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Autore: Sinnheim    27/02/2021    0 recensioni
Fanfiction scritta a quattro mani con SibillaCubana.
Questa è la loro storia.
Prima di ciò che si conosce, quando Spira non era altro che una terra fatta di morte e distruzione, i tre eroi della leggenda hanno avuto modo di perseguire il loro destino.
L'invocatore Braska, il monaco Auron e il naufrago Jecht partiranno per completare il loro Pelligrinaggio, viaggio volto a raccogliere le forze necessarie per sconfiggere Sin, il distruttore.
Tuttavia, questo lungo e pericoloso viaggio verso la città di Zanarkand non sarà solo ricco di insidie terrene: ancor di più, i tre eroi dovranno affrontare loro stessi e le loro peggiori paure.
Genere: Dark, Drammatico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Auron, Braska, Jecht
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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CAPITOLO 1: AUTODAFE'

 

 

 

ἐπάμεροι τί δέ τις; τί δ' οὔ τις; σκιᾶς ὄναρ

ἄνθρωπος, αλλ' ὅταν αἴγλα διόσδοτος ἔλθη,

λαμπρόν φέγγος έπεστιν ανδρῶν καὶ μείλιχος αἰών

 

Esseri della durata d'un giorno. Che cosa siamo? Che cosa non siamo?

Sogno d'un'ombra l'uomo: ma quando un bagliore divino ci giunga,

fulgido risplende sugli uomini il lume e dolce è la vita.

(Pindaro, Pitica VIII, vv. 95-97)

 

 

Il sole passava il punto vernale e, transitando, trascinava le dita dell’inverno. Le cupole di S.Bevelle rifulgevano, quel giorno, dello splendore dell’oro.

Al centro della piazza c’era un’enorme fontana, con tutto intorno un fregio di smalto, da cui l’acqua cadeva come le dolci piogge di primavera.

I suoni della festa avevano soppiantato con prepotenza i chiacchiericci mondani dei lavoratori. Il battere dei tamburi e le grida divertite dei ragazzi erano diventati i soli rumori tollerati dalla gente, almeno per quella giornata.

Sopra un carro trainato da forze invisibili, un uomo vendeva mele caramellate. Alle sue spalle, un altro annunciava quanto bestiame era stato condotto alla festa, in modo che tutti potessero gioire del banchetto prima ancora di averlo visto.

Profumi dolci e speziati venivano intrappolati dai numerosi teli che proteggevano le bancarelle, rendendo le strade dei lunghi corridoi volti ad attirare l'attenzione – e gli stomaci – del popolo. La grande festa era una delle poche occasioni in cui cibi così raffinati potevano essere gustati anche dai palati più umili: tutti cercavano di procurarsene un boccone.

Gli adulti amavano dilettarsi con i numerosi giochi proposti in seno alle piazze. Spesso erano prove di abilità e precisione dove si cercava di centrare un palo con un cerchio di ferro, oppure di abbattere dei bersagli con delle palle di stoffa. I bambini venivano introdotti alla conoscenza di animali esotici e difficilmente avvicinabili, ma la gioia più grande scoppiava solo quando c'erano i chocobo, tanto che veniva permesso loro di salirci in groppa ed essere condotti per un tranquillo e breve tragitto.

Immersa nella folla, una giovane donna afferrò la veste della sorella, e il viso di quella, assieme a tanti altri, si volse verso il ponte adornato da veli.

Il Gran Maestro Mika, uomo saggio e venerabile per età, camminava a passo lento con la tiara sul capo. I pellegrini, frenetici, tentavano di sfiorarlo con le dita anche solo per un istante e sollevavano verso di lui i figli, in modo che li benedicesse.

Proprio quando Mika allungò le dita verso la fontana, e ne sfiorò l’acqua paziente, una moneta lanciata da qualcuno fece schizzare delle gocce sulla sua manica. Egli non se ne curò e alzò le mani al cielo.

 

Salve, regina della città

celata dalla notte,

in te canta il nostro cuore.

Rendiamo grazie a te,

Yunalesca,

Nel tuo giorno, a te

Che hai mondato la terra,

E molte volte,

molte volte ancora ripetiamo

Il tuo sacrificio.

E sempre ti siamo grati,

O cerchio sempiterno

Yevon,

Colui che apre tutti gli occhi,

Colui che ha molte menti

E che tutto, vedendo, comprende.

Ie yu i

No bo me no

Ren mi ri

Yo ju yo go

 

 

«Hasatekanae kutamae» mormorò un uomo inginocchiato nel buio, rischiarato solo dalla fiamma tremula di una candela. Prima che il cerchio della preghiera potesse ricominciare, sostenuto dal canto degli altri monaci, le sue labbra si fermarono.

Spostò il peso sulla gamba destra, dolorante e premuta contro il legno della panca, mentre alzava lo sguardo per incontrare quello di chi aveva appena varcato la soglia.

Una lama di luce si era insinuata nella cella e, tagliando l’imitazione di una notte perenne, era arrivata a ferire gli occhi del monaco.

Lontani, oltre al canto monotono del coro, provenivano i rumori della festa sacra. L’uomo, ancora in ginocchio, si rassettò la tunica di cotone grezzo.

Erano tre i confratelli che erano arrivati a prenderlo: uno di loro, un giovane dalla folta barba castana, fece un passo avanti. Indossava l’armatura di cuoio e seta dei Templari, decorata in vita da un laccio dorato.

«Sei sicuro, Auron?» domandò. Se qualcuno glielo avesse chiesto, avrebbe risposto che la luce nei suoi occhi altro non era che la combinazione strana del lume della candela e del sole, ma il suo tono tradiva una preoccupazione affettuosa.

Auron annuì con un cenno del capo, così gli altri due monaci lo afferrarono per le braccia e lo tirarono in piedi, più per un gesto rituale che per offrirgli un effettivo appoggio.

Quando fu dinanzi all’amico, che non superava solo per altezza ma anche per imponenza, si limitò a fissarlo in silenzio.

«Non riesco a capirti» gli disse lui.

«Mi dispiace, Kinoc» rispose Auron, la voce arrochita dal lungo silenzio, «ma è proprio per questo che me ne vado».

I due monaci guerrieri che lo avevano fatto alzare estrassero le spade e lo scortarono verso l’uscita della stanza, come si confaceva al suo rango, anche se stava imboccando la strada per lasciare le fila dell’esercito di Yevon.

Kinoc gli porse il rosario tipico di Bevelle dai grani gialli e blu, pretendendo di restare indifferente alla totale assurdità del gesto del suo amico, ma non riuscì a distogliere lo sguardo dalla sua schiena mentre si allontanava, dai capelli raccolti con un nastro d’oro, come macchie d’inchiostro sulla tunica.

«Avresti potuto accettare la figlia di Landor in sposa» gli disse senza aspettare che si voltasse, in un disperato tentativo di farlo tornare sui suoi passi.

Auron si voltò. Inclinò il capo sulla spalla sinistra e socchiuse gli occhi, come per invitarlo a proseguire, ma non disse nulla.

«Non intendo mancarti di rispetto» ricominciò Kinoc, «ma le tue ragioni mi sono oscure. Non è necessario che il matrimonio venga consumato subito per essere ritenuto valido».

«Non è qualcosa di cui vorrei macchiarmi in ogni caso» replicò Auron, con lo stesso tono calmo ma autoritario che utilizzava per dare ordini. Kinoc si rendeva conto che la sua partita era persa in partenza.

«Spero che tu sia consapevole di ciò che stai rifiutando» replicò tuttavia, il tono che si induriva per rivaleggiare con quello del compagno d’armi.

Auron, inaspettatamente, tirò le labbra in un lieve sorriso.

«Ie yu i no bo me no» ripeteva il coro, invisibile nel luogo dove loro si trovavano.

«Non vergognarti di prendere il mio posto» disse a mezza voce, poi unì le mani in grembo e volse lo sguardo inflessibile verso i monaci che lo attendevano sull’attenti.

«Avanti» ingiunse, tenendo la testa alta, con dignità.

Wen Kinoc compì il saluto rituale, e dispose davanti a sé le braccia come se stesse stringendo in mano una sfera, ma Auron non si voltò mai più.

Wen Kinoc venne lasciato, assieme all’eco di quell’avanti, nello stesso modo in cui si lascia una cosa rotta. Rimase lì, nella medesima cella dove, da bambino, s’intrufolava per condividere il pane nero con l’amico e per intagliare con lui i cucchiai nel legno.

Presto la voce di Auron cominciò, nella sua testa, a parlargli di un onore che per lui non aveva alcun significato, e di quel gran rifiuto che, se richiesto, di nuovo avrebbe fatto.

Glielo avrebbe ripetuto ancora per anni, e per quei lunghi anni lui non avrebbe mai compreso.

Per Auron una consapevolezza tale bruciava più del fuoco: l'idea di non essere riuscito a spiegarsi con il suo migliore amico lo feriva nel profondo, ancor di più, forse, con coloro che lo avevano rispettato e ammirato.

Era così difficile comprendere le sue ragioni?

La testa di Auron diventò dolorante, troppe domande turbolente senza risposta si ammassavano nella sua mente, domande che, tra l'altro, non avrebbero dovuto aver senso di esistere.

I passi pesanti del monaco echeggiarono tra gli alti soffitti del tempio, decorato anch'esso a festa con veli colorati, fino a giungere a uno degli altari posti vicino alle vetrate, il più illuminato e il suo preferito.

Lo guardò con nostalgia e dolcezza – quante ore delle sue giornate aveva passato al suo cospetto! – ma anche la rabbia del doverlo abbandonare iniziò a serpeggiare nel suo animo: era un'ingiustizia imperdonabile.

Si inginocchiò a malincuore, stringendo nel pugno il suo rosario come per rivendicarne la proprietà perfino con gli spiriti, tanta era l'affezione verso il suo compagno di preghiere; l'ira lo stava divorando come fuoco di paglia, ma si rese conto che quel gesto così doloroso era anche la presa di posizione più severa che potesse applicare.

E gli andò bene così. Quella legge morale, così giusta e invalicabile, lo tranquillizzò, tanto che allentò la presa e fece scivolare il rosario dal palmo della sua mano alla fredda superficie dell'altare, rinvigorito da nuova determinazione.

Quando uscì dal tempio, abituato alla sua rassicurante oscurità, il cielo troppo blu della città, il rumore e le sfavillanti decorazioni lo colpirono con l’intensità di uno schiaffo, facendogli pulsare le tempie.

Attraverso lo schermo delle ciglia osservò il Gran Ponte e lo trovò gremito di folla. Uno stormo di colombe, lasciate libere da qualcuno, lo attraversò da parte a parte per poi svanire fra le nuvole. Le teste che si erano alzate ad ammirare lo spettacolo erano tanto fitte che Auron non sarebbe riuscito a vedere oltre nemmeno se si fosse alzato sulle punte dei piedi, come un bambino.

All’improvviso, qualcuno gli urtò la schiena. Lui si irrigidì per riflesso involontario e voltò lo sguardo, per trovarsi a sovrastare quello che era poco più che un ragazzino.

«Mi scusi» borbottò quello guardandosi le scarpe, poi fece per rituffarsi nella calca. Il monaco ne approfittò:

«Che cosa ci fa lì tutta quella gente?» gli chiese.

Il ragazzo si voltò verso di lui e sgranò gli occhi. L’attimo dopo riacquistò una timorosa compostezza e replicò:

«Alla Corte Suprema c’è il processo dell’Inquisizione!»

Detto questo, scivolò via come un’anguilla scivola giù dalla rete, forse per diffidenza nei confronti di quello strano uomo in tunica bianca, forse perché non voleva perdere nemmeno una parola dell’equa sentenza.

Auron, ancora infastidito dal sole, si premette le dita sulle palpebre e immaginò un’aula buia e gremita, senza sapere che quel luogo esisteva davvero.

Sotto una cupola nera, cesellata con arte per rappresentare il cielo stellato, stava un palco in legno dall’arcata stuccata in oro, sormontato dall’occhio di Yevon che tutto vede. Nonostante gli incensi fossero stati rimossi per evitare che togliessero il respiro a qualcuno dei numerosi astanti, l’odore residuo continuava a pizzicare le narici.

Il Grande Inquisitore sedeva su di un trono al centro del palco, tra due guardie Ronso dalla pelliccia rossa, armate di alabarde.

Quelle creature leonine, a quanto si diceva, erano entrate di recente tra i ranghi di Yevon, ma avevano scalato in fretta la gerarchia. Occupavano posti di prestigio come guardie delle autorità, anche grazie all’intercessione di qualche magnate dall’animo generoso. E, forse sperando in quell’evergetismo un po’ sospetto, i due squadravano tutti i presenti con fare insistente, alla ricerca di qualunque segno di pericolo per il loro protetto.

Nel frattempo gli occhi dell'uomo scandagliavano con ansia il pubblico, alla ricerca di volti conosciuti o di personalità eminenti di Bevelle. Al centro del suo labbro inferiore, in quel momento disteso nell’ombra di un sorriso, era evidente la traccia lasciata dal sigaro.

Amava ogni piega della veste nera e grigia che specificava la sua mansione all’interno del clero. Spesso, mentre parlava o mentre aspettava, le sue dita indugiavano sulla spilla di rubino che la teneva ben ferma sul petto, accarezzandola come il viso di un’amante.

Quando l’eretico che doveva essere sottoposto a processo fece il suo ingresso in aula, il Grande Inquisitore pose le mani in grembo e drizzò la schiena, in modo che non fosse evidente che la sua statura fisica era ben inferiore rispetto a quella del suo compito; riguardo alla statura morale, invece, i posteri avrebbero fornito la loro sentenza.

Notò che il volto dell’imputato era più pallido e smorto delle ultime volte che lo aveva visto: nonostante conoscesse a memoria i suoi lineamenti, sembrava esservi comparsa qualche ruga in più. Tuttavia, ciò non gli mosse un sentimento di pietà verso l’uomo: un senso di forte fastidio lo colpì come un mal di stomaco improvviso.

«I sacri uffici di questa corte altro non cercano che la verità assoluta, nel nome di Yevon. A coloro sotto processo: credete in Yevon e dite la verità».

L’uomo alzò gli occhi celesti, nei quali all’Inquisitore parve di leggere un astio sopito. Non disse una parola.

«L’imputato Braska è accusato di aver difeso l’eresia concernente l’uso di macchine nelle operazioni militari. È altresì accusato di aver contratto matrimonio con una donna Al Bhed e aver generato prole. Il terzo capo ascritto, svincolato dai precedenti, è l’aver favorito la diffusione della pestilenza ignorando la disposizione di isolamento. In seguito alla raccolta di prove da parte dell’Inquisizione, sotto disposizione del Gran Maestro Mika, è pronunciato colpevole».

Tutti i presenti, che avevano riempito le balconate, trattennero il respiro come se fossero loro a trovarsi al posto suo.

Braska, invece, mosse appena il capo, come se si aspettasse l’esito della sentenza. La sua apparente tranquillità non fece che accrescere il già accentuato fastidio dell’Inquisitore, che diventava sempre più impaziente di concludere il processo.

«Per ordine della Corte di Yevon, che abbandoni del tutto, né del resto in qualunque modo sostenga, insegni o difenda la sua tesi. Viene ora richiesta l’abiura dell’eresia davanti al qui presente Grande Inquisitore Alan».

«No» disse secco l’imputato. Pronunciò quella parola con voce quasi leggera, e sembrò quasi non pensarci.

Il pubblico sussultò come un’unica persona.

Il giudice digrignò leggermente i denti e fece un profondo respiro. Sotto le ampie maniche della veste strinse i pugni fino a sentire le unghie nella carne. Interdetto dalla risposta, si trovava ad affrontare una situazione di stallo che avrebbe messo in discussione il suo stesso ruolo all’interno del clero.

Approfittando del silenzio opprimente dell’uomo che aveva davanti, Braska si permise di parlare in propria difesa:

«Le accuse a me mosse sono frutto di errata interpretazione, vostro onore».

Alan fu costretto a mordersi l’interno della guancia per tenere a freno l’istinto di ribattere: era certo che quell’ultima parola avesse un tono denigratorio.

«Il matrimonio misto non è proibito dalle leggi di Bevelle. Inoltre, non presento sintomi di tisi da almeno due anni». Fece una pausa per prendere fiato, e con lui respirarono tutti i presenti. «Tramite un intenso percorso di preghiera e prendendomi carico della missione di Invocatore, chiedo alla corte di concendermi di espiare le mie colpe. Sono disposto, infine, ad accettare la scomunica».

Sentendo quella dichiarazione di intenti, l’Inquisitore parve rilassare il corpo irrigidito, sollevato dall’onere di trovare una soluzione a un problema così complesso. Se lo avesse condannato a morte, la sua dipartita sarebbe stata del tutto vana, ma adempiendo al compito degli Invocatori, e così morendo, avrebbe potuto portare un periodo di pace sull’isola.

Questo si sarebbe tradotto in una fama che avrebbe aleggiato su Spira almeno per anni e avrebbe sussurrato il nome di Braska, ma anche quello di Alan e, per riflesso, quello di tutta la famiglia. Era la soluzione perfetta.

La corte accettò senza riserve la proposta dell’imputato.

 

 

 

I veli scossi dal vento erano ipnotici da osservare, il loro movimento armonioso e imprevedibile calmava l'animo turbolento di Auron.

Il monaco passeggiò fino al centro del ponte addobbato senza nemmeno accorgersene: troppi erano i pensieri che lo tormentavano.

Si appoggiò di peso al parapetto e si mise a contemplare le decorazioni colorate che svolazzavano di qua e di là, in balia della brezza fresca.

Auron sentì una certa affinità con quella vista: anche lui era stato spinto a muoversi dalla volontà di qualcun'altro, con l'unica differenza che lui aveva scelto dove andare. Nessuno, però, avrebbe potuto dirgli se la sua decisione fosse giusta o sbagliata, solo la sua coscienza poteva.

Non c'erano alternative. Si ripeteva queste parole di tanto in tanto per calmare i nervi, quando la certezza iniziava a vacillare e i dubbi minavano le sue convinzioni.

Sospirò, stanco: indugiare per ore sugli stessi ragionamenti lo stava logorando, anche perché le risposte che si dava non lo convincevano mai del tutto.

Si voltò verso l'estremità destra del ponte, dove aveva visto riunirsi tutta quella gente per assistere al processo dell'Inquisizione. Distinse la figura di un uomo: era gracile, e l’umile veste grigia attirò il suo sguardo come il magnete che devia la bussola dal suo corso. Lo vedeva bene, o per la scarsa distanza, dato che gli si stava avvicinando, o perché la sua mente era concentrata nello scrutarlo.

Con lentezza, il suo sguardo viaggiò lungo il corpo dell’uomo, salì fino alle mani bianche e curate, troppo per essere quelle di chi arava la terra o tirava in secca le reti. Il suo portamento era signorile, la schiena dritta e il mento sollevato, ma la testa un po’ inclinata verso destra pareva in qualche modo domandare perdono. Nell’istante in cui gli occhi del monaco si posarono sul suo viso, lui passò sotto a una delle stoffe traslucide che addobbavano il ponte.

L’uomo, quasi percependo di essere guardato, si voltò verso Auron e le sue labbra sottili si incresparono in un sorriso. Le iridi chiare, seminascoste dal velo, puntavano dritto verso di lui.

Continuò ad avanzare: ad Auron parve che la folla si aprisse per farlo passare, ma non seppe dire se quella che gli veniva incontro fosse una luce dolce o, piuttosto, il tranquillo buio che aveva lasciato nelle celle del monastero.

Il viso asciutto e pallido dello sconosciuto era stranamente interessante agli occhi di Auron, nonostante il suo aspetto fosse abbastanza anonimo in mezzo alla folla. La sua sola presenza infondeva tranquillità.

«Ti vedo turbato, figliolo» disse il misterioso uomo con voce accomodante, tanto che Auron non seppe come interpretare quella confidenza.

«Cosa glielo fa pensare?»

«Sei l'unico volto triste in una festa gioiosa come questa» rispose sorridendo, ma il monaco non parve colpito.

«Ho i miei motivi, mio signore. Sono altresì stupito di vedere un uomo così allegro nonostante vesta di bianco come me».

«Non ho motivo di essere triste: penso di non aver fatto niente di male».

«Per avere qualcosa di cui pentirsi, molti non dovevano essere d'accordo».

L'uomo scoppiò a ridere di gusto, una piccola lacrima ribelle gli scivolò sulla guancia leggermente incavata.

«Beh, non piaccio molto all’Inquisizione».

Auron ebbe un sussulto al suono di quella parola, tanto temuta quanto rispettata: non era facile sfuggire alla sua morsa, probabilmente aveva evitato una severa punizione per camminare così spensierato tra le bancarelle della festa.

«Era lei l’uomo sotto processo, mio signore?»

«In carne e ossa… ancora per un po’» disse sghignazzando mentre scrutava con attenzione un braccialetto di giada, pezzo in vendita di uno dei tanti mercanti presenti sul ponte.

«Il clero deve amarla da morire...»

«Forse si può dire che mi ama come un fratello».

Rivolse un ultimo, enigmatico sorriso al monaco e alzò le spalle, poi pagò il gioiello e se ne andò per la sua strada, seguito dallo sguardo incuriosito di Auron.

Percorse a passo calmo il ponte e infine sparì, dietro allo stesso drappo che aveva nascosto il suo arrivo: lì, oltre quel velo, stavano le cose che Auron non sapeva.

 

  
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