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Autore: tralenuvoleee    12/03/2021    0 recensioni
Luna era solare, coraggiosa, felice. Era, tempo imperfetto.
Adesso si trascina dietro una vita marchiata dal dolore e dalla sofferenza, coronata da un incidente che la segna più sul piano psicologico che fisico. Nonostante la giovane età e gli orrori che ha dovuto vedere e subire, Luna trova sempre la forza di andare avanti perché, seppur spaventata e impaurita, è determinata a vivere.
Nel disperato tentativo lasciarsi il passato alle spalle una volta per tutte, Luna abbandona la sua amata terra natale per riprendere in mano il controllo della sua vita e ricominciare da zero.
E proprio nella nuova cittadina, per sua fortuna o sfortuna, incontra colui che riesce a leggere il profondo dolore che si cela nei suoi occhi. A lui è impossibile mentire, impossibile anche per lei, che ha passato una vita a nascondere segreti. Lui le fa assaggiare la libertà, la dolcezza di ogni piccolo momento, il potere curativo di un abbraccio e, per la prima volta dopo anni, Luna si sente al sicuro.
Ma sarà davvero così? Se c'è una cosa che la vita le ha insegnato, è che non è possibile cancellare il passato e che il pericolo è sempre dietro l'angolo, pronto a renderle un agguato.
Genere: Romantico, Sentimentale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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Quando riemergo dalla vasca da bagno e mi avvolgo in un asciugamano pulito, noto che sono già le sette passate. Ora di prepararsi per andare a scuola.
Un'altra notte passata vigile e sveglia intrappolata nella morsa del terrore, penso, osservando nello specchio le occhiaie scure che mi cerchiano gli occhi in modo sempre più evidente.

Nella stanza accanto, Sam cucina la colazione, canticchiando allegramente com'è solita a fare. Distolgo lo sguardo dal mio riflesso, che mi ricorda in ogni momento tutto ciò che nella mia vita ho perso, e mi lascio andare a un sorriso. Sam è così felice, così vitale, così piena di voglia di vivere. La invidio, perché lei è tutto ciò che avrei sempre voluto essere: dolce, spensierata, frizzante, un po' ingenua, ignara di cosa si celi appena dietro l'angolo, parzialmente invisibile ai suoi occhi da sognatrice.
Vorrei essere come lei, vorrei essere lei. Avere la vita che ha avuto lei in America, lontano dal dolore della perdita e dalla sofferenza latente. E non posso farne a meno, non riesco a evitare di formulare paragoni tra di noi, perché guardare lei equivale a una fitta di invidia e una di ammirazione.
Ma io non sono lei, non sono come lei. Non sarò mai come lei.

Ormai la vita ha fatto il suo dovere, ha tolto a me e dato a lei, le cose non si possono più cambiare. La persona che sono diventata è la conseguenza di quello che mi è successo, mentre il suo essere così aperta e positiva è anche dovuto al fatto che lei non è stata costretta a passare quello che ho passato io.
Mi impongo di smetterla con questi continui confronti, dovrei essere felice per Sam e per la persona di successo che è riuscita a diventare completamente da sola, senza l'aiuto della famiglia, che aveva già progettato per lei un futuro fatto di agi in America. Dovrei essere fiera di lei, non passare un secondo sì e l'altro pure a rimuginare su ciò che la vita ha regalato solo a lei.
Da sempre Sam è il mio idolo, il mio punto di ispirazione e di riferimento: l'ho sempre vista un gradino sopra di me, e non solo per la grossa differenza di età che ci ha sempre separato. Le cose devono rimanere così, non ha senso avercela con lei solo perché la vita è stata più generosa con lei che con me. Anzi, con me non lo è stata affatto.

Per distrarmi mi metto a curiosare in giro: Sam ha davvero buon gusto in fatto di arredamento, ennesima voce da aggiungere nell'infinito elenco delle cose che le riescono straordinariamente bene. Ogni oggetto sembra essere stato posizionato con la massima accuratezza, calcolata con una precisione quasi ossessiva; ovunque poso lo sguardo, trovo file e file di smalti e trucchi di ogni genere allineati con precisione maniacale sugli scaffali e negli armadietti. Persino le decine di flaconi di prodotti per capelli che popolano il bordo dell'immensa vasca sembrerebbero avere un loro ordine preciso.

Improvvisamente mi viene in mente che non ho nulla da mettermi addosso, letteralmente. Con l'incidente tutti i miei vestiti, insieme al resto delle mie cose, sono andati perduti e successivamente non ho avuto né il tempo né la forza per comprarne di nuovi. Ora vorrei tanto averlo fatto, perché gli unici indumenti di cui attualmente dispongo sono un paio di jeans dall'aria sofferta con qualche macchia di evidenziatore verde e una felpa di un improponibile giallo canarino, per di più sgualcita sui polsini. Non mi interesserebbe, in realtà, se non sapessi che quel giallo improbabile mi calamiterà addosso gli sguardi di tutte le persone possibili e immaginabili, quando il mio unico desiderio è quello di mimetizzarmi tra gli altri.

Prendo un lungo respiro e faccio per indossarli, quando l'occhio mi cade su un'ordinata pila di vestiti ben piegati accanto al doppio lavandino di marmo. Perplessa, mi avvicino per vedere di cosa si tratta e constato con meraviglia che sono un paio di jeans nuovi di zecca e un maglioncino color acqua marina, grande e morbido, uguale al mio preferito che credo sia andato distrutto durante l'incendio.

Una fitta dolorosa alla testa, in corrispondenza della piccola cicatrice accanto al sopracciglio destro mi fa quasi perdere l'equilibrio. Mi aggrappo al lavabo per non cadere, per una manciata di secondi il dolore è talmente forte da appannarmi la vista, così premo la faccia contro il marmo freddo del lavandino.
Ecco, ci risiamo.
Passano alcuni interminabili secondi, durante i quali l'unica cosa a cui riesco a pensare è che vorrei solo disintegrare il marmo a testate, poi riesco a calmarmi e torno in me. Forse non è stato un male del tutto reale: probabilmente si tratta di un pessimo scherzo della mia testa, ancora scossa dall'angoscia per quello che è accaduto.
Tornando con lo sguardo sul maglioncino sorrido, commossa dal gesto di Sam; senza che nemmeno glielo chiedessi, si è preoccupata di comprarmi dei vestiti nuovi ancora prima che io arrivassi, ricordandosi alla perfezione dei miei gusti e dei colori che mi piace indossare.

Una volta vestita, il mio sguardo torna sullo specchio e, immancabilmente, gli occhi mi cadono nuovamente sulla cicatrice. La osservo ancora nervosamente, cercando di concentrarmi su qualsiasi altra cosa che non sia il giorno in cui me la sono procurata. Ma invano.
Il coltello che si avvicina al mio viso, il dolore lancinante e...
Basta!
Con uno sforzo immane ritorno al presente, evitando accuratamente di guardare quel piccolo segno. Con rabbia, afferro dal cassettone il necessario per nascondere agli occhi degli altri la cicatrice e le mie orribili occhiaie, dovute alle lunghe notti insonni.

Quando esco dal bagno, Sam fischia ridendo. È così bella, così serena, così pura, lei. Non ha cicatrici che pulsano di dolore solo a ricordare come se le è procurate, non ha occhiaie causate dall'assenza di sonno per colpa di terribili incubi da nascondere. Lei è bella così, genuina e baciata dalla fortuna, anche con indosso un grembiule sporco di impasto per i biscotti e le guance chiazzate di farina.

Mi sforzo di sorriderle e mi siedo al bancone, dove una piramide di biscotti appena sfornati mi attende. Sam è gioiosa e non la finisce più di parlare, saltella da una parte all'altra della cucina per mettere in ordine e, di tanto in tanto, si ferma per addentare un biscotto. Lo faccio anche io, ma stento a finirne anche solo uno, nonostante i dolci siano buonissimi: ho lo stomaco chiuso dall'ansia, il solo pensiero che tra poco sarò di nuovo là fuori totalmente da sola mi fa tremare le gambe dalla paura.

Quando viene il momento di uscire, è già tanto se le gambe sono in grado di sorreggermi. Mi tremano le mani mentre mi metto lo zaino in spalla, mentre sfilo dal gancio le chiavi della mia nuova casa e anche mentre abbasso la maniglia della porta. Ma poi, appena l'aria satura di salsedine mi investe, un delizioso stato di calma mi si insinua dentro.
Sono lontana dal mio inferno personale, lontana abbastanza per vivere senza la paura di trovarmi davanti un uomo armato e senza volto. Lontana. Mille chilometri. Mille chilometri sono tanti, ma saranno abbastanza?

Il viaggio verso la scuola procede tranquillo, arrivo alla fermata dell'autobus che porta in città con largo anticipo e, visto il gran quantitativo di studenti che ridono, scherzano e fanno chiasso intorno a me, non corro il rischio di sbagliare. C'è chi parla con il vicino, chi urla, chi ascolta musica, chi studia e chi copia i compiti; io invece me ne sto per conto mio, cercando di non dare troppo nell'occhio.

Arrivati a destinazione, scendo e seguo la mandria di ragazzi che si dirigono in massa verso un imponente edificio di mattoni rossi, circondato da un grande giardino costellato da alberi spogli e panchine. È un posto grande, caotico, rumoroso, esattamente ciò che mi serve per confondermi nel fermento generale.

Per gli altri è un giorno come un altro, che inizia con una sigaretta da fumare fuori dal cancello, con un abbraccio a un amico o con un "buongiorno" sussurrato sulle labbra del proprio compagno, ma per me no e, per la prima volta da quando sono qui, mi rendo conto per davvero che di tutte le possibilità che mi si stanno aprendo davanti. Sono a mille chilometri da quell'orrore, a mille chilometri da tutto quanto. Vedo di nuovo l'orizzonte, ho di nuovo un futuro nel quale credere. Ho avuto la forza di mollare tutto e scappare e adesso sono libera, libera dall'orrore e dalla paura, libera di vivere appieno la mia adolescenza già bruciata per metà e la mia intera vita.
Un sorriso enorme mi sboccia sul volto, mentre realizzo a poco a poco che qui nessuno mi conosce, qui non devo avere paura. Basta nascondersi, basta tremare appena calano le tenebre. Basta con tutto. Stringo forte tra le dita la cinghia dello zaino e faccio il mio ingresso a scuola.

I corridoi, per quanto ampi, sono stipati di ragazzi e professori che, come formiche operose, si muovono in tutte le direzioni all'interno del loro formicaio. Non c'è ordine, non c'è tempo di avere paura di rimanere a vista, c'è solo un'allegra confusione fatta di chiacchiere, porte che sbattono e scarpe che sfregano sui pavimenti lucidi che mi ingloba dentro di sé.
Non ho idea di dove andare, così vinco quel briciolo di paura che ancora mi è rimasto dentro e fermo la prima persona che mi passa accanto.

È una ragazza dai lunghi capelli neri che cammina con il naso affondato in un voluminoso quaderno ad anelli che esplode di fogli pieni zeppi di appunti e annotazioni. Notandomi, fa retrofront e mi si avvicina, ma un ragazzo che viene nella direzione opposta la urta e il quaderno che lei reggeva tra le mani vola in terra, sparpagliando tutto il suo contenuto sul pavimento.
Svelta mi chino ad aiutarla per raccogliere i fogli che sono volati in tutte le direzioni, prima che qualcuno possa calpestare il duro lavoro di quelli che a occhio e croce sembrerebbero mesi di lezioni. Afferro un post-it arancione e poi un paio di fogli sui quali, in un'ordinata calligrafia tondeggiante, sono annotati complessi principi di elettrochimica. Ci lancio un'occhiata rapida e asserisco che sono tutti argomenti che ho già affrontato.

- Grazie mille - dice, tendendomi la mano piccola e pallida per riavere i suoi appunti.

- Certo, scusami - mi affretto a rispondere, porgendoglieli mentre mi rialzo da terra. - Elettrochimica, a quanto vedo - dico poi, per evitare che scappi via.

Lei solleva il viso dalla pelle color del latte su di me e mi squadra da capo a piedi con i suoi limpidi occhi azzurri. Poi sorride, le labbra rosso viso che si contraggono e formano delle piccole grinze sul naso abbellito da una delicata spruzzata di lentiggini.

- Già, un incubo, soprattutto se come professore hai Vercelli. Tra un attimo mi interroga e quello è super esigente, se non gli esponi gli argomenti esattamente come vuole lui ti bastona. Ce l'hai anche tu? - domanda poi, guardandomi con curiosità.

- No, veramente sono nuova, infatti volevo giusto chiederti se potresti aiutarmi a trovare la segreteria, ma se hai fretta... - inizio, ricordandomi poi che mi ha appena parlato di un'interrogazione.

- Oh, ma figurati, ti accompagno volentieri, così approfitto anche per farti fare un giro della scuola. Tanto siamo in anticipo, ce la facciamo tranquillamente. Sai già in che classe ti hanno inserito? - mi domanda con un sorriso radioso stampato in viso.

- Veramente no, non mi hanno detto nulla. Comunque sono Luna - mi presento, facendo uno sforzo per non scostarmi quando lei mi afferra una mano e me la stringe. Non voglio apparire sin da subito come quella fredda e scortese, per cui mi faccio forza e gliela stringo a mia volta. Se voglio ricominciare a vivere, prima o poi dovrò abituarmi anche al contatto fisico con gli altri. Meglio abituarsi il prima possibile.

- Sono Zoé, alla francese, ma puoi semplicemente chiamarmi Zoe, lo preferisco. Plaisir de te connaître - dice in francese, strizzandomi l'occhio.

- Ne deduco che sei francese - le dico, mentre ci avviamo lungo i corridoi gremiti.

- Tecnicamente sì, ma io non mi definisco come tale. Sono nata a Lione ma ci ho vissuto solo per pochi mesi, poi siamo tornati qui, che è il paese di origine di mio padre. Mi considero più italiana che francese, anche se all'anagrafe c'è scritto che sono nata in Francia la mia vita è sempre stata qui - spiega, camminandomi accanto con passo disinvolto.

Mano a mano che ci passiamo davanti, getto qualche sguardo alle aule: sono tutte molto luminose, con grandi finestre che accolgono i fiochi raggi di sole invernale, ognuna caratterizzata dal tipico odore di scuola, libri nuovi, gesso della lavagna e soluzione per pulire i vetri.

- Mi raccomando, stai attenta a non confonderti! In questa scuola abbiamo tante sezioni e moltissimi indirizzi, per cui è facile sbagliare. In più, per complicare ulteriormente le cose, ci sono i vari laboratori: biologia, microbiologia 1 e 2, chimica 1, 2, 3 e 4, fisica, microscopia e anatomia 1 e 2 - continua, indicando con un cenno del braccio ogni laboratorio quando ci passiamo davanti.
Nel vedere i laboratori, un sorriso enorme si fa strada sul mio volto. Quello è il mio ambiente, in mezzo a reagenti, batteri e microscopi. Non vedo l'ora di farci il mio ingresso, non vedo l'ora di...

- Eccoci, siamo arrivate, questa è la segreteria. Ti aspetto qui fuori, così poi posso accompagnarti in classe - dice Zoe, facendo irruzione nei miei pensieri.

- Grazie mille, dico davvero - la ringrazio, aprendo la porta ed entrando.

Mi ritrovo in una piccola stanza squadrata e subito mi sento soffocare dalle pareti, che paiono restringersi al mio passaggio. Ignorando il panico che inizia a insinuarsi in me, mi avvicino al bancone ingombro di carte e moduli della segreteria, dove siede una donna con i capelli corti e castani. Mi sorride gentilmente, chiedendomi come può essermi utile.

- Sono una nuova studentessa. Mi chiedevo se potrebbe gentilmente indicarmi la classe nella quale sono stata inserita, per favore. - Sorrido speranzosa, scrutando attentamente la sua espressione e cercando di ignorare a tutti i costi la sensazione sempre più sgradevole che mi sta assalendo.

- Luna Madison? - domanda sovrappensiero, aggiustandosi gli occhiali sul naso sottile e prendendo a scartabellare tra i moduli presenti sulla scrivania, facendo ticchettare di tanto in tanto le unghie curate sul ripiano.

- Sì, sono io. - Noto con sgomento che questa stanza è priva di finestre. Se qualcuno dovesse entrare dalla porta non avrei nessuna via di fuga...
- Molto bene, Luna. Ti abbiamo inserito nella quarta B, si trova al secondo piano dell'edificio C ed è una classe di sedici studenti in tutto, spero ti ci troverai bene. Qui preferiamo formare tante classi piccole, per fare in modo che tutti possano svolgere le esperienze in laboratorio al meglio - spiega con calma, come se avesse tutto il tempo del mondo. Ma io tutto il tempo del mondo non ce l'ho, io voglio solamente uscire di qui al più presto.

- Grazie - mormoro, concentrandomi su un filo uscito dalla trama del maglioncino che indosso. Non ho nessuna voglia di fare conversazione, il tremolio della voce potrebbe tradirmi.

- Perfetto, ecco qui. Hai già trovato qualcuno che ti aiuti ad orientarti? Immagino non sia facile, la prima volta che si viene qui. - Sorride, porgendomi una cartelletta con all'interno alcuni fogli.

- Sì, grazie davvero. È tutto a posto, avevo solo bisogno della sezione. Arrivederci e grazie ancora - rispondo sbrigativa, smaniosa di andarmene da questa stanzetta soffocante.

Esco e finalmente tiro un lungo sospiro di sollievo. Iniziava a mancarmi l'aria lì dentro, ho sempre sofferto di claustrofobia.
Zoe, come promesso, mi sta aspettando fuori. Se ne sta in piedi, con le spalle al muro e le braccia incrociate, intenta a sistemare la fila di braccialetti che le occupano i polsi.

- Ehi, già finito? Tutto okay? - esclama non appena mi vede.

- Tutto bene, grazie - mormoro solamente, cercando di calmarmi prima di alzare di nuovo lo sguardo su di lei.

- Allora, hai scoperto in quale classe sei? - domanda impaziente, camminandomi vicino. Troppo vicino. Do una rapida scorsa a uno dei fogli che mi sono stati dati, in modo da allontanarmi da lei di qualche centimetro.

- Quarta B, edificio C, secondo piano - rispondo, alzando finalmente lo sguardo su di lei.

- Ma è fantastico, siamo in classe insieme, hai proprio avuto fortuna a incontrare proprio me! Alla prima ora abbiamo chimica analitica e strumentale, magari riesco anche a saltarmi l'interrogazione. Posso chiedere al professore di metterti in coppia con me, sempre se ti va - propone.

- D'accordo, va bene, grazie mille! - le rispondo, stupendomi ogni momento di più della gentilezza di Zoe e della facilità con la quale sto parlando con lei. Senza paura. Senza attacchi di panico. Senza voltarmi a guardarmi indietro ogni due per tre come faccio sempre.

Raggiungiamo l'edificio C - il migliore perché è quello più centrale e dunque il più vicino al bar, come mi spiega Zoe - e saliamo le scale fino al secondo piano, appiattendoci ai muri per non venire travolte dalla marea di studenti che ancora affollano i corridoi. Mi conduce fino al laboratorio di chimica numero tre, facendomi segno di entrare. Il professore, che a quanto mi ha detto Zoe dovrebbe essere il famoso Vercelli del quale parlava prima, sta dando le istruzioni al tecnico di laboratorio, che sistema in maniera meticolosamente ordinata la strumentazione che sarà necessaria per gli esperimenti di oggi. Zoe gli si avvicina e mi presenta, io gli spiego che sono nuova e che sono appena stata inserita nella classe.

Con un sorriso gentile, il professore mi fa cenno di prendere uno dei camici che stanno appesi agli appendini dietro la cattedra. - Vorrei un momento parlare della tua preparazione nella mia materia, se per te non è un problema - dice poi, passandosi una mano tra i capelli brizzolati.

E così, mentre i miei nuovi compagni entrano in classe a piccoli gruppi e si preparano a impugnare le beute, io e Vercelli parliamo a lungo del programma di chimica che ho seguito nella mia vecchia scuola. Alla fine del nostro colloquio, il professore sembra molto soddisfatto.

- Bene... - comincia, ma deve essersi dimenticato il mio cognome perché mi lancia un lungo sguardo pensieroso, aggrottando le sopracciglia cespugliose nello sforzo.

- Madison - gli suggerisco con un sorriso gentile.

- Madison - annuisce, - la tua preparazione mi sembra molto buona e da quanto posso capire la mia materia ti appassiona. Molto bene, se è davvero così io e te andremo molto d'accordo. Ora vai al bancone di Ricci, la ragazza che ti ha accompagnato qui, e fatti spiegare costa sta facendo. Tanto queste cose le hai già fatte, no? In ogni caso, per qualsiasi chiarimento io sono a disposizione - dice compiaciuto, indicandomi Zoe.

- Sì, e grazie mille - confermo orgogliosa, felice di aver trovato sin da subito un professore così disponibile.

Mi avvicino a Zoe, che mi mima un "grazie" per averle fatto saltare l'interrogazione e mi fa posto accanto a sé, spiegandomi il procedimento che, in realtà, già conosco. Non faccio molto caso ai miei nuovi compagni, avrò tempo più tardi per fare la loro conoscenza. In questo momento la mia attenzione è totalmente rivolta alla beuta nella quale Zoe sta mescolando la reazione che dobbiamo far avvenire.

Passate le due ore che avevamo nel laboratorio di chimica, ci spostiamo in quello di biologia. Anche qui, sia Zoe che il professore, un anziano e grinzoso vecchietto dall'aria simpatica anche se un po' svampita, si dimostrano più che disponibili a venirmi incontro e ad aiutarmi.

Quando la campanella di fine lezione suona, ci togliamo i camici e ci avviamo alle macchinette. Con un cappuccino bollente in mano, Zoe ne approfitta per mostrarmi ogni angolo della scuola, dalla palestra al ballatoio in cima alle scale del terzo piano dove, a detta sua, si tengono gli incontri segreti tra le coppiette che non vogliono essere viste da sguardi indiscreti.
Una cosa tira l'altra, la campanella suona quando siamo ancora ben lontane dalla nostra classe. Zoe si congela sul posto, poi mi afferra un polso e fa per mettersi a correre.

Presa in contropiede, mi divincolo di scatto dalla sua presa, facendole perdere l'equilibrio. È un istinto, qualcosa di più forte di me, quando arriva un contatto fisico inaspettato il mio corpo reagisce come il polo negativo di calamita alla quale si vuole per forza attaccare un altro polo negativo. Lo respinge, lo scaglia lontano con tutta la sua forza. Zoe si afferra alla balaustra per non cadere, ma non ci fa quasi caso. Il suo colorito si è fatto improvvisamente più pallido ed è spaventata davvero.

- Ma che fai, Luna? Merde, dobbiamo correre, che quella c'ammazza - sibila terrorizzata.

- Quella chi? - le domando, la voce improvvisamente scossa da tremiti sempre più forti. La sua ansia crescente mi sta agitando, mi sta facendo tornare alla mente ricordi che vorrei solo seppellire. Non qui, non ora, non adesso...
I suoi occhi di brace, il passamontagna a coprirgli il volto, questa volta con sé ha una pistola che riluce sotto il bagliore dei lampioni, questa volta s'è postato la pistola così da non commettere errori, la sua mira non sbaglierà...

- La Zimaldi, la professoressa di matematica! - strilla Zoe, gli occhi fuori dalle orbite. La professoressa di matematica. Tiro un sospiro di sollievo.
Ma dura poco, perché Zoe torna ad afferrarmi il polso e questa volta non ho la prontezza di sottrarmi in tempo. Mi arpiona e mi trascina via, correndo come una pazza lungo i corridoi deserti. Quando arriviamo davanti alla porta dell'aula, la troviamo già chiusa.

- Oh, no - geme Zoe, - merde, merde, merde! - impreca sottovoce in francese. - Ora preparati, cara Luna. Questa non è gentile nemmeno la metà degli altri professori. Questa sarebbe capace di interrogarti al tuo primo giorno solo perché siamo in ritardo - spiega, le mani che torturano i lunghi capelli color pece. Poi prende un respiro enorme e spalanca la porta.

- Oh, eccola che arriva. Signorina Ricci, finalmente ci degna della sua presenza - gracchia una voce sarcastica dall'interno.
Zoe saluta cordialmente e fa per scusarsi, ma la donna che sta seduta dietro alla cattedra la zittisce alzando una mano e le indica di andare al suo posto.

- Non fiati, signorina Ricci, che con lei la mia pazienza è già al limite - sbraita. Poi si accorge di me. - Oh, vedo che ho finalmente l'onore di conoscere anche la nostra nuova allieva - dice con voce languida, un falso sorriso a incresparle le labbra tinte da un improbabile rossetto color ciclamino. - Qualche problema nel trovare la classe, signorina... Madison? A quanto mi risulta è stata qui per tutta la mattina, quindi non dovrebbe essere più un problema per lei - continua infida.

- Veramente io... - inizio, ma zittisce anche me con un gesto della mano.

- Ci risparmi le sue scuse penose, che abbiamo di meglio da fare che starla a sentire. Si vada a sedere accanto alla signorina Ricci, che per oggi mi ha già fatto perdere abbastanza tempo - sbotta seccata, aprendo il libro di testo con uno schiocco.

- Professoressa, veramente eravamo in laboratorio fino alla scorsa lezione, la signorina Madison non poteva sapere con precisione la posizione della nostra classe, visto che questa è la prima lezione che si tiene qui - interviene una voce maschile dal fondo dell'aula. Una voce con un lieve accento romano che non mi è poi così nuova. Mi alzo in punta di piedi per vedere a chi appartiene, ma chiunque sia si trova in ultima fila e il suo volto è nascosto dietro alle teste dei compagni.

- Signor Malesi, nessuno ha richiesto il suo intervento. Si calmi e prenda appunti, che qui me la vedo io - sibila infastidita, facendomi ancora una volta cenno di andare a sedermi accanto a Zoe e io obbedisco, non voglio irritarla ulteriormente già il primo giorno. Mentre mi avvicino a quello che da oggi in poi sarà il mio banco, colgo l'occasione per lanciare un'occhiata al mio difensore e, mano a mano che mi avvicino, capisco perché la sua voce mi era così familiare.

Durante le ore precedenti non ho avuto modo di farci caso, ma ora che lo guardo bene capisco che lui è proprio il ragazzo che questa mattina mi è venuto in soccorso. Guarda un po' tu com'è piccolo e pazzo il mondo. Di natura mia dimentico difficilmente un volto, se poi ci si aggiungono un paio di occhi azzurri e magnetici e labbra talmente delicate da sembrare dipinte da un pittore, è scontato che mi basta un'occhiata per ricordarmelo.
Gli lancio un'occhiata più lunga e accurata, ma poi mi rendo conto che sono ancora in piedi in mezzo ai banchi e mi siedo accanto a Zoe. Tiro fuori le mie cose e cerco di seguire la lezione, ma la professoressa è già partita con lo spiegare cose che non ho mai nemmeno sentito nominare.

- Ci dà addirittura del lei? - sussurro all'orecchio di Zoe, facendo attenzione a non farmi sentire dalla professoressa.

- Già, e il "lei" non è l'unica cosa che ama affibbiare ai suoi studenti. Durante le sue lezioni i due volano per la classe come se avessero le ali - sibila in risposta, la bocca nascosta dalla mano. Sembra davvero terrorizzata dalla professoressa, e il resto della classe non è certo da meno. Lascio scorrere lo sguardo sulle teste chine sui quaderni dei miei compagni, l'attenzione unicamente rivolta alla lavagna zeppa di formule incomprensibili. Nessuno si prende la briga di distrarsi, nessuno parla e nessuno guarda in giro o fuori dalla finestra, come sempre succedeva nella mia vecchia classe durante le lezioni.

Una sola persona non sta prestando attenzione al monologo infinito della Zimaldi, e quella persona è proprio lui, il ragazzo dell'ultimo banco accanto alla finestra.
Lui non guarda la lavagna, non la degna nemmeno di uno sguardo, come se sapesse a menadito ogni più piccolo calcolo trascritto sulla superficie nera. Non ha lo sguardo perso nel vuoto, non lascia vagare gli occhi per la stanza. No, lui guarda solo ed esclusivamente me.
   
 
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