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Autore: Sinnheim    08/03/2021    0 recensioni
Fanfiction scritta a quattro mani con SibillaCubana.
Questa è la loro storia.
Prima di ciò che si conosce, quando Spira non era altro che una terra fatta di morte e distruzione, i tre eroi della leggenda hanno avuto modo di perseguire il loro destino.
L'invocatore Braska, il monaco Auron e il naufrago Jecht partiranno per completare il loro Pelligrinaggio, viaggio volto a raccogliere le forze necessarie per sconfiggere Sin, il distruttore.
Tuttavia, questo lungo e pericoloso viaggio verso la città di Zanarkand non sarà solo ricco di insidie terrene: ancor di più, i tre eroi dovranno affrontare loro stessi e le loro peggiori paure.
Genere: Dark, Drammatico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Auron, Braska, Jecht
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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CAPITOLO 2: TIRO NUMERO TRE

 

 

«Un altro numero per gli Zanarkand Abes! Oh, Klinna, questa sera sei un– Ecco che passa! La palla supera gli avversari dritta fino a Jecht!»

Gli spettatori sugli spalti, nel sentire il nome del loro idolo, cominciarono a strepitare e a sporgersi verso il campo da blitzball, cercando di vedere il meglio possibile all'interno del globo d'acqua.

«È veloce, è preciso, non ha nessuna debolezza» annunciò la roboante voce del cronista, «ed è bello come un dio!»

Le dita di Jecht si aprirono per afferrare la palla, ricevendo il passaggio alla perfezione. Con un colpo di reni, volteggiò attorno a un avversario, si smarcò e concesse un piccolo sorriso alle telecamere prima di tornare concentrato sulla partita.

«Con un record di presenze imbattuto e una media di due reti a partita! Per gli Zanarkand Duggles c'è poco da fare, signore e signori!»

Come era prevedibile, la linea di difesa si precipitò in direzione di Jecht con la chiara intenzione di ostacolarlo il più possibile. Erano consapevoli che, così facendo, l'ala opposta sarebbe rimasta scoperta, ma il campione a piede libero era troppo pericoloso, talmente tanto che lasciare la porta vuota sarebbe stato lo stesso.

Jecht sorrise. Aveva messo in scacco gli avversari ben prima che l'azione offensiva iniziasse: con espressione beffarda, approfittò della zona sguarnita e passò la palla con traiettoria perfetta al centrocampista, esattamente sul lato opposto al suo.

Smise addirittura di nuotare: il suo compagno di squadra aveva praticamente campo libero, era un gol assicurato.

Mentre aspettava la conclusione di quell'attacco magistrale, il suo sguardo vagò tra gli spalti, alla ricerca di volti a lui cari. Le luci di Zanarkand, smorzate dall'acqua, erano sempre uno spettacolo gradito per Jecht: tutta la città era lì per vederlo giocare, tutti erano dalla sua parte, persino le voci ovattate rimbombavano come onde d'urto all'interno della sfera d'acqua.

Diventava il centro del mondo durante le partite di blitzball, eppure non era mai abbastanza. C'era un vuoto che non riusciva a riempire. Una fame che lo consumava inarrestabile. Niente era davvero soddisfacente.

Vide di sfuggita sua moglie e suo figlio Tidus nei posti più bassi, quelli più vicini al campo di gioco. Li distingueva molto bene, urlavano il loro incoraggiamento, ma qualcosa non quadrava: il bambino sembrava forzato, mentre la donna dava l'impressione di aspettare che il tempo passasse.

Pensava che vedere i propri cari avrebbe potuto dargli nuova forza, ma così non fu. Sorrise amaro: puntualmente le sue aspettative venivano sempre smentite.

Il centrocampista segnò il gol con estrema facilità, mentre l'arbitro sanciva la fine della partita con gli Zanarkand Abes ben tre reti sopra gli avversari. Nonostante la vittoria fosse sempre un dolce calore nel suo petto, la gioia non lo accarezzava mai a lungo. Anzi, ogni volta durava sempre meno.

No, non era mai abbastanza. Mai.

La porta dello spogliatoio venne spalancata con un calcio, in barba a ogni regolamento comportamentale. L'euforia della vittoria era troppa, contava solo festeggiare e fare baldoria. Se lo erano meritato.

Jecht si asciugò sghignazzando e ripose con cura la sua divisa nel suo armadietto. Dallo stesso, tirò fuori abiti puliti molto eleganti: una camicia e dei pantaloni in raso neri, scarpe chiuse e non le solite calzature da spiaggia.

Si sentiva una divinità. Quella sera avrebbe festeggiato con la squadra fino ad annullarsi. Se lo era meritato, giusto?

Spronò i suoi compagni a cambiarsi in fretta, non vedeva l'ora di appoggiare le labbra su un bel bicchiere stracolmo. Vestito di tutto punto, urlò che li avrebbe aspettati al Blitz Shot e uscì spavaldo dallo spogliatoio, quando intravide suo figlio e sua moglie all'inizio del corridoio.

«Oh, cazzo...»

Fece un grosso respiro e sfoderò il sorriso più falso possibile, per poi andare incontro ai suoi famigliari. Tidus aveva il volto profondamente annoiato, stringeva la mano di Lauren che, invece, cercava di mantenersi il più neutrale possibile.

«Partita magnifica, tesoro! Sei sempre così agile! Vero, Tidus? Perché non dici qualcosa a papà?»

Il bambino castano puntò gli occhi a terra senza fiatare, Jecht non sapeva nemmeno cosa dirgli. Una parola, un incoraggiamento, qualunque cosa. Niente, dalla sua bocca non uscì niente. Lauren ingoiò l'ennesimo rospo e pretese di far finta di nulla.

«Stai... stai uscendo?» chiese titubante, la voce leggermente tremula.

«Ah, io... beh, sì. Vado con la squadra a festeggiare» rispose Jecht passandosi una mano tra i capelli scuri.

«Speravo che, almeno per stavolta, tu potessi festeggiare la vittoria con me e Tidus».

Lo stava implorando con occhi lucidi, lui lo notò chiaramente. Cosa poteva farci? Non sarebbe stato di alcuna compagnia, non avrebbe avuto nulla di cui parlare. Cos'era che piaceva a Tidus oltre al blitzball? Come minimo si sarebbe messo a piangere tutto il tempo.

Erano tutte balle, lo sapeva benissimo. Dolci illusioni mentali che lo cullavano nelle sue abitudini stantie, incapace di liberarsi dalle loro catene.

«Guarda, la prossima volta, ok? L'avevo promesso ai ragazzi, la prossima volta... ci sarò, davvero».

Donò una carezza incerta al volto deluso della donna, poi volse lo sguardo al figlioletto: avrebbe tanto voluto poter dargli un bacio, o qualcosa di simile, ma sicuramente lui non avrebbe gradito.

Altre, ennesime cazzate. Li salutò entrambi e si avviò verso l'uscita dello stadio di blitzball, camminando a grandi falcate verso il locale designato per fare baldoria.

Ebbe la tentazione di fermarsi e tornare indietro, ma venne raggiunto in fretta e furia dai suoi compagni che lo spinsero ad andare avanti.

Mentre si avvicinavano al Blitz Shot, sotto ai loro piedi si accesero dei neon: riproducevano i colori degli Zanarkand Abes. Dei lampi gialli, intervallati da altri di un blu profondo, fecero restringere le pupille dei giocatori.

Pulsando, quella luce cruda correva lungo il corridoio d'ingresso, poi si arrampicava sul muro come l'edera e cominciava a intrecciarsi, dando forma al simbolo della squadra vittoriosa.

Jecht si sfiorò il petto, lasciato in parte scoperto dalla camicia, e sorrise: si era fatto tatuare lo stesso segno. Era l'emblema vivente della grandezza degli Zanarkand Abes.

Quando Tancre aprì la porta, i bassi della musica, sino a quel momento solo soffusi, cominciarono a martellare con violenza.

Jecht aveva voglia. Di una donna, per lo più, ma avrebbe ripiegato volentieri sui liquori. Dopo la sesta, settima sorsata di quella che gli vendevano come "la nostra roba più forte" tutto il piacere diventava uguale, e gli faceva un gran ridere sbattere la sua bottiglia di vodka contro il bicchiere della vita. Quella stronza.

Un nugolo di applausi e grida eccitate li accolse all'interno del locale. Il tavolo attorno al quale erano ammassati i loro compagni di squadra si riusciva a individuare subito: due bandiere degli Abes, impalate, penzolavano sulle loro teste. Erano spiegazzate e macchiate di salsa.

Con coordinazione perfetta, i giocatori si alzarono in piedi alla vista di Jecht: piegarono i gomiti, portarono le mani davanti al petto, come se stessero reggendo una sfera, e poi si inchinarono.

«A Jecht!» sbraitò uno dei ragazzi, trascinando la sedia con un gran rumore e sporgendosi sul tavolo con un bicchiere pieno fino all'orlo. Un liquido ambrato strabordò e andò a macchiare il legno già umidiccio e appiccicoso.

Una donna lo prese per il fianco e gridò, accompagnata da palmi che battevano sulle cosce come tamburi scordati.

«Jecht! Jecht! Jecht!»

Nel caos generale, un cocktail piombò tra le dita del campione. Mentre lo scolava d'un fiato, sentì il rumoreggiare farsi più forte, più vivo, più simile al battito del suo cuore. L'alcol gli scaldò la gola e subito dopo svanì, come l'euforia dopo un gol.

Jecht sbatté il bicchiere vuoto sul tavolo e si esibì in un ostentato inchino, mentre qualcuno imitava la voce del cronista delle partite. La gente si fiondò su di lui, cercò di toccarlo, gli parò davanti altri drink.

Due ragazze ostinate arrivarono a sfiorarlo, sfuggendo con agilità alla presa di uomini che erano abituati a marcare. Gli occhi di Jecht, del colore della terra bruciata, sembravano quasi infuocati sotto le luci del locale. Si piantarono su quelli chiari di una biondina, che sorrise feroce e si passò una mano tra i capelli. Tutto il suo corpo ondeggiava a ritmo, e il movimento guidava lo sguardo fino ai fianchi. Lui la afferrò – la sua mano era abbastanza grande da coprire buona parte della sua vita – e la tenne a distanza di sicurezza da sé.

«Ma tu guarda, il grande Jecht» commentò lei, alzando le sopracciglia con malizia. Continuava a ballare, dopo avergli gettato le braccia al collo. Di fianco a loro, uno dei suoi compagni di squadra stava baciando appassionatamente una pupa mai vista prima, le cui cosce non parevano offrire nessuna resistenza.

«E tu non hai compagnia?» gli domandò la ragazza, schiudendo le labbra vellutate per mostrare una schiera di denti perfetti. Jecht prese uno dei bicchieri che gli erano stati offerti e, con gesto esperto, lo frappose tra le proprie labbra e quelle di lei. Incrociò per un istante lo sguardo di Tancre.

«Oh, io sono fuori dai giochi» rispose a malincuore, con un sorriso ammaliante. La sua mano lasciò i fianchi dell'improvvisata compagna e la fece scivolare con delicatezza verso le braccia del suo amico.

«Guarda che lui non è affatto male» la incitò, avvicinandosi ai due e alzando la voce per sovrastare la musica. Tancre non aspettò nemmeno un istante prima di avvinghiarsi a lei. «Posso garantirtelo».

La biondina rise e gettò all'indietro la testa, per poi regalargli un malizioso: «Ah sì? E su che basi?»

Jecht cinse le spalle di Tancre con un braccio e gli strofinò il naso sulla guancia con fare seducente, senza interrompere il contatto visivo con la ragazza. Sentì un tepore provenire dal volto dell'amico, poco distante dalle proprie labbra; stava solo giocando, ma era inebriante. Perché quella sensazione non svanisse, svuotò il bicchiere. L'alcol scorreva verso il suo stomaco, infondendolo del dolce torpore che cercava.

«Ringraziami, dopo» disse all'orecchio del compagno di squadra, e sgusciò verso il bancone.

Gridò alla barista di offrire un giro a tutti quelli che gli stavano attorno. Lei sorrise e cominciò a versare un liquido verde fosforescente nei bicchieri da shot. Quattro di essi erano destinati a lui. L'assenzio gli pizzicò la gola, rese il deglutire un eccitante fastidio.

Jecht gettò la testa all'indietro, beandosi sotto i fari pulsanti come un gatto che prende il sole. Quando inspirò, sentì finalmente la mente leggera: era nel suo ambiente, sott'acqua. Odiava quel mondo emerso del cazzo.

Non aveva intenzione di smettere di bere fino a quando quel posto non sarebbe svanito, assieme a quei quattro bambocci che si erano lasciati fregare da un pallone, credendo che si potesse vincere.

Il successo era come la masturbazione. A tutti piaceva, finché non si risvegliavano nel letto soli e sudati, senza potersi aggrappare a nulla che non fossero lenzuola sporche.

Quando riaprì gli occhi, lanciò un grido esaltato verso tutti quelli che gli stavano davanti. Loro gli risposero con foga, accalcando un urlo sull'altro in una gara disperata a chi lo raggiungeva per primo.

Jecht alzò un cocktail che non ricordava nemmeno di avere in mano, spostò il peso su una gamba e osservò con sguardo languido il lembo della camicia che si alzava e rivelava parte del suo addome. L'aria viziata del Blitz Shot era come una mano che lo accarezzava proprio in quel punto. Tutti lo stavano fissando, stavano adorando il suo corpo scultoreo, tempio di un dio deforme.

Appoggiò la testa sul petto di Tancre, contemplando quel mondo addormentato che ruotava veloce. Era steso di lato su un divano, mezzo rannicchiato, e stringeva tra le dita un calice di vino rosso. Formicolavano, come se fossero vive. Tanti piccoli insetti. Andavano verso la base del bicchiere e si fondevano nel vetro – che cosa curiosa!

Gli insetti sparivano dal piede del calice, come se venissero strappati via. Venivano trascinati verso il divano – che cosa curiosa!

Jecht voltò a fatica il capo verso i cuscini e aggrottò le sopracciglia. Sembrava esserci qualcosa che si mimetizzava sulla pelle rossa. Sì, una rana! Appena la vide, pensò subito a Tidus.

«Chissà se diventerà mai un campione come me, quello sfigatello» commentò la rana. Era piccola, rossa. Forse avrebbe dovuto notare subito che era rossa, proprio come il divano. Jecht, a distanza di qualche secondo, sobbalzò: lo aveva detto ad alta voce?

In modo istintivo strinse la prima cosa che gli capitava a tiro: il braccio di Tancre. Lui lo guardò e rise benevolo. La realtà vorticava, ma stava tornando realtà.

Anche il suo amico stava bevendo. Finché bevevano entrambi andava bene. L'importante era non trovarsi al bancone da soli con una bottiglia mezza vuota davanti.

«Ma dai, e la ragazza?» gli domandò a un tratto Jecht, notando che qualcuno mancava.

«Ah, sarà per la prossima volta» minimizzò lui, gustandosi un sorso del suo vino. Disse anche qualcos'altro, ma a Jecht le parole non arrivarono: era come se la voce del suo amico, nell'ebbrezza, gli stesse baciando il collo.

«Era carina» commentò, con tono stanco. La vedeva davanti a sé, i fianchi che si agitavano spasmodici, il viso coperto da un turbinio di braccia e capelli. La musica gli martellava in testa a ritmo con il pulsare delle sue tempie.

La ragazza alzò lo sguardo, e Jecht la riconobbe. Era Lauren. Muoveva il bacino contro il suo in una danza rovente e sempre più intensa, lo toccava, lo baciava.

Ah, i ponti, i ponti di Zanarkand!

Piegato sulla tazza, con le mani strette sul bordo di ceramica, Jecht svuotò il contenuto del suo stomaco. Il suo respiro era strozzato dai conati, le lacrime gli scorrevano libere sul volto. Qualcuno gli stava tenendo i capelli, mentre lo aiutava a non far ricadere la testa nel vomito. La sua fronte era calda, i sensi distaccati dal corpo.

Il pavimento freddo si fermò solo quando perse conoscenza, ormai a stento in grado di percepire il sapore rancido che gli invadeva la gola e l'odore pungente che gli penetrava nel naso.

Si risvegliò quando avvertì una luce bianca e violenta colpirgli le palpebre come se volesse spremergli gli occhi. Il dolore lancinante alla testa gli pervadeva tutto il corpo, e quando i sensi lo assistettero si accorse del retrogusto disgustoso che aveva in bocca: un misto di acido e carne cruda.

Jecht portò il gomito davanti al viso per cercare di schermarsi dai raggi del sole che entravano dalle imposte. Il suo stomaco gorgogliava, pronto a rigettare qualsiasi cosa avesse provato a proporgli. C'era un lieve sentore di vomito nell'aria, ma i vestiti che indossava – una delle tute da allenamento degli Zanarkand Abes – erano puliti. Un fatto era certo: non si trovava a casa propria.

Quando vide un paio di tornite gambe maschili che gli passavano a fianco venne assalito dal senso di colpa e si lasciò andare a una risata amara.

«Sarebbe stato meglio portarti a casa la ragazza, eh?» esordì con voce roca, cercando di sollevare le palpebre abbastanza da poter inquadrare Tancre.

«Non ti preoccupare» rispose lui, «può capitare».

Nulla nel suo tono faceva presagire che fosse arrabbiato, ma Jecht cercò disperatamente un appiglio, qualcosa che gli esprimesse disapprovazione.

«Era più figa di me» insistette, «e non ti avrebbe fatto dormire sul divano».

«Il mare è pieno di pesci» ribatté Tancre, allungandogli un bicchiere d'acqua mossa dal frizzare di una compressa. Jecht, sebbene la sua vena masochista che voleva un rimprovero non fosse stata accontentata, gliene fu piuttosto grato. Si tirò a sedere, ma il suo intestino non apprezzò il repentino cambio di posizione.

La sua tempra dovuta a lunga esperienza gli permise di vuotare in un sorso il bicchiere prima di fiondarsi in bagno e chiudersi a chiave.

«Non voglio buttarti fuori da casa mia» disse dopo qualche minuto Tancre, a fianco alla porta. Non sentiva alcun rumore e voleva accertarsi che Jecht stesse bene. «Ma tra un paio d'ore devo partire con la Laguna Shore».

Si sentì lo sciacquone che veniva tirato e l'acqua che cominciava a scorrere nel lavandino.

«E dove vai?» domandò la voce di Jecht, confusa.

«Non ti ricordi? Ne ho parlato ieri al Blitz Shot. Ah, in effetti era mentre tu stavi–» si interruppe di colpo.

Anche lo scroscio dell'acqua si interruppe di colpo.

«Cosa stavo facendo?» ribatté Jecht allarmato.

«No, niente di che... » provò a schermirsi Tancre, ma il suo amico insisteva.

«Non mi ricordo nulla, dimmi cosa stavo facendo».

Tancre sospirò, ricordando con un sorriso la notte precedente, e scosse la testa.

«Non stavi tradendo tua moglie, se è questo che ti preoccupa» commentò. Era difficile capire cosa passasse per la testa a Jecht, ma su alcune cose – a volte a causa di un delirio alcolico – era persino troppo chiaro.

Il campione degli Zanarkand Abes, più tranquillo, si lavò di nuovo la faccia e guardò lo specchio, oltre al quale un uomo sfinito lo stava fissando.

Se devo proprio farla, quella stronzata, è meglio che succeda mentre sono sobrio, considerò, senza provare nessuna compassione per la persona che vedeva davanti a sé.

Dalle parole di Tancre apprese che la Laguna Shore era una nave che metteva a disposizione delle tratte alternative per potersi allenare a blitzball in mare aperto, mettendo a dura prova sia il fisico sia la mente. Tutto ciò che l'atleta doveva fare era decidere quanto voleva rimanere fuori casa e poi salpava, in modo da potersi consacrare allo sport evitando la tediosa vita quotidiana.

Partire per trovare se stesso come uno degli eroi senza macchia delle leggende gli era parsa sin da subito una buona idea: magari la vastissima distesa salata senza fondo che lo attendeva lo avrebbe ripulito dal marciume che si portava dietro.

Preso dal brio, pensò che sarebbe stato l'ideale anche per perfezionare il suo Tiro Jecht Numero Tre, ormai leggendario, visto che la gamba destra era rimasta infortunata dagli intensi allenamenti. Per risolvere il problema, Jecht si era imposto di imparare la tecnica anche tirando di sinistro, così lo sforzo sarebbe stato equilibrato.

Nonostante i nobili intenti, ciò che lo faceva sentire davvero meglio era la consapevolezza che quella era la scusa perfetta per allontanarsi. Dalla famiglia, da Zanarkand, persino dal continente. Tutto ciò che voleva era rimanere solo, lui e il mare, probabilmente non si sarebbe nemmeno portato la palla da blitzball.

Che il sale mi purifichi.

Ringraziò di cuore il compagno di squadra, gli diede una pacca sulla spalla e gli augurò buon viaggio, preparando le sue cose per andarsene.

«Aspetta, Jecht! Non vorrai mica andarci anche tu? Con quella gamba? Un conto è il campo da gioco, un conto sono le correnti del mare aperto!»

«Beh, se ci riuscirò diventerò una leggenda eterna! E poi, vuoi forse dire che sei migliore di me?»

Fece a Tancre un occhiolino affettuoso e uscì dalla quella casa, alla volta della propria. Il suo passo impetuoso rallentò a poco a poco, come se volesse temporeggiare anche sulla decisione appena presa.

Jecht alzò le braccia e si stiracchiò, facendo lunghi e profondi respiri. Il sapore terribile che aveva in bocca si era attenuato ma non era ancora sparito: in qualche modo gli ricordava l'amara realtà.

Avrebbe recato l'ennesima delusione a Lauren, avrebbe perso nuovamente i piccoli progressi della crescita di suo figlio, e ciò era innegabile. Non sapeva se valesse la pena lasciare tutto alle spalle, ma era sicuramente ciò che desiderava. Almeno per un po', almeno per il tempo necessario. Cosa volesse, ancora non gli era chiaro.

Si concesse il lusso di prendersela comoda e arrivare alla sua abitazione dopo qualche ora, quasi indeciso se entrare o meno.

Non essere stupido, sono preoccupati per te.

Lauren sobbalzò quando vide il marito entrare: fu davvero lieta di vederlo in piedi sulle proprie gambe, nonostante avesse una pessima cera. Non doveva nemmeno chiedersi cosa fosse successo, ormai era la routine.

«Jecht, finalmente! Temevo di doverti ripescare al locale...»

«E non sarebbe la prima volta, vero? Ah... mi dispiace».

«Sì, sì... lo so. Almeno, dove sei stato? Stai bene?»

«Insomma, sì. Sono stato peggio. Ero da Tancre, mi ha recuperato lui» disse ridendo, ma Lauren non era altrettanto ilare.

«Jecht, per favore, non voglio vederti ridotto così ogni volta. Perché non riesci a fermarti? Tidus avrà solo pessimi ricordi di te».

Il campione iniziò a sentire un fastidioso senso di oppressione allo stomaco, stavolta non dovuto agli alcolici. Erano parole che facevano male, ma non la biasimò, anzi. L'unica risposta che la sua mente annebbiata elaborò fu il desiderio di fuga, tanto che intravide l'occasione perfetta proprio nelle parole doloranti della moglie.

«Hai proprio ragione: non posso continuare così, me lo dici da tanto tempo. Voglio fare qualcosa» disse accondiscendente. Lauren rimase a bocca aperta.

«D-dici sul serio? Stavolta è... vero?»

«Assolutamente tesoro, davvero... ho deciso di partire per un po' di tempo. Mi imbarcherò sulla Laguna Shore e mi allenerò in mare aperto, lontano dall'alcol e dal caos».

«Vuoi partire? Così lontano... non è pericoloso?» disse titubante.

«Non so dirlo, ma sono convinto mi serva davvero».

Lauren abbassò lo sguardo, poi girò la testa verso la cameretta di Tidus.

«Accetterò solo se mi prometti di provarci davvero. Non per me, Jecht, fallo per tuo figlio».

«M-ma certo, ovvio! Ora vado a fare i bagagli, ok?»

Cazzate, solo cazzate.

  
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