò istantaneamente nella sua direzione.

“Come sta?!” chiese, con le lacrime agli occhi.

Aiolos gli sorrise con dolcezza, prima di chinarsi verso di lui e passargli una mano tra i capelli.

“Bene. Non ti preoccupare, ora sta dormendo!”

“Ma prima...”

“Prima, da quanto mi hai riferito, ha avuto una brutta crisi, ma si è risolta nel migliore dei modi, non corre alcun rischio per la salute, i lividi sul sul suo corpo sono ormai guariti!”

“Fiuuuu… menomale!” buttò fuori aria, mentre le gambine gli facevano ‘giacomo giacomo’.

“Però è necessario chiarire un punto, Milo… - la voce di Aiolos aveva assunto una sfumatura severa, mentre cercava il suo sguardo – Camus, lo hai ben visto da te, ne viene da una brutta esperienza a noi sconosciuta, sarebbe meglio non chiedergli troppo circa il suo passato, mi intendi?”

“I-io… non volevo! Stavamo parlando e lui…”

“Lo so, birbantello! - la voce di Aiolos era tornata dolce di consueto, mentre gli passava la mano tra i capelli – Comunque sei stato bravo a dialogare con lui, sei stato il primo bambino a farlo!”

“Mi ha parlato di sua sorella, ci tiene davvero tantissimo a lei, perché il Nobile Shion non ha portato qui anche lei?! Camus starebbe molto meglio!”

“Non lo so, piccoletto, ma se il Nobile Shion ha pensato che fosse meglio così, una ragione ci deve essere, no?! Lui è vecchio e saggio, vede molto più in là di noi!”

Milo annuì con poca convinzione, desiderava sapere qualcosa in più, ma era impossibile. Rialzò il visetto un poco corrucciato, ricercando l’attenzione di Aiolos.

“Posso… vederlo? Vorrei stare un po’ con lui” chiese, riferendosi a Camus.

“Dorme, Milo...”

“Non lo disturberò, giurin giurello, ti prego!” insistette, quasi saltando sul posto.

Aiolos si lasciò scappare una risata: “Va bene, allora, ma cinque minuti massimo, ok? Anche perché si sta facendo buio, devi tornare a casa!” lo avvertì, lasciando la porta per permettergli di entrare.

Il piccolo non se lo fece ripetere due volte, con gli occhioni luminosi annuì, entrando poi nella camera e rinchiudendosi la porta alle spalle.

La stanza era in penombra, sufficientemente chiara per muoversi da non rendere necessaria la luce artificiale, ma al contempo abbastanza scura da rendere l’atmosfera ovattata e tranquilla. Camus era steso sul grande letto singolo, si percepiva il suo profondo respiro, Milo prese una sedia e, issandosi, prese posto al suo fianco, guardandolo con attenzione. Le coperte lo coprivano parzialmente, indossava un pigiama blu a pois che, rispetto al suo corpicino, sembrava grande almeno il doppio. Un braccio tirato su, adagiato vicino al suo visetto, piegato a formare una elle al contrario, l’altra mano tratteneva le coperte, quasi le stringeva, come se, nella sua mente, tenesse stretto qualcos’altro. L’espressione non era affatto lieta.

Le dita di Milo si mossero istintivamente a scostargli gentilmente un ciuffo dalla fronte, gesto avvertito dal piccolo, che si mosse appena, infastidito, serrando difficoltosamente le palpebre: stava avendo un incubo, probabilmente sulla sorellina, era così lampante. Doveva mancargli parecchio…

Ad un certo punto, Camus si girò con stizza, dandogli le spalle e calciando via le coperte del letto, che gli davano fastidio, o chissà, forse, sempre nell’incubo, cercava di sfuggire a qualcuno. Il gesto scoprì parte della schiena, chiara come una falce di luna. Fortunatamente le cure del Tempio avevano sortito effetto, di quegli orrendi lividi non era rimasta che un’ombra appena accennata destinata a sparire, ma era lampante che il trauma fosse ancora ben vivo in lui. Milo fece per chinarsi verso di lui e ricoprirlo, ma nello stesso momento Camus si voltò di nuovo verso di lui, sempre calciando comunque le coperte. Sembrava fare le baruffe.

“Mmmm-o”

Era un ‘no’ o un buffo tentativo di chiamare il suo nome?! Comunque lo aveva espresso in un tono talmente impastato che gli aveva subito procurato una risatina tra sé e sé. Milo gli raccolse pazientemente le coperte, sistemandogliele sopra in modo da tenere fuori solo le mani. Prese un profondo respiro, rimanendo a guardarlo per tutti i minuti successivi. Così fragile, così malinconico… e aveva già subito una sofferenza atroce in quei pochi anni di vita.

...anzi, di più, Milo sapeva bene che c’era un motivo se il piccolo Camus era messo così, lo sentiva dentro di sé, come verità sussurrata alla sua anima. Provò l’impulso di alleviargli le sofferenze, di rivederlo sorridere ancora una volta, come gli aveva visto fare sotto l’albero di mimose.

Il vero sorriso di Camus, il vero sé stesso.

Scese dalla sedia rendendosi conto che fuori si stava facendo buio e che avrebbe dovuto rincasare, si diresse quindi dalla porta di uscita, fermandosi per una manciata di secondi a riflettere. Camus aveva bisogno della sorellina, ma Aiolos gli aveva consigliato di lasciar perdere, di non far riaffiorare un passato che avrebbe potuto solo farlo soffrire di più. Il bambino non si ricordava più il nome della sorellina, e questo era straziante. Che fare, dunque? Non c’era neanche bisogno di chiederselo, la risposta era certa dentro di lui, ma le sue dimensioni ridotte ostruivano non poco. Pazienza, ci sarebbe voluto tempo, ma ci sarebbe riuscito prima o poi.

“So che ti manca molto, Camus, l-lo… lo sento, capisci? - chiese retoricamente, ben sapendo che non poteva udirlo – E’ come se ti mancasse metà, forse anche di più, di te stesso...”

Già, lo avvertiva dentro di sé, quasi percependo una parte del suo dolore, rendeva difficile la respirazione, a lui, figurarsi a Camus!

“Aiolos mi ha consigliato di seppellire il passato per non farti male ma io non sono d’accordo, non posso accettarlo in nessun modo, per cui… lascia che ti faccia una promessa! – prese un nuovo, più profondo, respiro, forzando le sue corde vocali a manifestare una voce determinata e sicura – Io… la troverò! Troverò la sorella di cui tu hai smarrito il nome, la troverò e te la riporterò, prima o poi, giurin giurello! Sarai felice, tornerai a sorridere!” compì una promessa solenne, mentre gli occhi gli si illuminarono di una strana luce ricolma di determinazione.

Lasciò quella stanza con una nuova consapevolezza nel cuore, ci sarebbe riuscito, in un modo o nell’altro.

Era una promessa.

Una promessa che avrebbe aspettato anni, per essere adempiuta, ma che avrebbe mantenuto… a qualunque costo!

 

 

 

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

E rieccomi in questa storia, che ho tenuto ferma per troppo tempo.

In questo capitolo ho voluto tirare fuori dal cappello, chi più chi meno, tutti, ma proprio tutti i Gold (tranne Dohko che però comparirà anche lui prima o poi, abbiate fede!), ad ognuno di loro vorrei dare una storia, un vissuto e, sebbene il focus rimanga su Camus, qui avete potuto vedere qualcosa in più su Deathy, che approfondirò in questa e nella altre storie. Lui, insieme ai compagni Aphro e Shura è già Gold, (è più grande del gruppo dei piccoli), e qui ho messo le base sul rapporto che avrà poi con Saga di Gemini.

Al solito, sebbene si possa reggere come storia a parte, i riferimenti alle altre storie ci sono sempre e comunque, chi legge tutto le potrà ben scorgere: questo capitolo si rifà al 12 della Sonia’s side story, in cui Milo, diciottenne, parlerà ad Aiolia proprio di come sia nata l’amicizia con Camus, appunto, come prende il titolo, sotto le mimose di marzo :)

Una precisazione: Camus ha scoperto di saper leggere il greco, anche qui la spiegazione c’è, nella mia serie, cioè che, per come ho imbastito il personaggio, lui è un semi-dio, ha quindi facilità ad apprendere tale lingua, oltre ad essere una sorta di genio.

Milo, al termine del capitolo fa una promessa a Camus, quello di riportargli la sorella… cosa che effettivamente mantiene, con i suoi tempi, dopo anni, ma che mantiene, proprio come si legge nella Guerra per il dominio del Mondo! ;)

Grazie a tutti come sempre, ho tanto da scrivere, come sapete, dovendo portare avanti più storie, spero comunque di non farvi aspettare un altro anno per l’aggiornamento di questa, i piccoli Gold portano sempre una ventata di brio, almeno per me, mi diverto molto a scrivere di loro ^_^

 

 

  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Saint Seiya / Vai alla pagina dell'autore: MaikoxMilo