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Autore: Adeia Di Elferas    08/03/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Quando Fortunati arrivò nella stanza che era stata scelta per Caterina, la donna si stava immergendo nella tinozza per il bagno.

L'uomo, dissimulando un certo imbarazzo – più legato alla propria incapacità di distogliere lo sguardo dalla Tigre, che alla situazione in sé – chiese: “La camera è di tuo gradimento?”

La Sforza annuì, poi, dopo essersi immersa per un istante nell'acqua bollente ed esserne riemersa, commentò: “Scommetto che sei stato tu a dare indicazione per il letto.”

Il piovano, in effetti, aveva chiesto alla Scali di lasciare a disposizione dell'ospite un giaciglio che fosse comodo, ma non troppo formale. Alessandra, un po' stranita, alla fine aveva chiesto se fosse il caso di far portare di sopra un letto da servi e, con sua grande sorpresa, Francesco aveva risposto che quella sarebbe stata una buona soluzione.

Così adesso, nel centro della stanza, campeggiava un letto molto lineare, fin troppo semplice, in realtà, sul quale gli unici dettagli di pregio erano i guanciali di piuma d'oca e le coperte ricamate e spesse.

“Sì, l'ho chiesto io.” ammise l'uomo, deglutendo e restando a una certa distanza dalla Leonessa.

Questa, dopo essersi tuffata altre due volte nell'acqua, restando in apnea per qualche secondo, godendosi la sensazione di pace che le dava essere sommersa dal calore del liquido, prese fiato con forza, e poi, guardandolo con la coda dell'occhio, disse a Francesco: “Dobbiamo portare a Firenze anche Baccino.”

Suo malgrado, Fortunati non riuscì a evitare una piccola smorfia nel dire: “Lo so, lo so...”

Caterina non aveva colto la breve contrattura nei muscoli mimici del piovano, perciò andò avanti come nulla fosse, chiedendogli se avesse idea di come muoversi, per riuscire nel loro intento.

L'uomo capiva quanto fosse importante, per la Sforza, salvare anche Bartolomeo da Cremona. Lui sapeva che tra loro c'era stata più di un'amicizia. E proprio per quello non riusciva a mettere a tacere un velo di gelosia che gli faceva quasi sperare che Baccino non riuscisse mai a lasciare Roma. Da religioso, si sentiva pessimo, nel provare un simile sentimento, ma, come uomo, non poteva evitarlo.

“Abbiamo dei contatti a Roma – tagliò corto, mentre la Tigre ancora faceva domande e proponeva vie – mi serve qualche giorno, ma vedrai che alla fine...”

“Scusami.” lo interruppe la donna: “Hai fatto di tutto per me, o ora ti metto fretta anche per questa cosa... In tutta onestà, non so come tu e gli altri abbiate fatto a restarmi tanto fedeli, malgrado tutto...”

“Lo sai perché ti sono fedele.” sussurrò il piovano.

Caterina ebbe un attimo di esitazione. Dava parzialmente le spalle al piovano, ma poteva intravederlo anche senza voltarsi verso di lui. Le appariva mesto e con il capo chino.

Temeva di aver capito cosa volesse dire, con quella frase, ma non volle dar a vedere di aver inteso il reale significato di quelle parole. C'era stato più di un momento in cui aveva avuto l'impressione che Fortunati avesse per lei una predilezione che andava oltre la stima o l'affetto fraterno che si sarebbe attesa da un religioso di così saldi principi.

In altri tempi sarebbe stata lusingata, forse proprio felice, di aver attratto un uomo come Francesco, ma in quel momento la spaventava e basta.

“Forse...” soffiò la donna, muovendosi un po' in difficoltà nell'acqua: “Forse oggi non è il giorno giusto per parlare di cose importanti. Sono molto stanca...”

“Ci vediamo dopo a cena, allora.” concluse, quasi frettolosamente, Fortunati.

La Leonessa annuì, rinunciando a prescindere a chiedere al piovano di aiutarla poi ad asciugarsi. In fondo, pensava, era meglio tenere un po' di più le distanze.

Non appena l'uomo uscì dalla stanza, la Sforza si appoggiò con pesantezza con la schiena al bordo della tinozza. Il telo che ricopriva il legno era molto morbido e piacevole. Chiuse gli occhi e si lasciò cullare dal calore dell'acqua, sforzandosi di non pensare a nulla che non fosse il proprio corpo.

Solo quando cominciò a sentire un po' di freddo, si decise a portare a termine il suo bagno e a prepararsi per la cena, dato che ormai l'ora si stava facendo tarda.

 

Lorenzo non era ancora riuscito a muoversi. Si era fatto preparare i suoi abiti migliori, ma poi, una volta vestito, si era seduto sul letto e non si era più mosso.

Il furore del primo momento aveva lasciato il posto all'indecisione e alla paura. Non sapeva cosa dire di preciso, alla Sforza, né sapeva come reagire, nel caso in cui lei avesse opposto uno strenuo rifiuto alla sua richiesta di seguirla al palazzo di Via Larga.

In realtà, non poteva dire di conoscere quella donna. Di lei sapeva solo quello che tutti avevano sempre detto, ovvero che era più un animale selvatico che non una signora, e che era più propensa a graffiare, che non a essere conciliante. E, dopotutto, nelle uniche due occasioni in cui aveva potuto trovarsi faccia a faccia con lei, prima al processo per l'affidamento del bambino e poi quando lei stessa era arrivata a Firenze a battere il pugno sul desco del Gonfaloniere di Giustizia, si era reso conto di persona di chi tipo di essere fosse.

Il furore che all'inizio l'aveva fatto quasi smaniare per andare dalla Tigre, non solo si era spento, ma si era proprio trasformato. Le fiamme avevano lasciato il posto a una cenere spessa, che puzzava di bruciato e gli toglieva quasi il respiro.

Eppure sapeva che non aveva alternative. Ormai aveva detto che avrebbe fatto così, e così avrebbe fatto. Andare immediatamente dalla Sforza era l'unica cosa sensata da fare. Doveva spiazzarla, prenderla in contro tempo e non darle possibilità di rifiutare la sua proposta.

Fuori la luce era cambiata. Ormai era sera. Anche il caldo aveva mollato un po' la presa, e Lorenzo poteva quasi vedere tutti i fiorentini che, uno dopo l'altro, andavano a cena, sorseggiando vino fresco e riempiendosi la bocca di buon cibo e chiacchiere.

Lui, invece, aveva lo stomaco così sottosopra che non sarebbe riuscito a buttar giù nemmeno un pezzetto di pane.

Battendosi le mani dalle dita tozze sulle cosce, come a darsi forza, si alzò in piedi. Prese un paio di respiri profondi e poi, passatosi una mano tra i capelli castani e un po' mossi, che si erano fatti più radi negli ultimi mesi, raddrizzò le spalle.

Si infilò la collana d'oro più pesante e spessa che possedeva e poi infilò anche un paio di anelli in più, in modo che fosse evidente, tanto alla Sforza, quanto a chi la ospitava, che uomo fosse.

Avere addosso quei gioielli avrebbe dovuto farlo sentire più sicuro di sé, e invece il Popolano non avvertiva grandi differenze. Sapeva che la Leonessa era sua coetanea, eppure si sentiva piccolo, nel pensare che a breve l'avrebbe fronteggiata. Malgrado tutto ciò che aveva detto e fatto, non poteva negare di averne paura.

Con passo più incerto di quanto avrebbe voluto, raggiunse l'uscio e scese fino al cortile. Avrebbe potuto prendere un cavallo, per andare fino al palazzo di Alessandra Scali, ma preferì fare la strada a piedi. Ci avrebbe messo di più, ma sperava che il tragitto, nell'aria sottile della sera, lo aiutasse a schiarirsi le idee.

 

Caterina era rimasta quasi commossa nel vedere la tavola imbandita per lei. Le avevano detto che i suoi partigiani presenti a Firenze, tra cui Paolo Riario che tanto si era speso per lei, l'avrebbero incontrata nei giorni a venire, permettendole di passare quella sera in famiglia e la donna ne era stata grata.

Anche i francesi che l'avevano scortata fino in città non si erano ancora presentati, lasciando detto che avrebbero alloggiato altrove per qualche giorno e che, poi, avrebbero ripreso contatti con lei per discutere di alcune faccende.

Aveva voglia di rivedere coloro che l'avevano sostenuta, prima a Forlì e poi, a distanza, anche dopo, e aveva anche intenzione di porgere in modo formale i suoi ringraziamenti anche ai soldati che, su ordine dell'Alégre, le avevano permesso di raggiungere sana e salva la Toscana, però aveva anche un immenso bisogno di passare qualche ora tranquilla.

Aveva anche messo a tacere la voglia di andare sulla tomba di Giovanni, che sapeva essere in San Lorenzo, relativamente vicino al palazzo in cui stava soggiornando. Era una cosa che voleva fare, che doveva fare, dato che non aveva avuto modo di andare a visitarla nemmeno quando era stata a Firenze all'inizio della guerra, però sapeva di doversi prendere il suo tempo.

Il suo corpo non era più quello di un tempo, e così la sua anima. Avevano ricevuto troppi colpi e troppi scossoni: adesso che poteva, doveva dar loro il tempo di rifiatare.

A cena, quindi, a parte la Scali, Fortunati e frate Lauro, c'erano solo la Sforza e i suoi figli, e alla Tigre andava bene così.

“Abbiamo pensato che la carne sarebbe stata di vostro gradimento.” disse la Scali, mentre veniva servito uno stufato speziato e fumante, dal profumo celestiale.

“Avete pensato bene.” sorrise Caterina guardando il proprio piatto e sperando che un pasto così abbonante non le desse problemi.

Aveva fame, una fame atavica, legata non tanto agli ultimi giorni, quanto alle tremende privazioni della prigionia, e dunque non sarebbe riuscita ad avanzare quella pietanza meravigliosa.

Quasi soprappensiero, sollevò lo sguardo dalla carne e incrociò per un istante gli occhi di suo figlio Ottaviano. Il giovane la stava fissando in modo strano. Era quasi come se le volesse far capire che lui conosceva bene la fame che le stringeva lo stomaco. In fondo, e questo la Tigre non poteva scordarselo, anche lui era stato rinchiuso e lasciato senza cibo o quasi per un lungo periodo.

Solo che, su questo la Leonessa non poteva transigere, Ottaviano aveva scontato la sua reclusione in casa propria, con un letto su cui stendersi e senza l'oscurità di una cella sotterranea. Era stata lei, era vero, a infliggergli quella pena, ma anche ora, a distanza di anni, le sembrava una punizione lieve, rispetto al crimine di cui il Riario si era macchiato, ordinando l'omicidio di Giacomo.

Il ricordo della morte del suo secondo marito stava quasi per offuscare la gioia di trovarsi in salvo e assieme ai suoi figli. La rabbia, mai sopita, per quel torto le stava quasi dando la nausea, senonché Galeazzo chiese un attimo l'attenzione di tutti, sviando anche quella della madre dai suoi rancorosi pensieri.

“Abbiamo pensato di farvi assaggiare questo, stasera...” disse il ragazzo, facendo un cenno al servo che stava portando il vino in tavola.

“Di che vino si tratta?” chiese la Sforza, lasciandosi servire e guardando il liquido scuro riempire il suo calice.

Non beveva vino da mesi, anzi, da più di un anno. Praticamente da quando era stata catturata. Un po' temeva che ne bastasse davvero poco per confonderle la mente e rallentarla, ma, in fondo, voleva rilassarsi e anche quello avrebbe fatto parte del sentirsi di nuovo a casa.

“Ditecelo voi – sorrise Galeazzo – so che lo riconoscerete...”

Incuriosita, Caterina avvicinò il naso al calice e si lasciò travolgere dal suo aroma pieno e inebriante. Ne sorbì appena un sorso, bagnandosi sì e no le labbra, giusto per non eccedere subito, ma le bastò.

Con gli occhi che le si velavano un po', la donna chiese, con la voce che iniziava a tremare: “Si tratta del vino dei miei vigneti di Fortunago?”

Suo malgrado, anche il ragazzo si trovava con gli occhi lucidi e, non riuscendo a parlare, si limitò ad annuire.

“Galeazzo ha pensato che vi avrebbe fatto piacere poterlo bere di nuovo – spiegò Bianca che, per quanto a sua volta commossa, era in grado di contenersi di più – quando abbiamo saputo che sareste davvero riuscita ad arrivare qui, abbiamo fatto in modo di comprarne quanto più possibile.”

Caterina ci mise qualche minuto, prima di riuscire a parlare di nuovo. Ringraziò i figli, e poi, con il benestare di Alessandra Scali, diede il via alla cena.

Anche Giovannino era a tavola con loro, ma, dopo aver mangiato in fretta, con l'aiuto della sorella maggiore, si mise a scorrazzare per il salone, continuando a correre dalla madre, reclamandone le attenzioni, e finendo per mettersi a giocare in terra, poco lontano da lei, con il suo cavaliere intagliato nel legno.

Bernardino, che era seduto alla destra della Tigre, sembrava incapace di staccarle gli occhi di dosso, eppure, anche quando lei stessa gli si rivolgeva apertamente, non riusciva a rivolgerle più di una parola o due, come se si imbarazzasse a parlarle.

La Leonessa gustò volentieri la carne, cercando di mangiare lentamente, per favorire il lavoro al suo stomaco, e poi accettò di buon grado anche il dolce. Per la seconda volta nel giro di una sola serata, dovette trattenere le lacrime nel vedere portare dai servi una bellissima spongata.

Quella volta, scoprì, l'idea era partita da Sforzino che, essendo forse più sensibile ai dolci, era stato il primo, tra i figli della Tigre, a ricordarsi di quanto la loro madre apprezzasse quel piatto.

Finita la cena, Caterina si sentiva leggera. Il vino, che alla fine era scivolato in gola come fosse acqua, le aveva scaldato il cuore e rinfrancato lo spirito. Il suo corpo era stanco, ma la sua mente, in quel momento, era viva come non mai.

“Mentre i servi sistemano, vi andrebbe di andare un po' di là? Vostra figlia mi ha detto che avrebbe piacere di cantare per tutti...” disse la Scali, alzandosi.

La Tigre ebbe un attimo di esitazione. Aveva paura che aggiungere anche quel quadretto al resto della serata l'avrebbe resa troppo malinconica. Ricordava anche troppo bene quando, negli anni in cui era sposata con Giacomo, alla sera, dopo cena si ritiravano tutti in una saletta di Ravaldino a sentire sua sorella Bianca – e a volte sua figlia – cantare per tutti loro.

“Vi prego...” sorrise frate Lauro, passandole accanto, esibendo il suo consueto sorrisetto impertinente: “Ho una gran voglia di un po' di musica...”

Anche se il commento di Bossi l'aveva quasi convinta a dire di no, Caterina cedette, quando vide il volto pieno di speranza di Bianca.

La giovane aveva un repertorio abbastanza vario, la madre lo sapeva, eppure, quando iniziò a cantare, partì da musiche che la Sforza proprio non conosceva.

Ascolta questa sconsolata Caterina da Forlivo – cominciò a intonare la Riario, guardando solo di sfuggita la madre e arrossendo – ch'io gran guerra nel confino...”

La Leonessa rimase immobile nel capire che quel canto parlava proprio di lei.

Senza aiuto abandonata, io non veggo alcun signore ch'a cavallo monti armato e poi mostri il suo vigore per difendere il mio Stato – la voce della ragazza si muoveva agile, come se avesse dato voce a quei versi molte e molte volte – tutto el mondo è spaventato come senton criar Franza, e d'Italia la possanza par che sia profonduta...”

Mentre il ritornello riprendeva l'incipit, la Sforza guardò interrogativa verso Fortunati, che si era appollaiato proprio vicino a lei, in piedi accanto al divano su cui si era sistemata con Bernardino e Galeazzo.

Il piovano, inizialmente, finse di non vedere la tacita richiesta di spiegazioni della donna, tanto che attese tutta la seconda strofa, prima di voltarsi verso di lei.

Intanto, Bianca continuava: “E se il Duca Valentino qual è figlio del Pastore vorà poi stare in Forlivo, converrà muti colore e che sia deficatore e refarlo tutto di nuovo se se adira io mi muovo farò grande la spietata...”

Proprio sul ripetersi della frase centrale – 'scolta questa sconsolata Caterina da Forlivo' – il piovano si chinò un po' verso la Tigre e le sussurrò: “Non puoi immaginare quante ballate abbiano scritto su di te nell'ultimo anno... Di questa, in particolare, ce n'è anche un'altra versione, ve la farò leggere, poi, se vorrete. Questa è solo quella più famosa.”

“La cantano nelle osterie e nei bordelli, immagino.” ribatté la donna, volendo mostrarsi burbera, ma avvertendo degli spilli in fondo alla gola, come se veder riconosciuta la propria storia perfino in quei versi le desse conferma di quanto fosse stata tragica e difficile la sua vita.

Non me pesa di morire, morendo en la mia rocha forte, pur che possa far languire miei inimici a sangue morte – anche la Riario, potendo finalmente cantare per sua madre, avvertiva uno spiacevole nodo alla gola, ma non demordeva, dando sempre più profondità alla sua voce – con le mie bombarde a corte chio piantate atorno atorno ma terome note a zorno se io dovessi esser squartata...

Dal tono con cui la giovane ripetè il ritornello, la Leonessa intuì che la canzone doveva essere quasi al suo culmine.

Nessun, nella sala, fiatava. Tutti fissavano Bianca in silenzio, guardando, di quando in quando, Caterina, come se fosse una cosa incredibile, poter avere davanti agli occhi la protagonista di quella ballata.

A tagliani impauriti, se udite la mia storia, v'armerete inanimiti per quistar honore e gloria: Tito Livio fa memoria, ne grandi facti de romani guastaron Roma e i tramontani poi sua gente fracasata, scolta questa sconsolata Caterina da Forlivo – andò avanti Bianca, non trattenendo più una lacrima e lasciando che le sue parole si incrinasse un po' – Ognor prensi che fortuna dogni Stato ha in governo et de lieta vista in bruna po' mutar se ben discerno, a chi lege questa historia si non ho qualche victoria vo pel mondo disperata...

Qualcuno stava già battendo le mani, per ripagare Bianca dello sforzo canoro, quando la Sforza, così come Fortunati, notò che un servo aveva fatto capolino e stava bisbigliando qualcosa all'orecchio della Scali che, a differenza degli altri, era rimasta vicino alla porta, in disparte.

Bianca, nel frattempo, era arrivata a una parte che la vedeva molto coinvolta: “Io vo perder battaglia, e morire con honore, mal me dolo ben d'Italia, dogni Duca e gran signore, non se acorgien de l'errore e son posta en mezzo al foco, convien alor mandare el loco se non fan bona pensata – e, dopo aver ripetuto una volta di più il verso iniziale, riprese – de muoverve a pietade aiutar nostri vicini e observar la libertade e mantenir nostri confini, a signori pelegrini voi vedere il mio fratello quale ha perso il Stato bello, or toca a me esser scacciata...

Prendendo fiato, dopo un ulteriore ritornello, non accorgendosi di come, nel frattempo, Alessandra fosse uscita un momento dal salone assieme al servo, la giovane gorgheggiò: “Chi serà di me rifugio, chi averà di me pietà, ogni longo tuo indugio me conduce a stremità, quel che pensi di ace fa, ch'aspectar più non posso: linimici torno il fosso chan la terra assediata...

Caterina aveva sentito Alessandra dire qualcosa, abbastanza concitatamente, appena fuori dal salone, ma cercò di non darvi peso. Non necessariamente, pensò, tutto doveva avere a che fare con lei. Anzi, se la padrona di casa ancora non l'aveva chiamata in causa, verosimilmente era perché, qualsiasi cosa stesse accadendo, lei non vi aveva nulla a che fare.

Tutti gli homini valenti che del gran re son guerrieri, che son magni exelenti capitani e conduteri, con quei franchi cavalieri che con l'arme son provati, tutti in Franza son passati, salvo quel che ma usurpata...” anche la Riario, ormai, cominciava a sentire la voce della Scali alzarsi di volume, ma fece finta di nulla, continuando per la sua strada, ormai decisa ad arrivare all'ultima strofa: “Ante morte o schabia andare via piangendo a capo chino, son disposta a ruinare i fondamenti de Forlivo, se ben morto sul confino di poi morte eterna fama dirano al mondo: mai fu dama la qual fusse sì spietata...

Ormai più di uno dei presenti si era accorto che qualcosa, fuori dal salone, stava sfuggendo di mano, ma nessuno aveva l'intraprendenza di farlo notare apertamente. Perfino Giovannino, seduto in terra, sul tappeto, davanti alla madre, si era fatto più serio e, invece di guardare la sorella, stava fissando con insistenza la porta.

Mi son mossa in sta forteza vetuaria, artiglieri, e gran zente e gran richeza. Castellan non n'è che sia, se non la persona mia. Io ti giuro, per la cresma, non me fido in me medesma, che non voglio esser garbata...” la Riario alzò volutamente la voce, per coprire quello che, ormai, sembrava un vero e proprio litigio: “Solo per nostri gran peccati, sol per nostra differentia, noi perdiamo i nostri Stati che sé vista la sperientia, però Idio e so potentia si si lassa in abandono, tutto un mondo par un tono, a mormorar d'Italia ingrata... Scolta questa sconsolata Caterina da Forlivo...

“Vi ho detto che non avete il permesso di entrare in casa mia in questo modo!” finita la ballata, l'esclamazione della Scali arrivò chiara e nitida alle orecchie della Tigre e di tutti gli altri.

Seguendo il proprio istinto, la milanese scattò in piedi, certa, ormai, di essere più che coinvolta nella questione.

Nel muoversi così repentinamente, la donna sentì la testa girare un po', probabilmente tanto per colpa del vino, quanto per l'agitazione che la stava prendendo. Sotto gli occhi attoniti di tutti gli altri, raggiunse in fretta la fonte di tanta confusione.

Appena fuori dal salone, oltre ad Alessandra e a un servo, la Sforza vide un uomo che riconobbe subito, benché, dall'ultima volta in cui l'aveva scorto, al palazzo della Signoria proprio lì a Firenze, fosse molto invecchiato e dimagrito.

“Messer Medici – gli disse, con un filo di voce, tacitando di colpo il litigio tra lui e la Scali – non mi aspettavo di vedervi così presto.”

Lorenzo piantò gli occhi tondi in quelli verdi della Tigre e restò con la bocca mezza aperta per qualche secondo, senza riuscire a dire nulla.

“Ho cercato di spiegargli che non ha alcun diritto di venire in casa mia, a quest'ora, a disturbarci, ma...” cominciò a dire Alessandra.

“Se per voi non è un incomodo – la interruppe Caterina, senza scomporsi – parlerò con messer Medici in privato.”

Il Popolano, più colto alla sprovvista di quanto non fosse la padrona di casa, boccheggiò anche qualche istante e poi disse: “Io...”

“Voi avevate gran fretta di vedere se ero davvero ancora viva.” lo zittì la Sforza: “Mi duole confermarvi che sì, sono ancora viva: nemmeno le prigioni del papa mi hanno uccisa.”

Lorenzo era diventato verdognolo. Sembrava aver inghiottito un boccone particolarmente amaro senza riuscire a digerirlo. Era ovvio che sapeva che la Leonessa fosse viva, non era quello il punto, ma era altrettanto scontato che la donna avesse voluto usare quella battuta salace solo per metterlo in difficoltà.

“Potete andare di là, nella biblioteca.” disse piano la Scali, osservando quasi con ammirazione Caterina che, dopo il lungo viaggio e una interminabile giornata, sembrava disposta a sottoporsi ugualmente a un incontro tanto complicato.

“Grazie.” sussurrò Caterina, per poi alzare la voce, rivolgendosi al Medici: “Se volete seguirmi, prima ci sbrighiamo, prima potrete andarvene da qui...”

Incapace di ribattere, vedendo sfumare quasi del tutto i suoi ferrei propositi di mostrarsi inflessibile e coriaceo, l'uomo la seguì all'istante, assomigliando più a una pecorella intenta a seguire un pastore severo, che non a un lupo deciso a sbranarsi un agnello.

 

   
 
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