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Autore: Moonfire2394    16/03/2021    0 recensioni
I genitori di Leona e Gabriel vengono uccisi brutalmente da un trio misterioso di vampiri in cerca delle mitiche "reliquie". Dopo il tragico evento, verranno accolti al campo Betelgeuse, un luogo dove quelli come loro, i protettori, vengono addestrati per diventare cacciatori di creature soprannaturali. In realtà loro non sono dei semplici protettori, in loro alberga l'antico potere dei dominatori degli elementi naturali: imedjai. Un mistero pero' avvolge quell'idilliaco posto e il subdolo sire che lo governa: le strane sparizioni dei giovani protettori. Guidata dalla sete di vendetta per quelli che l'avevano privata dei suoi cari, Leona crescerà con la convinzione che tutti i vampiri siano crudeli e assetati di sangue. Fino a quando l'incontro con uno di loro, il vampiro Edward Cullen, metterà sottosopra tutto quello in cui ha sempre creduto facendo vacillare l'odio che aveva covato da quando era bambina. Questo incontro la porrà di fronte a una scelta. Quale sarà il suo destino?
Una storia di avventura, amicizia e giovani amori che spero catturi la vostra attenzione:)
Genere: Avventura, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio
Note: Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Precedente alla saga
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 Avviso per il lettore: Questa è la seconda parte del Prologo con i POV di Fabiano e Leona. Se vi siete persi il primo tornate indietro a recuperarlo! Buona lettura e ci vediamo per L'ULTIMA PARTE del prologo!

Fabiano

Disinfettante, alcol etilico e tintura di iodio. Aveva trascorso così tanto tempo al capezzale di suo fratello che ormai le sue narici non riuscivano a captare altro che quegli odori pungenti che gli facevano venire le lacrime agli occhi. A quello si univa l’insopportabile ronzio degli insetti saprofagi attratti dalla carne necrotizzata e il lamento dei moribondi. Tra poco avrebbe dovuto dare il cambio alla madre di Ethan. Lui dormiva ancora profondamente, l’ultima dose di anestetizzante era stata molto generosa vista l’ultima notte insonne trascorsa in un bagno di sudore e mormorii di dolore. La ferita al costato guariva lentamente perché il taglio era più grave di quello che avevano previsto ed aveva perso molto sangue. La cicatrizzazione se la stava prendendo comoda persino con il processo accelerato di guarigione.
Edna si stiracchiò e lanciò un’occhiatina di sbieco a Ethan che in quel momento cominciava a parlare nel sonno. Miagolò alla volta di Fabiano, e lui gli concesse qualche grattino sotto il mento. Soddisfatta di quelle attenzioni, si leccò i lunghi baffi da gatto e si raggomitolò nuovamente su se stessa, facendo le fusa sopra il piumone. La annoiava a morte sorvegliarlo, ma non c’era nulla che non avrebbe fatto per conto della sua padroncina.
Assicurandosi che ne avrebbe avuto ancora per un po’, riempì un catino con dell’acqua fredda e si deterse il viso. Alle sue spalle passò una volontaria con una pila di garze sterili pulite in bilico sulle braccia. Le domandò l’ora e le snellì un po’ quella torre di bende che minacciava di crollare a terra. Mancava ancora un’ora al cambio del bendaggio così si offrì di darle una mano a distribuire il materiale sanitario fra gli allettati stipati in quella stretta tenda di fortuna, montata su due piedi per far fronte all’ingente numero di feriti. Si prese del tempo per dare una parola di conforto a quelli non del tutto intontiti dai farmaci, spacciandolo per un atto caritatevole piuttosto che ammettere che fosse un escamotage per tenere la mente occupata. Il consiglio aveva raccolto prove a sufficienza per inchiodare suo padre. Era stato condannato alla detenzione permanente nelle prigioni sotterranee del labirinto fino a nuovo ordine. La sentenza non era stata definitiva e buona parte del merito della concessione dell’indulgenza era da attribuire a Fabiano e alla sua spigliata aringa sulle attenuanti circostanziali che lo avevano visto protagonista e fautore di quegli atti abborrenti. Aveva smentito qualsiasi accusa di violenza nonostante sentisse ancora lo schiocco della frusta sulla sua pelle e l’odore di sudore acido mescolato al cuoio della cinghia. Si era domandato spesso se avesse fatto la cosa giusta, ma voleva credere che trascorrere un po’ di tempo in quel purgatorio avesse potuto far riflettere suo padre. Anche se non aveva più alcuna traccia di quelle brutalità, a volte le cicatrici pulsavano di un dolore fantasma capace di sottrargli il respiro. Gli accadeva più raramente dopo le avventure vissute in quella spirale di specchi di cui era stato prigioniero, come se avesse lasciato lì per sempre quella parte di sé che tremava al solo pensiero di contraddire suo padre, quel lato di sé che avrebbe fatto di tutto per guadagnarsi un giorno intero senza quelle violente percosse. Conosceva il dolore di suo padre, e se sfogarsi su di lui poteva recargli sollievo, allora Fabiano non avrebbe esitato ad offrire la sua bianca schiena, una tela su cui dipingere e scaricare tutta la sua angoscia per  le sorti di Sara.
Ma tutt’altra cosa era quella che gli aveva mostrato lo specchio.
Quella schiena delicatamente arcuata dalle linee perfette non era la sua. Non aveva pensato nemmeno un attimo alle ripercussioni di quell’intromissione, sapeva soltanto che non avrebbe mai permesso alla cinghia bruciante della frusta di raggiungere la pelle nivea e perfetta di Leona o di starsene inerme ad ascoltare le sue urla. Ricordava ancora lo sguardo infuocato di suo padre che gli aveva gettato addosso come una maledizione e ancora di più quello deluso di Leona che lo cercava in mezzo a quella lunga tenda di capelli neri che le era calata sul viso. Non riuscì a spiegare quanto quello sguardo gli avesse fatto male, il dolore era così totalizzante tanto da avergli fatto dimenticare della presenza della frusta, di suo padre e della paura stessa. In quello strano universo onirico fatto di superfici riflettenti nessuno parlò. Il silenzio fu il complice della sua salvezza. Non c’era più alcun rumore a distoglierlo dalle sue riflessioni. Ed era lì che aveva compreso che aveva sempre avuto il potere di gridare il suo “basta”. Era proprio nel silenzio che era finalmente riuscito a sentire la sua voce, una voce che gli ripeteva che non era compito suo espiare i peccati altrui e che non era quello il modo giusto per proteggere chi amava, lasciando che se ne occupasse qualcun altro. Adesso non vedeva altro che un patetico sottomesso vittima delle sue paure. Era deluso da ciò che lo specchio rifletteva. Lui era più di questo, lui voleva essere più di questo, e non importava quanto tempo sarebbe occorso per ottenere quel cambiamento, avrebbe lottato fino a che lo specchio non gli avesse offerto l’immagine che lui desiderava di sé stesso, qualcuno di cui essere fiero.
I lembi della tenda frusciarono al vento, sollevandosi all’esterno. Vide Leona imbambolata sull’uscio in attesa di un permesso per entrare. Notò subito il suo nuovo paio di guanti e l’acconciatura complicata che la incoronava. Si sorrisero entrambi e poi la condusse ai piedi del letto di suo fratello proprio mentre le sue palpebre cominciarono a lottare contro la sonnolenza indotta dai sedativi. Edna si ridestò e le fece posto accanto a lei così da permetterle di sedersi sul ciglio del letto.
«Brava la mia gattina» le disse baciandole il muso. Edna strusciò oziosamente la sua pelliccia bianca su di lei e le circondò la schiena con la coda. Leona si sistemò meglio, attenta non sfiorare nessun punto dolorante, e prese la mano di Ethan fra le sue, mentre Fabiano si accontentò di osservarli da uno degli angoli ombrosi della tenda. Le sue dita reagirono immediatamente come se l’avessero riconosciuta e aumentò la pressione fra le loro mani intrecciate. Fabiano scacciò via la puntura fastidiosa che gli procurò la vista di quell’intreccio nascondendo i pugni in tasca.
«Se potessi mi sveglierei volentieri ogni mattino con una vista panoramica sul tuo delizioso visetto. Ditemi dove devo firmare…» esordì Ethan con la voce ancora impastata dal sonno. Il gatto finse di vomitare una palla di pelo.
«Buongiorno anche a te dormiglione» lo salutò lei sistemandogli i cuscini dietro la schiena. Ethan approfittò subito della vicinanza di lei per infilarle il naso fra i capelli.
«Il mio bocciolo di rose è preoccupato per me?» disse lui con un sorrisetto colpevole che fece scattare un sopracciglio di Leona. Lei lo prese nell’incavo del gomito e lo tirò a sedere bruscamente ignorando i suoi gemiti infantili.
«Al tuo bocciolo non piace ammettere che le è quasi venuto un infarto alla notizia che tu sia inciampato involontariamente su una spada, perciò non lo farà. Ti basti sapere che è molto fiera del tuo coraggio e che si reputa in debito con te per aver salvato la vita di Fabiano».
«Ehi, non ho il cuore nero! In fondo è il mio ingenuo fratellino, no? E poi puoi stare tranquilla, non credo si ripeterà con mia madre nei paraggi».
«Perché?»
«Se Sara prova anche solo ad avvicinarsi alla tenda, mamma comincia a starnazzare come una vecchia oca isterica. Ho provato a spiegarle che è tutto ok, ma non vuole darmi retta. È già molto che abbia permesso di farmi recapitare la sua lettera di scuse…».
«Metterò una buona parola per lei»
«Buona fortuna! Adesso avvicinati così almeno potrò riscuotere il tuo pagamento» disse chiudendo gli occhi e piegando la bocca in attesa di un bacio. Leona gli stampò un palmo aperto sulla fronte e lo fece sprofondare fra i cuscini «Non ci pensare neanche, strozzino». Edna soffiò affilando le unghiette prima che lui riuscisse a scansarsi.
«Puoi dire alla tua bestiolina di darsi una calmata?». Alla parola “bestiolina” le si rizzò il pelo e i suoi miagolii si fecero più acuti e intimidatori. Poteva essere solo una sua impressione, ma avrebbe giurato che Edna stesse puntando alla zona inguinale di suo fratello.
«No e no» rispose Leona rivolgendosi prima a Ethan e poi a Edna.
«Cosa ha detto?» s’incuriosì lui.
«Vuole trasformarsi in un istrice e giocare con le tue palle». Il suo sorriso da imbecille si spense immediatamente e si tirò le coperte sopra la gobba del naso. Finse di non fare caso alla micetta infuriata e le disse: «Ah, ora capisco. Vuoi un po’ di privicy…Te l’ho mai detto che trovo adorabile la tua timidezza? Fabiano per favore girati dall’altra parte, mammina e papino devono farsi le coccole».
Idiota. Stava per tirare fuori dalla tasca uno dei suoi pugni quando sentì Leona sospirare scuotendo la testa. «Non è l’ora degli antidolorifici?» chiese lei rivolgendosi direttamente a Fabiano. Il labbro di Fabiano tremò cercando di trattenere un sorriso.
«Ti preparo la siringa» disse avviandosi verso l’armadietto dei flaconcini con più entusiasmo del necessario. Fu subito di ritorno, impaziente di assistere all’iniezione dei farmaci nella vena di suo fratello. Leona fu sorprendentemente metodica e sicura di sé. Morse la cucitura del guanto fra i denti e liberò la mano sana. Poi afferrò la siringa, aspirò il liquido dalla boccettina, ne fece trasudare qualche goccia dall’ago e gli infilzò il braccio senza nemmeno avvisarlo.
«Ahi! Questa cospirazione non mi piace affatto» strillò mentre lei gli disinfettava il punto d’iniezione con un batuffolo di cotone. Fabiano non sapeva che i gatti potessero ridere, ma dovette ricredersi.
«Smettila di lagnarti, o mi rimangio tutto quello che ho detto». Mentre rimetteva tutto al suo posto, con un po’ di stizza, i suoi occhi blu si addolcirono quando incrociarono per un breve istante quelli di Fabiano e Ethan fiutò la loro complicità come un vecchio cane da caccia pronto a spennare il tacchino.
«Non avete perso tempo, eh…» commentò lui acidamente.
«Che cosa vuoi dire?»
«Andiamo Leona, trasudate tensione sessuale da un miglio, a chi la vuoi dare a bere?».
«Forse questa rivelazione ti scioccherà, ma ho deciso di correre il rischio» disse Fabiano sistemandosi un ciuffo ribelle «esistono persone su questo pianeta che si sono evolute al punto da non essere più dominate esclusivamente dagli istinti primordiali di cibarsi, dormire e pensare fare sesso. Spero che anche tu un giorno possa unirti alla gioia del progresso».
«Uh! È sarcasmo quello che sento, fratellino? Dio, il ragazzo sta crescendo» disse fingendo di singhiozzare dalla gioia. Nemmeno Fabiano riusciva a capire perché se la stesse prendendo così tanto. Non era da lui cedere così facilmente a delle così vili provocazioni di bassa lega. Gabriel lo aveva messo alla prova duramente su questo campo eppure…
Si fece distrarre dal delizioso colore roseo delle gote di Leona e per qualche motivo a lui sconosciuto i suoi ormoni impazzirono senza il suo permesso.
«Comunque non sono affari tuoi Ethan» tagliò corto lei spostando lo sguardo sui flaconi di penicillina, in evidente imbarazzo. Ethan roteò gli occhi fino a che non si soffermarono sul guanto posato sul comodino e fischiò. «Bei guanti» si complimentò con lei «ma lo sai che mi piace di più quello che c’è sotto». Fabiano pregò che imparasse al più presto a digerire i doppi sensi di Ethan prima che la voglia di malmenarlo prevalesse sul suo buon senso.
«Su dai, fammelo vedere» la incoraggiò lui. Fabiano apprezzò che in quell’invito avesse bandito l’aria da spaccone. Leona dapprima tenne gli occhi fissi sui suoi pugni chiusi in grembo, ma quella tensione durò poco e la cacciò via spurgando un lungo respiro. Guardò Ethan e la sua espressione divenne impassibile mentre gli porgeva la mano guantata.
«A te l’onore» disse infine. Ethan annuì e, senza distogliere gli occhi dai suoi, cominciò a sfilarle il guanto con deliberata lentezza. Fu abile nel non indugiare ai primi scorci lucenti del metallo con cui era stata forgiata la sua protesi. Non appena fu fuori dal calore rassicurante dell’imbottitura di lana, se la rigirò per studiarne scrupolosamente ogni sfaccettatura con la fronte aggrottata. Fabiano non fu altrettanto audace come il fratello. Il senso di colpa che lo costringeva a raggomitolarsi in posizione fetale sul pavimento, gli impedì di apprezzarla come l’opera d’arte che era.
Non lo avrebbe dimenticato. Non poteva. Era stato lui a farle questo.
Ma proprio mentre lottava con il suo demone interiore, le labbra di Ethan si posarono leggere sulla nocca argentata di Leona. La gelosia e qualcosa di vagamente simile alla gratitudine dilagarono dentro Fabiano prepotentemente fino a fargli torcere le budella. Avrebbe dovuto farlo lui fin dall’inizio, invece di farle pesare i suoi inutili rimorsi. Leona sorrise spontaneamente. Ma quel sorriso non era rivolto a lui e quella fu la più crudele delle lame.
«Ti dà fastidio?» gli domandò Ethan in guisa di sfida.
Fabiano avrebbe voluto rispondergli che, sì, lo faceva imbestialire in un modo che non credeva nemmeno possibile, ma Leona, che in quel momento attendeva insieme a Ethan la sua risposta, non era una sua proprietà ed era libera di farsi sbavare la protesi da tutti i viscidi lumaconi che voleva. Così rispose semplicemente «No. Leona è il fiore più bello e colorato dell’intera prateria, è la brezza delicata e profumata che sospira al risveglio della primavera, e merita di essere trattata quale la regina che è. Ma è anche il lampo luminoso che anticipa la tempesta e l’uragano di vita che scuote la terra, quindi tieni in alto la guardia e non aspettarti che le tue adulazioni sortiscano l’effetto che speri».
Ethan applaudì «Ci sa fare il tuo ragazzo…».
«Ethan io…» cominciò Leona.
«Risparmia il fiato. Sapevo che stavo giocando una partita in cui ero tremendamente svantaggiato. Ma sognare non costa nulla, no? Me ne farò una ragione, almeno so che mio fratello sa apprezzare ciò che ha».
«Vedi Ethan, sta proprio qui il problema. Fabiano non possiede nulla, io non sono il trofeo della vostra contesa. Non sono mai stata nient’altro che un oggetto da conquistare per te?».
Ethan fece spallucce «Leona tu non sei uno dei tanti trofei che ho dimenticato sulla mensola a prendere polvere. Tu sei l’unico trofeo per cui vale davvero la pena di lottare, sei il terno al lotto della mia vita, sei la mia scala reale quando il mio avversario rilancia con una misera doppia coppia, non so se rendo il concetto. Quindi ti prego di non fraintendere più i miei sentimenti per te. Se solo servisse a farti cambiare idea mi inginocchierei ai tuoi piedi, lascerei che i punti di sutura si strappassero a uno a uno e ti implorerei di tornare con me. Lui si saprebbe umiliare fino a questo punto?».
«Dacci un taglio Ethan, oggi non si umilierà proprio nessuno» lo zittì lei con un’occhiataccia «e adesso fammi controllare la ferita».
«Mmm, se volevi dare una sbirciata sotto le coperte bastava chiedere. Risparmia i tuoi stratagemmi maliziosi per quel sempliciotto di Fabiano»
«Per la barba di Mayak, puoi smetterla per cinque benedetti minuti di fare battute e allusioni sconvenienti? Dannazione, ma voi due come fate ad essere fratelli?».
«Non lasciarti incantare da faccia d’angelo. Anche lui ha i miei stessi desideri, solo che è più bravo a tenerli nascosti». A Fabiano schizzò il sangue alle orecchie e Leona sgranò gli occhi su di lui in attesa di una smentita. L’incredulità che vi lesse, però, lo offese un po’. Non avrebbe mai potuto oltraggiare la sua Leona con una di quelle battute scadenti, ma forse era colpa dei suoi atteggiamenti scostanti se adesso lei lo vedeva più come un essere asessuato incapace di ricambiare nient’altro che andasse oltre un amore platonico.
«Ho bisogno di prendere un po’ d’aria» annunciò improvvisamente dirigendosi a passo pesante verso l’uscita.
«Già, non vogliamo che al piccolo Fabiano esploda il cervello» gli sentì dire  a suo fratello quando aveva scostato un lembo della tenda, favorendo il ricircolo di quell’aria viziata «La gelosia ha davvero una cattiva influenza sul tuo fascino inattaccabile…Bah, non ho bisogno di lui. Riprendiamo la medicazione?».
«Sì, ma tieni a posto le mani. Edna sta pensando di trasformarsi in qualcosa di decisamente più pachidermico e non so se ho molto voglia di fermarla». A quelle parole mollò la presa sulla tenda e tornò indietro sui suoi passi stagliandosi alla ringhiera del letto con i pugni serrati.
«Preferirei che tu non la scambiassi per gelosia» gli disse trattenendo a stento la rabbia «perché non si tratta di questo, ma ti sarei eternamente grato se la smettessi di toccarla contro la sua volontà».
«Oh no, non si tratta di gelosia» lo motteggiò lui «ma sei sicuro che piaccia molto meno a te che a lei?».
«Mi trovo costretto ad ammettere che l’idea delle tue mani su di lei non mi faccia impazzire»
«Be’, è già un passo avanti, ma questo è un tuo problema». I pugni di Fabiano si strinsero attorno al ferro battuto della sponda del letto.
«Ethan non te lo chiederò un’altra volta. Confido che mentre ti cambia le bende tu riesca a trovare una distanza accettabile senza respirarle con fiato sul collo. Credo che sia un bene per entrambi che ignori il prurito alle mani che mi susciti ogni volta che tenti di sfiorarla».
«Va bene, time out voi due» s’innervosì Leona al limite dell’esasperazione «Ethan, taci o ti infilo un garza in bocca, e tu se non la smetti di stare al suo stupido gioco vatti a schiarire le idee fuori da questa tenda».
«No, io resto» protestò lui ignorando quanto apparisse infantile ai suoi occhi.
«Allora torna al tuo angolo, ho garze a sufficienza per zittire entrambi». Leona gli indicò col mento la sua alcova di ombre e non gli rivolse più nemmeno uno sguardo. Slegò la fasciatura di suo fratello ed esaminò la ferita più vicino, poi  lo stese supino e prese a spalmargli gli unguenti sul torace. Avrebbe potuto utilizzare il suo potere per guarirlo, ma Carlisle era dell’avviso che, viste le sue condizioni, sarebbe stato prudente non approfittarne fino a quando non si sarebbe ripresa del tutto. Certo, c’era anche Gab, ma nessuno con un minimo di sale in zucca si sarebbe fatto toccare da lui.
«Sapete che vi dico, non c’è dubbio che in voi scorra lo stesso sangue, siete in egual modo irritanti. Ringraziate il paparino per questa inutile eredità. Mentre voi giocate a farvi la guerra, Caterina è lì fuori chissà dove con il corpo di Norman…e non riesco a pensare ad altro sul perché abbia fatto una cosa del genere».
«Non è ancora tornata?» chiese con un velo di preoccupazione. Leona scosse il capo.
«Forse lo so io il perché…». Le dita di Leona restarono sospese sopra la boccetta di unguento e inarcò un sopracciglio.
«È successa una cosa durante la battaglia…» proseguì Ethan «avevo giurato di non dire nulla, ma a questo punto non so in quale guaio si sia andata a cacciare quella sciagurata. Lei…stavamo lottando. Non l’avevo mai vista più inferocita di così, era una rabbia quasi ferina, non saprei in che altro modo spiegarlo. Era accerchiata da un paio di meta-lupi credo e mi ha chiesto una bomba allo strozzalupo. Io gliela ho lanciata. E giuro che se avessi saputo…io, io…».
«Che cosa è successo?» si affannò a domandargli Fabiano. Ethan si passò le mani fra i capelli biondi.
«Lo strozzalupo l’ha avvelenata, si contorceva per il dolore, l’ha paralizzata. E poi, poi è successo…».
«Il lupo, quello che ho visto sfrecciare a est…era lei?» si rese conto Fabiano «Ma come è possibile?».
 «L’artiglio dell’alfa l’ha ferita al petto, ricordate?» spiegò Leona «Anche se ho rimarginato la ferita non avevo previsto che ci fosse del veleno, quindi l’ho sigillato dentro di lei e ha attecchito. Adesso Caterina è un licantropo ed è tutta colpa mia» singhiozzò «Dobbiamo trovarla!» annunciò scattando all’in piedi. Fabiano le tagliò la strada «Non dire sciocchezze, hai ancora bisogno di riposo».
«Non sono un’invalida Fabiano, anche se non perdi l’occasione per sottolinearlo. Non oso immaginare come se la stia passando, si sentirà sola, lei…».
«Vuole stare da sola. Ormai non c’è più nulla che tu possa fare. E poi che ti intenzioni hai? Non può più far ritorno a Betelgeuse e lo sai bene»
«La cosa mi sconcerta ma sono d’accordo con Fabiano» concordò Ethan guadagnandosi un’occhiata furente di Leona che lo fece rintanare fra le coperte.
Fabiano le sfiorò la guancia «Lea, non c’è più posto per lei al Campo, non importerà a nessun chi sia stata, non stiamo parlando di un maleficio che può essere annullato, ma di qualcosa di permanente, qualcosa che se dovesse rimettere piede qui dentro la rendere un bersaglio per i cacciatori. Adesso lei è un licantropo…»
«È mia amica prima di ogni altra etichetta le vorrete affibbiare!» replicò lei interrompendo quel contatto.
«Dannazione Leona non puoi sempre correre a salvare il mondo intero quando nessuno te lo ha chiesto! Smettila di pensare che sia tutto una tua responsabilità e per una volta fa come ti dico, giuro che se continuerò a tallonare i tuoi ritmi potrei rimanerci secco». Le prese la mano metallica e se la portò sul cuore «Ti prego».
«Ti ascolterò soltanto se la smetterete di litigare voi due» disse con grave impassibilità. Riafferrò il guanto abbandonato sul comodino e se lo infilò con una tale forza che per poco non bucò le cuciture facendo spuntare le dita. Gli ingranaggi del suo cervello erano in moto, Fabiano sentiva il loro ticchettio anche da lì.
«Va bene» acconsentì lui. Stava mentendo, lui lo sentiva. E sapeva benissimo che anche questa volta le sarebbe corso dietro, senza nessuna eccezione.
«Va bene un corno! Mi ha fregato la ragazza, le mie torture sono appena iniziate» lo minacciò Ethan. Leona non voleva più starlo a sentire e Fabiano fece appello a tutta la sua pazienza per non accettare nessuna delle sue provocazioni. Finì la medicazione e la fasciatura con la testa da tutt’altra parte, ma riuscì comunque a portare a termine un buon lavoro.
«Ricordati» gli stava dicendo lei leggendo l’etichetta del flaconcino «miscela con un po’ d’acqua non più di cinque gocce di questa mistura due volte al giorno, una la mattina e una la sera, e…che cosa stai guardando?». Ethan sollevò un dito, le dischiuse le labbra e ne tracciò il contorno.
«Mi mancheranno come l’aria, lo sai questo vero? Spero che tu sia cosciente di questa ingiusta crudeltà. Forse non potrò più averle, ma nulla m’impedirà di immaginare te ogni volta che bacerò un’altra ragazza».
Per i suoi gusti quel dito stava indugiando un po’ troppo e non fu l’unico a pensarlo perché Leona provò a morderglielo.
«Ecco la mia piranha sexy» tubò soddisfatto. Fabiano sbuffò.
«Adesso sono io ad avere bisogno di un po’ d’aria. Tornerò stasera per controllare se ti sale di nuovo la febbre. Cerca di muoverti il meno possibile, idiota, o si riapriranno i punti» disse prendendo Edna fra le braccia.
«È un appuntamento?» le domandò speranzoso.
«Pensala come ti pare». Il gatto balzò giù e lei ne approfittò per scompigliargli i capelli. Poi fece cenno a Fabiano di seguirla e salutò il fratello con un’alzata di mento. Erano con un piede fuori dalla tenda quando li richiamò «Leona? Se dovessi trovarla…fa il modo di mandarla da me, ok?» disse come se la cosa non implicasse che avrebbero dovuto infrangere almeno un milione di regole e servirsi dei più improbabili travestimenti. Uno di quei giorni avrebbe dovuto spiegare a lei e Gab i fondamenti di come evitare situazioni di pericolo, e primo fra tutti gli avrebbe insegnato a non gettarvisi fra le braccia, anche se l’impresa era come cercare di combattere le pale di un mulino a vento.
«Lo farò» acconsentì lei cospirando in silenzio uno dei suoi piani suicidi, e lo lasciarono alla sua ancora lunga convalescenza.
Fabiano fece penetrare dentro i polmoni un po’ d’aria che non puzzava di putrefazione. Il clima era mite e la neve sui rami spogli cominciava a sciogliersi e a gocciolare sul terreno. Edna aveva abbandonato la sua forma da gatto per scambiarla con quella di un piccolo pettirosso per svolazzargli attorno. La cittadella in lontananza era un pullulare di gente che impastava cemento e trasportava mattoni come un laborioso formicaio. Finché avesse avuto vita quella collaborazione, non avrebbero dovuto preoccuparsi a lungo di dormire ancora su scomodissimi giacigli di sassi. Percorsero un po’ di strada senza rivolgersi la parola, il rollio della betoniera e i cigolii delle carrucole inquinavano i loro silenzi abbastanza per entrambi.
Leona calciò un sassolino che le intralciava la via «Come sta tua madre?». Si era così abituato ai suoi silenzi che il suono della sua voce risuonò come una fucilata. Era ancora arrabbiata con lui. Non aveva il coraggio di dirle che quando s’imbronciava in quel modo diventava ancora più bella, voleva godersi ancora un po’ quell’impasse.
«Passa molto tempo con Sara e questo è un bene. Le impedisce di pensare a mio padre. Migliora di giorno in giorno la sua…sai». Lei annuì senza aggiungere altro. «Forse non riacquisirà mai la vista, a lei però non sembra pesarle e onestamente neanche a me. Se continuerà a sorridere…per me sarà sufficiente. Adesso siamo in due ad occuparci di lei, le cose andranno sempre meglio. Ho fiducia in questo. E stavo giusto pensando una cosa…» il calore si arrampicò dal collo alle guance «penso sia il momento di presentartela, ufficialmente intendo».
Leona si fermò di botto e lo fissò con tanto d’occhi spalancati. Poi corrucciò la fronte come se un pensiero fulmineo le avesse attraversato la mente, strinse le labbra e riprese la marcia non curandosi che lui la seguisse.
«Cos’è, inizi già a sentire l’odore dei fiori d’arancio? Direi di fare le cose con calma. Non ti ho ancora perdonato per avergli presentato prima Gab, sto ancora scegliendo quale sia la punizione più adeguata»
«Non ti basta il fatto che partirai di nuovo?» se ne lamentò con tono petulante. «Gab a volte è un po’ sgangherato ma gli voglio bene ed è come se facesse parte della mia famiglia. Ti vorrei ricordare inoltre che sono stato leggermente costretto a farlo, tuo fratello e la discrezione viaggiano su due strade parallele che non s’incontreranno mai. E poi non ci trovo nulla di male, lui è il mio migliore amico…»
«E io cosa sono per te?». Gli si era parata davanti con le braccia incrociate. Invidiò il vento che giocava con uno dei suoi boccoli neri sfuggito dalla corona di trecce. Più la guardava, più il cuore pareva scoppiargli dentro al petto.
«Più o meno…Tutto». Per fortuna aveva azzeccato la risposta e gradì molto il suo premio. Gli piacevano da impazzire quelle fossette agli angoli del suo sorriso e quell’aria da bambina compiaciuta che aveva appena ricevuto un leccalecca.
«Riposo, soldato» gli disse lei con un pacca sulla spalla. Solo allora si era reso conto di essere rigido come un palo «Ti sei appena meritato una medaglia».  
«Nessuna medaglia» disse scuotendo il capo «mi accontenterò di tenerti per mano». Il cuoio del guanto era morbido contro il suo palmo.
«Ah, ti accontenti…».
«Questo tenere costantemente sotto esame tutto ciò che dico fa parte della tua punizione?».
«Potrebbe anche essere così… raggiungiamo i ragazzi» disse indicando il piccolo gruppetto che confabulava ai piedi del carrubo. Il loro carrubo. Rise al ricordo di quanto lei fosse stata piccola, soffice e impacciata dentro le sue braccia il giorno che era scivolata dall’albero.
«Puoi togliermi una curiosità. Lo facevi apposta? Intendo flirtare con mio fratello?».
«Non so di cosa tu stia parlando». Sorpresa con le mani nel vasetto di miele. «Sì che lo sai…».
«Va bene, va bene. Potrei essere vagamente colpevole del fatto che trovi adorabile la tua gelosia. È da quando ho dieci anni che desidero ricevere un minimo d’interesse da parte tua, ho anche scritto con Morgana un diario dove pianifico il nostro matrimonio in ogni minimo dettaglio, avevo anche un piano su come fare fuori Marlena da questo scomodo triangolo ma a quanto pare non ce ne sarà più bisogno…»
«Tu cosa…?» chiese atterrito.
«Ehi, o prendi tutto il pacchetto, psicopatie incluse, o l’affare non andrà in porto».
«Penso che ormai sia troppo tardi per tirarmi indietro, non credo di sopportare di separarmi un solo giorno dalle tue dolci psicopatie. Comunque dovresti stare più attenta a cosa desideri. Potrebbe non piacerti il risultato»
«Questo lascialo decidere a me» lo rimbeccò con un ghigno.
«Potrei anche arrivare ad odiare Ethan per questo» le confessò lui.
«E dove è finito il “sono contento che lui abbia te e bla, bla, bla…”, so che non arriveresti a tanto».
«Non mettermi alla prova» disse prendendole il mento fra le dita. I suoi occhi lo misero a fuoco, le sue pupille divennero due grandi eclissi nere, aveva smesso di respirare. Poi le disse a pochi centimetri dalle sue labbra «Ho paura di scoprire cosa sarei capace di fare per te».  Preoccupato della sua prolungata apnea, la lasciò andare. La dovette letteralmente trascinare prima che le sue gambe ricominciassero a collaborare. Il gruppetto composto da Marlena, Ascanio, Morgana, Gab e Fabrizio, si allargò per fare spazio alla nuova coppia interrompendo sul vivo la discussione. Il pettirosso che sorvolava in circolo sulle loro teste si abbassò di quota trasformandosi in un enorme sanbernardo dalle palpebre cadenti e corse incontro alla piccola Hilde, affogandola sotto valanghe di bava. Poi la banshee gli montò sulla groppa, spronandolo sui fianchi per scorrazzare al galoppo per tutto il cortile.
Ascanio lanciò una lunga occhiata significativa alle loro mani intrecciate. «Sapevo che il mio piano avrebbe funzionato, non ho mai dubitato che ce l’avresti fatta» disse a Leona.  I loro pugni si scontrarono in un specie di giochetto di figure acrobatiche che parevano conoscere solo loro.
«Ma di quale diamine di piano stanno parlando?» domandò Marlena a Fabiano spostando il peso da una gamba all’altra con evidente fastidio. Fabiano si grattò una tempia «Qualcosa mi suggerisce che è meglio non chiedere…».
«Io devo andare, mi sono appena ricordato che devo fare una cosa…lì, in quel posto…con una…persona» annunciò Gab inceppandosi fra le parole come se fosse perseguitato da una tarantola gigante. E corse via, spezzando quell’anello di adolescenti.
Ascanio scrollò le spalle «Mi sembra che sia chiaro a tutti…Braveheart ci sa fare con le spiegazioni».
Morgana si acchiappò il setto nasale «Leona, questa storia deve finire…».
«Credimi, nessuno lo vuole più di me, ma ultimamente incrociare mio fratello è facile come trovare una vergine in un bordello».
«Usa l’akasha, l’effetto osmosi o quello che vuoi tu, sei tu la medjai qui, non devo insegnarti io come fare il tuo mestiere…senti parlagli e basta».
«Non posso! Mi ha tagliata fuori. Ha eretto una barriera mentale, non mi lascia più entrare» le urlò contro Leona.
«Di chi spada ferisce…» cominciò Ascanio prima che venisse fulminato da cinque sguardi contrariati.
«Sentite» s’introdusse Marlena ravvivandosi la chioma bionda «vorrei poter dire che i vostri drammi familiari mi interessino più di contare i peli sul naso di mr. Hans, ma non mi piace dire le bugie…».
Fabrizio sembrò illuminarsi da dentro la celata della sua armatura «Oh, li hai contati anche tu? Io ho perso il conto dopo il…ah, era una battuta…l’avevo capita, non c’è bisogno che mi guardi così!»
«Il punto è» riprese Marlena riallacciandosi alla sua premessa stringendo i denti «che Fabrizio stava per dirci qualcosa di importante sulla sparizione di Norman, quindi qualsiasi altro vostro problemuccio strappalacrime è rimando a dopo. Il destino del nostro amico ha la priorità su tutto».
«Non è fantastica?» disse Ascanio stringendosela al petto.
«Sì, lo è» si sentì di confermare Fabiano. Marlena lo guardò di sottecchi e arrossì. Quel piccolo sorriso sulle sue labbra gli fece sperare che dopotutto avrebbero potuto tornare a considerarsi dei buoni amici, o almeno era quello che lui sperava.
«E quindi?» replicò seccatamente Leona.
«C’è la possibilità che Norman non sia morto. Cioè intendo dire in modo permanente, anche se dovremmo considerarlo come tale, se teniamo conto il suo nuovo status biologico…».
«Fabrizio!» lo sgridarono tutti per quell’inutile giro di parole.
«La regina delle fate mi ha detto che Ellak lo ha morso».
Marlena restò di stucco ma per il motivo sbagliato «E da quando hai tutta questa confidenza con sua maestà fatata?». Fabiano non riuscì a reprimere un brivido, anche lui per una motivazione altrettanto sbagliata. Il solo nominare Delilah gli aveva fatto tornare in mente ciò che si erano detti fuori dall’auditorium. Non vedeva come le loro vite si sarebbero potute intrecciare in futuro, sapeva soltanto che il fatalismo che traspariva dalla sua voce lasciva non aveva precluso quella possibilità in modo definitivo.
«Faccio parte della sua milizia adesso…» stava spiegando Fabrizio «Non hai sentito che ho detto?»
«Ho sentito quattr’occhi, ma non me ne andrei a raccontarlo in giro se fossi in te. Se è vero quello che stai insinuando sarebbe meglio che fosse morto sul serio» postillò Marlena.
«Come puoi dire una cosa del genere e dichiararti sua amica, sua maestà delle stronzette?» domandò Leona trattenendosi a stento dal scaraventarla contro il tronco dell’albero.
«Leona, tesoro, non lasciare  che il tuo nuovo feticismo per i vampiri ti faccia rinnegare ciò che sei. Stai zitta e buona in un angolo e vai a fare quello che sai fare meglio: la traditrice».
«Hei!» esclamò Ascanio «pensavo che voi due andaste d’accordo».
«Neanche se in un’altra vita dovessi rinascere sua sorella! Scusate un momento, chi di voi pensa che questa sia una buona notizia? Norman non avrà più alcuna possibilità di mettere piede qui dentro senza che qualcuno gli punti un paletto di biancospino al cuore. E poi cosa? Faremo finta di niente quando comincerà a mietere le sue prime vittime? L’idea di farlo fuori mi piace tanto quanto piace a voi, quindi se è fuggito via, possibilmente mettendo un oceano fra noi, tanto meglio. Se davvero è stato Ellak a morderlo, Norman è il suo diretto erede e non voglio essere lì quando rivendicherà il suo trono fra i Sanguinari, perché per quanto mi riguarda non verranno fatte eccezioni di nessun tipo».
Ascanio sembrò rifletterci su «Questo se non ci aveva già pensato lui a creare un possibile erede».
«Improbabile» lo smontò seduta stante Morgana «Mi sembrava più il tipo da lasciar fare il lavoro sporco a qualcun altro. Sono quasi certa che i neonati non li creasse lui, non era di certo famoso per il suo sangue freddo».
«Nonostante tutto…Anche se lo dovessi rincontrare e scoprire a mie spese che lui è diventato un vampiro, non riuscirei a vedere nient’altro che il volto di un amico» disse Fabrizio abbassando gli occhi a terra. A quel punto calò il silenzio, forse perché un po’ tutti la pensavano in quel modo o forse perché per la prima volta avevano preso atto del fatto che erano partiti in undici da quel viaggio ed erano tornati in otto e che quei tre posti vuoti bruciavano fra loro più di mille fornaci accese. Presto sarebbero diventi quattro. Fabrizio apparteneva alla Regina delle fate ormai, e non c’era altro modo di evitarsi quel castigo se non quello di attendere che quel ghiribizzo avesse fine.
«Fabrisiiiooo» petulò una vocina che ricordava un incrocio fra un fruscio di foglie e il gorgoglio di un ruscello. Guardarono tutti l’ex aspirante stratega ricoprirsi di rampicanti spinosi fino a che di lui non rimasero nient’altro che un paio di lenti messe fuori fuoco. I tentacoli erbosi gli si attorcigliarono su per le gambe e le braccia e lo immobilizzarono lì sul posto. Poi due mani verdi come la linfa gli si pararono davanti gli occhi e lo immersero nella più totale cecità. La driade che aveva catturato il poveretto aveva lunghi capelli color glicine tempestati da quelle che sembravano piccole gocce di rugiada blu. La clorofilla rendeva il suo incarnato di un insolito colore verdognolo e lievemente lamellato, e sebbene dei rigogliosi cespugli di bacche di belladonna fossero posizionati in punti provvidenziali del suo corpo, appariva chiaro che non trovasse di alcuna utilità indossare della stoffa addosso. Il suo faccino grazioso e affilato come quello di un elfo sbucò da sopra lo spallaccio di Fabrizio e li pregò con i suoi grandi occhi smeraldini di tenerle il gioco.
«Indovina chi sono?» sussurrò al suo elmo nel punto in cui avrebbe dovuto esserci l’orecchio.
Fabrizio si dimenò nei suoi legacci a disagio e finse educatamente di tentare la fortuna «Drusilla?».
«Ma come hai fatto?» esclamò la driade pestando un piede per terra, indispettita dalla facilità con cui era stata smascherata.
«Ti svelo un segreto Piantina. Il tuo Fabrisiiioo è un mago» le bisbigliò Ascanio atteggiandosi come un cospiratore malizioso. La fata della terra spalancò la bocca per la sorpresa, intonando un “oooh” d’incredulità. Poi Fabrizio tossì «Ehm, Dru…? Ti dispiacerebbe…».
«Oh, sì, scusa» disse ritirando impacciatamente i suoi rampicanti. Fabiano si astenne dal ridere. Lo conosceva così bene che, anche se nascosto dall’elmo, se lo immaginava rosso come un pomodoro maturo.
«Ragazzi lei è Drusilla» gliela presentò Fabrizio «la Guardiana a cui la regina Delilah mi ha affidato. Be’ tecnicamente sono suo prigioniero…».
Ascanio scandagliò senza pudore ogni forma voluttuosa della driade «Forse sto cominciando a rivalutare le prigioni di fatalandia se le carceriere sono tutte come lei…ahio!». Se l’era proprio meritata quella gomitata, ma compativa l’amico. Fabiano benediceva ogni divinità del cielo per non dover avere più niente a che fare con la gelosia otelliana di Marlena. Mentre tutti erano curiosi di fare la conoscenza di Drusilla, Leona pareva distratta da qualcos’altro. Fabiano sbirciò nella stessa direzione e scorse un’ombra umanoide fra gli alberi. No, non un’ombra. Avrebbe riconosciuto il taglio di quei mantelli dovunque. Tutto nel timido straniero che si celava fra gli alberi gli suggeriva che si trattasse di un protettore che probabilmente si stava godendo una breve pausa dai lavori di ristrutturazione della cittadella, ma allora perché indossare il cappuccio?  Leona non era afflitta dalle sue stesse perplessità. Dal passo spedito con cui si stava allontanando da loro, dava per scontato che conoscesse sia il suo volto che il suo nome. Fabiano le andò dietro, insospettito dalla riservatezza di quel protettore, e le afferrò il polso per fermarla.
«Dove stai andando?».
Leona lo fissò stralunata e balbettò una banalissima scusa «Io…ho bisogno di riflettere». Perché voleva tenergli nascosta la sua identità?
«Vuoi che venga con te? Lo sai che in due si riflette meglio?» suggerì lui abbozzando un mezzo sorriso. Lei ricambiò.
«Non dirmi che già ti manco»
«Mi conosci troppo bene…».
«Che ne dici se ci vediamo dopo nel nostro posto? C’è qualcosa che devo ancora fare…».
«Ok» acconsentì lui quasi troppo in fretta «ma non metterci troppo». Sperò che l’ansia nella sua voce non fosse così evidente. Leona inclinò la testa di lato e finse di analizzarlo. Poi quando meno se lo aspettava, si fece più vicina e gli baciò una guancia frettolosamente. Un bacio che scottava.
«Promesso!» gli urlò di rimando mentre raggiungeva l’ingresso del bosco. Dietro si sé aveva lasciato una scia profumata di rose che, in caso di pericolo, lo avrebbe aiutato a ritrovarla proprio come le mollichine di pane nella favola di Pollicino. Adesso erano due le figure nere lì in mezzo alla boscaglia: lei e lo sconosciuto che in quel momento si era tolto il cappuccio. Lui la prese per mano e la condusse nell’oscurità. Ma poco prima che scomparissero, lui si era guardato attorno, forse per paura di essere visto o riconosciuto. Non sapeva spiegarsi come, ma c’era qualcosa di sbagliato in lui…come se non avesse dovute trovarsi lì. Quei lineamenti duri, quella mascella scolpita e i corti capelli neri non ricordavano nulla a Fabiano.
Ma quegli occhi.
Miei medjai, quegli occhi…
Quell’intenso oceano blu lo avrebbe riconosciuto fra milioni.
Allora qualcosa di freddo e viscoso gli compresse lo stomaco e il suo cuore prese il volo perché quegli occhi…
Erano identici a quelli di Leona.
*************

Leona

Quella mano di metallo gravava sulla sua spalla facendola respirare a fatica. Leona era sfinata dal suo peso. Restare con la schiena dritta le costava un sforzo immane, ma non avrebbe di certo cominciato a camminare sbilanciata da un lato come la torre di Pisa soltanto perché era appena diventata il primo prototipo di ragazza bionica. Al suo risveglio aveva sperato che sarebbe stato come quella volta dopo l’esame nell’arena, che quella spada che era calata su di lei non fosse stata altro che uno scherzo della sua mente come lo erano state le fauci del lupo. Quella volta però non aveva nessun Amadeus contro cui puntare il dito, nessuna illusione da svelare. Avrebbe mentito se non avesse ammesso di esserne tremendamente delusa. Una delusione che non avrebbe conosciuto nessuno, non avrebbe permesso ad anima viva di sbirciare dentro la sua testa, avrebbe mostrato loro solo la facciata che lei voleva che loro vedessero.
Lei stava bene, non era mai stata meglio.
Certo non era semplice mentire a se stessa, ma i guanti le erano di conforto e la aiutavano con quella messa in scena. Sapeva che era lì e che ci sarebbe stato per il resto della sua vita, non poteva fare finta del contrario, ma poteva sempre far credere a tutti che le andava bene così. Anzi, l’acciaio di hijir impiantato al suo braccio la rendeva ancora più temibile, anche se il quel momento, trascinata di peso da quell’enorme ragazzone dalle spalle larghe nel fitto della pineta, la faceva apparire più come una bambina capricciosa che sta per essere punita per l’ennesima marachella.
Il suo piccolo gruppo di geocinetici aveva fatto miracoli con la ricostituzione nella foresta. Non potendosene occupare direttamente lei, visto che dal giorno dell’amputazione il potere elementale le dava qualche problema, aveva selezionato i pochi soggetti affini al flusso energetico della Terra per riparare i danni di quel disastroso incendio, canalizzando il potere attraverso la reliquia. Era stato facile per lei risalire alla fauna e alla flora di quel micro-ecosistema, aveva passato così tanto tempo in quella radura, che sapeva di aghi di pino e resina dolce, che conosceva a memoria lo schieramento di ogni albero e la posizione di ogni affioramento roccioso. Il passo successivo era stato quello di convincere gli animali che l’avevano colonizzata a far ritorno nelle loro tane. Molti erano ancora impauriti, gli uccelli erano stati di gran lunga i più testardi, ma Leona sapeva essere molto persuasiva e così, garantendogli protezione e con l’indispensabile collaborazione di Edna, si mise a capo del più grande esodo di bestie che Betelgeuse avesse mai visto.
«Noah, dove stiamo andando? E dove hai trovato questa tenuta da combattimento?» chiese lei in affanno.
«Potrei averla presa in prestito da…»
«Noah…»
«Giuro che la restituisco, non mettermi in punizione» piagnucolò lui. Le loro lunghe falcate facevano volare in aria nugoli di aghi di pino e pigne. Per poco Leona non inciampò lungo la via quando il ragazzo frenò di botto. Noah l’aveva stretta così forte che si sentiva formicolare tutte le dita, rinvigorite dal ritorno della circolazione.
«Che cosa ci facciamo qui?». La radura era disseminata dagli scheletri carbonizzati di alcuni tronchi, per il resto era completamente deserta. Quella porzione di bosco non era ancora stata raggiunta dall’energia rivitalizzante dei suoi aiutanti. Noah s’intascò le mani scorticate dal freddo e urlò «Vieni fuori, Jin!».
Nell’interstizio fra due alberi, strisciò fuori una figura minuta dai marcati lineamenti asiatici, tenendosi al riparo fra le ombre. La sua pelle era così pallida che non c’era alcun dubbio su cosa fosse. I capelli della vampira erano raccolti in un corta lingua nera di ciocche liscissime e lucide che non oltrepassavano le spalle. Era piccola e snella e si muoveva svelta come un furetto. Ogni passo era preceduto da un acuto scampanellio proveniente dal ciondolo che portava appeso a una spessa fascia bordeaux scuro posizionata sul collo.
«Ciao Leona» la salutò lei con un forte accento americano a dispetto della sua nazionalità. Noah sollevò un braccio per dividerle «Non ancora». La vampira annuì.
«Mi trovo ancora una volta in difetto. Tu conosci me, ma io non conosco te» le disse Leona.
Jin si toccò il gingillo che aveva al collo e lo fece suonare con occhi distanti e nostalgici «Sei stata una cara amica. La mia mentore. La più odiata fra le nemiche. Ti ho fatto del male, molto male. Ti ho fatto qualcosa che non so se fino in fondo riuscirai a perdonarmi. Ma adesso sono qui, per fare ammenda. I Cavalieri della notte vogliono tuo fratello perché non hanno abbastanza energia per portare a termine la riesumazione dell’antica città di Hijir. Lì, in quella città dimenticata da dio, c’è un’arma, un’arma molto potente. Non sappiamo esattamente cosa faccia, non ce l’hanno mai detto, ma ti assicuro che non vorresti scoprirlo. A quanto sembra il potere di due medjai corrotti non è sufficiente a completare il rituale, per questo tenteranno di corrompere anche Gab portandolo dalla loro parte. Col tuo sangue invece, Sibilla estrarrà l’essenza di Odetta per imprigionarla una volta per tutte».
Il cervello di Leona fece contatto e andò in corto circuito «E tu come fai a sapere tutte queste cose?».
«Perché io, sono stata una di loro…».
«Basta Jin! Così la confondi!» la rimbeccò Noah quasi ruggendo. Cos’era stato quello strano lampo nei suoi occhi…
«Perché siete qui? Rivolete indietro le reliquie, non è così?».
Noah si massaggiò le sopracciglia e ritrovò la calma «No. Il salto temporale è servito a ristabilire l’ordine degli eventi, a ricollocare le reliquie nello giusto squarcio fra le pieghe del tempo per far sì che il me del futuro sappia esattamente dove ritrovarle».
«E allora cosa...? Non sapete ancora dove sono…» dedusse in un mormorio. Un vago sentore le fece temere che non le avessero ancora detto tutta la verità.
«Cominciamo a perdere le speranze…insomma, si tratta sempre di te dopo tutto, anche se una te un po’ più giovane. Quindi, ammettiamo per un momento che tu sia molto…arrabbiata, frustrata, disperata e volessi in qualche modo restartene sola, recarti in luogo, magari a te familiare, dove ricaricare le energie. Quale sarebbe la prima cosa che faresti?».
«La risposta implicherebbe che io mi conosca profondamente, e potrebbe anche valere per la me di quest’epoca, ma come potrei immaginare cosa si agiti nella mente della me del futuro senza conoscere le circostanze che mi hanno portato a quello stato? Non posso risponderti concretamente. Potrei indurti in errore. Ricordo però cosa m’insegnò mio zio Mark un po’ di tempo fa: se perdi qualcosa, l’unico modo per ritrovarla è ritornare alla fonte».
«Ritornare alla fonte, ritornare alla fonte…» le fece eco Noah, camminando avanti e indietro «È una specie di metafora?».
«A dire la verità io…» ma Noah non la lasciò finire, la raggiunse e le baciò la testa con un entusiasmo che la stordì.
«Mamma, il prozio Mark era una genio! E…» Noah sbiancò di colpo con ancora la sua testa fra le mani. Lo aveva fatto di nuovo. L’aveva chiamata mamma.
«Scusa, non dovevo…»
C’erano almeno un milione di domande con una priorità decisamente più alta con cui Leona si sarebbe dovuto confrontare. Ma lo interruppe e raccolse tutto il suo coraggio per porgli quella che le affiorò d’istinto sulla punta della lingua «Sarò...una brava madre?».
Non comprendeva nemmeno lei stessa in fondo perché le interessasse così tanto, ma aveva bisogno di saperlo. Noah si dimenticò di richiudere la bocca e riplasmò lentamente quel suo stupore in un meraviglioso sorriso. Leona lo ammirò per un lungo minuto. Lui non era bello in modo convenzionale. Era devastante. Se quello sarebbe stato davvero suo figlio, be’, doveva brindare quella sera stessa e complimentarsi con se stessa. Aveva dato vita a un vero capolavoro della natura.
«Immagino che potrei essere di parte. Vuoi comunque conoscere la risposta?»
«Non è una domanda scontata. Sai potresti odiarmi, è quello che tendono a fare tutti gli adolescenti».
«Mam...Leona, io non potrei mai odiarti. E comunque: sei la migliore. Mi lasci sempre fare ciò che voglio, come partecipare alle feste più esclusive o marinare la scuola,  me la dai sempre vinta con Vin, al mattino non spalanchi le finestre per fare cambiare l'aria mentre verto in un coma profondo, raccogli la mia biancheria sporca senza sbraitarmi contro che sono un buon a nulla, non ti sei per nulla adirata quando a sedici anni credevo di aver messo incinta una ragazza dell'ultimo anno della mia scuola, no, no, e per l'ultimo compleanno mi hai regalato una  Rolls Royce del...»
«Non ti ho insegnato a mentire, eh?»
«Difetto ereditario» disse facendo spallucce.
«Hai davvero...?»
«Lenny Boscow,  quinta B, ci siamo ubbriacati  come se non ci fosse un domani ad una festa di Ben Larxon. Una festa a cui mi avevi categoricamente vietato di partecipare, per inciso. Una gran bella gnocca per dirla tutta, ma non abbastanza da convincermi che cambiare pannolini puzzolenti e salutare i vicini con aria sorniona mentre taglio il prato della nostra villetta super lussuosa sia una buona idea. Per fortuna hai scoperto che la furbetta aveva falsificato il test di gravidanza. E be’...non è finita bene. Ma lascerò a te scoprire il finale. Ti piacerà».
«Quindi niente ciabatta?»
«Oh no,  la tua rabbia era sobria come un tizio che è appena stato licenziato al decimo giro di Vodka martini. Mi hai solo svuotato l'intera scarpiera addosso».
«Già sembra qualcosa che sarei capace di fare in effetti»
«E considerando che zia Alice e zia Rose si sono occupate di riempirtela...pensa alla quantità di tacchi a spillo con cui ho avuto a che fare…ah, merda!» imprecò accorgendosi delle macchie rosse che gli colavano sulla giubba «Non di nuovo!».
«Ti sta sanguinando il naso» lo informò impassibile Jin.
«Sì, davvero, grazie tante, non me ne ero accorto» se ne lagnò causticamente reclinando la testa all’indietro per risucchiare la perdita. «Tutti questi salti non devono aver giovato al mio organismo». Jin scivolò ancora una volta fra le ombre, come se fosse la loro passeggera preferita, e si ritrovò a un passo da Noah per bisbigliargli «Non possiamo più rimandare». Il ragazzo strinse i pugni con forza e poi li rilasciò andare, quasi come se volesse strozzarla con le sue stesse mani. I suoi occhi lucidi le misero una paura che non riuscì più a scrollarsi di dosso.
«Cosa? Cosa volete farmi?».
«È stato bello rivederti, mamma» la sua voce tremava «ma non possiamo fare eccezioni».
«No» mormorò lei preparandosi a fuggire. Ma non ci riuscì. Un attimo prima Jin le stava scavando la fronte con un dito da cui si irradiava un dolore acuto che la fece cadere sulle ginocchia. L’attimo dopo il mondo si tinse di bianco. Una cecità bianca, fredda, che la fece smettere di esistere in quel giorno, in quell’ora, in quel minuto, in quel singolo istante. E poi…
Stava osservando i ciuffi imbruniti di un aghifoglio arrossato sui bordi. Si sfilò il guanto e  lo raccolse da terra. Lo annusò. Era vischioso al tatto, si era imbrattata i polpastrelli con della resina. Uno storno sopra di lei le oscurò la vista del sole, abbastanza basso da indovinare che si stesse avviando al tramonto. Che cosa ci faceva lì su quel letto di terriccio umido? Si scotolò metodicamente gli abiti spiegazzati e rindossò il guanto di cuoio ormai impregnato dell’odore fresco della pineta. Non aveva altra compagnia che quei giganti verdi attorno a sé. Udì un ronzio. Lì incastrato fra le radici c’era un alveare. Leona seguì il zigzagare confuso di quelle piccole impollinatrici zebrate di nero e giallo. Le api le ricordavano il miele. Il miele era dolce, dorato. Dorato come gli occhi dei Cullen.
I Cullen! Gli aveva promesso che li avrebbe raggiunti fuori dallo Specchio sul fare della sera.
Si posò una mano sul petto. Le faceva male. Si sentiva come se le avessero strappato qualcosa contro la sua volontà. Non le piaceva affatto quella sensazione, ma aveva ben altro a cui pensare.
I vampiri la stava aspettando nel buio. I suoi vampiri.
E la Cacciatrice non vedeva l’ora di incontrarli.
   
 
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