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Autore: BabaYagaIsBack    07/03/2021    0 recensioni
● Book II ●
In una notte Aralyn ha compiuto nuovamente l'impossibile, mettendo in ginocchio l'intero clan Menalcan. Ha visto ogni cosa intorno a sé macchiarsi del colore del sangue e andare distrutto - forse per sempre. Così, in fuga dai sensi di colpa e dal dolore che le schiaccia il petto, si ritrova a essere ancora una volta l'eroina del suo branco e il mastino al servizio del Duca, ma anche il nemico più odiato dai lupi del vecchio Douglas e l'oggetto di maggior interesse per il Concilio che, conscio di quale pericolo possano ora rappresentare i seguaci di Arwen, è intenzionato a fargliela pagare.
Ma qualcuno, tra i Purosangue, è disposto a tutto pur d'impedire che la giovane Aralyn Calhum venga punita; anche mettere a punto un "Colpo di Stato".
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Triangolo
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Capitolo Ventuno

Something left behind

Ai suoi piedi, come un letto di petali bianchi, se ne stavano decine e decine di fogli scritti. Joseph li osservò ancora qualche istante e poi, infastidito dal caos e dall'inconcludenza delle sue ricerche, trangugiò il contenuto del bicchiere che teneva tra le mani - il brandy peggiore che avesse bevuto negli ultimi tempi. Eppure, nonostante quella roba lo schifasse, ne aveva comprate quattro bottiglie; perchè il saporaccio del liquore sarebbe sceso bruciante lungo la gola, di tanto in tanto gli avrebbe infastidito lo stomaco a sufficienza da tenerlo sveglio, anche se sempre meno vigile.
In mezzo a quelle scartoffie non aveva ancora trovato nulla: non un nome, un indirizzo o un numero, solo annotazioni di una giovane madre frustrata, gli sfoghi di una donna a un passo dall'esaurimento nervoso - e fotografie ingiallite di un'infanzia all'apparenza felice, insieme a qualche vinile conservato con talmente tanta premura d'apparire quasi nuovo.

Nell'osservare il marasma per l'ennesima volta, il ragazzo non riuscì a trattenere un nuovo sospiro.
Era stato certo, fino a quel momento, che tra gli appunti di Elizabeth avrebbe trovato la risposta ai suoi problemi, o quantomeno un indizio per scovare qualche altro licantropo disposto a sostenerlo in una simile impresa, invece non aveva scoperto nulla.

Spostando gli occhi sul bicchiere vuoto, si convinse che fosse arrivata l'ora di prendersi una pausa - tanto rileggere quella robaccia per la centesima volta non avrebbe fatto alcuna differenza. Niente c'era e nulla avrebbe scoperto. Così, posando l'oggetto che teneva in mano sul tavolino accanto al divano, si chinò sulle custodie in cartone colorato e, attentamente, si mise a esaminare la lista di tracce musicali dietro ognuna di esse; forse, si disse tra un titolo e l'altro, l'unica cosa ad accumunare i suoi genitori, oltre la licantropia e il sangue puro, era il gusto per la buona musica. Tra le poche memorie d'infanzia che ricordava piacere, c'erano i minuti segretamente spesi a ridosso della porta della studio di suo padre, quando preso dalla noia o dal desiderio di rilassarsi, Douglas metteva nel giradischi i 33 giri di David Bowie, degli Oasis o degli Smiths - e lui se ne restava lì, accovacciato e in ascolto, finché Gabriel, Leah o Kyle non lo costringevano a sgattaiolare via per non farsi scoprire.
Fu a quel pensiero che, dopo settimane, un sorriso gli tese con naturalezza le labbra. Non se ne rese conto subito, troppo occupato a far passare lo sguardo sulle scritte, ma quando lo fece sembrò quasi restarne sorpreso; dopotutto non gli capitava spesso di ricordare con piacere suo padre o qualsiasi cosa legata al Clan, per lo più si trattava di parti della sua vita che aveva sempre cercato di evitare, seppur non riuscisse mai ad allontanarsi realmente. Un lupo, gli era stato detto dall'Alpha dopo ciò che era successo al suo primo incontro con Arwen, non può sottrarsi al richiamo del sangue, specialmente se si tratta di quello del proprio branco.

Già, pensò, ma qual è il mio branco, ora?

Un anno prima non avrebbe avuto dubbi: i Menalcan. A prescindere dalla riluttanza nell'obbedire a Douglas e il suo lignaggio, loro erano la sua famiglia, coloro che gli avevano dato la vita e insegnato a essere il lupo mannaro che era diventato nel tempo. In quell'istante però, riflettendoci, avrebbe voluto dire altro. Oltre le sue labbra premeva una risposta completamente diversa: il Clan del Nord, i lupi di Arwen Calhum, i seguaci del Duca. I nemici che erano diventati amici - per poi tornare a odiarlo.
E il sorriso spuntatogli poco prima svanì in un battito di ciglia. Quel pensiero era amaro come la verbena, anzi, peggio! Poteva essere paragonato al brandy che dalla cucina lo fissava minacciosamente, ricordandogli quanto nauseante fosse il suo sapore.

Sospirando ancora, allora, si decise a scegliere uno degli album che teneva tra le mani, in modo da distogliere la mente dai pensieri più scomodi e occuparla con i testi delle canzoni incisevi sopra. Pigramente si rimise dritto, facendosi strada tra i fogli sparsi e, una volta arrivato davanti all'impianto stereo, si concesse qualche altro istante di contemplazione.

Se gli avessero detto, prima di quei mesi, che si sarebbe ritrovato a bramare la compagnia di un mucchio di Impuri, o che la sua anima sarebbe stata indissolubilmente legata a quella di una di loro, sarebbe scoppiato a ridere, nel peggiore dei casi l'avrebbe vista come una terribile mancanza di rispetto nei confronti della sua persona. Eppure, mentre in quel momento si prodigava a estrarre il disco, non poté far altro che avvertire la solita e fastidiosa stretta allo stomaco, un'amica che non pareva abbandonarlo mai. Sentendola farsi sempre più intensa, Joseph socchiuse gli occhi, cercando di resisterle al meglio - non aveva voglia, vista la stanchezza e l'alcol ingerito, di doversi occupare anche di lei -, ma qualcosa, d'improvviso, glieli fece riaprire. Una matericità strana catturò totalmente la sua attenzione, annullando la sensazione di disturbo data dall'ansia crescente. Qualcosa non quadrava, lo capì subito. Sotto ai polpastrelli infatti, insieme alla consistenza del vinile, c'era altro.
Svelto voltò Lp e, lì, incastrata le sue dita e il bordo di quell'affare, trovò una polaroid sbiadita. La confusione fu totale. Perché non era insieme alle altre fotografie? Elizabeth non avrebbe mai permesso che un suo ricordo di gioventù potesse subire a quel modo le angherie del tempo - eppure di quello scatto non si era preoccupata: per quale ragione?

Joseph aguzzò la vista.

Nonostante le rovinose condizioni dell'immagine, e la sua testa un po' confusa per via del brandy ingoiato fino a quel momento, riuscì a definire con relativa facilità ciò che vi era sopra. Seppur sfocate, sulla pellicola c'erano solamente un divano e due persone. A caratterizzarle nel medesimo modo vi erano lunghi capelli scuri, bocche grandi, visi asciutti e della stessa tonalità chiara, mentre tra le mani stringevano qualcosa ormai indefinibile, anche se al ragazzo quel dettaglio poco importò. Nel riconoscerli, non poté che sentirsi ancora più stranito. Per quale ragione quella polaroid si trovava lì? Perché era stata abbandonata in una custodia? Che... un'idea gli balzò prepotentemente tra i pensieri: e se fosse stata nascosta?

D'istinto la volse.
La calligrafia di Elizabeth svettava nera sul bordo della fotografia, riportando quelli che parevano essere la data e il luogo in cui era stata scattata - peccato che, osservandoli con attenzione, Joseph capì subito essere altro.
11 - 9 - 1212 non era una data, dopotutto dubitava sia che nel tredicesimo secolo vi fosse quel tipo di tecnologia, sia che la donna che gli aveva dato la vita potesse essere tanto vecchia; doveva piuttosto rappresentare delle coordinate, oppure un indirizzo... un nome, forse? Ma in che modo? Con Aberdeen, invece, fu semplice trovare una spiegazione: da quello che sapeva era la città d'origine della famiglia di sua madre, situata nell'estremo nord-est della Scozia. Eppure, come si legavano insieme quei due elementi? Che ci fosse altro?

Sussultò, capendo.
Gli altri vinili!

Incurante dei danni quindi, mollò la presa su ciò che teneva tra le mani, fiondandosi sul resto della misera collezione di Elizabeth e scongiurando tutte le divinità di sua conoscenza di non averne dimenticato nessuno tra le mura della Villa - perché chissà quale fine Douglas gli aveva riservato.
Smanioso tirò fuori da ogni custodia il contenuto e, pian piano, davanti a sé si andò a creare una modesta galleria di scatti, qualcuno più e qualcuno meno rovinato del precedente.

Eccola lì, la via di fuga di sua madre dal Clan. Ecco dinanzi ai suoi occhi la strada che lo avrebbe condotto all'ultima persona che, forse, avrebbe potuto aiutarlo - il problema, adesso, sarebbe solo stato decodificarne le indicazioni.

***

Aralyn sentiva il cuore martellarle nel petto. A ogni battito il torace le faceva un po' più male, eppure cercò comunque di restare impassibile - non era il momento di cedere, non poteva farsi vedere vacillante agli occhi di nessuno dei presenti. Nonostante questo però, non riuscì a distogliere lo sguardo dalle mani di Arwen, poggiate accanto a lei sul tavolo nel patio. In quel postaccio non c'era un luogo abbastanza grande e appartato per contenerli tutti senza creare un nauseante senso di claustrofobia, solo tante, piccole stanze appiccicate l'un l'altra; così, alla fine, avevano deciso di rinunciare alla privacy per una maggior comodità - dopotutto, presto o tardi, ciò che si sarebbero detti sarebbe stato di dominio pubblico all'interno del branco. E così in lei aveva iniziato a crescere con sempre maggior forza l'ansia. Giorno e notte, quella sensazione se ne era rimasta lì, in attesa che lei abbassasse la guardia, pronta ad aggredirla e smaniosa di atterrarla come il più sadico dei nemici - e in quel momento, a soli dieci giorni dalla partenza per l'Irlanda, aveva deciso di mettere ancor più a dura prova la resistenza della giovane Calhum. Con quella riunione, sfortunatamente, avrebbero scelto chi, tra i suoi più cari amici, l'avrebbe scortata davanti al Concilio e chi, invece, si sarebbe dovuto occupare del Clan fino al loro ritorno - e la consapevolezza di cosa l'aspettasse, nonché l'entità del sacrificio che stava per chiedere loro, la stava corrodendo dall'interno.

«Sei pronta?» Il sussurro del fratello la fece sussultare, riportandola con una certa brutalità al presente da cui si era involontariamente allontanata.
Aralyn sbattè più volte le palpebre e, osservando stranita i presenti, si rese conto che no, non lo era, ma doveva comunque fingere di esserlo - in fondo che alternative aveva? Nessuna. Non poteva sottrarsi a un simile dovere, non arrivata a quel punto; così annuì, anche se desiderò poter aggiungere qualcosa di più - peccato che le labbra parvero attaccate insieme, sigillate.
«Bene, iniziamo allora» per un solo istante, negli occhi dell'Alpha la sorella vide passare una luce tetra, la testimonianza di quanto anche lui stesse faticando ad affrontare la questione - eppure, la bocca di lui risultava essere ben più collaborativa della sua.

«Vi ho chiesto di venir qui, oggi, per discutere di una questione molto importante per... noi» il palpitare di lei parve aumentare ancora, si fece così forte che fu certa di essere sul punto di avere un infarto e, quindi, si portò con noncuranza una mano al petto, afferrandosi la maglia - ma se avesse potuto, avrebbe infilato gli artigli nella carne e stretto il cuore abbastanza da farlo rallentare.

«Spero che non abbiate intenzione di affrontare nuovamente i Menalcan, Arwen... non ne abbiamo le forze, attualmente. Siamo stanchi e decimati, ci servono riposo e nuovi lupi, non un'altra guerra» Marion si protese in avanti, storcendo le labbra in una smorfia seria, severa. Il suo sguardo si fissò con determinazione sul viso di lui e, nell'osservarla con la coda dell'occhio, Aralyn si sentì una persona orribile. La sua migliore amica se ne stava a un tavolo, circondata dalle persone a cui teneva di di più al mondo, ignara del putiferio che sarebbe scoppiato di lì a poco, e lei non aveva fatto nulla per prepararla a ciò che stava arrivando; con che presunzione si permetteva di stare in sua presenza?
L'albino si portò le mani al viso: «No, non è di questo che si tratta».
«Me lo auguro per voi, Calhum, perché al momento dubito di poter sopportare l'idea di dover seppellire un altro fratello» peccato che, inconsapevolmente, nel dire simili parole la donna portò prematuramente la conversazione proprio sull'argomento della riunione, alimentando l'agitazione della ragazza sedutale di fronte. D'improvviso, il peso della notizia che avrebbero dovuto dare le fece irrigidire i muscoli. Li sentì dolere fastidiosamente sotto la pelle e, nel cercare suo fratello, Aralyn notò in lui la medesima reazione. La mandibola era serrata, tanto da tradirne la calma, così come l'immobilità del pomo d'Adamo non lasciava presagire nulla di buono - e non fu la sola ad accorgersene. I gemelli tutto a un tratto corrugarono le sopracciglia, mentre le labbra di Garrel si schiusero in sorpresa e il corpo di Marion rimise spazio tra sé e quello dei due fratelli.

«P-perché fate quelle... quelle facce?»

Ma nessuno rispose.
Dirlo spaventava. Aprire bocca e pronunciare qualsiasi cosa in quel momento sembrò richiedere il più faticoso degli sforzi. Confessare la verità, in fin dei conti, significava renderla reale non solo per loro, ma per tutti - e quindi sarebbe stato inevitabile smettere di fingere che la minaccia del Concilio fosse ancora lontana.

«Insomma... c-che diamine s-sta succedendo?»
«Arwen, che cazzo, parla!» Alla confusione di Marion si unì l'agitazione dell'omaccione alle sue spalle, seguito dalle occhiate perplesse di Hugo ed Eike. Più tempo passava, più il silenzio dell'Alpha diventava un monito alle orecchie dei presenti, un campanello d'allarme che nessuno di loro avrebbe voluto udire. Eppure c'era, insistente come un tarlo deciso a perforare i timpani; e ogni istante d'esitazione, ogni parola che si rifiutava di uscire dalle labbra di Arwen, divenne nutrimento per quello stupido insetto.

Qualcuno doveva parlare, perché tacere non avrebbe fatto altro che stimolare la mente a creare scenari sempre peggiori - come se ce ne fossero - e mettere fine all'attesa divenne quindi un'esigenza sempre più assillante; bisognava trovare un colpevole che si assumesse la responsabilità del futuro che stava velocemente avanzando verso di loro e chi, se non colei che aveva firmato la propria condanna, poteva farlo? Così Aralyn allungò una mano verso il fratello, ne strinse le dita quasi illudendolo di dargli sostegno, la forza necessaria per confessare, ma prima che lui potesse concedere ai confratelli una qualsiasi spiegazione, aprì bocca. «Sono stata convocata» disse svelta, in un sussurro che le sembrò raschiare la gola, ferendola. Fu come parlare dopo giorni di silenzio, gridare con le tonsille gonfie, eppure non se ne pentì, non del tutto quantomeno. Certo, avrebbe preferito arrivare al nocciolo della questione diversamente, andando per gradi e preparando tutti, ma alla fine quello era e quello sarebbe rimasto; nessuna parola in più avrebbe reso la verità meno terribile.

«In che senso?» domandò un gemello.
«E... da chi?» aggiunse l'altro.

Quesiti leciti, pensò, ma non meno soffocanti. Immaginare i volti dei licantropi che l'avrebbero giudicata era un po' come infilarsi al collo un cappio, mentre concedersi il lusso di supporre la condanna equivaleva a stringerlo. Avvertiva l'aria rarefarsi, i polmoni supplicare pietà, ma non si lasciò prendere dal panico - sapeva bene di non potersi permettere una simile debolezza.

«I-io... io sono stata convocata dal Concilio per rispondere della morte di Douglas Menalcan».

Il silenzio cadde grave intorno a loro, schiacciandoli. Lo sbigottimento era tale da risultare palpabile, s'infilava tra i capelli e le ciglia, poi passava le viscide mani sulla carne nuda oppure sotto ai vestiti per trovare quella nascosta. Era ovunque, una presenza lasciva che Aralyn volle scrollarsi via di dosso il prima possibile - perché sapeva che si stava accanendo su di lei, lo percepiva distintamente.

«Puoi ripetere?» D'un tratto, a interrompere il silenzio, la voce di Marion si fece strada fino a lei in un soffio. Avanzò sino alle sue orecchie come una carezza tanto lieve da mettere i brividi, ancor più fastidiosa dello stupore generato dalle sue parole. La ragazza si sentì tremare, temette che il corpo volesse ribellarsi alla sua volontà di restare impassibile e, quando alzò lo sguardo sulla bionda di fronte a lei, ne fu certa, le viscere si ribaltarono e contorsero. Non fu il pallore sul viso dell'amica, né la linea dura delle labbra, ciò che l'agitò fino a quel punto furono gli occhi vacui e fissi nella sua direzione. C'era qualcosa di preoccupante in quella visione, nel modo in cui i muscoli della donna sembravano voler preannunciare una catastrofe, eppure Aralyn non riuscì a negarle una risposta - dopotutto erano lì per quello, no?

Annuì.
«Ho ucciso un Purosangue, Marion. E non uno qualsiasi» deglutì, anche se a fatica: «Quindi ora il Concilio pretende che mi presenti a loro per subire la giusta punizione. E' per questo ch-»
«La giusta punizione?!» L'altra gridò, alzandosi con uno scatto e battendo i palmi sul tavolo. La sua rabbia era totale, incontrollata, e da quel che la ragazza poteva ricordare era accaduto solo pochissime volte, prima. «Giusta per chi? Per quei bastardi? Per quei luridi vermi dei suoi figli? Eh?!» Il modo in cui le labbra si ridussero a una linea rosa, tesa, e i denti digrignassero dopo ogni parola mise in allerta tutti. Sarebbe bastata un'unica, misera scintilla e si sarebbe fatta sopraffare dalla mutazione, per questo sia i gemelli sia Garrel parvero retrocedere di qualche centimetro: «Cosa voglio d'altro quei figli di puttana?»
«Non è ovvio?» In circostanze differenti, persino Aralyn sarebbe scattata in piedi e si sarebbe messa a gridare per tenere testa all'amica, alla sua sottoposta, ma in quell'instante si costrinse a restare seduta; sotto al tavolo, lontano dagli occhi dei presenti, le sue gambe stavano tremando: «Istigarci, Marion. Loro vogliono del sangue per poterci ricordare qual è il nostro posto, non aspettavano altro che un motivo per farlo, per sottolineare la nostra inferiorità... ed io gli ho dato un pretesto. Io -»

«Tu hai lottato per il nostro Clan! Tu hai difeso il tuo orgoglio e Arw-»
«Io non sono l'Alpha!» La gola, con quel nuovo urlo, le dolette ancora: «Non era mio diritto farlo».

Marion sembrò riscuotersi. D'improvviso i suoi occhi tornarono lucidi, la bocca si rilassò e i muscoli parvero allentare la tensione. Per quelli che sembrarono istanti lunghissimi, le due femmine rimasero a fissarsi senza proferire alcuna parola, incapaci di aggiungere altro. Che fosse giusto, punire Aralyn per quell'unico omicidio, era cosa discutibile, soprattutto quando Douglas si era macchiato di molti più crimini. Erano entrambi lupi, guerrieri, bestie, eppure lei non sarebbe mai stata sua pari. Sarebbe bastato che al suo posto, a brandire il Pugnale, vi fosse Arwen. Sarebbe stato sufficiente che a recidere le membra del patriarca Menalcan fosse stato suo fratello, l'Alpha, e tutto quello non avrebbe mai avuto luogo - però, purtroppo, era stata lei quella a colpire.

«No, è vero» la voce di Hugo, senza alcun preavviso, s'infilò tra loro interrompendo il contatto visivo. «Non era tuo diritto, Aralyn. Era tuo dovere. Quell'uomo ci ha perseguitati, ha ucciso i nostri amici... ci ha strappato la carne dalle ossa e... ti avrebbe fatto cose orribili se ne avesse avuto modo, lo sai, quindi che tu sia un capobranco o un semplice membro del Clan, poco conta».
«Sei scemo?» Eike lo fulminò: «Poco conta? Guarda che invece è l'unica cosa importante, qui. Noi non siamo Puri, nessuno di noi lo è. Okay, forse alcuni sono nati da un ventre animale, ma restiamo abomini per loro... e ai Frankenstein non è permesso fare ciò che fanno le persone vere, li aspetta la forca o la pira se ci provano».
Mai, dalla sua bocca, uscirono parole più veritiere. Aralyn si sentì stringere il cuore udendole. Eike aveva perfettamente riassunto la questione, seppur in modo assai pittoresco.


Mordendosi il labbro, il ragazzo tornò a fissare i fratelli Calhum. Dapprima si soffermò su Arwen, quasi cercasse in lui l'approvazione necessaria per proseguire, poi, non ricevendo alcuna risposta, spostò lo sguardo su di lei: «Come lo hanno saputo?»
«Saranno stati quei vigliacchi dei suoi figli, no? Gabriel e Joseph!» Il grugnito di Marion fece sussultare l'amica, ma non seppe dirsi esattamente per quale motivo. Che fosse la sorpresa? Poteva essere, ma con più probabilità si trattava del fatto che Joseph fosse nuovamente stato tirato in mezzo al discorso.
«Ma perchè?» Garrel si fece largo verso il tavolo, incrociando le braccia: «Perché d'improvviso hanno voluto convocare il Concilio?»
Passandosi una mano tra i capelli, Arwen sembrò ricordarsi di essere lì. Dopo interminabili minuti di riflessione, o guerra interiore, aveva infine deciso di prendere parte alla conversazione: «Per ferirci. E per impedire al Duca di aiutarci» sbottò. «Sono stremati e numericamente ridotti come noi, ma a differenza nostra, noi potevamo chiedere aiuto a Carlyle senza doverci indebitare. Loro che alternative avevano, se non chiamare in causa il Concilio? Chiedere a Ophelia? Ora che Douglas è morto, dubito che quella vecchia megera sia disposta a collaborare con qualcuno. Può arrivare al potere, non le è di alcuna utilità assumersi il compito di risolvere le scaramucce da due Clan nemici».

«Okay, ma... non c'è un modo per evitare ad Aralyn di... presentarsi? Non potrebbe scappare?»
«No. I Sealgairean le darebbero la caccia e... beh, sappiamo tutti che portano sempre a termine il loro lavoro. Inoltre, daremmo al Concilio un deterrente in più per condannarla».
Marion distolse lo sguardo, prendendosi il viso tra le mani. Nell'osservarla compiere quel gesto, l'amica non poté far altro che sentire propria la sua frustrazione. Riusciva a immaginare con fin troppa semplicità quali pensieri le si stessero formando nella mente, così decise di mettere fine ai suoi patemi.
«Stavolta non ci sono vie di fuga. Vorrei, ma non ne vediamo alcuna. Più cerchiamo e meno soluzioni troviamo, quindi mi presenterò a loro e risponderò delle mie azioni, volente o nolente, e voglio che alcuni di voi vengano con me».
«Sei seria?» Un nuovo grugnito, stavolta a metà con una risata: «Ci stai chiedendo di accompagnarti al patibolo?»
«Potete tranquillamente dirmi di no, Mary. Posso portare con me fino a quattro persone, ma non sono obbligata a farlo. Se serve andrò anche da sola».
«Scordatelo! Se devo scegliere tra accompagnarti a morte e lasciarti andare da sola, non ho dubbi: vengo con te».

Aralyn sorrise, anche se amaramente. In un angolo di sé sapeva esserci della gratitudine, dell'affetto, ma non riuscì a gioirne del tutto - non in vista di ciò che avrebbe detto.

«Beh, per tua fortuna non dovrai farlo» mestamente, abbassò gli occhi sulla mano che ancora stringeva quella di Arwen: «voglio che siano Eike e Hugo ad accompagnarmi, insieme a Garrel».

Il tempo sembrò fermarsi. Ogni cosa, intorno al tavolo, si bloccò. Non un suono arrivò alle loro orecchie, non un insetto osò ronzargli attorno; persino i respiri smisero di muovere l'aria.

«Mi auguro che sia una cazzata».
«Mi spiace, Mary».
«Tu stai scherzando, vero, Ara?»
«No».
Un altro colpo risuonò nel patio. I palmi della donna colpirono il legno con talmente tanta forza da creparlo: «Io sono la tua migliore amica!»
Silenzio.
«Ti sono stata vicina per anni!»
Nessuna risposta.
«Ho condiviso ogni gioia e dolore con te!»

«Non puoi farmi questo! Non puoi tagliarmi fuori! Non puoi morire così e aspettarti che io lo accetti!»

«Dannazione, Aralyn! Abbi la decenza di affrontarmi!»
Il rumore di una sedia che si sposta. Il cuore in gola.
«Perché?!»
Il tremolio delle gambe e i primi passi.
Silenzio.

«Lo ha scelto per entrambe, Marion. E se non accetti il suo volere, te lo imporrò io come tuo Alpha».
Lacrime calde presero a scorrere lungo il viso della giovane che, persino senza voltarsi, seppe dal tono dell'altra di non essere sola, in quel dolore.

«N-non puoi farmi questo! Ara!»


 
   
 
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