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Autore: Moonfire2394    16/03/2021    0 recensioni
I genitori di Leona e Gabriel vengono uccisi brutalmente da un trio misterioso di vampiri in cerca delle mitiche "reliquie". Dopo il tragico evento, verranno accolti al campo Betelgeuse, un luogo dove quelli come loro, i protettori, vengono addestrati per diventare cacciatori di creature soprannaturali. In realtà loro non sono dei semplici protettori, in loro alberga l'antico potere dei dominatori degli elementi naturali: imedjai. Un mistero pero' avvolge quell'idilliaco posto e il subdolo sire che lo governa: le strane sparizioni dei giovani protettori. Guidata dalla sete di vendetta per quelli che l'avevano privata dei suoi cari, Leona crescerà con la convinzione che tutti i vampiri siano crudeli e assetati di sangue. Fino a quando l'incontro con uno di loro, il vampiro Edward Cullen, metterà sottosopra tutto quello in cui ha sempre creduto facendo vacillare l'odio che aveva covato da quando era bambina. Questo incontro la porrà di fronte a una scelta. Quale sarà il suo destino?
Una storia di avventura, amicizia e giovani amori che spero catturi la vostra attenzione:)
Genere: Avventura, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio
Note: Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Precedente alla saga
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 Avviso per il lettore: Sì lo so, questa doveva essere la fine. Peccato che la situazione mi sia sfuggita leggermente di mano. Siccome già il capitolo era bello lunghetto di suo e non pubblico dai tempi del diluvio universale, ho deciso di dividere il prologo in tre parti per non appesantirlo. I primi due li pubblicherò di seguito (con i POV di Gabriel e Morgana nella Pt. 1 e i POV di Fabiano e Leona nella Pt.2, la terza parte conclusiva (con il POV di Leona) fra qualche giorno. Vi prego sopportatemi, ma vi capirò se vorrete spedirmi a quel paese. Se invece sarete pazienti e incuriositi, ci rivediamo alla seconda parte del Prologo! Buona Lettura!

Prologo (se ve piacerebbe...)

Gabriel

I raggi intiepiditi del sole infuocavano ancora le colline punteggiate da tendopoli quando Gabriel venne scortato fino alle prigioni. Sebbene scosso dal tintinnio delle chiavi che beccheggiavano al cinturone della guardia, non distolse gli occhi dalle sfumature rosate dei cieli, dove pacifiche e innocue nuvolette veleggiavano sospinte dai venti freschi residuati dalla tempesta. Era uno spettacolo di gran lunga più gradevole da ammirare o comunque lo distraeva quanto basta dalla distruzione disseminata per le viuzze della cittadella. Non osava soffermarsi sui cumuli di macerie, sui cocci marmorei della fontana della piazza andata in pezzi, su tutti i focolari domestici a cui erano stati sottratti i tetti o sulle linee dentellate dei muri, perché sentiva in parte di esserne il responsabile. Il dolore al braccio, un eco addolcito di quello di sua sorella, gli era insopportabile ma non si era pentito nemmeno per un attimo di averlo fatto suo.
La serratura, impigrita da anni di ruggine, protestò con un stridore metallico prima di accoglierlo dentro le  anonime e freddi pareti disadorne che teneva segregate al suo interno. Di fronte a lui si snodò un corridoio di mattoni ingrigiti dall’erosione e cemento mal impastato, il soffitto disegnava un arco la cui volta si appoggiava ad un architrave di legno di faggio.  Il tutto era  reso ancora più tremendamente soffocante dalla totale assenza di porte e finestre. Il tramonto cominciava a sbiadire al di là delle grata, proiettando le ombre affusolate delle sbarre sul pavimento sdruccioloso. Gabriel rabbrividì al pensiero che un tempo quell’antica prigione fosse stata la dimora dei più spietati traditori di Betelgeuse e che non molti giorni addietro sua sorella avesse trascorso la notte lì senza nemmeno una coperta con cui difendersi dal gelo. Non che Leona avesse mai avuto a che fare con l’ipotermia, questo è chiaro, ma doveva essere stato angosciante per lei rintanarsi nell’angolo più angusto della sua gattabuia con la consapevolezza di essere giustiziata il giorno seguente. A pensarci bene, nemmeno lui e Fabiano quella notte avevano dormito un granché. Si sarebbe sorpreso del contrario tenuto conto delle manette chiuse attorno ai loro polsi e dei dieci protettori in cotta di maglia cementati davanti l’uscita. Una precauzione avveduta dal momento che avevano speculato tutto il pomeriggio su come avrebbero potuto farla evadere.
 Si riscosse dai ricordi e seguì il percorso spiralato delle scale che lo avrebbero condotto in cima alla torre, tenendosi a pochi scalini dal suo accompagnatore silenzioso e guardingo. Gli unticci capelli castani del giovane cadetto gli si arricciavano sull’elmetto, la sua andatura era incerta e claudicante per via delle ginocchia intorpidite dal freddo e ostentava una presa salda sulla torcia di fiamme crepitanti i cui bagliori gli permettevano di procedere spedito, senza inciampi, verso il cuore della prigione.
Il cadetto si schiarì la voce con un colpo di tosse e il suono rimbalzò sulle pareti pregne di muffa e polvere dimenticata da secoli. Armeggiò con il mazzo di chiavi prima di consegnargli quella della cella in fondo al pianerottolo. Gabriel si pentì immediatamente di aver inalato a fondo quell’aria sozza di urina e marciume, ma si costrinse a dire «Aspettami fuori. Da qui ci penso io».
Il cadetto annuì con tale zelo da fargli temere che la testa gli sarebbe rotolata via dalle spalle «Sì mio medjai» sputò con tono ardente e un pugno chiuso sul petto. Non credendo fosse abbastanza, il ragazzo si produsse in un profondo inchino. La repentinità del gesto lo fece sobbalzare «Non c’è bisogno di…ah, non importa» disse grattandosi un sopracciglio con la speranza di nascondere l’imbarazzo. Tutto quel servilismo  inappropriato lo metteva a disagio e allo stesso tempo gli dava sui nervi. Non aveva dimenticato che quel protettore dal mento affilato e dagli occhi acquosi intrisi di qualcosa che poteva essere scambiato per rispetto, ma che invece presumeva trattarsi di terrore, si era unito al nutrito gruppo che li aveva rinnegati con foga. Leona era famosa per portare rancore – la sua inesorabile vendetta poteva giungere quando meno te lo aspettavi -,  ma nemmeno Gabriel poteva sapere quando si sarebbe rimarginata quella ferita. Avanzò con l’amarezza di quei pensieri in bocca e fece scorrere lo sguardo da una cella all’altra alla ricerca dell’unico sfortunato detenuto che l’occupava. Gli ci vollero due minuti buoni prima di individuarlo nella semioscurità in cui sguazzava apaticamente. Soltanto i piedi nudi su cui si era raccolto lo sporco oltrepassavano il confine della bolla di ombre che l’aveva fagocitato. Da quanto tempo soggiornava lì? Non più di due settimane si rese conto il medjai. Eppure i fili metallizzati fra i sui radi capelli scuri si erano infoltiti, il baffo non più curato come una volta gli si afflosciava ai lati della labbra livide e siccitose. La detenzione e l’inedia avevano fatto miracoli sul suo panciotto un tempo florido e tondeggiante, la camicia lurida e spiegazzata, ormai fuori misura, gli aleggiava come una fantasma attorno alla vita. Accanto a lui, una ciottola di ottone ossidato non era ancora stata svuotata del tutto degli avanzi e le mosche ronzavano estasiate attorno a quel nauseante simposio di carne e verdure putride. Da lì non riusciva a contargli le rughe, eppure il tempo pareva aver preteso dal poveretto un conto fin troppo salato dalla sua pelle giallognola e floscia. I denti di Gabriel si segarono fra loro fino all’abrasione dello smalto. Lo stato in cui si presentava Bernardo non era che l’ennesimo promemoria di quanto i protettori avessero disprezzato lui, sua sorella e chiunque li avesse appoggiati. Leona non voleva perpetrare le ostilità che si erano venute a creare con lo scisma, ma se fosse dipeso da Gabriel avrebbe contribuito massicciamente all’inasprimento di quei contenziosi, li avrebbe fomentati lui stesso e non ci sarebbe stato spazio per la pietà. Nonostante quelle considerazioni rancorose, si convinse a sorridere e addossò il  peso sui gomiti incuneati fra le sbarre. Fece roteare il mazzo di chiavi attorno al dito con la speranza che lo scampanellio destasse  il prigioniero dal suo intorpidimento comatoso.
«Vedo che ti stai godendo il soggiorno nella tua suite a cinque stelle, vecchio mio». Il prigioniero riemerse dal regno degli incubi con un suono raspante, gli occhi iniettati di sangue si spalancarono nell’oscurità e poi si socchiusero per la fatica. Dovette strisciare lungo il muro per sorreggersi di nuovo in piedi e rimettere in moto i muscoli atrofizzati, aggrappandosi con le sudicie unghia annerite alle scanalature scabrose delle pareti dove un “traditore” era stato verniciato con sangue rappreso. Presto, si promise, avrebbe fatto “quattro chiacchere” con il responsabile.
«Gabriel, sei tu? Oh, grazie agli dei!» strepitò precipitandosi verso le sbarre. Lo stridore tintinnante che seguì non promise nulla di buono. Entrambi abbassarono lo sguardo sulla griglia di scolo e Gabriel emise un grugnito indignato. Il mazzo di chiavi era precipitato fra le grate, tuffandosi in una pozza di urina rancida che non veniva scaricata da giorni.  
«E a quanto pare ci resterai ancora a lungo. Ti sei appena giocato il tuo unico biglietto d’uscita» sentenziò infine il ragazzo passandosi una mano fra i capelli. Bernardo imprecò, tentando invano di infilare le dita grassocce fra gli spazi vuoti della griglia. Ottenne come unico risultato dei salsicciotti gonfi e violacei. Imprecò più forte di prima.
«Vacci piano Bernardo, anche i muri hanno le orecchie. Non vorrai farli arrossire?».
«Dici sul serio ragazzo? Hai una bella faccia tosta» lo rimproverò lui inarcando un sopracciglio sale e pepe.  Desistette subito, si accasciò con la schiena premuta contro la cancellata e scoppiò a ridere.
«Abbiamo vinto, non è così?».
Gab incrociò le braccia al petto con un sbuffo «Avevi dubbi? Ritienimi offeso».
«No, mio medjai, no. Neanche per un secondo. E dimmi! Come è stato? Ah, quanto avrei voluto esserci, avrei venduto persino mia madre per poter combattere di nuovo al vostro fianco!».
Il dono della sintesi non rientrava fra i pregi di Gabriel. Anche se separati da sbarre di metallo, il racconto fluì tutto d’un fiato dalle sue labbra senza tralasciare nessun particolare o sensazione. Gli parlò dell’esodo dei protettori italiani, delle magnifiche mura di ghiaccio erette da lui sul letto del Coda di boa, accentuando con particolare enfasi su quanto fossero maestose, della improbabile alleanza fra le sidhe e i Drakulia, degli eventi salienti di quella battaglia sanguinosa, degli alleati inglesi venuti in loro soccorso, dei ciondoli del sole e della luna, della guarigione degli abomini e del sacrificio di Leona, dello svernamento dell’Antico e dell’immolazione dei cento, fino ad arrivare al risveglio del potere dei medjai e la condivisione del potere elementale con l’intero esercito di protettori tramite l’utilizzo delle reliquie perdute, il tutto condito da toni gravi venati di solennità, quasi come se si fosse limitato ad esser il cronista di quella storia e non che lui ne avesse fatto parte integrante. Bernardo, affamato anche del più insignificante dettaglio, lo tempestò di domande entusiastiche osservandolo con lo stupore incontaminato e l’invidia genuina di un bambino. Quando gli chiese di mostrargli il para-braccio, Gab si rabbuiò. Quella era decisamente la parte della storia che gli piaceva di meno. Il nuovo consiglio aveva deciso di sequestrare momentaneamente il reliquiario e tenerlo sotto stretta sorveglianza, come se potesse darsela a gambe e fuggire dal campo, dritto fra le braccia dei loro nemici. In qualche modo, vedendosi negata la fiducia, quella privazione lo aveva sconfortato più di quanto avesse creduto possibile. In realtà non temevano affatto che qualcuno volesse rubare le reliquie, piuttosto l’intento era quello di tenerle lontane dai legittimi proprietari. Indossandole, lui e sua sorella erano praticamente invincibili, i protettori invece potevano usufruire della connessione solo per loro volontà.  Era ovvio che una tale portata di potere e controllo risultasse piuttosto scomoda agli occhi di chi invece aveva tutte le intenzioni di sottometterli.
Leona continuava a sostenere che stesse esagerando, in fondo erano stati reintegrati del titolo di protettori all’unanimità. Dal canto suo invece, Gab voleva solo sputare in faccia a quegli ingrati e non ci vedeva nulla di male. Detestava che sua sorella insistesse sul fatto che il consiglio sapesse ciò che faceva quando era evidente che le loro disposizioni fossero opinabili. Gab non gli avrebbe mai dato troppo credito; il consiglio gli avrebbe sorriso fino a quando sarebbero stati armi ubbidienti e servizievoli, se avessero anche solo osato innalzare di poco la testa rivendicandone il possesso, non era certo che gli avessero riservato un trattamento amichevole.  
La nota positiva di tutta quella matassa era stata la fine delle ostilità fra i campi di Firenze e Roma. Era surreale vederli collaborare nella ricostruzione della cittadella. Chissà quanto sarebbe durato quell’idillio, si chiese il protettore. Quanto tempo avrebbero impiegato prima di ricordarsi dell’odio immotivato che li aveva divisi?
Bernardo pareva sinceramente deluso da quel risvolto. Si vedeva da un miglio che non aspettava altro di offrirsi come cavia dell’esperimento della connessione fin da quando aveva nominato le reliquie. Gab si fece i conti in tasca e non poteva negare di essere anche lui curioso di scoprire quale sfaccettatura degli elementi si sarebbe manifestata nel buon vecchio commissario. Alla fin fine si trattava di un solo protettore ed aveva abbastanza familiarità con lui per condividere l’Akasha…con Morgana aveva funzionato, anche se con lei era tutt’altra storia.
«Ehi, che ne diresti di una dimostrazione?» si offrì lui.
Gli occhi di Bernardo si accesero di eccitazione «Pensavo non me lo avresti mai chiesto». E così, come accadde quella volta, qualcosa dentro di lui si allungò estendendosi al di fuori del suo corpo. Fu più facile di quello che aveva preventivato. La cella s’illuminò alla luce del simbolo che avvampò nella fronte rugosa del protettore. Bernardo se la tastò sorridendo come un ebete. Non riconobbe il simbolo purtroppo, era la prima volta che incappava in quelle linee severe e geometriche. Sapeva che avrebbe dovuto passare più tempo sui libri, ma perché sottoporsi a quella tortura quando quell’enciclopedia vivente di sua sorella poteva fare il lavoro per entrambi?
«Bene. Adesso prova ad accedere al potere che risiede nel tuo mana» gli suggerì servendosi della voce del pensiero. Inutile sottolineare che, udendolo nella sua mente, Bernardo avesse preso a saltellare giocosamente per tutta la cella. Aveva sottovalutato il  suo incontenibile fanatismo, sperò che il cuore del poveretto non si affaticasse troppo. Ma l’eccitazione si spense in fretta lasciando il posto a un broncio inconsolabile. I minuti passavano e non succedeva assolutamente nulla.
«Perché non funziona?» piagnucolò.
«Funziona eccome, e ti assicuro che  la cosa non dipende da me. Forse non sei abbastanza motivato o forse ti è toccato il potere più inutile della storia. Non mi sorprenderebbe più di tanto» disse Gab scrollando innocentemente le spalle.
Bernardo aggrottò le sopracciglia e si adirò «Attento a come parli ragazzo!» disse puntandogli un dito contro.
«Ehm, Bernardo…» cominciò a dire Gab. «No, no, no signorino è troppo tardi per le scuse. È tempo che qualcuno metta in riga quella tua inguaribile insolenza che…».
«No, è che…» ritentò il medjai.
«Non interrompermi. Sono pur sempre un rispettabile membro che sta a capo delle squadre dei cacciatori! Ed esigo il rispetto che merito persino quando si tratta un marmocchio di medjai in piena tempesta ormonale! Il tuo potere non ti dà diritto di…».
«Il tuo braccio sta passando attraverso il metallo!» urlò Gab per sovrastare il sermone dell’uomo. Bernardo calò con esasperante lentezza gli occhietti furibondi sul tratto che s’interrompeva all’altezza del gomito, proseguendo al di là della lastra di ferro. L’avambraccio e il ditone accusatorio che stava mettendo in riga il medjai gesticolavano nervosamente come se fossero un prolungamento del metallo a cui era saldato. Bernardo sbatté le ciglia un paio di volte registrando a fatica quell’anomalia e gli si piegarono le ginocchia. Gab imprecò silenziosamente mentre si occupava del mancamento dell’omone, svenutogli fra le braccia attraversando le sbarre quasi come se fossero fatte di aria inconsistente.  Lo fece stendere sul pavimento con un tonfo – quell’uomo pesava ancora una tonnellata! – gli si mise a cavalcioni e cominciò a tirargli cerimoniosamente ceffoni sulle guance per farlo riavere. Gli scarsi risultati ottenuti dagli schiaffi lo indussero a creare un globo d’acqua sul palmo della mano e a spruzzarglielo in faccia. Bernardo annaspò e tossì all’interno del gomito.
«A quanto sembra le chiavi non serviranno più» commentò aiutandolo a rimettersi in piedi e aggiornandolo su cosa era appena successo.
Bernardo lo osservò come se fosse un miracolo vivente «Mio Dio…» esclamò estasiato.
«No, gradisco il paragone, ma hai sbagliato persona. Ritenta sarai più fortunato». Ma lui non prestava più ascolto. «Se solo Mark fosse qui, sarebbe così tronfio di orgoglio che…». L’uomo singhiozzò e pianse amaramente. Gabriel trattenne il nodo in gola. Mancava tantissimo anche a lui suo burbero zio. Ma si ripromise di non piangere quando avrebbe raggiunto l’età dell’uomo, non se avesse avuto quell’aspetto patetico e depresso.
«Lo conoscevo da vent’anni. Ne abbiamo viste di cotte e di crude insieme…Sai, è un po’ come zoppicare, non è facile accettare l’idea di non poterti più reggere a ciò che avevi dato per scontato che ci sarebbe sempre stato. Lui vi voleva bene. Vi considerava come i figli che non aveva mai avuto, forse a volte era dotato di un campanilismo smodato, affezionatissimo alle sue dannate regole, eppure per voi ha fatto un’eccezione, forse l’unica della sua vita. Prima di prelevarvi da Siracusa, non aveva nemmeno mai mentito al Sire, nonostante sia stato proprio lui a proporre il suo declassamento e successivamente a prendere il suo posto, il credo dei protettori sarebbe venuto sempre prima di qualsiasi altra cosa per lui. Non con voi. È stato così fin da quanto ti ha tirato fuori dalle macerie dell’incendio di casa vostra. Eravate così piccoli voi…»
 A quel punto il pavimento smise di essere il centro gravitazionale che lo teneva attaccato alla terra.
«Che cosa hai detto?» lo interruppe Gab. Doveva essere stato un lapsus, ma esigeva una conferma da parte sua. Il rossore defluì dalle guance di Bernardo e si zittì. Strinse i pugni e gli diede le spalle.
«Sai cosa mi ci vorrebbe adesso? Una bella vasca piena di bollicine profumate! Non vedo l’ora di raschiarmi di dosso…».
«Bernardo!».
«Avevo detto a Mark che non sarebbe potuta durare a lungo. Continuava a rimandare il momento, sapendo perfettamente che non avrebbe mai avuto il coraggio. Non sappiamo come sia potuto accadere, abbiamo supposto l’effetto osmosi…ma non ne eravamo sicuri. Lei era così convinta di ciò che aveva visto…»
Le dita del medjai si mossero in preda a un tic nervoso «Di cosa stai parlando? Forse volevi dire quando hanno tirato fuori Leona dalle macerie di casa nostra» lo corresse speranzoso. Cos’era quel fastidioso dolore vicino allo sterno? Perché gli pizzicava la gola come se avesse ingoiato la spina di un pesce?
«No, Gabriel. Intendevo dire proprio ciò che ho detto. Il giorno dell’incendio Leona era andata in farmacia con Camilla per procurarti le medicine. Tu eri allettato con la febbre, o almeno questo è quello che ci ha dichiarato la balia». Gab si sorresse alla colonna e portò le mani alle tempie per contenere l’imminente esplosione a cui stava andando incontro il suo cervello.
«Ma che è assurdità è mai questa?» mormorò fissando le catene che dondolavano alla parete «Me ne ricorderei se fosse così no? Giusto Bernardo? Giusto?». Il cuore del medjai era in pieno galoppo e non accennava a rallentare. A quel ritmo gli avrebbe fracassato la gabbia toracica senza interrompere la sua corsa, fuggendo lontano dal buco che gli avrebbe lasciato in mezzo al petto.
«Ragazzo, mi dispiace tanto ma è tempo che le cose tornino al loro posto. È tempo che tu sappia come sono andate veramente le cose…».
«No, esiste solo una versione della storia, solo una…» si ripeté.
«Esatto» confermò con un cenno Bernardo «E adesso la conoscerai…».
*********

Morgana

«È giunto il momento»
«Di già?»
«Non rendere le cose più difficili. Finirò in un batter d’occhio»
«Non sei convincente se lo dici con quegli oggetti di tortura medioevale in mano»
«Per la barba di Mayak, sono solo delle forcine, Leona. Giuro che le userò per acconciarti  i capelli e non per cavartici gli occhi».
«Croce sul petto?»
«Se ti fa stare meglio…» disse Morgana servendosi del pollice per far incontrare due linee immaginarie all’altezza del cuore. Avevano dormito insieme quella notte. Non le andava di lasciare sola l’amica dopo quello che aveva dovuto affrontare, anche se a causa del suo sonno agitato, quella mattina era stata costretta a mascherare, sotto tonnellate di fard, i lividi bluastri a forma di piede impressi gentilmente da una Leona particolarmente vivace durante la fase rem. Convincerla a indossare l’abito cerimoniale era stato già abbastanza arduo, e ancor di più buttarla giù dal letto, ma per sua sfortuna aveva appena iniziato coi suoi capricci. Agghindata elegantemente di raso nero e georgette, si era appollaiata sul cornicione di marmo della finestra, rannicchiandosi contro l’intelaiatura verniciata con la stessa tonalità di verde del copriletto e della tappezzeria. Le caviglie nude facevano capolino da sotto il tessuto vellutato della gonna, scivolando come ombre notturne sulla sua pelle di alabastro. Aveva derubato il sofà di uno dei suoi cuscini rossi. Se lo stringeva al petto facendo sprofondare metà del viso fra le pieghe dell’imbottitura. I suoi capelli presentavano ancora  le tracce di quel riposo turbolento popolato da incubi, eppure anche con quel vespaio di nodi in testa restava comunque schifosamente bella. Accetto che sia la regina degli elementi, ma madre Natura non avrebbe potuto essere meno imparziale con lei, stupida raccomandata!, pensò Morgana, avvelenata da un pizzico di sana invidia. Ma poi il suo sguardo scivolò sul moncherino d’acciaio che stropicciava la fodera del cuscino come se vi ci fosse aggrappata, e si ricordò del perché non le dispiacesse più di tanto riservarle quelle coccole mattutine. Si sentì subito meschina per aver provato tanta gelosia. Anche sforzandosi, era impossibile non notarlo dal momento che la luce del sole s’infrangeva sul metallo hijiriano riverberando in un ventaglio prismatico di colori diversi a secondo dell’angolazione. C’era della bellezza anche in quello, forse però non era così semplice coglierla. Per Leona  quella mano metallica non era altro che un surrogato ancora del tutto sconosciuto, ma faceva progressi. Già nel giro di un paio di giorni aveva imparato a muovere le dita.  Era chiaro che le mancassero le sue kopis, ma al momento non era ancora in grado di maneggiarle entrambe. Era un dolore che poteva comprendere. Arco e frecce erano una parte del suo essere senza i quali perdeva la sua identità, con loro era la versione migliore di se stessa, rinunciarci avrebbe significato…No, per Leona non sarebbe stato così! E se non ci credeva, lo avrebbe fatto lei abbastanza per entrambe.
Leona sospirò nascondendo l’amarezza dietro le sue palpebre chiuse «Prendimi i guanti, per favore».
«Non è così male, sai? Ti dona un’aria da dura. E poi non ti lamentavi che gli uomini ti guardassero solo tette? Be’ problema risolto».
Da come roteò gli occhi, la battuta non doveva esserle piaciuta «Dammeli e basta, Morgana». Morgana si morse l’interno della guancia,  sopprimendo le proteste che le si dimenavano in gola, ma finì per accontentarla con riluttanza. Odiava quei guanti.
«Sono di ottima fattura» commentò lisciandone il cuoio morbido e il rivestimento interno in lana «la tua amichetta succhia-sangue deve essersi impegnata molto per confezionarteli. Avrà un portafoglio bello gonfio». Leona la trafisse con un’occhiataccia, ma a dispetto di quella severità le si rivolse con compassionevole dolcezza.
«Si chiama Alice, prova a ripetere con me: A-l-i-c-e. E sono sicura che se non fossi così impegnata ad essere gelosa di lei e la conoscessi meglio, impareresti a pronunciare il suo nome senza quell’espressione contorta da colica renale» disse strappandole i guanti di mano. Il cuscino che teneva in grembo era tornato al suo posto.
«Io non sono gelosa di quella lì» negò Morgana torturandosi le punte della treccia rosso fuoco «Ti avrà anche regalato dei guanti, ma al contrario di lei non credo che tu abbia qualcosa da nascondere o di cui vergognarti. Non di certo agli occhi degli ex abomini. Quello è il simbolo della loro salvezza e…»
«Ti preferivo quando eri timida e taciturna…»
«Questa guerra ci ha cambiati in un modo o nell’altro. Non solo fisicamente»
«Senti, apprezzo ciò che stai facendo per me e sono sicura che tu abbia ragione ma…ho bisogno di tempo. Va bene?». Detto questo, Leona raggiunse lo sgabello che le aveva preparato e ci si accomodò  spifferando delle lamentele a bassa voce. Le sue spalle si afflosciarono in segno di resa. Era il suo tacito invito a proseguire nella preparazione. Morgana si appostò dietro la sua schiena armata di spazzola e tanta pazienza, stringendo le tanto detestate forcine fra le labbra. Le setole fluirono in mezzo a quel labirinto di nodi, guadagnando facilmente la via d’uscita al termine di quelle morbide spirali d’ebano, arricciandosi ad ogni nuova spazzolata. La fragranza di rose che si sprigionava dai suoi capelli era così intensa a volte da farle perdere la concentrazione, ma non al punto di rovinare il suo capolavoro. Soddisfatta della corona di trecce che le cingeva il capo, fissò l’acconciatura infilando le forcine nei punti strategici dell’intreccio e, consegnandole il suo specchietto, attese di essere ricompensata con elogi altisonanti per il suo duro lavoro. Le aveva poggiato involontariamente un mano sulla spalla, così quando il moncherino metallico di Leona le sfiorò la pelle, raggelò per la sorpresa. Nel riflesso dello specchietto scorse chiaramente il forte disgusto che provò per se stessa, ma Morgana non permise che si facesse un’opinione sbagliata della sua reazione istintiva e riafferrò al volo la mano metallizzata che si stava rintanando fra le pieghe del vestito come un animaletto spaventato. Dita di carne s’intrecciarono a dita di metallo, saldandosi come una cosa sola. Era importante che Leona non provasse l’alienazione della diversità e tutte le sue avvilenti implicazioni. Immaginava quanto fosse forte in lei il desiderio di isolarsi e sapeva anche quanto fosse fondamentale che prima di farsi accettare dagli altri, avrebbe dovuto imparare ad amare sé stessa nella sua nuova forma. Era escluso che le avesse lasciato affrontare questo percorso per conto suo.
 «Grazie» bisbigliò Leona.
«Per cosa?»
Fu una lunga ed estenuante pausa di riflessione, ma alla fine le confessò: «Per non arrenderti mai con me»
«Non mi rendi la vita facile, ma sono un osso duro con un’insana passione per i casi impossibili»
«Lo so, ed è anche per questo che sei insostituibile» le disse Leona, concedendole un abbraccio sincero che per poco non le stuzzicò un torrente di lacrime.
«Mi sento uno schifo, Leona. Avrei dovuto esserci» mormorò sconfitta fra i suoi capelli.
«Il tuo posto era altrove con i feriti. Il tuo aiuto è stato prezioso. L’amputazione di un arto non è così spettacolare come ci si aspetterebbe. È avvenuto tutto così in fretta…e grazie a Gab non ho provato altro che un leggero fastidio. E poi tu ci sei stata…il giorno della sua rinascita, credo sia altrettanto importante o almeno lo è stato per me». In effetti era stato di gran lunga più interessante e suggestivo. Il caldo afoso della fucina. L’odore rugginoso del ferro. L’immersione del braccio nel calderone bollente. Le bolle che scoppiettavano in quella patina argentata. Il rapido raffreddamento e la lenta solidificazione dell’arto sotto forma di una protuberanza lucente e informe. Le dita che sbucavano fuori dal carpo non ancora del tutto abbozzato, allungandosi come piccoli bruchi metallizzati. La scelta dell’acciaio d’Hijir non era stata casuale. L’intento era quello di portare sempre con sé il marchio distintivo dei protettori, e quale miglior modo se non quello d’indossare sulla propria carne l’acciaio più formidabile dell’antica capitale?  Il giorno che avrebbe acquistato padronanza assoluta di quell’arma, sarebbe stata capace di spezzare il collo di un vampiro a mani nude. Aveva trasformato una sua debolezza, in un punto di forza. Peccato che lei non sembrava pensarla esattamente in quel modo.
«Ehi, se continui a guardarlo così rischi di fonderlo col tuo sguardo laser»
«Credo di essere sprovvista di quella capacità. E poi è ridicolo, mi si fonderebbero i bulbi oculari e…»
«Lea, rilassati, stavo solo scherzando».
Affondò i denti nel labbro, proprio come faceva il gemello quando era perso fra i suoi pensieri, con l’unica differenza che quel vezzo in Gab le faceva andare in tilt il cervello.
«È solo che ho paura. Ho paura di essere uguale a lei…».
Quell’affermazione la confuse «Lei chi?».
«Non è niente, lascia perdere i miei vaneggiamenti mattutini» disse massaggiandosi distrattamente la nuca, fino a che non si accorse che Morgana la stava ancora fissando con ansia. Scacciò via il broncio e le mostrò un sorriso, che Morgana sapeva di per certo essere forzato.
«Sai, credo di aver deciso che cosa fare con la proposta di Carlisle. Ho davvero bisogno di prendermi una pausa da tutto questo e quale migliore occasione se non una bella gita in Egitto!» le annunciò afferrandola con mani guantate. Il cuoio nuovo scricchiolò sotto la sua presa ferrea. «Lui ed Esme mi porteranno fino al tempio di Amun ed intercederanno per me affinché io possa essere addestrata da Benjamin! Non posso credere che incontrerò il figlio della medjai Gassan e di poter affinare il potere elementale con lui».
«Il nuovo consiglio non ti permetterà di andarti ad allenare sotto l’ala di un congrega di vampiri, Leona. Andiamo! Amun? Seriamente? Hai bisogno che ti faccia un ripasso di storia? È stato l’acerrimo nemico della tua antenata medjai per più di un secolo…ha vampirizzato il suo stesso figlio perché sapeva di aver ereditato il potere della madre, quale insano meccanismo del tuo cervello arrugginito ti spinge a pensare che sia una buona idea? Tu li odiavi, li odiavi tutti i vampiri, e adesso ci vuoi trascorrere le vacanze insieme! E poi credi che si esporrà così facilmente soltanto per la richiesta di un amico? Per quanto Carlisle possa essere persuasivo, c’è un motivo se la congrega di Amun è diventata leggenda e il campo di Orione non è mai riuscito a catturarli. Non ti svelerà mai la posizione del suo covo» disse Morgana terminando tutta l’aria nei polmoni a sua disposizione.
«Gli allenamenti avverranno in campo neutrale, ovviamente. Non mi aspetto che sia così stupido da darmi le coordinate di casa sua».
«Leona, non so come lo interpreti tu, ma al mio paese questo si chiama tradimento!» le cinse le spalle «Tu li uccidi i vampiri, ricordi? E sei anche piuttosto brava a farlo, con le tue capacità potresti avere ogni cosa! Non capisco perché vuoi rovinarti la carriera soltanto perché sei ossessionata dal voler diventare sempre più forte!».
«Credi davvero che sia finito tutto qui?» le domandò lei a braccia conserte e con un sopracciglio arcuato «Questa battaglia è stata soltanto la punta dell’iceberg, Morg, non riesci a capire? I Cavalieri della mezzanotte non hanno affatto concluso con noi! Hanno appena iniziato a scalfire la superficie e non si fermeranno finché non avranno ciò che vogliono: mio fratello! E alla peste se gli permetterò anche solo di respirarci sopra. Quindi scusa se non voglio farmi cogliere impreparata quando torneranno a prenderci a calci in culo».
«Va bene, ok, fa un po’ come vuoi, ma come la mettiamo con Gab? Lo sai che preferirebbe infilzarsi da solo piuttosto che prendere ordini da un vampiro millenario! Potrai anche esserti rammollita con la loro razza, ma non mettere alla prova la sua pazienza. Si sta già sacrificando a sufficienza».
Leona raccolse la mantellina abbandonata sul divano e la indossò con indolente apatia «E chi ha mai detto che Gab verrà con me? Figurati, non mi sono nemmeno degnata di proporglielo, anche perché ho il vago sospetto che mi stia evitando…».
«Forse ha annusato puzza di complotto…» suggerì Morgana acidamente.
Lei scoppiò a ridere «Non essere ridicola! Lo stai sopravvalutando, non metterebbe mai sotto sforzo quell’unico criceto accidioso che si ritrova al posto della materia grigia. Ah, l’amore! Affetta i prosciutti e te li applica direttamente sugli occhi. Sai forse quella ad avere un problema in realtà sei tu. Non capirò mai cosa ci trovi in mio fratello, bleah! Non merita affatto una come te, perciò se dovesse fare qualcosa di sconveniente, e scommetto che avverrà molto presto, non esitare a riferirmelo…».
Il calore, come sempre, le pizzicò le guance colorandogliele di un rosso acceso « Ma io…lui…» balbettò concentrandosi sulle fughe nere nel pavimento.
«Sì, sì certo come no…» la zittì lei mentre si incipriava il naso con lo specchietto sollevato «e poi credevi sul serio che quella valigia rosa fosse per lui?».
«Non è la tua?»
Leona sgranò gli occhi su di lei senza nasconderle la delusione della sua deduzione «Perché credi dorma nella tua stanza o ti chieda di prestarmi i tuoi vestiti? Alice si è offerta di rifarmi l’intero guardaroba, sembrava così su di giri che non me la sono sentita di contraddirla. Certo, ha blaterato qualcosa di inquietante sull’essere la sua bambolina…anche se suonava più come cavia». Scrollò la testa e con essa anche quel pensiero «Comunque, tutti i miei averi sono stati dati in pasto alle fiamme o finiti nella mani della razziatrici del dormitorio, dopo essere stata espugnata dalla mia stessa stanza. Sai com’è, essere espulsi dal campo ha dato diritto di mettere le mani sulla mia proprietà privata e mi auguro proprio per loro che riescano a rintracciare tutti i miei libri, o qualcuno sarà costretto a soggiornare in infermeria a lunga degenza».
«Spero che tu non abbia in mente un’altra scazzottata come quella dell’ultima volta…aspetta un attimo» s’interruppe facendo oscillare lo sguardo dall’enorme bagaglio rosa confetto all’amica che aveva appena terminato di ammirarsi allo specchio e adesso la guardava con un ghigno sornione. Poi, finalmente, capì «Quella è per me? Tu vuoi che venga con te in Egitto?»
«Din, din, din! Un punto per Morgana!» esultò Leona. Morgana non sapeva letteralmente cosa dire, eppure era in grado di parlare correttamente più di tre lingue, escludendo l’innato dono di conoscere l’hijiriano. Le si accese una scarica di adrenalina nelle vene e il cuore prese a trotterellare a singhiozzi. Ricordò il suo bisogno di evadere da quelle mura, di fuggire dalle responsabilità del cognome che portava, da quel peso ingombrante e asfissiante che avrebbe scambiato volentieri con quello di uno zaino sulla spalla ricco di provviste e di speranze per l’ignoto. Suo padre se n’era andato. E anche se quella verità pareva demolirle la cassa toracica, lui non era lì per dirle cosa fare. Non era rimasto nessuno che potesse offuscare la voce del suo cuore, nessun rumore esterno che potesse distorcere il suo messaggio.
«Te lo avevo promesso. Eravamo solo delle bambine, ma non sminuisco mai il valore di un giuramento. E non c’è davvero nessun’altra persona con cui vorrei intraprendere questo viaggio. Tu potrai soggiornare al campo Orione senza compromettere la tua posizione, mentre io frequenterò spesso il tempio di Amun. Lo so, lo so, quel rosa può essere un po’ eccessivo, ma non è così male. Ha il suo fascino».
«Non è per questo…è che pensavo che, insomma, …io non fossi esattamente la tua prima scelta» disse Morgana ritrovando il sapore rassicurante dei suoi capelli fra i denti.
«Sapevo fin dall’inizio chi avrei voluto portare con me, non ho mai avuto dubbi su questo punto. Io e Fabiano…è complicato. Abbiamo bisogno di stare separati per un po’, ci farà bene, sì, gli servirà del tempo per elaborare quello che sarà del suo futuro. Dopo la cerimonia funebre, il consiglio si riunirà per emettere la condanna di suo padre, e finalmente lui sarà libero e voglio che scelga con lucidità cosa fare di questa conquista. Deve imparare prima di tutto ad ascoltare se stesso, la voce che ha sempre represso e non voglio in alcun modo influenzare le sue scelte. Per una volta dovranno essere solo ed esclusivamente sue».
«Fabiano è in gamba, riuscirà a superare questo momento. E Sara non lo lascerà solo» la rassicurò Morgana, conoscendo perfettamente quanto le costasse stare lontana da lui.
«Bella acconciatura, ma non credi che manchi qualcosa?». Le due sobbalzarono come due molle all’interno di una scatola. Sara, invece, era l’immagine del relax. Appoggiata allo stipite della porta, le osservava pigramente con i suoi grandi occhi azzurri, rosicchiando il torsolo di una mela. Poi, finendo di masticare il frutto succoso fra i denti, abbandonò gli avanzi sul comò di Morgana e si strofinò i residui sulla manica della giubba.
«Parli del diavolo…» disse Morgana posandosi una mano sul petto per impedire la fuga del suo cuore.
Leona, al contrario, reagì con studiata compostezza, ma notò il suo irrigidimento «Dannazione Sara, uno di questi giorni dovrai insegnarmi i tuoi trucchetti furtivi».
Sara fece schioccare la lingua «Non è colpa mia se siete straordinariamente distratte».
«Già…ehi come vanno i lividi? Spero non siano troppo dolorosi, la prossima volta giuro che ci andrò più piano con te» la provocò Leona facendo qualche passo verso di lei e Sara rispose all’avanzata. La sua amica era qualche spanna più bassa dell’ex abominio, sebbene la sua posa fiera fosse altrettanto arrogante da uguagliarla.
«Se ci sarà una prossima volta, non sarò certo io dovermi leccare le ferite. Abbassa la cresta medjai, il fatto che il mio fratellino sbavi per te, non ti garantisce di prenderti certe libertà» disse Sara proprio mentre veniva affiancata da due delle sue repliche.
«Hai chiamato i rinforzi? Comprendo la tua paura, ne avrei anch’io al posto tuo» sibilò velenosamente Leona.
«Paura? Nah, è solo che triplicare le sberle rende la cosa più eccitante» la rimbeccò lei guardandola in cagnesco.
«Ehm, ragazze….» s’intromise con voce tremante Morgana, restia alla possibilità di doverle dividere. Ma poi tutto a un tratto la tensione sfocò, infrangendosi nelle risate grasse delle due rivali. Sara riassorbì i cloni e fece scivolare un braccio sopra le spalle stampandole un bacio sulla fronte.
«Adoro questa ragazza!» asserì allegramente Sara. Morgana si concesse di tornare a respirare normalmente. Prometteva bene, adesso aveva a che fare non con una, ma ben due guerriere psicopatiche.
«Dicevi dei miei capelli?» domandò Leona.
«Che un tocco di rosso non guasterebbe» le disse Sara frugando nella tasca del pantalone. Finse di non notare gli occhi lucidi di Leona quando le estremità sfilacciate del nastro che le aveva regalato Fabiano si srotolarono sul suo palmo inguantato. Sara fu abile nell’intrecciarglielo senza rovinare la sua opera d’arte.
«Adesso sei perfetta!» cinguettò lei come se fino a pochi minuti prima non l’avesse minacciata di conciarla per le feste.
«Se la mia opinione è ben accetta, mi trovo d’accordo con Sara» intonò una quarta voce profonda e rauca.
«I complimenti sono un toccasana per il mio ego, prego entra pure Valerio» lo invitò Leona ad entrare.
Morgana si soffermò sul suo viso apparentemente non ancora sfiorato dalla pubertà e dovette mordersi la lingua per non scoppiare a ridere della sua calvizie. 
«Uh, qualcuno ha tirato a lucido la sfera questa mattina, ci si potrebbe addirittura specchiare» scherzò Leona «La posso toccare?».
Valerio le schiaffeggiò la mano a mezz’aria «Non ci pensare neanche». A quel punto Morgana non si riuscì più a contenere e sghignazzò insieme a Leona.
«Sara, dii qualcosa a queste due delinquenti!»
«Vieni qua tu» gli disse lei melliflua, ignorando il suo broncio. Gli allacciò le braccia attorno al collo e puntò dritta verso la sua preda: trovò immediatamente le sue labbra socchiuse e lo baciò, mentre le sue mani gli accarezzavano la calotta glabra. Il bacio si fece più voluttuoso, trasudando lussuria da ogni gemito o rantolo indistinto fra i due, tanto che le ragazze si ritrovarono ad esclamare con repulsione un «uhg!» corale.
«Ehi, andate a recuperare altrove gli arretrati! Questa camera è già occupata» s’indignò Leona.
«Zitte bambine, adesso parlano gli adulti» mormorò Valerio fra le labbra di Sara. E così non gli rimase che attendere che i due la smettessero di comportarsi come se il pianeta fosse stato inghiottito da un enorme buco nero e loro fossero gli unici due superstiti col compito gravoso di dover procreare per poter far sopravvivere il genere umano. Quando quel supplizio ebbe fine, gli umori si erano evolutiti in un indigesto e luttuoso circolo di facce sofferenti. Per quanto provassero a smorzare la tensione, nulla avrebbe cambiato il fatto che quel giorno avrebbero dovuto partecipare a una cerimonia funebre che contava decine e decine di traghettati, vittime di quella battaglia. Le pire erano già state allestite durante la notte dai volontari e aspettavano solo di essere accese durante quella solennità. I toni della discussione si fecero inevitabilmente più cupi e non poterono non menzionare gli avvenimenti che gravavano sui loro cuori da qualche giorno ormai. La scomparsa del cadavere di Norman aveva sconvolto parecchio Leona e a questo si era aggiunta l’inspiegabile fuga di Caterina. In mezzo a tutto quel trambusto, non avevano avuto più sue notizie dal giorno della battaglia. L’amica assillava costantemente Valerio sugli sviluppi delle indagini di cui lui stesso si era fatto carico insieme a una squadra di fiducia. Sosteneva caparbiamente che i due avvenimenti dovevano essere in qualche modo collegati. La coincidenza delle due sparizioni era lampante come il sole, e anche se avevano escluso un possibile rapimento, non avevano una risposta sul perché Caterina avrebbe dovuto trafugare il suo corpo. E in mancanza di prove, non gli restarono che un pugno di congetture con cui consolarsi.
Il resto della mattinata trascorse molto velocemente e nella frazione di una battito di ciglia si ritrovarono a presiedere l’assemblea all’aperto nelle loro vesti neri. Era tradizione che i guerrieri caduti venissero onorati dai loro confratelli e familiari indossando la tenuta di combattimento per commemorare il loro sacrificio in battaglia. Quella volta ebbe luogo una cerimonia senza precedenti, e al contrario della consueta sepoltura nei campi gloriosi, avrebbero cremato i loro corpi e sparso le loro ceneri facendole librare fra i venti. Betelgeuse era casa loro e ne avrebbero sempre fatto parte impregnando la struttura stessa di quel mondo fittizio e parallelo. Intonarono i canti delle antiche tribù di Hijir, accompagnando la cadenza della melodia con flauti e tamburi.  Ricoprirono i loro volti con i simboli del lutto, utilizzando i colori accessi del succo delle bacche di bosco. Salmodiarono fra pianti e gridi strazianti di dolore in loro onore prima di procedere all’accensione del Grande Fuoco alle cui estremità del percorso erano stati disposti alcuni recipienti d’argento da cui s’innalzavano zaffate  inebrianti di incenso.
I gemelli, drappeggiati da lunghi mantelli neri dentro cui i venti soffiavano facendoli gonfiare alle loro spalle come vele di una nave pirata, avanzarono lungo quella navata di ghiaia ed erbacce con passo sincronizzato e ritmato dai battiti dei bonghi. I loro visi si erano rifugiati dentro i cappucci, al riparo dagli sguardi curiosi dell’assemblea. Al loro passaggio, lingue di fuoco e fumo aromatizzato affiorarono dagli incensieri lasciando che si diffondesse una sorta di nebbia mistica in mezzo a loro. Le gemme dell’acqua, del fuoco, della terra e dell'aria brillavano intensamente nelle loro logge e quel caleidoscopio di colori era l’unica cosa in grado di spezzare quella foschia che gli aleggiava attorno. Quando la Pira gli fu dinanzi, i bonghi si ammutolirono e Morgana sentì il silenzio penetrarle sotto pelle, troppo intenso e doloroso per essere ascoltato. I corpi riposavano in una piramide di piattaforme di legno distanziate l’una dall’altra da un sistema reticolato di palafitte che si slanciava verso i cieli grigi. Sulle vesti rosse dei morti vi era ricamato il motto hijiriano “Il viaggio non è ancora finito, andremo a diffondere la luce nelle tenebre”.
Giunti all’apice del rituale, Leona e Gabriel si liberarono dei cappucci e, levando i palmi verso l’alto, consegnarono la struttura piramidale alle fiamme. Tacquero tutti di fronte al monologo crepitante delle spire di fuoco che danzavano in vortici scoppiettanti e sinuosi. Tutte le bocche rimasero serrate, in assorta contemplazione, consacrando il silenzio ai loro cari fino a che non fu tutto consumato.
 Prima o poi ogni cosa sarebbe tornata ad essere polvere.
Fu allora che le brezze s’insinuarono fra le ceneri e i granelli giocarono a rincorrersi per aria a cavallo dei refoli che li avrebbero trasportati lontano. Lo sciame caliginoso si disperse in fretta e la cerimonia si avviò verso la conclusione. A quel punto l’assemblea fu sciolta e quella cerimoniosa compostezza venne bandita fra i partecipanti per convertirsi in versi di cordoglio. Morgana baciò numerose guance e venne confortata da altrettanti abbracci, ma anche in mezzo a quell’intenso chiacchiericcio notò la tensione palpabile che si respirava fra i due fratelli ormai liberi dalla rigidità delle circostanze. Non le sfuggì l’atteggiamento scostante di Gabriel, inafferrabile e scivoloso come un’anguilla di fiume, né la delusione che si delineò nell’espressione di Leona quando lui si perse in mezzo alla folla. Qualunque cosa fosse successa fra i due, Morgana reputò saggio tenersene alla larga soprattutto perché non avrebbe saputo come arbitrare quel confronto. Aveva ancora dei preparativi da ultimare per il viaggio, così mise da parte le sue preoccupazioni e andò in cerca della madre per accompagnarla all’udienza prevista per quel pomeriggio.
Il nuovo consiglio si mostrò sorprendentemente clemente nel suo giudizio. La condanna dell’ex sire e dei suoi sostenitori non fu particolarmente aspra nonostante la sequela di crimini e aggravanti comuni a loro carico che vennero valutati durante lo scrutinio.
L’edulcorazione della sentenza tenne conto dell’imminente referendum richiesto per l’abrogazione della legge sulla pena di morte, considerata da molti membri degli strateghi una barbarie da abolire e cancellare dalla loro Dottrina. Tale amnistia era avvalorata dalle ingiustizie che si erano perpetrate quel maledetto giorno, quando la piazza si era macchiata del sangue di suo padre e dello zio di Leona, senza nemmeno ottenere un equo processo. Era un bene che il consiglio avesse in programma uno svecchiamento delle leggi antidiluviane su cui si basava il Campo italiano da tempi immemori, anche se sospettava che quel buon proposito sarebbe finito inevitabilmente sullo sfondo dal momento che la questione del seggio vacante del Sire era ancora drammaticamente fresca e ne rivendicava l’immediata risoluzione. Fra mormori soddisfatti e sguardi indignati, i protettori si avviarono verso l’uscita dell’auditorium - una delle poche strutture non gravemente intaccata dall’apocalisse dei giorni precedenti - e Morgana aveva tutte le intenzioni di unirsi al gregge se non fosse stata distratta dal tamburellio insistente che picchiettò sulla sua spalla. Lei e l’alto funzionario del consiglio si soppesarono a vicenda per un lungo istante. Poi le ordinò di attardarsi ancora un po’ in auditorium: il nuovo capo dei sette saggi aveva espressamente richiesto un’udienza privata con lei. Le si formò un nodo in gola al pensiero di restare chiusa lì, in quella stanza enorme, sola con suo nonno. Che cosa voleva da lei? Cosa l’aveva spinto a piegare la sua intransigenza?
«Sa che questo è sconveniente, sua eccellenza? È ancora in rigore il veto della parola fra noi Cacciasciacalli» disse, ignorando l’eco acido che le tornò indietro.
Il vecchio anchilosato si mosse dallo scranno con consumata lentezza, facendo affidamento sulla rigidità del suo bastone che culminava con un lupo argentato «Il veto è morto con chi l’ha concepito e poi sono in vena di trasgressioni quest’oggi, mia cara bambina».
«Sì, ma la giustizia…» tentò di ribattere lei prima di essere interrotta.
«Chi può ardire alla giustizia?» domandò retoricamente suo nonno «Parliamo della stessa giustizia che non mi ha permesso di parlare un ultima volta a tuo padre prima che morisse? Non abbiamo dimostrato abbastanza di essere lontani dall’incorruttibilità della morale?  È vero, l’uomo fa le leggi. Ma l’uomo è fallace, quindi come possiamo pretendere che anche le leggi da lui create non lo siano? Dovremmo per questo essere condannati? Non sono forse i numerosi tentativi che attuiamo per raggiungere la giustizia che rende alcuni fra noi virtuosi? I nostri errori sono il concime che fertilizza il raggiungimento della legge perfetta».
«Sì, sua eccellenza» concesse Morgana, inchinandosi rispettosamente in avanti.
«Stai dritta adesso, un Cacciasciacalli non si piega di fronte a niente e nessuno, non siamo fragili rametti trastullati dal vento, noi siamo…».
«Il tronco di un albero… così solido e forte che nemmeno un uragano potrà sradicarlo» concluse per lui «papà me lo ripeteva ogni volta che poteva».
«E allora perché non ti reputi tale?» chiese con voce severa. Come poteva parlargli della fervente sensazione che la faceva estraniare dal suo stesso corpo? Come poteva disonorare la loro famiglia ricusando il giogo onorevole che le veniva offerto? La verità era semplice, eppure  era così difficile darle forma a parole.
«Non c’è alcun dubbio su chi tu sia» articolò come se avesse invaso il confine dei suoi pensieri «sei una Cacciasciacalli, il sangue dei nostri antenati scorre forte nelle tue vene, non dubitarne mai. Ma comprendo i tuoi dubbi, sono leciti. In te c’è molto di più di una semplice cacciatrice, e so che tu lo senti. Si fa sempre più forte il richiamo, non è vero?». D’istinto, Morgana tentò di smentirlo ma qualcosa in quell’insinuazione le fece attorcigliare lo stomaco disturbando il sonno delle dannate farfalle che lo abitavano.
«L’hai mostrata a qualcuno? La voglia?» proseguì indifferente al suo turbamento. Come faceva a sapere della voglia? Probabilmente era presente alla sua nascita, o non si sarebbe spiegata come fosse in possesso di quell’informazione…Cosa aveva di così importante quella piccola macchia bronzea a forma di stella impressa sotto la pianta del piede sinistro da meritare così tanta attenzione?
«Be’…Leona è la mia migliore amica. Lei…»
«Non è un caso che tu  ti senta così legata alla medjai e che lei ricambi la tua lealtà»
«Io non capisco…». Le articolazioni dell’anziano scricchiolarono nel punto di giuntura fra il femore e la rotula ormai quasi del tutto priva di cartilagine. Morgana saltò i gradini a due a due per raggiungere la piattaforma e lo aiutò a sistemarsi nel trono facendo attenzione alle sue fragili anche.
«Mmm» mugugnò distrattamente «è ancora sopita…i tempi non sono ancora maturi. Ma dovrai essere pronta». La paura cominciò a cibarsi di lei e sentì le gambe cedere.
«Pronta per cosa?» sbottò con le corde vocali che le raschiavano la gola come coltelli.
«Hai del tempo da dedicare al tuo povero vecchio nonno?» disse tamburellando le dita sul suo ginocchio malandato. La stava sul serio invitando a sedersi?
«Perché ho come l’impressione che tu stia per raccontarmi una storia?».
«Non posso garantirti che il finale ti piacerà».  Morgana chiuse gli occhi. Incamerò tutta l’aria che riuscì a racimolare e prese a pugni i suoi timori uscendone vittoriosa. Il rosso trionfò ancora una volta sulle sue guance delicate ma si decise ad accontentare il desiderio del patriarca e la sua indomita curiosità.
«I lieto fine sono sopravvalutati» dichiarò infine «Allora, di cosa parlano i tuoi racconti?».
Un sorriso triste si fece spazio in mezzo alla folta barba bianca che terminava a punta poco oltre lo sterno, un sorriso malinconico che fece pentire la ragazza di aver posto la domanda.
«Hai mai sentito parlare degli Sciamani?».
**********
No. Morgana non avrebbe voluto ascoltare una sola parola. Adesso che era di nuovo all’aria aperta aveva sperato di poter dimenticare ogni cosa. Era un vecchio superstizioso e non voleva rimanere un secondo di più ad infarinarsi nelle sue menzogne. Lei era solo Morgana. La timida e impacciata Morgana di sempre, e quello strano scherzo della genetica disegnato sulla sua pelle non era altro che frutto della casualità.
«Sono una Cacciasciacalli. Diventerò la migliore cacciatrice di licantropi della mia generazione. Un giorno siederò davanti al fuoco circondata dai miei figli e nipoti e gli racconterò le mie avventure, gli parlerò dei miei viaggi e…» disse sottovoce per fare il punto della situazione. Le piaceva avere sotto controllo ogni singolo frammento della sua vita, sapere esattamente cosa avrebbe fatto, priva di qualsiasi incertezza, libera dalla aleatorietà degli eventi.
«Hilde non crede proprio».
«Ma che…? Oh, Hilde, mi hai spaventata. Da dove sei sbucata fuori?»
«Hilde è sempre stata qui. Hilde non ha più un posto dove andare, la medjai adesso è la sua casa, percorrerà le orme che si lascerà dietro ad ogni passo, si cucirà alla sua ombra e la proteggerà fino a quando la Fenice non si riconcilierà con il Tempo e lo Spazio». Morgana le sorrise fingendo che quello che aveva appena detto la bambina non fosse profondamente inquietante.
«Perché non vai a giocare con gli altri bambini?» le chiese dandole un buffetto sulla testolina biondissima. La bambina le rispose con un’altra domanda.
«Perché fai di tutto per fuggire dal tuo destino?»
Morgana si pose la stessa domanda e il suo sguardo si perse nel vuoto, anche se apparentemente fisso sul gruppo di ragazzi che rideva e scherzava poco più avanti. Poi ottenne la risposta, quella che più gradiva «Il destino non esiste». Lo disse lentamente, scandendo ogni sillaba, marcandole all’esasperazione, convincendosi che quella fosse l’unica assoluta verità. Era così impegnata in quella sessione intensiva di autoconvincimento che si era accorta a malapena che Hilde le stesse mappando la mano, il tocco del suo ditino era leggero come quello di una piuma. Le montò il panico. Voleva sottrarsi ma la paura le aveva congelato le articolazioni. Le risate di quei ragazzi erano flebili riverberi soverchiati dai battiti del suo cuore.
Hilde annuì fra sé, con gli occhi socchiusi «Vedi è scritto qui. Sei destinata a diventare la Madre della Fenice». L’imperatività di quella sentenza spazzò via la paura per fare posto a una rabbia feroce. Strinse il pugno e si liberò della presa della piccola Hilde. Lei non batté ciglio. La sua passività la esasperava e faceva agitare la fiera brutale che gironzolava nella gabbia da lei costruitagli attorno. Voleva darle la libertà, lo voleva così disperatamente. Abbassò gli occhi a terra. Accanto al suo stivale c’era una pietra sufficientemente appuntita. La raccolse e la sfregò contro il palmo fino a che non sanguinò.
«E adesso, riesci a leggere qualcosa?» le urlò sollevando la mano insanguinata davanti ai suoi occhi «Dimmi adesso cosa vedi?». Hilde non disse una parola e continuò a guardarla negli occhi, senza rompere il suo voto di silenzio. L’insistenza di quello sguardo la fece vergognare. Sapeva che per quanto si fosse arrabbiata o avesse inveito contro di lei il risultato sarebbe stato sempre lo stesso. Spezzare le linee tracciate sul suo palmo, non avrebbe interferito in alcun modo con quel maledetto destino che la spaventava a morte.
«Un giorno lo vorrai, più di ogni altra cosa. Lo abbraccerai e lo farai tuo»
«E perché mai dovrei vorrei vedermi negata la mia libertà?»
«Perché Leona sta morendo. Lentamente. E tu sei la sua unica speranza di salvezza». Quella spada affilata raggiunse il suo cuore senza difficoltà. Il suo intero corpo si rivestì di brividi.
«È il ciondolo, non è vero? La sta consumando dall’interno…». Hilde confermò con un piccolo assenso accennato e il mondo sembrò trascinarla nel suo vortice implosivo. Ma non toccò mai il fondo. Qualcuno l’aveva riafferrata per i capelli e la stava tirando fuori da quell’incubo. Era la voce di Gab, e pronunciava il suo nome come nessuno aveva mai fatto. Adesso la stringeva a sé e lei si lasciò immergere in quella calda sofficità che odorava di acqua di mare. Le braccia attorno a lei la catapultarono in una spiaggia deserta indorata dai raggi del sole, il sottofondo dei gabbiani in volo e la risacca delle onde si andava amplificando dentro i suoi timpani. Ma non era sola. Lui era là con lei, con i riccioli scompigliati dal vento, gli orli del pantaloni risvoltati fin sopra le ginocchia e un sorriso capace di farle tremare l’anima. Voleva rimanere lì per sempre, affogare dentro il mare blu dei suoi occhi. La sua mano calda a riscaldarle il viso, il sapore delle labbra di lui che sapevano di sale… Poi la chiamò un’altra volta. La spiaggia, i gabbiani e il mare che si profilavano all’orizzonte vennero inghiottiti in un sol boccone dalla realtà. Ma per sua fortuna aveva strappato via da quel sogno ad occhi aperti il suo centro di gravità permanente.
«A cosa stai pensando?» le stava dicendo lui «Va tutto bene?». Morgana si guardò attorno in cerca di Hilde. Ma pareva esser sparita così com’era venuta. Scosse la testa per scrollarsi via le dolci ragnatele di quell’illusione. Non poté porre rimedio alla sua voce roca «Sì» disse soltanto, tacendogli tutto il resto. Non l’aveva convinto del tutto ma non scavò più affondo di così. E Morgana gliene fu spassionatamente grata.
«E tu? Tu come stai?» chiese lei. Gab fece del suo meglio per evadere la risposta. Era decisamente più attratto dal concatenamento delle sue trecce rosso fuoco. Faceva scorrere le dita in tutta la loro lunghezza seguendone il percorso con gli occhi. Poi sollevò una mano e le accarezzò dolcemente una guancia con il dorso.
«Avevo così tante cose da dirti, solo che adesso non trovo più le parole». Morgana gli prese il polso e lo ruotò per potersi imprimere sul viso il suo palmo ruvido scorticato dall’impugnatura della spada. Un breve sorriso le pizzicò l’angolo delle labbra.
«Non dobbiamo parlare per forza»
«Morgana Cacciasciacalli» la rimproverò lui con le sopracciglia teneramente aggrottate «Sei davvero una piccola spudorata! Non me lo aspettavo da te».
«Allora credo che tu non mi conosca abbastanza bene» tubò lei.
 «Ma possiamo porre rimedio a questo no? Direi che possiamo approfondire  questa conoscenza».
E poi le sue labbra si plasmarono su quelle della ragazza, dolci come un soffio, umide come una pioggia estiva che profuma di terra bagnata. Sembravano essere fatte l’una per l’altra, nate al solo scopo di fondersi e amalgamarsi in un trionfo di sospiri.
Morgana era appena caduta dentro a un altro sogno.
La sua lingua che le leccava l’arcata superiore del labbro, le sue mani che si adattavano alla rotondità dei suoi fianchi, i suoi pollici che si agganciavano ai passanti dei suoi pantaloni per annullare la distanza, i riccioli neri che le solleticavano la pelle, infilandoseli come anelli fra le dita. Assuefatta da quel calore che si irradiava dal suo corpo come una scia di comete, ne voleva sempre di più, sempre più insaziabile e ingorda dei suoi morsi che le facevano comprendere quanto anche lui desiderasse quel momento. Le sue mani slittarono dietro la schiena e spinsero con brutalità verso di lui, come se non fosse abbastanza. Sentì i suoi muscoli, rigidi di un grumo di desiderio, sciogliersi su di lei, farsi liquidi come i suoi pensieri confusi, i loro diaframmi sollevarsi allo stesso ritmo disperato. Staccarsi da lui fu quasi un dolore fisico lacerante, ma non poteva ignorare i bisbigli sonaglianti che li circondavano. Morgana si succhiò il labbro per trattenere ancora un po’ il sapore dei meravigliosi baci di Gabriel e spiò oltre la sua spalla, mettendosi sulle punte, il piccolo gruppetto che li stava osservando in una tempesta di risolini soffocati. C’era però una fra loro che non trovava degna di pettegolezzi quella scena. Gab seguì il suo sguardo e quando il suo viso sbiancò, seppe che stavano guardando la stessa cosa. Le mancavano solo un alone incandescente di fiamme e un forcone e la truce espressione da diavolessa di Dania sarebbe stata coerente con il personaggio che stava interpretando. Non finse di non sentirsi appagata da quella piccola rivincita e le schiacciò l’occhiolino, aspettandosi che la poveretta esplodesse da un momento all’altro. Come sospettava, quello fu davvero troppo per Dania, non si degnò nemmeno di tacere un gridolino di frustrazione e sterminando a gomitate le sue amiche come birilli si trascinò via di lì incassando la sua amara sconfitta in silenzio. Morgana era ancora addossata al petto di Gabriel, sentiva ancora la durezza dei muscoli anche attraverso il tessuto della giubba, e percepì la sua risata scuotergli le ossa.
Lui le diede un bacio sulla punta del naso.
«Sai, a volte il tuo mr. Hyde mi terrorizza» le confessò.
«Forse sarebbe il caso di risparmiarci le effusioni quando non avremo più un pubblic…». Ma lui la baciò ancora, la prese in vita e piroettò insieme a lei. Quando la fece scendere le girava la testa.
«E perché privarli di un tale spettacolo?» le sussurrò all’orecchio «voglio che tutti sappiano che tu sei mia».
«In effetti, la tua popolarità al momento potrebbe tornarmi utile…La fidanzata del medjai suona piuttosto bene»
«Subdola approfittatrice» le disse morsicandole il lobo.
«Per quale altro motivo pensi che lasci che mi vedano insieme a te?»
«Oh, tu si che sai come farmi sanguinare il cuore. E…a proposito di sanguinare, che hai fatto alla mano?».
«Non è nulla. Un arrotatura andata male, ho usato troppo lubrificante e mi è sfuggita una freccia» minimizzò lei pregando in cuor suo che non approfondisse la faccenda.  Non si dovette dare pena a lungo, lui stava già viaggiando lontano col pensiero, in una località remota dove lei non era stata invitata.
«Gab, se c’è qualcosa che vuoi dirmi, io sono qui». Ed eccolo lì l’adorabile vezzo di cui si era innamorata alla follia. L’intenzionale violenza con cui si stava morsicando il labbro inferiore però questa volta la allarmò. Ma non aveva il diritto di cavargli fuori i suoi tormenti quando anche lei non aveva alcuna intenzione di rivelare i suoi. Poi le piantò i suoi grandi occhi blu addosso e per poco non dimenticò il suo nome.
«Tu sei reale non è vero?» le chiese accarezzandole le braccia. Fu una domanda insolita che la spiazzò. La pressione delle sue dita rivelava le sue intenzioni indagatrici, come se stesse studiando la sua concretezza o la sofficità della sua carne. «Non sei un illusione, non mi mentiresti mai». Adesso era una affermazione.
Deglutì dolorosamente. Leona sta morendo. Lentamente. Sei l’unica in grado di salvarla. Come poteva dargli una notizia del genere senza recargli sofferenze atroci? E poi non era certa che si trattasse solamente dei vaneggiamenti di una bambina problematica a cui piace blaterare del destino. Non voleva ferirlo in quel momento, almeno fino a quando non sarebbe stata sicura «Gab, io…».
«Mi ameresti…mi ameresti anche se avessi fatto qualcosa di terribile? Ovviamente chiedo solo in via ipotetica…voglio solo essere sicuro che tu ci sarai in qualunque caso» disse abbandonando per un attimo quell’aria tetra che le aveva messo i brividi. Se li fece scivolare di dosso e gli prese il viso fra le mani.
«È un modo codardo e meschino per dirmi che sei stato con un’altra?» ci scherzò su per stemperare l’atmosfera cupa. Gab provò a sorriderle ma con scarsi risultati. Esigeva una risposta sincera.
«Gab. Non credo esistano forze abbastanza potenti da indurmi a non amarti, il danno ormai è irreparabile. Ti basta come risposta? Io e tua sorella ci saremo sempre per te, in qualunque caso».
«Lo so» assentì lui con un profondo sospiro, come se accettasse a metà ciò che gli aveva detto. La tempesta passò in un attimo dai suoi occhi e si affacciò il limpido cielo azzurro della spensieratezza.
«Che ne dici di riprendere da dove avevamo interrotto?» le alitò a un soffio dalle sue labbra.
«Forse è il caso di proseguire questa discussione a porte chiuse…»
«Signorsì signor comandante» disse con un pugno stretto sul petto.
Lo prese per mano «Conosco un posto fuori dalla portata di ex indesiderate…».
«Bene, perché se no ci affollerei una piazza…»
«Stai zitto e baciami» gli ordinò lei pigiandogli un dito sulla bocca.
E lui obbedì.
   
 
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