«Un
altro
numero per gli Zanarkand Abes! Oh, Klinna, questa sera sei
un– Ecco che passa!
La palla supera gli avversari dritta fino a Jecht!»
Gli
spettatori sugli spalti, nel sentire il nome del loro idolo,
cominciarono a
strepitare e a sporgersi verso il campo da blitzball, cercando di
vedere il
meglio possibile all'interno del globo d'acqua.
«È
veloce,
è preciso, non ha nessuna debolezza»
annunciò la roboante voce del cronista,
«ed è bello come un dio!»
Le dita di
Jecht si aprirono per afferrare la palla, ricevendo il passaggio alla
perfezione. Con un colpo di reni, volteggiò attorno a un
avversario, si smarcò
e concesse un piccolo sorriso alle telecamere prima di tornare
concentrato
sulla partita.
«Con
un
record di presenze imbattuto e una media di due reti a partita! Per gli
Zanarkand Duggles c'è poco da fare, signore e
signori!»
Come era
prevedibile, la linea di difesa si precipitò in direzione di
Jecht con la
chiara intenzione di ostacolarlo il più possibile. Erano
consapevoli che, così
facendo, l'ala opposta sarebbe rimasta scoperta, ma il campione a piede
libero
era troppo pericoloso, talmente tanto che lasciare la porta vuota
sarebbe stato
lo stesso.
Jecht
sorrise. Aveva messo in scacco gli avversari ben prima che l'azione
offensiva
iniziasse: con espressione beffarda, approfittò della zona
sguarnita e passò la
palla con traiettoria perfetta al centrocampista, esattamente sul lato
opposto
al suo.
Smise
addirittura di nuotare: il suo compagno di squadra aveva praticamente
campo
libero, era un gol assicurato.
Mentre
aspettava la conclusione di quell'attacco magistrale, il suo sguardo
vagò tra
gli spalti, alla ricerca di volti a lui cari. Le luci di Zanarkand,
smorzate
dall'acqua, erano sempre uno spettacolo gradito per Jecht: tutta la
città era
lì per vederlo giocare, tutti erano dalla sua parte, persino
le voci ovattate
rimbombavano come onde d'urto all'interno della sfera d'acqua.
Diventava
il centro del mondo durante le partite di blitzball, eppure non era mai
abbastanza. C'era un vuoto che non riusciva a riempire. Una fame che lo
consumava inarrestabile. Niente era davvero soddisfacente.
Vide di
sfuggita sua moglie e suo figlio Tidus nei posti più bassi,
quelli più vicini
al campo di gioco. Li distingueva molto bene, urlavano il loro
incoraggiamento,
ma qualcosa non quadrava: il bambino sembrava forzato, mentre la donna
dava
l'impressione di aspettare che il tempo passasse.
Pensava
che vedere i propri cari avrebbe potuto dargli nuova forza, ma
così non fu.
Sorrise amaro: puntualmente le sue aspettative venivano sempre smentite.
Il
centrocampista segnò il gol con estrema facilità,
mentre l'arbitro sanciva la
fine della partita con gli Zanarkand Abes ben tre reti sopra gli
avversari.
Nonostante la vittoria fosse sempre un dolce calore nel suo petto, la
gioia non
lo accarezzava mai a lungo. Anzi, ogni volta durava sempre meno.
No, non
era mai abbastanza. Mai.
La porta
dello spogliatoio venne spalancata con un calcio, in barba a ogni
regolamento
comportamentale. L'euforia della vittoria era troppa, contava solo
festeggiare
e fare baldoria. Se lo erano meritato.
Jecht si
asciugò sghignazzando e ripose con cura la sua divisa nel
suo armadietto. Dallo
stesso, tirò fuori abiti puliti molto eleganti: una camicia
e dei pantaloni in
raso neri, scarpe chiuse e non le solite calzature da spiaggia.
Si sentiva
una divinità. Quella sera avrebbe festeggiato con la squadra
fino ad
annullarsi. Se lo era meritato, giusto?
Spronò
i
suoi compagni a cambiarsi in fretta, non vedeva l'ora di appoggiare le
labbra
su un bel bicchiere stracolmo. Vestito di tutto punto, urlò
che li avrebbe
aspettati al Blitz Shot e uscì spavaldo dallo spogliatoio,
quando intravide suo
figlio e sua moglie all'inizio del corridoio.
«Oh,
cazzo...»
Fece un
grosso respiro e sfoderò il sorriso più falso
possibile, per poi andare
incontro ai suoi famigliari. Tidus aveva il volto profondamente
annoiato,
stringeva la mano di Lauren che, invece, cercava di mantenersi il
più neutrale
possibile.
«Partita
magnifica, tesoro! Sei sempre così agile! Vero, Tidus?
Perché non dici qualcosa
a papà?»
Il bambino
castano puntò gli occhi a terra senza fiatare, Jecht non
sapeva nemmeno cosa
dirgli. Una parola, un incoraggiamento, qualunque cosa. Niente, dalla
sua bocca
non uscì niente. Lauren ingoiò l'ennesimo rospo e
pretese di far finta di
nulla.
«Stai...
stai uscendo?» chiese titubante, la voce leggermente tremula.
«Ah,
io...
beh, sì. Vado con la squadra a festeggiare»
rispose Jecht passandosi una mano
tra i capelli scuri.
«Speravo
che, almeno per stavolta, tu potessi festeggiare la vittoria con me e
Tidus».
Lo stava
implorando con occhi lucidi, lui lo notò chiaramente. Cosa
poteva farci? Non
sarebbe stato di alcuna compagnia, non avrebbe avuto nulla di cui
parlare.
Cos'era che piaceva a Tidus oltre al blitzball? Come minimo si sarebbe
messo a
piangere tutto il tempo.
Erano
tutte balle, lo sapeva benissimo. Dolci illusioni mentali che lo
cullavano
nelle sue abitudini stantie, incapace di liberarsi dalle loro catene.
«Guarda,
la prossima volta, ok? L'avevo promesso ai ragazzi, la prossima
volta... ci
sarò, davvero».
Donò
una
carezza incerta al volto deluso della donna, poi volse lo sguardo al
figlioletto: avrebbe tanto voluto poter dargli un bacio, o qualcosa di
simile,
ma sicuramente lui non avrebbe gradito.
Altre,
ennesime cazzate. Li salutò entrambi e si avviò
verso l'uscita dello stadio di
blitzball, camminando a grandi falcate verso il locale designato per
fare baldoria.
Ebbe la
tentazione di fermarsi e tornare indietro, ma venne raggiunto in fretta
e furia
dai suoi compagni che lo spinsero ad andare avanti.
Mentre si
avvicinavano al Blitz Shot, sotto ai loro piedi si accesero dei neon:
riproducevano i colori degli Zanarkand Abes. Dei lampi gialli,
intervallati da
altri di un blu profondo, fecero restringere le pupille dei giocatori.
Pulsando,
quella luce cruda correva lungo il corridoio d'ingresso, poi si
arrampicava sul
muro come l'edera e cominciava a intrecciarsi, dando forma al simbolo
della
squadra vittoriosa.
Jecht si
sfiorò il petto, lasciato in parte scoperto dalla camicia, e
sorrise: si era
fatto tatuare lo stesso segno. Era l'emblema vivente della grandezza
degli
Zanarkand Abes.
Quando
Tancre aprì la porta, i bassi della musica, sino a quel
momento solo soffusi,
cominciarono a martellare con violenza.
Jecht
aveva voglia. Di una donna, per lo più, ma avrebbe ripiegato
volentieri sui
liquori. Dopo la sesta, settima sorsata di quella che gli vendevano
come
"la nostra roba più forte" tutto il piacere diventava
uguale, e gli
faceva un gran ridere sbattere la sua bottiglia di vodka contro il
bicchiere
della vita. Quella stronza.
Un nugolo
di applausi e grida eccitate li accolse all'interno del locale. Il
tavolo
attorno al quale erano ammassati i loro compagni di squadra si riusciva
a
individuare subito: due bandiere degli Abes, impalate, penzolavano
sulle loro
teste. Erano spiegazzate e macchiate di salsa.
Con
coordinazione perfetta, i giocatori si alzarono in piedi alla vista di
Jecht:
piegarono i gomiti, portarono le mani davanti al petto, come se
stessero
reggendo una sfera, e poi si inchinarono.
«A
Jecht!»
sbraitò uno dei ragazzi, trascinando la sedia con un gran
rumore e sporgendosi
sul tavolo con un bicchiere pieno fino all'orlo. Un liquido ambrato
strabordò e
andò a macchiare il legno già umidiccio e
appiccicoso.
Una donna
lo prese per il fianco e gridò, accompagnata da palmi che
battevano sulle cosce
come tamburi scordati.
«Jecht!
Jecht! Jecht!»
Nel caos
generale, un cocktail piombò tra le dita del campione.
Mentre lo scolava d'un
fiato, sentì il rumoreggiare farsi più forte,
più vivo, più simile al battito
del suo cuore. L'alcol gli scaldò la gola e subito dopo
svanì, come l'euforia
dopo un gol.
Jecht
sbatté il bicchiere vuoto sul tavolo e si esibì
in un ostentato inchino, mentre
qualcuno imitava la voce del cronista delle partite. La gente si
fiondò su di
lui, cercò di toccarlo, gli parò davanti altri
drink.
Due
ragazze ostinate arrivarono a sfiorarlo, sfuggendo con
agilità alla presa di
uomini che erano abituati a marcare. Gli occhi di Jecht, del colore
della terra
bruciata, sembravano quasi infuocati sotto le luci del locale. Si
piantarono su
quelli chiari di una biondina, che sorrise feroce e si passò
una mano tra i
capelli. Tutto il suo corpo ondeggiava a ritmo, e il movimento guidava
lo
sguardo fino ai fianchi. Lui la afferrò – la sua
mano era abbastanza grande da
coprire buona parte della sua vita – e la tenne a distanza di
sicurezza da sé.
«Ma
tu
guarda, il grande Jecht» commentò lei, alzando le
sopracciglia con malizia.
Continuava a ballare, dopo avergli gettato le braccia al collo. Di
fianco a loro,
uno dei suoi compagni di squadra stava baciando appassionatamente una
pupa mai
vista prima, le cui cosce non parevano offrire nessuna resistenza.
«E
tu non
hai compagnia?» gli domandò la ragazza, schiudendo
le labbra vellutate per
mostrare una schiera di denti perfetti. Jecht prese uno dei bicchieri
che gli
erano stati offerti e, con gesto esperto, lo frappose tra le proprie
labbra e
quelle di lei. Incrociò per un istante lo sguardo di Tancre.
«Oh,
io
sono fuori dai giochi» rispose a malincuore, con un sorriso
ammaliante. La sua
mano lasciò i fianchi dell'improvvisata compagna e la fece
scivolare con
delicatezza verso le braccia del suo amico.
«Guarda
che lui non è affatto male» la incitò,
avvicinandosi ai due e alzando la voce
per sovrastare la musica. Tancre non aspettò nemmeno un
istante prima di
avvinghiarsi a lei. «Posso garantirtelo».
La
biondina rise e gettò all'indietro la testa, per poi
regalargli un malizioso:
«Ah sì? E su che basi?»
Jecht
cinse le spalle di Tancre con un braccio e gli strofinò il
naso sulla guancia
con fare seducente, senza interrompere il contatto visivo con la
ragazza. Sentì
un tepore provenire dal volto dell'amico, poco distante dalle proprie
labbra;
stava solo giocando, ma era inebriante. Perché quella
sensazione non svanisse,
svuotò il bicchiere. L'alcol scorreva verso il suo stomaco,
infondendolo del
dolce torpore che cercava.
«Ringraziami,
dopo» disse all'orecchio del compagno di squadra, e
sgusciò verso il bancone.
Gridò
alla
barista di offrire un giro a tutti quelli che gli stavano attorno. Lei
sorrise
e cominciò a versare un liquido verde fosforescente nei
bicchieri da shot.
Quattro di essi erano destinati a lui. L'assenzio gli
pizzicò la gola, rese il
deglutire un eccitante fastidio.
Jecht
gettò la testa all'indietro, beandosi sotto i fari pulsanti
come un gatto che
prende il sole. Quando inspirò, sentì finalmente
la mente leggera: era nel suo
ambiente, sott'acqua. Odiava quel mondo emerso del cazzo.
Non aveva
intenzione di smettere di bere fino a quando quel posto non sarebbe
svanito,
assieme a quei quattro bambocci che si erano lasciati fregare da un
pallone,
credendo che si potesse vincere.
Il
successo era come la masturbazione. A tutti piaceva, finché
non si
risvegliavano nel letto soli e sudati, senza potersi aggrappare a nulla
che non
fossero lenzuola sporche.
Quando
riaprì gli occhi, lanciò un grido esaltato verso
tutti quelli che gli stavano
davanti. Loro gli risposero con foga, accalcando un urlo sull'altro in
una gara
disperata a chi lo raggiungeva per primo.
Jecht
alzò
un cocktail che non ricordava nemmeno di avere in mano,
spostò il peso su una
gamba e osservò con sguardo languido il lembo della camicia
che si alzava e
rivelava parte del suo addome. L'aria viziata del Blitz Shot era come
una mano
che lo accarezzava proprio in quel punto. Tutti lo stavano fissando,
stavano
adorando il suo corpo scultoreo, tempio di un dio deforme.
Appoggiò
la testa sul petto di Tancre, contemplando quel mondo addormentato che
ruotava
veloce. Era steso di lato su un divano, mezzo rannicchiato, e stringeva
tra le
dita un calice di vino rosso. Formicolavano, come se fossero vive.
Tanti
piccoli insetti. Andavano verso la base del bicchiere e si fondevano
nel vetro
– che cosa curiosa!
Gli
insetti sparivano dal piede del calice, come se venissero strappati
via.
Venivano trascinati verso il divano – che cosa curiosa!
Jecht
voltò a fatica il capo verso i cuscini e aggrottò
le sopracciglia. Sembrava
esserci qualcosa che si mimetizzava sulla pelle rossa. Sì,
una rana! Appena la
vide, pensò subito a Tidus.
«Chissà
se
diventerà mai un campione come me, quello
sfigatello» commentò la rana. Era
piccola, rossa. Forse avrebbe dovuto notare subito che era rossa,
proprio come
il divano. Jecht, a distanza di qualche secondo, sobbalzò:
lo aveva detto ad
alta voce?
In modo
istintivo strinse la prima cosa che gli capitava a tiro: il braccio di
Tancre.
Lui lo guardò e rise benevolo. La realtà
vorticava, ma stava tornando realtà.
Anche il
suo amico stava bevendo. Finché bevevano entrambi andava
bene. L'importante era
non trovarsi al bancone da soli con una bottiglia mezza vuota davanti.
«Ma
dai, e
la ragazza?» gli domandò a un tratto Jecht,
notando che qualcuno mancava.
«Ah,
sarà
per la prossima volta» minimizzò lui, gustandosi
un sorso del suo vino. Disse
anche qualcos'altro, ma a Jecht le parole non arrivarono: era come se
la voce
del suo amico, nell'ebbrezza, gli stesse baciando il collo.
«Era
carina» commentò, con tono stanco. La vedeva
davanti a sé, i fianchi che si
agitavano spasmodici, il viso coperto da un turbinio di braccia e
capelli. La
musica gli martellava in testa a ritmo con il pulsare delle sue tempie.
La ragazza
alzò lo sguardo, e Jecht la riconobbe. Era Lauren. Muoveva
il bacino contro il
suo in una danza rovente e sempre più intensa, lo toccava,
lo baciava.
Ah, i
ponti, i ponti di Zanarkand!
Piegato
sulla tazza, con le mani strette sul bordo di ceramica, Jecht
svuotò il
contenuto del suo stomaco. Il suo respiro era strozzato dai conati, le
lacrime
gli scorrevano libere sul volto. Qualcuno gli stava tenendo i capelli,
mentre
lo aiutava a non far ricadere la testa nel vomito. La sua fronte era
calda, i
sensi distaccati dal corpo.
Il
pavimento freddo si fermò solo quando perse conoscenza,
ormai a stento in grado
di percepire il sapore rancido che gli invadeva la gola e l'odore
pungente che
gli penetrava nel naso.
Si
risvegliò quando avvertì una luce bianca e
violenta colpirgli le palpebre come
se volesse spremergli gli occhi. Il dolore lancinante alla testa gli
pervadeva
tutto il corpo, e quando i sensi lo assistettero si accorse del
retrogusto
disgustoso che aveva in bocca: un misto di acido e carne cruda.
Jecht
portò il gomito davanti al viso per cercare di schermarsi
dai raggi del sole
che entravano dalle imposte. Il suo stomaco gorgogliava, pronto a
rigettare
qualsiasi cosa avesse provato a proporgli. C'era un lieve sentore di
vomito
nell'aria, ma i vestiti che indossava – una delle tute da
allenamento degli
Zanarkand Abes – erano puliti. Un fatto era certo: non si
trovava a casa
propria.
Quando
vide un paio di tornite gambe maschili che gli passavano a fianco venne
assalito dal senso di colpa e si lasciò andare a una risata
amara.
«Sarebbe
stato meglio portarti a casa la ragazza, eh?»
esordì con voce roca, cercando di
sollevare le palpebre abbastanza da poter inquadrare Tancre.
«Non
ti
preoccupare» rispose lui, «può
capitare».
Nulla nel
suo tono faceva presagire che fosse arrabbiato, ma Jecht
cercò disperatamente
un appiglio, qualcosa che gli esprimesse disapprovazione.
«Era
più
figa di me» insistette, «e non ti avrebbe fatto
dormire sul divano».
«Il
mare è
pieno di pesci» ribatté Tancre, allungandogli un
bicchiere d'acqua mossa dal
frizzare di una compressa. Jecht, sebbene la sua vena masochista che
voleva un
rimprovero non fosse stata accontentata, gliene fu piuttosto grato. Si
tirò a
sedere, ma il suo intestino non apprezzò il repentino cambio
di posizione.
La sua
tempra dovuta a lunga esperienza gli permise di vuotare in un sorso il
bicchiere prima di fiondarsi in bagno e chiudersi a chiave.
«Non
voglio buttarti fuori da casa mia» disse dopo qualche minuto
Tancre, a fianco alla
porta. Non sentiva alcun rumore e voleva accertarsi che Jecht stesse
bene. «Ma
tra un paio d'ore devo partire con la Laguna Shore».
Si
sentì
lo sciacquone che veniva tirato e l'acqua che cominciava a scorrere nel
lavandino.
«E
dove
vai?» domandò la voce di Jecht, confusa.
«Non
ti
ricordi? Ne ho parlato ieri al Blitz Shot. Ah, in effetti era mentre tu
stavi–»
si interruppe di colpo.
Anche lo
scroscio dell'acqua si interruppe di colpo.
«Cosa
stavo facendo?» ribatté Jecht allarmato.
«No,
niente di che... » provò a schermirsi Tancre, ma
il suo amico insisteva.
«Non
mi
ricordo nulla, dimmi cosa stavo facendo».
Tancre
sospirò, ricordando con un sorriso la notte precedente, e
scosse la testa.
«Non
stavi
tradendo tua moglie, se è questo che ti preoccupa»
commentò. Era difficile
capire cosa passasse per la testa a Jecht, ma su alcune cose
– a volte a causa
di un delirio alcolico – era persino troppo chiaro.
Il
campione degli Zanarkand Abes, più tranquillo, si
lavò di nuovo la faccia e
guardò lo specchio, oltre al quale un uomo sfinito lo stava
fissando.
Se devo
proprio farla, quella
stronzata, è meglio che succeda mentre sono sobrio,
considerò, senza provare nessuna
compassione per la persona che vedeva davanti a sé.
Dalle
parole di Tancre apprese che la Laguna Shore era una nave che metteva a
disposizione delle tratte alternative per potersi allenare a blitzball
in mare
aperto, mettendo a dura prova sia il fisico sia la mente. Tutto
ciò che l'atleta
doveva fare era decidere quanto voleva rimanere fuori casa e poi
salpava, in
modo da potersi consacrare allo sport evitando la tediosa vita
quotidiana.
Partire
per trovare se stesso come uno degli eroi senza macchia delle leggende
gli era
parsa sin da subito una buona idea: magari la vastissima distesa salata
senza
fondo che lo attendeva lo avrebbe ripulito dal marciume che si portava
dietro.
Preso dal
brio, pensò che sarebbe stato l'ideale anche per
perfezionare il suo Tiro Jecht
Numero Tre, ormai leggendario, visto che la gamba destra era rimasta
infortunata dagli intensi allenamenti. Per risolvere il problema, Jecht
si era
imposto di imparare la tecnica anche tirando di sinistro,
così lo sforzo
sarebbe stato equilibrato.
Nonostante
i nobili intenti, ciò che lo faceva sentire davvero meglio
era la
consapevolezza che quella era la scusa perfetta per allontanarsi. Dalla
famiglia, da Zanarkand, persino dal continente. Tutto ciò
che voleva era
rimanere solo, lui e il mare, probabilmente non si sarebbe nemmeno
portato la
palla da blitzball.
Che il sale mi
purifichi.
Ringraziò
di cuore il compagno di squadra, gli diede una pacca sulla spalla e gli
augurò
buon viaggio, preparando le sue cose per andarsene.
«Aspetta,
Jecht! Non vorrai mica andarci anche tu? Con quella gamba? Un conto
è il campo
da gioco, un conto sono le correnti del mare aperto!»
«Beh,
se
ci riuscirò diventerò una leggenda eterna! E poi,
vuoi forse dire che sei
migliore di me?»
Fece a
Tancre un occhiolino affettuoso e uscì dalla quella casa,
alla volta della
propria. Il suo passo impetuoso rallentò a poco a poco, come
se volesse
temporeggiare anche sulla decisione appena presa.
Jecht
alzò
le braccia e si stiracchiò, facendo lunghi e profondi
respiri. Il sapore
terribile che aveva in bocca si era attenuato ma non era ancora
sparito: in
qualche modo gli ricordava l'amara realtà.
Avrebbe
recato l'ennesima delusione a Lauren, avrebbe perso nuovamente i
piccoli
progressi della crescita di suo figlio, e ciò era
innegabile. Non sapeva se
valesse la pena lasciare tutto alle spalle, ma era sicuramente
ciò che
desiderava. Almeno per un po', almeno per il tempo necessario. Cosa
volesse,
ancora non gli era chiaro.
Si
concesse il lusso di prendersela comoda e arrivare alla sua abitazione
dopo
qualche ora, quasi indeciso se entrare o meno.
Non essere
stupido, sono
preoccupati per te.
Lauren
sobbalzò quando vide il marito entrare: fu davvero lieta di
vederlo in piedi
sulle proprie gambe, nonostante avesse una pessima cera. Non doveva
nemmeno
chiedersi cosa fosse successo, ormai era la routine.
«Jecht,
finalmente! Temevo di doverti ripescare al locale...»
«E
non
sarebbe la prima volta, vero? Ah... mi dispiace».
«Sì,
sì...
lo so. Almeno, dove sei stato? Stai bene?»
«Insomma,
sì. Sono stato peggio. Ero da Tancre, mi ha recuperato
lui» disse ridendo, ma
Lauren non era altrettanto ilare.
«Jecht,
per favore, non voglio vederti ridotto così ogni volta.
Perché non riesci a
fermarti? Tidus avrà solo pessimi ricordi di te».
Il
campione iniziò a sentire un fastidioso senso di oppressione
allo stomaco,
stavolta non dovuto agli alcolici. Erano parole che facevano male, ma
non la
biasimò, anzi. L'unica risposta che la sua mente annebbiata
elaborò fu il
desiderio di fuga, tanto che intravide l'occasione perfetta proprio
nelle parole
doloranti della moglie.
«Hai
proprio ragione: non posso continuare così, me lo dici da
tanto tempo. Voglio
fare qualcosa» disse accondiscendente. Lauren rimase a bocca
aperta.
«D-dici
sul serio? Stavolta è... vero?»
«Assolutamente
tesoro, davvero... ho deciso di partire per un po' di tempo. Mi
imbarcherò
sulla Laguna Shore e mi allenerò in mare aperto, lontano
dall'alcol e dal
caos».
«Vuoi
partire? Così lontano... non è
pericoloso?» disse titubante.
«Non
so
dirlo, ma sono convinto mi serva davvero».
Lauren
abbassò lo sguardo, poi girò la testa verso la
cameretta di Tidus.
«Accetterò
solo se mi prometti di provarci davvero. Non per me, Jecht, fallo per
tuo
figlio».
«M-ma
certo, ovvio! Ora vado a fare i bagagli, ok?»
Cazzate,
solo cazzate.